Maria Chiara Iorio - Architettura e decorazioni della chiesa romanica

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la Basilica cattedrale di fano
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Maria Chiara Iorio
Architettura e decorazioni della chiesa romanica*
Breve inquadramento storico
All’interno della cattedrale un’epigrafe ricorda
un rovinoso incendio che nel 1124 distrusse un
edificio a partire dal tetto, e riferisce di una ricostruzione avvenuta dopo il 1140, all’epoca del
vescovo Rainaldo, con il generoso contributo
dei fanesi e per mano di Magister Rainerius1.
La nostra attenzione si rivolge proprio alla chiesa
ricostruita dopo l’incendio, nel cosiddetto secolo delle cattedrali, quando queste erano considerate gli edifici pubblici per eccellenza, governate
da vescovi che, oltre ai culti, erano soliti amministrare, ufficialmente o di fatto, anche funzioni e poteri pubblici. Nell’epoca che precede la
nascita dei comuni, in cui la religione permeava quasi ogni aspetto dell’esistenza, le cattedrali
erano quindi i luoghi più importanti della vita
sociale e culturale, oltre che naturalmente spirituale, ed era attorno ad esse che solitamente si
sviluppava il senso di appartenenza alla comunità locale. Non a caso, proprio nel XII secolo, un
po’ ovunque (e anche a Fano) si andavano riscrivendo le vite dei santi patroni e si rinvenivano
reliquie attorno a cui la cittadinanza scopriva la
propria peculiare identità2.
Nel periodo fra la prima e la seconda crociata,
Fano rientrava già da tempo, formalmente, sotto
la giurisdizione della Chiesa, in virtù della Donatio di Pipino il Breve re dei Franchi; quando
però, nel 1137, la città venne espugnata dall’Imperatore Lotario III, non fu rivendicata dal Papa
e restò nell’orbita imperiale fino allo scorcio del
secolo3. Papa Innocenzo II (1130-1143) rimase lontano, impegnato come fu, per circa dieci
anni, a contrastare l’antipapa di turno e a farsi
riconoscere legittimo successore di San Pietro
dai sovrani europei e dalle fazioni avverse nella stessa Roma. Nell’aprile del 1139, dopo aver
avuto finalmente la meglio sull’ultimo antipapa,
Innocenzo II convocò un Concilio ecumenico
in Laterano con il quale principalmente sancì
il suo dominio sulla Chiesa occidentale4. A tale
concilio parteciparono più di cinquecento vescovi fra cui anche il vescovo di Fano Rainaldo,
il committente della ricostruzione del duomo
dopo l’incendio. Solo due anni dopo, nel 1141,
Fano sottoscrisse un patto di sottomissione a Venezia per garantirsi la protezione dagli attacchi
delle vicine città nemiche di Pesaro, Fossombrone e Senigallia sostenute da Ravenna. La stipula
di questo accordo, che prevedeva tributi annuali
alla Serenissima, segnò l’inizio di un lunghissimo periodo di relativa tranquillità5 così che, subito dopo, Fano poté permettersi di far costruire, col generoso concorso della cittadinanza, una
fabbrica così ambiziosa da non avere pari nelle
vicinanze.
A fronte
Il pulpito, realizzato nel
1941 con rilievi e leoni
medievali, come appare
oggi
Cenni sull’architettura sacra dell’epoca
Attorno al 1140 (la seconda data riportata nella nostra epigrafe), nella penisola erano già stati costruiti da tempo importanti edifici in stile
romanico lombardo, come il Sant’Ambrogio
di Milano (prototipo di molte chiese, anche se
ora appare alquanto isolato, a causa della perdita della maggior parte di queste) e le cattedrali
di Modena, Parma, Piacenza, Fidenza, Verona
e Ferrara. Sempre attorno al 1140, in Europa,
nella Spagna nord-occidentale, era stata portata a termine la chiesa romanica di Santiago de
Compostela, meta per eccellenza di pellegrinaggi, mentre, alle porte di Parigi, doveva essere a
buon punto l’abbazia di Saint-Denis, emblema
delle origini del gotico.
La ricostruzione del nostro duomo si colloca
quindi nell’epoca del romanico maturo e degli
esordi del gotico, due stili che coesistettero a
lungo, anche se in Italia prevalse sempre il gusto
per l’equilibrio del romanico sugli slanci dell’arte nordica che nella penisola non prese mai veramente piede.
Strutture romaniche nella cattedrale
La cattedrale di Fano, a pianta basilicale regolarmente orientata (ossia con l’area absidale a
est), nonostante i rifacimenti, presenta ancora la
conformazione dell’edificio romanico a tre navate (senza transetto) nei pilastri polistili (seppure
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L’epigrafe di Rainerio
Si tratta di un documento di straordinaria importanza in quanto è l’unica fonte scritta rimasta in sito,
coeva all’edificio romanico1.
Attualmente è murata, insieme ad altre epigrafi di epoche e provenienze diverse, sulla parete destra dello
pseudo-transetto, poco sopra le tracce della cripta. Nel Seicento e Settecento si trovava nella cappella
dei Santi Patroni, mentre nell’Ottocento era stata trasferita in controfacciata. Risulta comunque evidente che quella attuale non è la collocazione originaria: la lastra infatti porta i segni, sul lato destro,
di una manomissione, inoltre, l’area in cui si trova, nel XII secolo doveva essere coperta dal pavimento
soprastante la cripta; in ogni caso l’attuale non sarebbe stata un’ubicazione consona a un documento
così rilevante. Non escludiamo che in origine fosse murata sulla facciata, magari nei pressi del portale
(o anche all’esterno del coro ormai perduto), dove avrebbe avuto il giusto risalto.
L’iscrizione è in lettere capitali in cui si inseriscono alcune onciali (sono in corsivo in alcuni casi le lettere m, h, q, d), e presenta frequenti abbreviazioni, lettere incluse, soprascritte e nessi. È costituita da
sette versi esametri cui fu aggiunto un verso leonino rimato, ritenuto coevo per l’uniformità dei caratteri
che sono però più piccoli e con tracce di color carminio molto più evidenti che altrove. Di seguito la
trascrizione e la traduzione
† HAEC VBI CO(M)BVSTIS PERIERVNT MOENIA TECTIS
ANNIS · M(IL) · LENIS · C · SENISQ(VE) QVATERNIS
P(RE)SVLIS H(OC) · OPVS EST RAINALDI T(EM)P(OR)E FACTV(M)
QVOD PLEPS FANENSIS FECIT CVRRENTIBVS OVAN[S]
SV(M)PTIBUS E P(RO)PRIIS QVA(M) REX D(EV)S IPSE GVB(ER)NET
RAINERIVS Q(VOD) DOCTA MANV · SCVLPSITQ(VE) · MAGISTER
VICENIS · BINIS · M · C·Q(VE) PERACTIS
HEL DIE QVO NATVS LOCVS HIC EST IGNE CREMATV[S]
“Dopo che queste mura andarono distrutte a causa di un incendio partito dai tetti nell’anno 1124
(mille cento e sei preso quattro volte), al tempo del vescovo Rainaldo fu realizzato questo [nuovo]
edificio con il contributo generoso del popolo fanese, che Iddio lo protegga, e che Rainerius, maestro
dalla mano abile, scolpì dopo (essendo passato) il 1140 (mille cento e due volte venti). Questo luogo
era andato a fuoco nel giorno di Natale (nel giorno in cui è nato il Signore)”.
Sulla sinistra, in verticale: RVINTE PVS, che sta evidentemente per ruinae tempus, probabilmente riferito alla frase nell’ultima riga. Due sono le date riportate dall’epigrafe: il 1124, anno in cui il duomo
fu distrutto dall’incendio2, e il 1140 che, per l’interpretazione che abbiamo dato, indica il 1141 (che
è anche l’anno in cui Fano stipulò un patto con Venezia). A testimonianza che il duomo rinacque col
concorso di più soggetti, nell’epigrafe sono citati: il vescovo Rainaldo (1136-1159 o 1165) in carica
quando l’edificio fu ricostruito; il popolo fanese che lo finanziò con entusiasmo, evidentemente sia per
il senso di appartenenza alla comunità, sia come forma di espiazione dei peccati; il maestro Rainerius di
cui si elogia l’abilità manuale (docta manu) nello scolpire. Ritengo che Magister Rainerius possa essere
identificato con il capostipite di una delle prime famiglie di marmorari romani poiché il suo nome
compare, in quegli anni, in due iscrizioni nel Lazio (a Roma e Farfa) dove restano lavori cosmateschi;
ipotizzo quindi che a Fano siano riconducibili a lui il portale oltre ad altri elementi in facciata ed eventualmente altri lavori all’interno, ormai perduti3.
Circa l’aggettivo doctus, questo ricorre con grande frequenza nelle epigrafi medievali, di cui la più antica
finora conosciuta risale al 1099 e celebra Lanfranco nel duomo di Modena. Doctus è inoltre ricorrente
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nelle opere dei maestri Cosmati, noti per questo anche come “Magistri doctissimi romani”, ma le loro
attestazioni con doctus risalgono tutte già al XIII secolo. È stato rilevato4 che è proprio qui a Fano, nella
nostra epigrafe che riporta la data 1140, che compare per la prima volta, in un’iscrizione, docta abbinata
a manus. Gli studi attestano che si tratta di un’espressione mutuata dalla poesia classica, dove veniva usata per indicare le capacità manuali in svariati contesti, e concordano che, nell’ambito della poesia, è nel
Terzo libro dei Fasti di Ovidio che essa compare per la prima volta in riferimento ad abilità artistiche e
artigianali5. In questo testo, infatti, dove si parla delle feste in onore di Minerva, sono elencate le attività
apprezzate dalla dea, fra cui anche la scultura operata con docta manu. L’opera di Ovidio fece scuola,
tanto che il topos divenne proverbiale nella letteratura tardo classica e medievale, dove veniva usato
invero anche per elogiare, in senso più generale, le abilità manuali (oltre alle abilità nella musica, nella
tessitura, nella pittura, era riferito alle capacità in battaglia, nel gioco della palla, nel tenere le redini,
nel fare gli innesti, eccetera). Nelle epigrafi invece, di cui la nostra per il momento risulta la più antica,
troviamo il topos solo nel senso introdotto per la prima volta nei Fasti di Ovidio (cioè riferito alle abilità
artistiche e artigianali); il primato di Fano non ci meraviglia, considerato il legame privilegiato che la
città ha sempre avuto con il mondo classico.
