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Alessio Cacciatore, Giorgio Di Berardino
Britannica
dal madchester al britpop
il ritorno del rock d’oltremanica
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Alessio Cacciatore, Giorgio Di Berardino
Britannica
dal madchester al britpop
il ritorno del rock d’oltremanica
ISBN 978-88-6628-291-4
copyright 2014 Caosfera Edizioni
www.caosfera.it
soluzioni grafiche e realizzazione
“La tua ragazza può andare e venire
ma i Rolling Stones durano per sempre”
Alan McGee
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Premessa
Gran Bretagna e Stati Uniti. Gran Bretagna contro Stati Uniti. Da
sempre.
Non dal punto di vista bellico ovviamente, consapevoli dell’eterna
alleanza che li lega, ma da quello discografico. La posta in palio è lo
scettro di paese miglior produttore di rock e derivati, almeno stando
alle vendite. Considerando che la popolazione degli USA supera
di quasi sei volte quella inglese, è comprensibile come la lotta sia
da sempre impari e che l’attenzione dei musicisti d’oltremanica sia
perennemente rivolta alla “conquista musicale” sul suolo americano.
Disgraziatamente non c’era traccia di novità nelle musiche che gli
inglesi impacchettarono e spedirono oltreoceano un ventennio fa.
Nessuna scossa ma solo un ottimo modo di riciclare i suoni del
passato.
Dal canto suo l’Inghilterra, non dimentichiamocelo, è il paese dei
balocchi per ogni artista. A tutt’oggi se hai la fortuna di nascerci e vuoi
diventare un musicista può capitarti di avere la possibilità di incidere
dischi per delle major o giù di lì e di essere affiancati da produttori di
un certo spessore. Una nazione nella quale l’industria musicale ha
da sempre grande rilievo. I dischi si vendono, i concerti, sebbene
molto costosi, sono seguitissimi, grazie anche a location create
appositamente per lo svolgersi di eventi musicali. Case discografiche,
agenzie di eventi e riviste di settore collaborano continuamente per
il buon mantenimento del mercato discografico. I giornali fanno da
sempre un’opera di esaltazione straordinaria, specie a riguardo delle
nuove leve da far fruttare, eventualmente. Anche se una nuova band
ha inciso una sola canzone perché non provare a farla passare per
la più sensazionale scoperta dell’anno?!
Ad ogni modo, fatta qualche rara eccezione, dimenticate per un po’ i
gruppi celebri di un recente passato. Non affronteremo vite e opere
di artisti che le radio non hanno mai avuto problemi a passare. Qui si
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lodano soprattutto coloro che hanno da sempre uno spazio limitato,
quelli definiti “a parte” nel panorama musicale o anche “alternativi”.
In sintesi un confronto tra big band e little band.
Potremmo riferirci a questo volume come ad una sorta di guida al
ritorno verso la normalità del rock, ma in senso puramente tecnicometodico o riguardo la forma compositiva. Una libera uscita dai
disastrosi anni ottanta durante i quali ci si divertiva a sfoggiare abilità
nel manovrare strumentazioni elettroniche e null’altro. Oltretutto
urgeva in qualche modo rispondere alle provocazioni dei “cugini”
americani che detenevano pressoché il totale controllo del mercato
musicale mondiale con lo speed rock prima e con il grunge poi. Ma
stavolta nessuna “British Invasion” come accadde trent’anni prima.
Il grande exploit europeo non si ripeté negli Stati Uniti. La musica
inglese non attecchiva più oltreoceano ancor più per il fatto che
aveva tutto l’aspetto di una minestra riscaldata.
Questo fu anche il momento di grazia in cui agli occhi e alle orecchie
dei musicisti di fine millennio si presentarono i gruppi che avevano
contribuito alla nascita del rock contemporaneo e che oltretutto
avevano celebrato la gioventù dei loro padri! Ai cinquantenni invece
non restò altro da fare che tirar fuori dalle soffitte vecchi dischi
impolverati ma ai quali un tempo tenevano moltissimo. In pratica negli
anni novanta i ragazzi neanche ventenni erano presi dall’ascolto di
Beatles, Rolling Stones, Kinks, Who, ecc. Eroi di un tempo che ora
grazie a Inspiral Carpets, Charlatans, Stone Roses, Blur e Oasis
tornavano in vita, di moda e impressionanti fonti d’ispirazione.