L’epigrafe “di Rainerius” quindi, oltre a indicare date e nomi, rivela, per l’opzione per le forme metriche,
per le scelte sintattiche e per l’originalità della formulazione del testo, l’elevata cultura dei suoi committenti, che abbiamo avuto modo di riscontrare anche nella particolarità di alcune scelte iconografiche nei
rilievi del Ciclo dell’Infanzia di Cristo.
(MCI)
1. Per la bibliografia si rimanda a M.C. Iorio, Il Duomo di Fano, cit. con l’importante annotazione di Aldo Deli: A. Deli, Notatiuncula
sull’epigrafe di Rainerio, Ivi, pp. 204-205. Si vedano poi i più recenti: A. Dietl, Die Sprache der Signatur: Die mittelalterlichen Künstlerinschriften Italiens, vol. 2, Berlino 2009, pp. 813-815; G.L. Patrignani, F. Battistelli, Il tempo e la pietra. I marmi parlanti. Nuovo catalogo
delle epigrafi ubicate nel territorio comunale di Fano, Fano 2010; G. Ugolini, Mirabili iconologie, in “Memoria rerum. Quaderni di ricerca”,
V, 2014, pp. 77-108, in partic. p. 79.
2. L’epigrafe riporta molto chiaramente questa data e pare incomprensibile come alcuni studiosi abbiano preferito dare più credito ad altre
fonti (per questo si veda la bibliografia di cui alla nota 1), per molti versi leggendarie, rispetto a quanto scritto nell’epigrafe, documento
principe della cattedrale del XII secolo.
3. Per questa ipotesi si veda qui il mio saggio e la scheda sul portale.
4. E. Vaiani, Il topos della ‘Dotta mano’ dagli autori classici alla letteratura artistica attraverso le sottoscrizioni medievali, in M.M. Donato
(a cura di), L’artista medievale, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia”, 16 (2003), pp. 345-364, in
particolare p. 346, e la bibliografia ivi riportata.
5. Ibidem.
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la Basilica cattedrale di fano
Terzo pilastro a sinistra
parzialmente ricostruito
nel 1939 come prototipo
dei pilastri della cattedrale
romanica
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molto ridimensionati rispetto a come dovevano
essere), nella copertura a volte a crociera cupoliformi (con costoloni a sezione rettangolare
sulla navata centrale e prive di costoloni sulle
due laterali), nei massicci contrafforti (ora per
lo più inglobati nelle cappelle laterali) e nella tripartizione della facciata che rispecchia l’organizzazione interna in tre navate. Sin da una prima
occhiata all’esterno e all’interno (oggi rivestito
da un uniforme intonaco giallino e con un moderno pavimento), risulta evidente che, come
la maggior parte dei luoghi di culto medievali,
l’edificio è stato pesantemente rimaneggiato nei
secoli. Oltre ai tanti interventi strutturali, anche
la perdita delle antiche pratiche e degli oggetti
sacri (che molta incidenza avevano sull’assetto
architettonico e sull’arte figurativa) ha contribuito all’oblio dei contesti originari, che dovevano
essere caratterizzati dalla fruizione attiva dello
spazio dettata proprio dalla liturgia, da processioni e rituali col tempo semplificati, così come
furono dismessi drappi, cortine, candelabri, reliquiari, corone e luci che venivano diversamente
combinati a seconda dei tempi liturgici e davano
alla chiesa aspetti diversi nei vari periodi dell’anno. Questo ambiente, che doveva essere particolarmente suggestivo e versatile (non dimentichiamo che con ogni probabilità anche qui si
teatralizzavano episodi del Nuovo Testamento),
è andato irrimediabilmente perduto e, come
quasi sempre anche altrove, non ci sono rimasti
documenti utili per ricostruirlo con certezza.
Come si è accennato, la pianta doveva comunque grosso modo coincidere con l’attuale; non vi
è motivo infatti di ritenere che vi fosse un transetto più sviluppato, sia perché non abbiamo documenti o evidenze archeologiche che ci inducono a crederlo, sia perché sono senza transetto (o
meglio con pseudo-transetto) importanti edifici
di culto dell’epoca, come Sant’Ambrogio a Milano e il duomo di Modena. A oriente il duomo
doveva terminare con tre absidi come era consuetudine in costruzioni di questo genere e come lasciano immaginare gli archi in fondo alle ultime
tre navate, la cui la muratura tende a restringersi,
come per l’innesto di calotte absidali.
Al visitatore si chiede uno sforzo d’immaginazione per vedere la grandiosità dell’interno in epoca romanica che cerchiamo di evocare partendo
dalle strutture ancora visibili, primi fra tutti i
pilastri che, seppure decurtati e intonacati, rivelano un’articolazione tipicamente medievale con
una sagoma più robusta in corrispondenza della
navata maggiore, per sostenere le grandi volte
(su campate rettangolari per largo), e meno sviluppati sotto le arcate longitudinali e verso le navate laterali, dove sostengono volte più piccole
(su campate grandi circa la metà di quelle della
navata centrale e rettangolari per lungo).
La ricostruzione parziale del terzo pilastro a sinistra, avvenuta negli anni Trenta del Novecento,
ci aiuta a evocare l’aspetto originario, polilobato
e mistilineo di tutti gli altri. Parte in pietra, parte
in mattoni, i pilastri erano coronati da capitelli
di cui oggi restano in sito solo alcune tracce, e
costituivano sostegni molto più possenti degli
architettura e decorazioni della chiesa romanica
attuali, probabilmente meno slanciati, se è vero,
come si sostenne nel 1939 (all’epoca dell’ennesimo rifacimento del pavimento), che il piano
di calpestio del XII secolo era un po’ più alto
(circa 20 cm) rispetto a quello che si andava rea­
lizzando.
Nella seconda cappella a destra è visibile un antico arco di muro in pietra gettato a ponte in
posizione trasversale rispetto alle navate; altre
due strutture simili sono presenti nei locali della sacrestia; la loro conformazione ricorda, più
che gli archi rampanti che vedremo con il gotico, quella degli archi sottostanti i ponti romanici sul Po, fiume che, come si dirà, dovettero
percorrere, per arrivare all’Adriatico, coloro che
diedero al duomo il tipico aspetto di un edificio
romanico padano.
Fuori dall’edificio, sono visibili poi, in corrispondenza dei primi due pilastri, due muri trasversali, sempre in pietra, parzialmente inglobati nelle
cappelle trecentesche. L’allineamento di questi
con gli archi trasversali soprastanti le navate, e
quindi con i pilastri, ci induce a ritenere che si
tratti di antichi contrafforti, ossia di strutture di
sostegno alle spinte che la costruzione necessariamente esercitava verso l’esterno, essendo dotata (come si vide nel corso dei lavori degli anni
Sessanta del Novecento), già in età romanica, di
volte a crociera dall’andamento cupoliforme. I
tecnici al lavoro negli anni Sessanta definirono
le pesanti volte romaniche trovate “di concezione inconsueta e imprevedibile” poiché presentavano sull’estradosso una notevole quantità di
malta su cui erano direttamente alloggiate le tegole del tetto. Tale tecnica presentava anche, fra
l’estradosso delle volte e i tetti, l’inserimento di
piccole volte fusiformi che davano luogo a spazi
vuoti che avevano il duplice scopo di alleggerire
il peso sull’edificio, e al contempo dare la giusta
inclinazione ai tetti soprastanti. Questo specifico
tipo di copertura è stato trovato nel San Savino
a Piacenza (1100 circa), a San Fedele a Como
(1120 circa), a San Michele e San Giovanni in
Borgo a Pavia (il primo portato a termine nel
1155), nel Battistero di Cremona (iniziato nel
1167) e chissà in quante altre costruzioni era
presente6. L’andamento cupoliforme delle volte
era inoltre un espediente tipico del romanico
lombardo per calibrare l’irregolarità d’impianto
delle campate. Senza sapere che si trattava di una
rara testimonianza di una tecnica adottata a partire dagli inizi dell’XI fin quasi alla fine del XII
secolo, i tecnici del Genio Civile, considerando
tali coperture troppo pesanti, e reputando i pilastri non sufficientemente stabili per sostenerle,
demolirono l’antica struttura nelle prime campate (le prime 3 delle navate centrale e sinistra)
che erano state fino ad allora preservate dal crollo del quarto pilastro a destra (nel 1641) e dai
crolli del campanile (nel 1672 per terremoto e
nel 1944 per le mine tedesche), eventi che avevano già distrutto le volte originarie delle navate
più orientali. Restano le fotografie scattate dai
tecnici prima delle demolizioni, che rivelano, fra
l’altro, che l’estradosso delle volte con mattoni
non si incrocia perfettamente lungo le diagonali,
Arco romanico trasversale
all’edificio con funzione
di sostegno, ubicato in
corrispondenza del terzo
pilastro a destra, visibile
nella Cappella sepolcrale
dei Vescovi
59
la Basilica cattedrale di fano
Visione d’insieme
dell’interno della
cattedrale
da cui si deduce che la spinta non si scaricava
solo sui quattro spigoli in corrispondenza dei pilastri, come solitamente negli edifici gotici, ma
ricadeva anche sugli archi, come tipicamente
nell’architettura romanica voltata7.
Nella quarta campata a sinistra, dopo la Cappella del Battistero, restano tracce della parete
muraria medievale; i piccoli blocchi irregolari di
pietra che la compongono, presentano scalfitture operate per far aderire meglio l’intonaco che
doveva ricoprirli8.
La cripta e l’arredo interno
Entrando ci si misura con il senso della mancanza. Il presbiterio doveva essere rialzato per la presenza di una cripta di cui rimangono, sulla parete
destra dello pseudo-transetto, solo i resti di tre
arcate perimetrali, la prima delle quali si sovrap-
60
pone parzialmente a un’apertura ormai cieca, evidentemente traccia dell’edificio precedente a
quello del XII secolo9. Su tali archi dovevano impostarsi le volte, essendo la cripta una struttura
voltata per eccellenza. Nel 1939 quest’area fu scavata fino a raggiungere terra, ma lo sbanco fu
molto circoscritto a causa del rinvenimento di
numerose sepolture10. Dalla posizione degli archi
rimasti, si deduce che la cripta doveva estendersi
da un lato all’altro della larghezza della chiesa;
doveva essere quindi ampia, come solitamente lo
erano nel XII secolo quando erano denominate
“a oratorio”, con una zona riservata al clero e una
ai laici. Si trattava di un luogo speciale della chiesa a cui si poteva accedere mediante percorsi prestabiliti di visita alle reliquie e dove i fedeli si trovavano per la preghiera personale o collettiva11.
All’epoca le reliquie, a Fano, come altrove, non
architettura e decorazioni della chiesa romanica
Tracce dell’antica
cripta lungo la parete
meridionale dello
pseudo-transetto
dovevano mancare: le cronache riportate da
Amiani12 riferiscono che nel 1104 Ugo del Cassero e i figli Ugolino e Baldovino, di ritorno alla
prima crociata, portarono reliquie da Gerusalemme in dono al vescovo Pietro II. Ne La Vita B.
Fortunati Episcopi scritta su richiesta dei fanesi da
tale Giovanni da Nonantola attorno al 1120 secondo Celestino Masetti13, si narra che nell’VIII
secolo il corpo del Beato Fortunato era stato portato al duomo su un carro condotto da due buoi
che, a causa di eventi atmosferici soprannaturali,
si erano fermati qui invece di raggiungere la chiesa di San Paterniano. Questo episodio ricalca
molte leggende relative alla fondazione di chiese
nei punti in cui si fermavano i buoi che trasportavano sacre spoglie. Lo stesso manoscritto narra
poi che secoli dopo, nel 1113, alla presenza del
vescovo Pietro II, in una cassa di marmo all’inter-
no di una certa piramide, furono rinvenuti i corpi dei santi vescovi di Fano Eusebio (VI sec.),
Fortunato (VI-VII sec.) e Orso (VII sec.) con
tanto di nomi che permisero di contraddistinguerli. Nel riportare la storia del ritrovamento dei
corpi, gli eruditi locali (ma non Masetti) aggiunsero che questo avvenne dopo un incendio nel
1111; tale data deriva però da un’errata lettura
dell’epigrafe14 che invece ascrive chiaramente
l’incendio al 112415. Il tutto è quindi avvolto nella leggenda; è comunque verosimile che nell’edificio del XII secolo, in seguito ai doni portati dai
reduci della prima crociata e a rinvenimenti non
ben precisabili, furono venerate le reliquie di santi, fra cui quelle dei primi vescovi della città. Da
fonte più attendibile16 apprendiamo che al 1165
risale la memoria della più antica festa in onore
di San Fortunato. Tale data ci fa supporre che
61
La “figura regale”
La figura maschile in pietra calcarea assisa su
trono in posizione rigidamente frontale è stata
scolpita sul retro di un rilievo con due maschere
di età tardo romana1. La collocazione originaria
è sconosciuta; nel 1973 fu rimossa dall’episcopio
in cui si trovava per essere inserita davanti alla
cattedra vescovile in un moderno arredo ligneo,
analogamente ad altri pezzi erratici del duomo medievale, all’indomani del Concilio Vaticano II. Recentemente tale arredo è stato smantellato e tutti
i pezzi medievali sono stati appoggiati nella
seconda cappella a destra, tranne la misteriosa figura regale che è stata portata in sacrestia, dove non è ben visibile, in quanto è stata
collocata in alto, all’interno di un’apertura di
uno dei contrafforti. Il rilievo (nonostante a
distanza mostri un aspetto vagamente ‘celticheggiante’) è conforme alla plastica del XII
secolo e trova riscontri nelle statue-colonna
di Ancona riferite alla cosiddetta “Scuola di
Piacenza” e alla seconda metà del XII secolo2; è altresì avvicinabile alle statue-colonna ravennati di stessa
epoca e cultura, ossia di derivazione niccoliana3. Anche i rilievi dell’Infanzia di Cristo sono
riconducibili in ultima analisi alla stessa cultura, evidentemente molto diffusa all’epoca, ma la nostra
figura regale, per la plastica a tutto tondo, per il panneggio e per la particolarità di avere le pupille
forate per ospitare evidentemente pastiglie di piombo, si avvicina molto di più alle statue-colonna
adriatiche sopra menzionate, figure alle quali doveva essere stata riservata una cura particolare rispetto a quelle che facevano parte delle scene illustrative dei nostri pannelli. Poiché il pezzo presenta
un andamento curvilineo nella parte inferiore, è probabile che in origine si trovasse su un arco; la
mancanza delle braccia e degli attributi, così come la consunzione delle parti sporgenti del viso e
delle ginocchia, ci inducono a credere poi che sia caduta dalla posizione originaria. Si spiegherebbero così il notevole stato di degrado in cui si trova (che l’hanno fatta ritenere da alcuni di epoca più
arcaica di quello che è) e la mancanza di elementi importanti per la sua identificazione. A proposito
di questa, si possono avanzare diverse ipotesi: potrebbe trattarsi di un re dell’antico testamento, un
santo guerriero, un vescovo, eventualmente di Rainerio, il committente del rifacimento del duomo
dopo l’incendio del 1124. In ogni caso siamo di fronte a una figura regale, non solo per la notevole
ampiezza degli zigomi e la bella apertura degli occhi a cui fu dato particolare risalto, ma anche, e
soprattutto, per la salda frontalità dell’impostazione su un trono merlato, per la corona e il mantello
visibile sullo schienale. Si vuole qui avanzare per la prima volta l’ipotesi, mi rendo conto ardita, che
la figura in questione rappresenti l’imperatore Federico Barbarossa; se così fosse questo rilievo acquisterebbe un valore straordinario, essendo una delle poche raffigurazioni coeve del personaggio (ve ne
sono in miniature e in sigilli). Ecco gli indizi che mi inducono ad avanzare questa ipotesi:
– Mi pare che non si tratti di un vescovo, bensì di un guerriero, per via dello zoccolo di cavallo
visibile a sinistra e perché non indossa una veste convenzionale, ma piuttosto un abito analogo a
62
quello del guerriero con tanto di scudo in una delle statue-colonna di Ravenna. Le vite dei vescovi
di Fano, specie quelle dei Santi Vescovi, seppure leggendarie, non ci lasciano credere che essi furono
anche guerrieri.
– Non credo si tratti di un re dell’antico testamento perché lo zoccolo di cavallo richiama alla vita
attiva, contemporanea, e né questo né i pendagli che scendono ai lati del capo solitamente sono
presenti nell’iconografia di tali figure.
– L’epoca di realizzazione individuata per via stilistica, la seconda metà del XII secolo, tornerebbe con
l’identificazione perché nello stesso arco di tempo il Barbarossa dovette essere nei paraggi almeno
tre volte: nel 1155, di ritorno da Roma (dove era stato incoronato imperatore dal papa Adriano
IV), passò per Ancona per sondare le intenzioni del potenziale rivale Emanuele Comneno imperatore di Bisanzio, per poi proseguire verso nord, evidentemente passando per Fano; nel 1167 e nel
1176, in occasione della prima e della seconda spedizione contro Ancona, fu ospitato a Fano presso
l’abbazia di San Paterniano. Si tratta di anni in cui il cantiere della cattedrale doveva essere ancora
aperto e dovevano essere all’opera diversi scalpellini; l’imperatore poté farsi ritrarre da un proprio
maestro o da uno di quelli attivi nel duomo per lasciare la sua immagine a imperitura memoria.
– Fano, protetta dai Veneziani, fu indotta a non essere mai apertamente ostile al Barbarossa, anche
quando Ancona ripetutamente lo fu; come molte altre città, si trovò nell’orbita imperiale, da cui
uscì solo verso la fine del XII secolo.
– L’iconografia è analoga a quella di sigilli imperiali di Federico Barbarossa, come per esempio quello
del 1154-1155 ora a Berlino con barba corta, analoghe bande laterali, davanti a una città murata
e merlata4. In tal caso, sulla corona è visibile la croce e vi sono gli attributi: a destra lo scettro col
giglio, e a sinistra il pomo imperiale, nella figura mutila di Fano evidentemente perduti.
Per la vicinanza alle figure anconetane, sono portata a ritenere che il rilievo risalga al 1155 circa,
ossia all’epoca del primo passaggio (pacifico) del Barbarossa in queste zone, fresco dell’incoronazione
imperiale, quando ancora non si era scatenata la guerra fra questi e Ancona e quando il cantiere della
nostra cattedrale doveva ancora essere lontano dalla conclusione5.
(MCI)
1. Di queste ha scritto V. Purcaro, Blocco architettonico con maschere e “figura regale” nel Duomo di Fano, in “Quaderni dell’Accademia
Fanestre” 4 (2005), pp. 47-52.
2. Per una nota recente sulla “Scuola di Piacenza” si veda G. Tigler, Alla ricerca dell’aspetto originario del coro del pulpito di maestro
Guglielmo nel Duomo di Pistoia, II, in “Commentari d’arte”, 17 (2011), 50, pp. 21-42, in particolare p. 31.
3. Per la fortuna critica delle statue-colonna di Ancona e Ravenna si veda M.C. Iorio, Il Duomo di Fano, cit. p. 194, nota 51.
4. Il sigillo è conservato al Muenzkabinett, Staatliche Museen a Berlino.
5. In occasione dei due passaggi seguenti a Fano, nel 1167 e 1176, è meno probabile che l’imperatore si facesse ritrarre in una scultura
per il duomo perché venne ospitato nell’abbazia di San Paterniano, storicamente non in ottimi rapporti col vescovado.