E nel fare un raffronto tra queste due generazioni di musicisti
dovrebbe saltare all’occhio il fatto che, mentre negli anni sessanta la
concorrenza avveniva entro una manciata di gruppi accuratamente
selezionati, nei novanta le band spuntavano come funghi, quasi
quotidianamente. Quindi la conquista del successo discografico e di
pubblico per Blur, Oasis, Radiohead, ecc. risultò decisamente più
difficile ma con maggiore soddisfazione.
Sicuramente alla lunga distanza coloro che hanno creduto in tale
scena musicale e soprattutto investito su di essa sono stati ripagati
profumatamente. Ma non fu poca cosa risvegliare la “coscienza
musicale” del rock nella terra d’albione. Ci vollero anni di preparazione
prima del grande botto e i risultati gratificarono gli addetti ai lavori. Tale
periodo risulta tuttavia interessante al cospetto di quasi sessant’anni
di storia del rock. Non una parte fondamentale ma importante per chi
come noi ha visto in molte di queste band degli eroi da venerare quali
idoli generazionali.
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Il 4 maggio 1979 la vittoria alle elezioni in Gran Bretagna del primo
ministro Margaret Tatcher generò malcontento presso gran parte
della gioventù inglese. Mai però quanto ne provocò nel 1983 la
rottura professionale tra Joe Strummer e Mick Jones che anticipò la
fine della gloriosa carriera di una delle ultime vere realtà punk della
storia: i Clash. Ma il genere più ribelle della storia era già deceduto
anni prima, con la conclusione dell’avventura dei Sex Pistols. Per
questo motivo la band di Strummer e soci nei primi anni ottanta
scelse di sperimentare nuove tendenze musicali, contaminando il
loro sound rock-based con reggae e dub. Nel frattempo il genere
new wave con i suoi gruppi cominciò a farsi largo nelle classifiche
nazionali. Nato come discendente del punk rock e cresciuto come
oppositore di quest’ultimo, la new wave racchiuse diversi gruppi che
praticarono stili musicali differenti (pop, synth, elettronica), cercando
peraltro di inglobare generi come lo ska e il power pop. L’innovazione
principale consistette nell’introduzione di tastiere, batterie
elettroniche e sintetizzatori. I musicisti tornarono a curare il loro look
sia nell’abbigliamento che nel trucco, sotterrando definitivamente lo
stile trasandato e immorale nato e morto con il punk.
Il genere new romantic è definito un derivato della new wave. Nacque
nei primi anni ottanta all’interno del club londinese The Blitz Kids nel
quale debuttarono gruppi del calibro di Ultravox, Depeche Mode e
Culture Club. Il new romantic risultò profondamente influenzato dal
rock, dalla disco e dal pop più elettronico. Più tardi, con l’arrivo di
formazioni come Duran Duran e Spandau Ballet, lo stile divenne più
ricercato attraverso la produzione di una musica ancora pop con
liriche emozionali basate su temi quali amore, tecnologia, futuro
e storia. Essenziale è la non politicità delle canzoni new romantic,
contrariamente a quanto fece il punk, mentre va sottolineato un
atteggiamento edonistico ed escapista nelle formazioni di maggior
successo. Proprio Simon Le Bon dei Duran Duran affermò nel 1982
che a loro non interessava dare messaggi su quanto la vita sia dura
o difficile.
Poi c’era la neonata MTV, televisione musicale nella quale
chiunque si affrettava a trascinare il proprio video. E più che alla
musica si dava risalto ad abbigliamento, trucco e attrezzature
scenografiche, per non parlare delle coreografie degli stessi artisti,
intenti ad improvvisare goffi movimenti danzanti. E il buon vecchio
classic rock? Praticamente escluso, recepito come elemento di
noia, stantio e obsoleto dopo quasi trent’anni di gloria. La chitarra
perse l’importanza fondamentale detenuta fino a quel periodo.