63
la Basilica cattedrale di fano
Il pulpito realizzato nel
1941 con rilievi e leoni
medievali come appare in
una cartolina d’epoca
Formella erratica con
leone, Cappella sepolcrale
dei Vescovi
all’epoca dovevano essere stati portati a termine
non solo la cripta, ma probabilmente anche il parapetto soprastante, con i rilievi dell’Infanzia di
Cristo. A proposito di questo, si immagini una
balconata sulla cripta costituita da lastre in pietra
scolpite, di cui restano quelle dell’attuale pulpito.
Cerchiamo di visualizzare quindi l’area del presbiterio sopraelevata rispetto alle navate destinate
ai fedeli, separata da un pontile sotto il quale si
apriva la cripta che ospitava le reliquie, evidentemente accessibile ai fedeli tramite scalinate sotto-
64
stanti, forse presidiate dai 4 leoni stilofori che
attualmente reggono il pulpito ricostruito.
Nel XII secolo, come per buona parte del Medioevo occidentale, lo spazio sacro delle chiese
era tripartito per ospitare adeguatamente le diverse categorie di fruitori. Nel caso delle cattedrali regolarmente orientate come la nostra, le
tre zone liturgiche canoniche erano: il presbiterio a est con la cattedra vescovile e l’altare; davanti ad esso, verso lo spazio dei laici, si trovava
il coro dei canonici; mentre a ovest si apriva la
navata liturgica per i fedeli la cui separazione
era resa materialmente, oltre che dalla sopraelevazione del presbiterio, a seconda delle epoche e
dei luoghi, da un tramezzo murario o, nel caso
della presenza di una cripta, da un pontile (in
francese Jubé, in tedesco Lettner) raggiungibile
mediante scale. In particolare, quando, dall’XI
secolo, s’iniziarono a costruire cripte di una certa ampiezza, dai presbiteri, al posto della parete
divisoria e dell’ambone adottati inizialmente,
si innalzarono pontili collegati al coro sopraelevato, strutture che potevano dar luogo a una
loggia porticata aperta verso ovest, che fungeva
da atrio d’accesso alla cripta. In Occidente, nei
secoli XI e XII, questa recinzione era solitamente ornata di sculture in pietra o in stucco che,
per l’importanza del decoro e delle tematiche
che veicolavano, erano considerate una sorta di
seconda facciata. Tipica di queste recinzioni era
l’iconografia cristologica con L’Infanzia di Cristo (dalla metà alla fine del XII secolo, specie
al centro e al sud della penisola) o La Passione
(più frequentemente verso la fine del XII secolo, almeno nel settentrione)17. Sono pochissimi
i pontili istoriati su cripta rimasti in sito; quello
del duomo di Modena venne smantellato nel
1593 per essere poi ricostruito, con un certo
arbitrio entro il 1920, utilizzando i rilievi originali scolpiti e dipinti con Storie della Passione
di Cristo, databili al 1184 circa. Un’impressione
più vivida può darlo il tramezzo di Santa Maria di Vezzolano in Piemonte (degli anni ’20
del Duecento, che reca un’iscrizione con la data
architettura e decorazioni della chiesa romanica
1189 relativa alla costruzione della chiesa) uno
dei pochissimi tramezzi murari rimasti in sito
in Italia18. Tale barriera presenta rilievi su due
registri con Storie della Vergine e figure di profeti policromi, come policrome potevano essere le
nostre Storie dell’Infanzia di Cristo.
Vicino Fano, l’unica chiesa dell’epoca che evoca, seppure lontanamente, l’assetto fra navata e
presbiterio del nostro duomo è la chiesa abbaziale di San Vincenzo al Furlo, sulla Flaminia,
che presenta, fra navata e coro sopraelevato, una
barriera muraria probabilmente riconducibile a
un rifacimento del XIII secolo, con una scalinata centrale a lato della quale si aprono due
accessi alla cripta sottostante; siamo però in un
contesto completamente diverso dal nostro19.
Fra i rilievi fanesi del duomo rimasti erratici e
riferibili, per motivi stilistici, al XII secolo ricordiamo: un interessante leone e alcuni capitelli
attualmente poggiati a terra nella seconda cappella a destra (si tratta solo di una minima parte
dei tanti capitelli che dovevano esservi); una figura regale ora in sacrestia (per questa si rimanda all’apposita scheda); una figura ormai senza
volto, in cui si riscontrano tracce di colore, con
un cartiglio che ci ricorda una sibilla, ora nel
deposito del Museo Civico. Quest’ultima, per
dimensioni, materiale e stile, è avvicinabile alle
figure de L'Infanzia di Cristo, alle quali poteva
essere affiancata con funzione di lettorile dedicato alla lettura di vangeli, epistole o profezie20.
L’insula Episcopalis
Purtroppo non ci rimangono antiche raffigurazioni della cattedrale, a meno che non si voglia vedere una sezione semplificata della stessa
nell’architettura rappresentata sopra i Magi, in
uno dei pannelli medievali già parte della recinzione presbiteriale e attualmente costituente
il lato nord del pulpito21. Si tratterebbe di una
rappresentazione interno-esterno, dove l’interno è costituito dalla sezione longitudinale della
navata centrale, mentre l’esterno dal portale ben
aperto e in evidenza, e da quella che potrebbe
essere stata la facciata con nartece e, sul lato sinistro, da un piccolo edificio a pianta centrale,
forse l’antico battistero. Si tratta evidentemente
di suggestioni; è come se la visita dei Magi fosse
ambientata nel nostro duomo, dove il rilievo in
effetti si trova. Se l’architettura raffigurata fosse
davvero un modello scolpito, ci direbbe che fra
l’uno e l’altro degli attuali pilastri vi erano colonnine e archetti che contribuivano a sostenere
l’enorme peso delle volte che, per come erano
costruite, non doveva scaricarsi solamente sui
pilastri, ma anche su archi; nel rilievo, inoltre,
le arcate rette da colonne singole alternate a colonne doppie, costituiscono un dettaglio che
pare inspiegabile se non riferito a una situazione
reale. Ad avvalorare l’ipotesi che la galleria sui
Magi raffiguri schematicamente la sezione di un
interno, potremmo scorgere, sopra ai capitelli
dei pilasti, i salienti degli archi trasversi.
Avevo già ipotizzato22 che nella base dell’odierno campanile, del diametro di circa 10 metri, si
potrebbe ravvisare traccia di un battistero paleocristiano. Come è stato dimostrato da altri studiosi23, le prime cattedrali furono solitamente
innalzate internamente alle mura cittadine, laddove si possono riscontrare ancora oggi le tracce
delle cosiddette insulae episcopalis che spesso non
comprendevano solo una chiesa ma un’articolazione di edifici comprendenti il palazzo vescovile, il battistero monumentale e una torre, tutte
strutture che a Fano possiamo riscontrare, seppure con cautela, nel sito in cui attualmente si trova
la cattedrale24. I battisteri normalmente presentano pianta centrale e dimensioni contenute, non
essendo destinati a ospitare folle di fedeli, bensì
un unico atto rituale dalla forte valenza simbolica
che nei primi secoli del cristianesimo aveva il suo
culmine in un’immersione nell’acqua consacrata. A Fano, il ritrovamento, in passato, proprio
sotto quest’area, di tubature e piastrelle di epoca
romana25, fa ipotizzare che sui resti di un antico
ambiente termale o di un ninfeo privato, in età
altomedievale poté essere edificato il battistero
della primitiva cattedrale che, per le prerogative
65
la Basilica cattedrale di fano
Duomo di Modena,
pontile con rilievi
del XII sec., smantellato
nel XVI sec. e ricostruito
nel XX sec.
Santa Maria di Vezzolano
(Asti), tramezzo murario
originario rimasto in sito
66
architettura e decorazioni della chiesa romanica
del culto al quale era destinato, necessitava proprio di un impianto idraulico26.
Un altro elemento della cosiddetta “insula episcopalis” è ravvisabile nell’antica costruzione ad
angolo fra via Rainerio e via Montevecchio dove,
inglobate nell’attuale edificio dell’episcopio, si
riscontrano tracce di un’antica torre di grandi
proporzioni27 che ha alla base massicce pietre
antiche (forse provenienti anche dal lastricato
della Flaminia) che potevano essere facilmente
sovraccaricate. Forse tale torre poteva essere parte
dell’antico palazzo vescovile, considerato che, fra
IX e XIII secolo, questi edifici, in quanto centri
di potere, erano normalmente fortificati.
facessero parte delle strutture di alleggerimento sopra le volte, dato che aperture fusiformi di
alleggerimento erano necessarie per evitare che
si ammassasse un peso eccessivo sull’edificio.
Viste dall’interno, le due aperture delle loggette
sottostanti risultano essere, quella a nord, fuori
centro rispetto alla campata e troppo a ridosso della volta, quella a sud addirittura coperta
nella parte superiore dalla volta; evidentemente
si tratta di due antiche aperture risalenti all’edificio precedente rispetto a quello voltato, che
furono inglobate nelle loggette esterne.
Le logge e i bacini possono essere ricondotti a
Rilievo con Adorazione
dei Magi, particolare
La facciata del duomo
di Fano
La facciata
Se nel presunto modellino sopra i Magi volessimo riconoscere anche la facciata dell’antico
duomo, dovremmo constatare che è completamente diversa rispetto all’odierna che ha subito
rifacimenti nei secoli e che, dopo lo scrostamento
del 1925, è stata oggetto di un restauro condotto
con le migliori intenzioni, ossia quelle di resti­
tuirle, per quanto possibile, un aspetto medievale. Certamente romanico è il portale riconducibile alla cultura cosmatesca che aveva la sua patria a
Roma. Non sappiamo se l’occhio soprastante fosse già grande quanto l’attuale; Luigi Asioli28 pubblicò la riproduzione di un frammento di traforo
ora perduto che riteneva proveniente dall’antico
rosone su cui, per mancanza di documentazione
e di indizi, non possiamo esprimerci. Il timpano,
gli spioventi laterali, le lesene che tripartiscono la
facciata, così come la maggior parte degli archetti
e dell’assetto odierno sono il frutto del restauro
interpretativo successivo al 1925, anno a cui risale una fotografia che mostra come si presentava la
facciata dopo lo scrostamento.