Nelle composizioni adesso primeggiavano tastiere di ogni razza,
campionatori e sintetizzatori.
Ma qualcosa si stava muovendo. Già, perché c’erano gruppi
appartenenti al genere definito post-punk, come Joy Division, The
Cure, Siouxsie and the Banshees, Bauhaus, ai quali nella seconda
metà degli anni ottanta alcuni “nostalgici” fecero riferimento per
ricominciare a far musica nel miglior modo possibile. Tutto ebbe inizio
grazie a Tony Wilson, giornalista e conduttore radiofonico di Granada
TV che, trovandosi dall’altra parte della barricata, fondò nel 1978 in
quel di Manchester l’etichetta discografica indipendente Factory
Records e successivamente il club Hacienda. Fu lui infatti alla fine
degli anni settanta a mettere sotto contratto proprio i Joy Division (che
in seguito alla prematura scomparsa del leader Ian Curtis divennero
i New Order) dando il via ad un importante movimento musicale e
culturale radicato nel nord dell’Inghilterra. Wilson pensava che i titolari
delle canzoni non fossero le case discografiche bensì i musicisti che
la componevano. E soprattutto che ogni artista dovesse avere la
totale libertà di scegliere se restare o andarsene. Cominciarono così
a prendere corpo le cosiddette etichette indipendenti che col tempo
andarono sempre più scontrandosi con le grandi major.
Oltre a Wilson, altra figura centrale nello sviluppo delle piccole label
fu il nordirlandese Geoff Travis che studiò il modo di cambiare la
gestione della musica di ciascun gruppo, naturalmente a tutto
vantaggio delle band sotto contratto. La sua Rough Trade nel 1983
si associò con una nuova etichetta, la Blanco Y Negro distribuita
dalla Warner Brothers. A contribuire alla diffusione della generazione
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Introduzione
indie di metà anni ottanta sopraggiunsero le riviste musicali, tra le
quali Record Business e A Pack Of Lies di Steve Lamacq, futuro
giornalista del NME nonché dj della BBC.
D’altra parte il vizio di reinventarsi è tipico nella società moderna:
auto, abbigliamento e acconciature ne sono esempi eclatanti. Da
sempre la chiave di tutto è la reinterpretazione della cultura dei padri
in salsa moderna cioè adattabile alla propria generazione. È questo
che fecero tutte le band che uscirono allo scoperto a partire dal
1990. Ripresero ad ascoltare il pop e il beat della Swinging London
che surclassò il classic rock americano a metà degli anni sessanta.
Quegli stessi gruppi che nel creare melodie e composizioni trassero
spunto a loro volta dal blues americano degli anni trenta/quaranta e
dalle prime sperimentazioni rock’n’roll degli anni cinquanta.
Beatles, Stones e Who, solo per citarne alcuni, divennero una specie
di Holy Bible per coloro che si dedicarono all’indie rock nell’Inghilterra
di Tony Blair. Ma non solo: anche le capigliature a caschetto e gli
accessori vintage cominciarono a rifiorire così come il gusto retrò di
foto e immagini in bianco e nero.
Chi ebbe la fortuna di trovarsi a Londra negli anni novanta racconta
che nei pub e nei club si ascoltavano Blur, Oasis, Stone Roses e
Kula Shaker in continuazione, che Damon Albarn, i fratelli Gallagher
e Ian Brown erano osannati come autentiche celebrità e che nell’aria
c’era la voglia di far tornare il rock made in UK agli antichi fasti. Certo
non fu cosa facile poiché oltreoceano c’erano formazioni fenomenali
quali Nirvana, R.H.C.P, Pearl Jam e Smashing Pumpkins che
stavano dilagando anche a casa nostra, già padroni indiscussi delle
classifiche di Billboard.