Da sottolineare l’asimmetria delle parti laterali,
in particolare delle logge, delle loro decorazioni (solo quelle a sinistra presentavano alvei, nei
quali sono stati messi bacini ceramici a scopo
dimostrativo), delle loro aperture e delle due
monofore soprastanti. Queste ultime ritengo
67
Il portale
Particolare del portale
principale della cattedrale
con motivi cosmateschi
68
Ubicato al centro della facciata, il portale presenta una strombatura con alternanza di elementi a sezione curva e rettangolare costituiti da piccoli blocchi di
dimensioni varie in pietra calcarea bianca e rossa. Sui risalti a sezione quadrata
sono presenti decorazioni musive di tipo cosmatesco in pietre bianca, rosso
porfido e verde serpentino; fra stipiti e archivolto vi sono capitelli dei quali
solo quelli più esterni a sinistra sono figurati; la lunetta non è piena ed ha alla
base un architrave liscio con l’Agnus dei; le due ghiere più esterne presentano
un tralcio abitato ed elementi vegetali con, al vertice, due protomi.
Nel 1999 il portale è stato oggetto di un restauro che lo ha reso leggibile
molto meglio di quanto non fosse in precedenza. In particolare, la ripulitura
ha messo in evidenza che le due teste al culmine dell’ultimo archivolto sono
in pietra calcarea rossa, che vi sono tracce di colore rosso e azzurro sulle due
ghiere più esterne, ma soprattutto ha messo in risalto la vivacità delle tarsie
marmoree cosmatesche e reso più evidente la mancanza di molte tessere, specie
lungo la parte inferiore dei piastrini. Grazie al recente restauro, sono inoltre
visibili meglio i diversi blocchi che costituiscono i pilastri e specialmente gli
archivolti, dove i conci non risultano perfettamente assemblati. Appare poi più
chiaro che l’architrave e l’Agnus dei al centro sono stati realizzati in una pietra
diversa rispetto al resto del portale e si nota maggiormente la strana fattura
del quadrupede, specie per la resa delle zampe e del vello, tanto da ipotizzare
che entrambi siano il frutto di un vecchio intervento che, con la sostituzione
dell’architrave, può aver dato luogo alla manomissione della ghiera più interna
che su quello poggiava. Si potrebbe così spiegare il motivo per cui il piccolo blocco centrale di questa
ghiera risulta stranamente fuori asse.
Gli intarsi cosmateschi presentano diversi motivi realizzati con le pietre dei tre colori alternati: piccoli
dischi raggiati, rombi incorniciati da motivi a coda di rondine, pelte, petali, quadratini, triangoli e altre
figure geometriche variamente disposte a formare stelle, fiori, cornici, ecc.
Vi è poi la ghiera dell’archivolto scolpita con un tralcio che a sinistra esce dal collo di una testa coronata
sorridente, e a destra dalle fauci di un cane. Nel tralcio abitato vi sono per lo più fiori, qualche frutto
e qualche animale nell’atto di cadere verso il basso, così come l’unico uomo, raffigurato nella parte
destra della stessa ghiera. Le due coppie di capitelli fogliati più in basso a destra sembrano reimpiegati
dall’antico, sia per la raffinatezza della fattura sia perché, nonostante si trovino in posizione più riparata
rispetto agli altri, risultano i più consumati. I capitelli soprastanti, sul lato destro sono parimenti fogliati, mentre quelli sul lato sinistro presentano una coppia di uccelli affrontati che si abbeverano a un
calice (che richiamano figure analoghe sul fregio interno ora parte del pulpito, e come quelle ricordano
la salvezza data dal nutrirsi del Cristo), ed esseri ibridi, fantastici evidentemente diabolici: una scimmia
con un cartiglio in bocca, la cui parte retrostante umana s’innesta nel corpo di una figura mostruosa,
che ha a sua volta una testa e due corpi affrontati le cui zampe si tengono saldamente a una foglia del
capitello che abitano.
Figure ibride, e per questo mostruose, animali orrendi che rappresentano il male, il peccato, erano fra
le poche figure solitamente realizzate dai cosmateschi ed erano collocate all’esterno delle chiese, dove
questi esseri demoniaci non potevano entrare. Il diavolo, molto presente nell’immaginario medievale,
doveva rimanere quindi fuori dal luogo sacro e gli esseri che lo rappresentavano venivano solitamente
raffigurati imprigionati all’esterno.
Il portale principale
della cattedrale come
si presenta oggi
69
Capitelli su lato sinistro
del portale
Pietra frammentaria
con lavoro cosmatesco
non finito, cortile
dell’episcopio
Archivolto del portale,
particolari con motivi
cosmateschi
Anche il mascherone rosso al culmine dell’archivolto rimanda all’iconografia di satana per il ghigno
e le orecchie da cui fuoriescono corna ma, per la collocazione, potremmo piuttosto associarlo alle
protomi con funzione apotropaica, quasi talismani dell’edificio, così come pure la testina affianco,
entrambe con una cavità sulla fronte, evidentemente per alloggiare pietre che dovevano conferire loro
maggiore risalto1.
La presenza delle tarsie evidenzia la distanza fra il nostro portale e quelli di cultura emiliana (contesto a
cui sono riconducibili invece le sculture all’interno dell’edificio), ma anche la distanza, ancora una volta,
rispetto a portali di ambito locale e più in generale marchigiano. Questa struttura rimanda piuttosto a
soluzioni tipiche dei maestri cosmateschi, marmorari di origine romana che lavorarono fra XII e XIII
secolo in gruppi familiari, oltre che a Roma, nel Lazio, nella bassa Toscana e in Umbria. I maestri di
quest’arte erano chiamati ad arredare chiese a Roma ma anche in diversi luoghi facenti parte del cosiddetto patrimonio pontificio, specie in quelli più facilmente raggiungibili, come poteva essere Fano,
ubicata lungo la Flaminia. Qui un tale portale poteva essere stato concepito come un adeguato controcanto contemporaneo alla grandiosità del vicino Arco di Augusto che rappresentava i fasti romani che i
cosmateschi erano chiamati ad evocare in importanti edifici religiosi.
A differenza di quanto avevo supposto nel mio precedente studio, ipotizzo inoltre che tutto il portale,
anche la parte scultorea, sia riferibile alla cultura dei cosiddetti Cosmati, e segnatamente al Magister
Rainerius citato nell’epigrafe, non a caso come scultore e non con un altro epiteto che avrebbe potuto
rimandare a responsabilità in relazione alla struttura architettonica.
70
Piccola lastra con motivi
cosmateschi murata nel
cortile dell’episcopio
Particolari dell’archivolto
del portale
Nel cortile dell’episcopio vi sono una piccola lastra murata con rilievi cosmateschi e una pietra non del
tutto sbozzata, erratica e rotta in due in cui sono visibili, su un lato, intagli preparatori di motivi cosmateschi; tale pezzo incompiuto ci fa ritenere che i marmorai non realizzarono il lavoro altrove per spedire
a Fano i pezzi già pronti, ma che essi si recarono personalmente a Fano per contribuire alla rinascita del
duomo.
(MCI)
1. Fulvio Cervini ha cercato di dimostrare, col conforto di qualche fonte scritta, che protomi analoghe potevano inoltre in qualche
modo collegarsi alla memoria di ben più sanguinosi riti di fondazione, che in età romanica erano considerati già appartenenti al passato. Si veda in proposito F. Cervini, Talismani di pietra. Sculture apotropaiche nelle fonti medievali, in “Lares”, 67 (2001), 1, pp. 165-187.
71
la Basilica cattedrale di fano
Santa Maria di Farfa
(Fara in Sabina, Rieti),
frammento cosmatesco
con l’iscrizione
[† MAGIST]ER RAIN
H[OC OPUS FEC],
72
strutture romaniche presenti nel Lazio, in particolare nei campanili di Roma, fra cui per esempio quelli di San Silvestro in Capite e della Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, dove erano al
lavoro maestri cosmateschi, ossia maestri che rea­
lizzavano intarsi marmorei analoghi a quelli del
nostro portale. Per le somiglianze fra quest’ultimo e i lavori dei magistri romani, e per le logge
con catini policromi, ritengo che la facciata possa
essere ascrivibile a maestri cosmateschi.
Relativamente alla struttura architettonica interna, ritengo invece che i modelli di riferimento per il nostro duomo derivino dalla Lombardia meridionale, un’area corrispondente grosso
modo all’odierna Emilia, dove uno dei prototipi poté essere San Savino di Piacenza, anch’esso
a pianta rettangolare, a tre navate, con transetto
non sporgente, pilastri polilobati, ampia cripta, volte cupoliformi con costoloni squadrati
e contrafforti laterali. Nella stessa città piuttosto simile è anche la precedente Santa Eufemia
(fine XI - primi XII secolo), che però pare non
avesse una cripta.
Ipotesi sull’identità di Magister Rainerius e conclusioni
Chi poteva essere Rainerius, il magister sculptor
citato nell’epigrafe? Ipotizziamo qui per la prima
volta che si tratti dello stesso Rainerius che lasciò
il suo nome inciso su un frammento recentemente reimpiegato come sostegno di leggio in
un ambone nella Basilica di Santa Maria di Farfa
(Fara in Sabina, Rieti), ove si trova la scritta:
[† MAGIST ]ER RAIN H[OC OPUS FEC], e su una
cornice a San Silvestro in Capite a Roma dove,
insieme al suo, vi sono i nomi dei figli: EGO RAINERIUS CUM FILIIS MIS. NYCOLAUS ET PETRUS.
HOC INCIPIMUS ET COMPLEVIMUS29. A Farfa
sono probabilmente suoi i frammenti di pilastri
e le lastre intarsiate già parte di arredi non più
ricostruibili, mentre a Roma credo siano riconducibili a lui e ai figli gli intarsi di un altare nella
cripta, forse quello consacrato nel 1123 da Callisto II che vi pose delle reliquie. Cosa potrebbe
essere riconducibile nel duomo di Fano a questo personaggio, che ipotizziamo identificabile
con il capostipite di una delle prime famiglie
di marmorai romani, detti Cosmati? Non certo l’architettura con volte e costoloni o i rilievi
con L’Infanzia di Cristo, tutti estranei alla cultura
di un maestro cosmatesco e riferibili piuttosto
all’ambito della Lombardia meridionale, quindi
alla cultura padano-emiliana del XII secolo. Rainerius poté essere l’autore del portale con intarsi,
capitelli e tralci abitati, e di quanto altro al momento non sappiamo. Nel cortile dell’episcopio
restano una formella con motivi cosmateschi e
frammenti di un pezzo non finito, che inducono
a credere che i cosmateschi eseguirono i lavori in
sito. Forse a Rainerius e ai suoi è riconducibile
anche la facciata, che risulta un blocco a sé stante rispetto al resto dell’edificio. Le date in cui fu
attivo Rainerius il cosmatesco sono conciliabili
con quelle del nostro duomo30.
Ritengo quindi che il cantiere della ricostruzione dovette essere affidato, forse contemporaneamente, a due maestranze diverse: una per la facciata e una per il resto dell’edificio.
architettura e decorazioni della chiesa romanica
Piacenza, formella della
corporazione dei tessitori
su uno dei pilastri della
cattedrale
Piacenza, Annunciazione
e Visitazione, particolare
dell’architrave del portale
nord della cattedrale
73
la Basilica cattedrale di fano
Piacenza, Basilica di
San Savino, navata
centrale con pilastri
polilobati, volte a crociera
cupoliformi e costoloni a
sezione rettangolare
La prima doveva provenire dal Lazio: Rainerius,
il nome di grido, può essere identificato proprio
con il capostipite di una delle prime famiglie di
cosmateschi che da lui prese il nome e che fra
XII e XIII secolo lavorarono il marmo in edifici sacri e collaborarono con architetti e altre
maestranze dedicandosi agli arredi liturgici e a
singole strutture (amboni, cattedre vescovili, pavimenti, portali, finestre, facciate, ecc.); il loro
lavoro, specie fuori Roma, aveva un’alta valenza
simbolica, poiché testimoniava la presenza della
chiesa romana sul territorio e nel contempo richiamava la grandezza della Roma antica, grazie
all’utilizzo di materiali preziosi che la ricordavano (marmo bianco, porfido rosso e serpentino
verde)31. Non è certo che nel XII secolo i marmorai romani fossero già capaci di competere in
opere architettoniche; risulta molto improbabile
quindi che all’epoca a un maestro cosmatesco
fosse affidato il rifacimento dell’edificio che, in
74
seguito all’incendio, si voleva coperto da volte.
Per questo dovette essere chiamata un’altra mae­
stranza, stavolta di ambito lombardo-emiliano,
dove erano solite lavorare officine che il più delle
volte rimanevano anonime (tranne i casi eccezionali di Wiligelmo e soprattutto Niccolò). Oltre alla già ricordata vicinanza con l’architettura
piacentina, si evidenzia che, nei nostri rilievi con
L’Infanzia di Cristo, vi è una certa familiarità
con gli architravi del duomo di Piacenza (a nord
di Wiligelmo; a sud di Niccolò). La scultura a
Piacenza (collegata all’Adriatico tramite il fiume
Po, via d’acqua all’epoca molto più agevole di
quelle terrestri) nel XII secolo dovette essere un
riferimento importante per i pannelli istoriati di
Fano. Nella città emiliana la scultura della metà e
seconda metà del XII secolo era legata all’eredità
lasciata da Niccolò prima di spostarsi in altri cantieri del nord Italia, dove fu attivo fino al 1140
circa (Sacra di San Michele – Torino –, cattedrali
architettura e decorazioni della chiesa romanica
di Ferrara e Verona e in quest’ultima città anche a
San Zeno). La critica ritiene che quello nel duomo di Piacenza per Niccolò dovette essere uno
dei primi cantieri, se non il primo, dove affiancò
con la propria, la ‘bottega’ di colui che consideriamo il primo maestro della scultura romanica: quel Wiligelmo che con ogni probabilità
in precedenza aveva lavorato a San Benedetto al
Polirone a San Benedetto Po (Mantova), nell’abbazia di Nonantola (Modena) e soprattutto nel
duomo di Modena. Il cantiere del duomo di
Piacenza dovette essere quindi una fucina molto
importante per il medioevo romanico perché si
trovarono a lavorare, separatamente, ma secondo
un progetto condiviso, i due maestri più emblematici del romanico della penisola: Wiligelmo
con i suoi collaboratori, probabilmente nel suo
ultimo lavoro, e Niccolò col suo gruppo probabilmente al suo primo lavoro. Al primo era stato
affidato il lato nord del cantiere, al secondo il
lato sud; a un certo punto il cantiere di Niccolò
dovette prendere il sopravvento sull’altro perché
si riconosce la sua mano in diverse aree interne dell’edificio. Nel duomo di Piacenza non vi
sono però firme: il maestro anziano non firmò
(a differenza di quanto aveva fatto a Modena)
forse per la marginalità del suo intervento, quello giovane neanche, evidentemente perché alle
prime armi32. Quando poi Niccolò fu chiamato a lavorare altrove, a Piacenza dovette restare
parte della sua maestranza a completare il lungo
cantiere del duomo dove, col passare del tempo,
si arrivò al cosiddetto “reduktionsstill”33 ossia
alla ripetizione di stilemi di Niccolò in qualche
modo ridotti, diluiti, riproposti negli anni, forse
stancamente, comunque con sempre minor vividezza. A tal proposito si è parlato di una vera
e propria “Scuola di Piacenza” nata da un cantiere senza firme e che continuò a non firmare
non lasciandoci quindi nomi di scalpellini. Fra
le formelle riconducibili a tale scuola stilisticamente più vicine a quelle fanesi ritengo esservi
i rilievi degli artieri della cattedrale di Piacenza, del 1150 circa34. I rilievi fanesi presentano
inoltre forti analogie con alcuni fra quelli della
facciata dell’abbazia di San Clemente a Casauria
(Pescara), in particolare con: i due profeti collocati più in alto dei quattro ai lati del portale
centrale, i capitelli soprastanti la lunetta del portale sinistro raffigurante l’angelo Michele e alcuni capitelli del porticato. Per concludere, ritengo che l’iscrizione di Magister Rainerius sia più
facilmente riconducibile all’artefice del portale,
proveniente da Roma, area dove effettivamente
era all’opera uno scultore con questo nome negli stessi anni, che faceva cose analoghe ai decori
del nostro portale, e dove gli artisti erano soliti
lasciare il loro nome, piuttosto che al lavoro dei
maestri lombardo-emiliani dell’area piacentina,
dove invece gli scultori non usavano incidere
sulla pietra il loro nome. Doveva essere del resto
motivo d’orgoglio per i committenti, poter vantare il nome di un maestro noto e proveniente da
Roma, piuttosto che il nome di un ignoto maestro scalpellino già attivo nella pianura padana. A
Fano, dopo l’incendio, dovettero lavorare quindi
maestranze diverse quasi contemporaneamente
o in successione, così come anche altrove (come
per esempio proprio nel duomo di Piacenza e
nell’abbazia di San Clemente a Casauria). La
fabbrica dovette andare avanti almeno per tutto
l’episcopato di Rainaldo a cui si fa riferimento
nell’epigrafe, e di cui non sappiamo molto, se
non che fu vescovo dal 1136 al 1159 (o al 1165
quando fu consacrato il suo successore Carbo o
Carbone) e che, come abbiamo già ricordato,
nel 1139 era stato al Concilio ecumenico Laterano a Roma dove poté aver preso contatti per
far arrivare Magister Rainerius a Fano.
75
Il pulpito
Lato ovest
del pulpito, rilievo
con Annunciazione e
Visitazione e fregio
sottostante
76
L’odierno pulpito fu costruito nel 1941 assemblando arbitrariamente pezzi medievali in pietra calcarea provenienti dal cortile dell’episcopio che dovevano aver fatto parte dell’antico arredo scultoreo
della cattedrale: tre pannelli con storie dell’Infanzia di Cristo, un fregio istoriato frammentario e
quattro leoni stilofori. Le lastre presentano le seguenti scene: l’Annunciazione e la Visitazione sul
pannello rivolto verso chi entra (ovest); l’Adorazione dei Magi e il Sogno di Giuseppe sul lato sinistro
(nord); la Fuga in Egitto sul lato destro (sud). Nel 1948 fu trovato e aggiunto un frammento con le
teste di tre cavalli e un albero collegabili alla scena con i Magi (lato est); un ulteriore pannello raffigurante l’Annuncio ai pastori fu rinvenuto nel 1957 e attualmente si trova nella seconda cappella
a destra, appoggiato sulla tomba del vescovo Costanzo Micci. Si ritiene che in origine le lastre fossero in numero superiore; in ogni caso il ciclo doveva comprendere senz’altro almeno la scena della
Natività. Si ipotizza inoltre che esse facessero parte della recinzione presbiteriale che doveva essere
sicuramente presente nella cattedrale sopra la cripta, quindi in una posizione molto bene in vista. Ad
avvalorare l’ipotesi, le dimensioni compatibili con un pontile (almeno 4 lastre di dimensioni medie
pari a: h 1,10 x l 1,50 x 0,15 metri circa), e la mancata rifinitura delle parti superiori che rivela che
i rilievi erano stati concepiti per essere visti dal basso. Altrove il Ciclo dell’Infanzia di Cristo è stato
trovato sulla facciata (in stipiti, architravi, o ai lati del portale), ma nel nostro caso non riteniamo che
potesse essere mai stato all’aperto perché le superfici risultano ben conservate con le raffinatezze della
lavorazione in superficie1.
Il primo e il secondo pannello sono stati scolpiti sul retro di due lastre finemente lavorate in età romana: dietro all’Annunciazione e alla Visitazione si trovano un bucranio con nastri, un festone e una
patera; dietro all’Adorazione dei Magi vi sono un’iscrizione in elegante maiuscola romana:
S · MANIBUS · [SA]CRUM · PUBLICE
evidentemente parte di un altare dedicato ai Mani (anime dei defunti) e, a sinistra, due delfini affrontati su una conchiglia. Il retro dei pannelli doveva essere bene in vista per il clero che si trovava sul
presbiterio rialzato; evidentemente il reimpiego non è riconducibile solo alla necessità di risparmiare
materiale, ma rivela la consapevolezza degli artefici medievali di essere eredi e prosecutori della cultura degli antichi.
L’iconografia è molto simile a quella di precedenti cicli emiliani con storie dell’Infanzia di Cristo
dell’ambito di Wiligelmo (portali dell’abbazia di Nonantola e della cattedrale di Piacenza) e Niccolò
(portali delle cattedrali di Piacenza e Ferrara); molto probabilmente le botteghe condividevano taccui­ni
di disegni che purtroppo non ci sono stati tramandati. Si ritiene quindi che le scelte iconografiche delle
chiese locali non fossero completamente libere ma seguissero dettami della Chiesa di Roma che, sin
dall’epoca della riforma gregoriana (dall’ultimo quarto dell’XI secolo), era impegnata a difendersi non
solo dai potenti laici che volevano condizionarla, ma anche a rivendicare il proprio ruolo di Chiesa madre contro gli eretici, specie i catari che non credevano nella incarnazione di Cristo e negli avvenimenti
della sua vita terrena, e che nel XII secolo riscuotevano molto successo proprio nel nord e centro Italia.
Rispetto agli altri Cicli, quello di Fano, presenta la figura della Vergine decisamente predominante, forse a sottolineare, in contrasto con l’eresia catara, non solo il credo nel Figlio di Dio che si è incarnato,
ma anche il ruolo chiave della Chiesa madre impersonata da Maria, figura ben in evidenza in tutte le
scene, specialmente in quella dell’Adorazione dei Magi, dove è rappresentata seduta frontalmente su un
trono, dotata di corona e incorniciata da una struttura architettonica entro la quale giganteggia rispetto
agli altri personaggi, anche al confronto dei re che, nell’intento dei committenti, potevano simboleggiare i sovrani laici che si devono inchinare alla supremazia della Chiesa2.
In un recente studio Guido Ugolini3 ha evidenziato e interpretato l’originalità di alcuni particolari,
che l’hanno portato a sottolineare l’importanza del ciclo fanese, le cui scelte iconografiche ritiene
ascrivibili a un committente ecclesiastico particolarmente attento. Evidentemente nell’ambito di un
progetto prestabilito, si doveva comunque lasciare un certo margine di autonomia ai committenti
locali e quindi ai maestri scultori4.
Sotto alle tre lastre del pulpito sono stati collocati tre fregi frammentari con elementi vegetali caratterizzati da simmetricità e figure allegoriche quali: quadrupedi fantastici, animali affrontati che
forse alludono a una favola di Esopo, una sirena con un pesce nella mano destra, un uomo e una
donna in lotta, una coppia di uccelli speculari che si alimentano da una pianta, una coppia di pavoni
affrontati che si abbeverano a un calice, dove queste due coppie di volatili sembrano richiamare quella su uno dei capitelli del portale.
A sorreggere il pulpito, quattro leoni stilofori in calcare rosso di Verona, molto consunti, evidentemente per essere stati a lungo all’aperto davanti alla facciata (nella prima fotografia che li ritrae sono
Lato nord del pulpito,
rilievo con Adorazione dei
Magi e fregio sottostante
Lato sud del pulpito,
rilievo con Fuga in Egitto
e fregio sottostante
77
Lato est del pulpito,
rilievo frammentario con
tre cavalli, colonnina e
alberello sullo spigolo
Cappella sepolcrale dei
Vescovi, formella erratica
con Annuncio ai pastori
78
davanti al prospetto cinquecentesco). Non sappiamo se furono realizzati per il pontile o per un eventuale protiro o nartece. Tutti e quattro hanno una preda, di cui quelle dei due leoni antistanti sono
umane; in particolare il primo leone a sinistra stringe con le fauci il capo di un individuo che cerca
di resistergli. Le ciocche delle criniere sono molto stilizzate, come quelle del leoncino su formella
erratica; il leone retrostante a sinistra presenta invece ciuffi più realistici, alla maniera dell’antichità.
I rilievi scolpiti e i leoni che costituiscono la parte medievale dell’odierno pulpito, non hanno uguali
nelle Marche: non hanno niente in comune con i rilievi erratici della chiesa parrocchiale di San Sebastiano nella vicina Bellocchi, caratterizzati da un fare piatto, elementare, evidentemente strettamente
locale, privo delle qualità plastiche ed espressive dei nostri; sono poco somiglianti alle statue-colonna
di Ancona e Ravenna (dove è raffigurata anche la Vergine Annunziata); presentano qualche analogia
stilistica e iconografica con la scena della Visitazione murata nella lunetta del portale destro di Santa
Maria della Piazza in Ancona, ma si tratta di un’immagine ormai isolata dal contesto che non ci permette di supporre granché, se non che, dopo essere stati a Fano, gli scalpellini poterono essere scesi
a sud lungo la costa.
Un’iconografia molto simile alla nostra si trova su un capitello emiliano, ormai decontestualizzato
e venduto sul mercato antiquario, ora conservato nel Museo Bardini a Firenze; in esso vi è anche la
scena della Natività mancante a Fano, e sono presenti, come a Fano, i tre cavalli retrostanti i Magi.
In una parte dell’arredo scultoreo dell’abbazia di San Clemente a Casauria (Pescara), si può invece
riconoscere addirittura una mano che lavorò ai rilievi di Fano. In passato, sulle orme di Gloria Fossi,
avevo ipotizzato una precedenza del cantiere di Casauria su quello fanese5, fornendo motivazioni che
ritengo tuttora valide, ma ora sono orientata a concludere che più facilmente invece sia avvenuto il contrario, essendo più semplice, e quindi più
probabile, che scalpellini di cultura niccoliana, che dovevano conoscere la
scuola piacentina, da cui credo provenissero per le evidenti affinità stilistiche con sculture del duomo di Piacenza, lavorassero prima a Fano (facilmente raggiungibile per le vie di acqua: il Po e il mare), e poi scendessero
ancora più a sud, fino agli Abruzzi6, presumo dopo la morte del vescovo
Rainaldo (nel 1159 o 1165), il cui nome è tramandato nell’epigrafe.
(MCI)
1. Le parti rovinate sono riconducibili ai contraccolpi di eventi traumatici, fra cui senz’altro il crollo del campanile e conseguentemente
delle volte nell’area presbiteriale nel 1944.
2. In area emiliana troviamo l’Adorazione dei Magi iconograficamente molto simile sulla facciata del duomo di Fidenza e sulla lunetta
del duomo di Parma, entrambi riconducibili a Benedetto Antelami e allo scorcio del XII secolo.
3. G. Ugolini, Mirabili iconologie, cit.
4. Non c’è qui lo spazio per esaminare analiticamente le singole scene. Per questo rimando al mio scritto precedente (M. C. Iorio, Il
Duomo di Fano, cit.) e, per l’esame di alcuni particolari iconografici, allo scritto di Ugolini (G. Ugolini, Mirabili iconologie, cit.) di cui
evidenzio qui alcune osservazioni: nell’Annunciazione l’Angelo con la mano destra impugna il cordone della tunica, come a indicare
la castità, mentre la Vergine con la destra sembra volerlo decisamente fermare (in realtà quest’ultimo particolare è già presente altrove,
per esempio in Niccolò a Ferrara attorno al 1135), e con la sinistra impugna fuso e gomitolo a rappresentare il lavoro da cui è stata
bruscamente distolta; nella Visitazione Maria posa la mano destra sul seno di Elisabetta a sottolineare che anche lei a breve allatterà;
nei Magi siamo di fronte a un consesso di teste coronate, tranne San Giuseppe che non a caso è in un altro ambiente; le diverse età
dei Magi e le particolarità dei loro doni e gesti; la superiore regalità di Maria che non solo è su un trono dotato di pedana, ma anche
di proporzioni maggiori rispetto alle altre figure; la Fuga in Egitto rappresentata alla fine del viaggio, con novità iconografiche quali la
melagrana nella mano sinistra di Maria (simbolo di fertilità, ma in questo contesto per Ugolini alluderebbe alla possibilità di pacifiche
convivenze); il Bambino che sembra applaudire per la fine del viaggio. Giustamente Ugolini sottolinea che una scena del genere, realizzata attorno all’epoca della seconda crociata, poteva risultare familiare a molti pellegrini che facilmente rivedevano in qualche modo
loro stessi in viaggio, con bordoni, asinelli, barilotti e persone al seguito. Per i motivi che ho esposto in queste pagine, diversamente da
Ugolini non ritengo che l’autore fosse necessariamente il Rainerius dell’epigrafe del XII secolo.
5. M. C. Iorio, Il Duomo di Fano, cit. p. 145-183.
6. Altri scalpellini di cultura niccoliana lavorarono a San Giovanni in Venere a Fossacesia (Chieti), ma solo a Casauria si riscontrano
identità di mano con gli autori dei rilievi fanesi.
La base del pulpito
con i leoni stilofori
romanici
79
la Basilica cattedrale di fano
Mascherone al culmine
dell’archivolto del portale
80
Note
* Questo saggio aggiorna, dopo quasi vent’anni, il mio studio
sul duomo di Fano: M. C. Iorio, Il Duomo di Fano: strutture e
sculture medievali, Fano 1997 (disponibile integralmente anche
sul sito della Carifano). Ad esso si rimanda per le descrizioni
particolareggiate delle strutture, per la loro fortuna critica e per
la bibliografia. Rispetto al precedente scritto, questo, di taglio
più agile e sintetico, oltre ad aggiungere alcune voci di bibliografia, propone, motivandole, nuove ipotesi interpretative.
1. Per l’epigrafe e la sua interpretazione, così come per il pulpito,
il portale, e la cosiddetta ‘figura regale’, si rimanda alle rispettive
schede.
2. Per questi aspetti si veda M. Pellegrini, Vescovo e città, una
relazione nel Medioevo italiano (secoli II-XIV), Milano 2009.
3. Per la storia di Fano nel medioevo si veda R. Bernacchia, Politica e società a Fano in età medievale: secoli VI-XIII, in F. Milesi,
Fano medievale, Fano 1997, pp. 11-40 e la bibliografia ivi citata.
4. Per la Storia della Chiesa in questo periodo si veda A. Foreville,
J. Rousset De Pina, Dal Primo Concilio Lateranense all’avvento di
Innocenzo III, vol. IX/1 di Storia della Chiesa, Torino 1974.
5. Il patto restò in vigore fino al 1509 quando Giulio II della Rovere minacciò la scomunica ai veneziani che avessero seguitato a
pretendere qualcosa. Per queste notizie si veda A. Bartoli Langeli,
Il patto con Fano: 1141, Venezia 1993.
6. Per approfondire la questione relativa a questo tipo di coperture e per la bibliografia sull’argomento, si veda il saggio di A.
Peroni, Riflessioni sul rapporto tra interno ed esterno nella copertura dell’architettura romanica lombarda, in Medioevo: Arte lombarda, IV Convegno di Parma 2001, Parma 2004, pp. 113-127.
7. Per i dettagli e le fotografie, si veda M.C. Iorio, Il Duomo di
Fano, cit. pp. 55-63.
8. Negli ultimi anni, restauri condotti in edifici sacri dell’Italia
centro-settentrionale risalenti ai secoli XII-XIV, hanno rivelato
che le chiese dell’epoca non erano bianche o spoglie, come si
credeva, ma rivestite di colore con valenze decorative di forte
impatto, sia sulle superfici architettoniche, sia sulle sculture. In
alcuni casi sono stati trovati anche documenti dell’epoca che ci
dicono che maestranze di pittori policromatori, per ora ancora
anonimi, intervenivano nelle fasi finali dei lavori per completare e arricchire strutture architettoniche e sculture con strati di
pitture. La maggior parte di questi lavori sono andati irreparabilmente perduti. Nella cattedrale di Fano restano solo tracce di
pitture riferibili al XV secolo sulla parasta fra la prima e la seconda campata a sinistra, e nel sottarco del contrafforte visibile
nella cappella dei Vescovi.
9. L. Asioli, La Cattedrale Basilica di Fano, Urbania 1975, p. 45,
dice che tracce della cripta si riscontrano anche “in un vano di
porta nella piccola sacrestia che conduce all’organo”. Purtroppo
non mi è stata data la possibilità di verificare la presenza delle
tracce di cui parla Asioli.
10. Si veda SBBAAPPM, Lettera dell’architetto Gaetano Bartolucci alla Sovrintendenza di Ancona, datata 1939.
11. Per le cripte si veda L. Fabbri, Cripte: diffusione e tipologia
nell’Italia mediorientale tra IX e XII secolo, Sommacampagna
(VR) 2009.
12. P. M. Amiani, Memorie istoriche della città di Fano, Venezia
1751, rist. fotomeccanica Bologna 1967, pp. 131-132.
13. C. Masetti, S. Eusebio, S. Fortunato, S. Orso vescovi di Fano,
Memorie Istoriche, Fano 1914.
architettura e decorazioni della chiesa romanica
14. P.M. Amiani, Memorie istoriche della città di Fano, cit., p.
134, datando l’incendio al 1111, riferisce del ritrovamento dei
tre corpi sotto le macerie dell’altare maggiore nel 1113, e scrive
che quello di San Fortunato fu poi riposto nello stesso altare
rifatto, mentre i corpi di Sant’Eusebio e Sant’Orso furono collocati nelle cappelle a essi dedicati, che però sappiamo essere
più tarde.
15. Si veda qui la scheda sull’epigrafe.
16. La notizia è stata tratta dalla donazione del vescovo Carbone
(1165-77): De oblationibus in festo S. Fortunati, si veda C. Masetti, S. Eusebio, S. Fortunato, S. Orso vescovi di Fano, Memorie
Istoriche, cit.
17. Si veda P. Piva, Lo ‘spazio liturgico’: architettura, arredo, iconografia (secoli IV-XII), in P. Piva (a cura di), L’arte medievale
nel contesto: funzioni, iconografia, tecniche (300-1300), Milano
2006, pp. 141-180.
18. Si veda Santa Maria di Vezzolano. Il pontile, ricerche e restauri, Torino 1997.
19. Si veda P. Piva, Abbazia di San Vincenzo al Furlo, in Il Romanico nelle Marche, Milano 2012, pp. 70-74
20. Per questa figura si veda M.C. Iorio, Due sculture ritrovate.
Contributo per l’arredo plastico del Duomo romanico di Fano, in
“Quaderni dell’Accademia Fanestre”, 1 (2002), pp. 97-106.
21. Quintavalle aveva dedicato uno dei convegni di Parma allo
studio delle rappresentazioni degli edifici nell’arte medievale e
aveva già avanzato questa ipotesi anche per l’architettura raffigurata sui nostri Magi (si veda A.C. Quintavalle, Ritualità e strutture
dell’arredo fra XI e XIII secolo: novità sull’officina di Niccolò a Fano
e ad Ancona e su quella antelamica in Puglia in Medioevo: i modelli,
in Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 27 settembre
- 1 ottobre 1999, Milano 2002, pp. 108-136.
22. M.C. Iorio, Il Duomo di Fano, cit., pp. 23-25.
23. P. Testini, G. Cantino Watagin, L. Pani Ermini, La Cattedrale in Italia, in L’éveque et la Cattedrale, Actes du XI congrés
internazionale d’archéologie chrétienné, Lyon, Vienne, Grenoble, Géneve, Aoste, 21-28 Sept. 1986, Città del Vaticano 1989,
vol. 1, pp. 5-231.
24. Altra cosa erano i santuari suburbani presso cui i primi vescovi solitamente erano sepolti per rispettare la legge romana
che vietava sepolture all’interno della città.
25. Si veda il manoscritto di Gasparoli del 1682 riportato da A.
Billi, Monumenti dell’episcopio fanestre, Fano 1864, p. 7.
26. Battisteri in posizione analoga rispetto alla cattedrale, anche se ottagonali, sono rimasti in alzato ad Albenga (in Liguria) e presso Sant’Eufemia a Grado (in Friuli), entrambi con
un diametro esterno di 12 m circa. Lo studio di Olof Brandt
(O. Brandt, Battisteri oltre la pianta: gli alzati di nove battisteri
paleocristiani in Italia, Città del Vaticano 2012), basato su nove
battisteri paleocristiani in Italia ancora esistenti, ci dice che il
battistero “standard” in Italia aveva il diametro di circa 10 m.
Un altro studio (S. Ristow: Frühchristliche Baptisterien, Monaco
1998) ricorda tanti battisteri paleocristiani sicuri, verosimili o
probabili in tutta Europa e in Italia, fra cui quello ottagonale del
V secolo della cattedrale della vicina Pesaro che fu distrutto in
occasione del rifacimento del duomo nel corso del XIII secolo;
anche il nostro poté perdere la sua funzione quando una delle
cappelle aggiunte a partire dal Trecento venne dedicata al Battesimo (almeno dal 1536).
27. Devo questo suggerimento a Gianni Volpe che ha anche
individuato una linea ideale di congiungimento fra lo spigolo
e la facciata della cattedrale, parallela agli edifici sull’altro lato
della via.
28. L. Asioli, La Cattedrale Basilica di Fano, cit.
29. Ringrazio Giulia Borgi che mi ha fatto leggere la sua tesi
di laurea in Storia dell’Arte Medievale dal titolo: I frammenti
dell’arredo liturgico della chiesa abbaziale di Santa Maria di Farfa
(XI-XIII secolo), Anno Accademico 2011/2012, Università La
Sapienza di Roma.
30. Questa ipotesi viene avanzata solo in seguito al restauro operato nel 1999 che ha reso il portale ben visibile. In ogni modo già
Asioli, riportando Selvelli, aveva riferito il portale a tale Magister
Rainerius capostipite di una delle prime famiglie di marmorai romani, senza però indicare dove lasciò altre opere firmate (L. Asioli, La Cattedrale Basilica di Fano, cit.). Per Rainerius si veda P. C.
Claussen, “Rainerius” Grove Art Online. Oxford University press,
2003-2008. Web, ultimo accesso 29 settembre 2015. <http://www.
oxfordartonline.com/subscriber/article/grove/art/T070611> e la
bibliografia ivi riportata.
31. Non è strano che nell’epigrafe non è indicata la località di
provenienza di Rainerius. Infatti l’iscrizione cosmatesca più antica
che conosciamo con l’espressione “magister romanus” si deve al
figlio di Rainerius, Nicola, che l’adottò nel 1150 a Tarquinia (si
veda E. Parlato, S. Romano, Roma e il Lazio: il Romanico, Milano
2001, p. 206 e ss.).
32. Per queste vicende si veda S. Lomartire, Wiligelmo/Niccolò.
Frammenti di biografie d’artista attraverso le iscrizioni, in M.M.
Donato (a cura di), L’artista medievale, in “Annali della Scuola
Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia”, 16
(2003), pp. 269-282.
33. T. Krautheimer Hess, Die figurale Plastik der Ostlombardei von 1100 bis 1178, in “Marburger Jahrbuch fur Kunstgeschichte”, 4 (1928), pp. 231-307.
34. Per l’architettura e la scultura piacentina del XII secolo si
vedano: A. Segagni Malacart, L’architettura, in Storia di Piacenza: Dal vescovo conte alla Signoria, Piacenza 1984, Vol. 2,
pp.437-601; L. Cochetti Pratesi, La scultura, cit., pp. 605-668.
In quest’ultimo saggio si trova anche un resoconto della disputa
relativa alla “Scuola di Piacenza” e alle datazioni delle opere ad
essa riconducibili; a noi qui però interessa sottolineare la somiglianza fra le nostre sculture e quelle dei continuatori di Niccolò
a Piacenza.
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