Ascoltando il britpop ci si rende conto che si volge le spalle a
qualsiasi evoluzione conquistata precedentemente, dall’hard rock
all’elettronica, dal glam al punk. Semplicemente si tornò alle radici
impostando ritmi semplici e melodie che lasciarono il segno. E del
resto è questo il britpop. Il più naturale processo di sviluppo musicalmediatico del genere indie britannico. Intanto per la vicinanza alla
cultura dei ’60 che tanto clamore in tutto il mondo diede alla cultura
inglese. Difatti ciascuna band divenne debitrice di quel periodo al
punto da imitarne mode e tendenze. Poi per il fatto che si riuscì ad
interrompere la breve dominazione americana iniziata nel 1989 e
conclusasi con il suicidio di Kurt Cobain nel 1994. E come dimenticare
la presenza nelle classifiche inglesi di Blur, Oasis, Suede, Pulp, ecc.
tutti nello stesso momento. A metà degli anni novanta anche realtà
meno esplicite come Bluetones e Ocean Colour Scene arrivarono
primi in classifica. Finalmente la musica indie e il rock alternativo
sembravano aver trovato il tanto agognato successo commerciale. In
questo frangente si inserisce la Creation Record di Alan McGee che
diede la grande chance ai fratelli Gallagher per poi lasciarli decollare
verso un successo planetario.
Storie incentrate su musicisti nati o trasferitisi a Londra che
condivisero medesime esperienze sociali e professionali. Tante
furono le persone che frequentarono questo mondo e ne carpirono
fascino e importanza culturale ma al tempo stesso ebbero difficoltà a
sopravviverci. È questa la via per l’autentico british style fra tradizione
britannica e UK’s Art Schools. Il banner “sesso, droga e rock’n’roll”
non esisteva più da tempo ma il britpop lo riadottò alla perfezione.
Già alla fine del 1995 però l’ideologia e i buoni propositi furono
seppelliti dalla sete di vendite. Così come le pregiate influenze degli
anni ’60 divennero semplicemente revival. E come trent’anni prima
arrivò il fattore droga, dilagante sotto forma di cocaina; ancor peggio
con l’eroina. Quest’ultima travolse diversi artisti ancor prima che
essi riuscissero ad esprimere tutto il proprio talento. Insomma gli
ingredienti per del buon rock’n’roll ci furono tutti: rivalità, dramma,
eccessi e buoni accordi. Purtroppo a partire dal 1997 questo
apparente “movimento controculturale” sembrò cominciare a perdere
di credibilità. Anche quel grande entusiasmo creatosi soltanto tre
anni prima cominciò a venir meno.
Sotto la lente d’ingrandimento la condizione del genere pop-rock in
Inghilterra tra il 1983 e il 1998 è da immaginare come un percorso
tortuoso, del tutto in salita fino al 1990, in fase di assestamento
fino al 1994, un boom generale di due anni seguito da un lento e
inevitabile declino. I protagonisti furono gruppi per lo più sconosciuti
che proliferarono nei sobborghi di città come Manchester e Liverpool,
principali poli industriali d’Inghilterra, ma anche le scozzesi Edimburgo
e Glasgow per poi via via trascinarsi fin giù alla capitale dove erano
situate le ambite case discografiche, oltre ai club di maggior pregio.
Alcune band riuscirono non senza difficoltà ad ottenere un certo
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successo, in molti casi limitato al solo territorio nazionale. Altre, al
contrario, si fecero largo a stento per poi smarrirsi strada facendo. O
semplicemente mancarono la grande chance della loro vita.
Ad ogni modo chiamatela nostalgia o rimpasto ma la formula del
britpop funzionò alla grande, almeno in tutto il Regno Unito, lasciando
strascichi importanti nella storia del pop rock, talmente lunghi da
sentirne l’eco persino a 15 anni di distanza.
Il madchester
Vera rivoluzione o semplicemente post-punk?
Il più eccitante movimento musicale europeo alla fine degli anni
ottanta? Si chiama madchester. Il termine deriva dalla fusione del
nome della città nella quale nacque, Manchester, con la parola
mad ad indicare un atteggiamento univoco e sconsiderato dei suoi
sostenitori.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Nel 1987 a Chicago iniziarono
le prime sperimentazioni con le tastiere che, di lì a poco, avrebbero
dato vita all’acid house. Questo nuovo genere musicale si diffuse
velocemente e inaspettatamente anche in Europa, dapprima nella
Ibiza dei grandi locali notturni estivi, poi nella più smodata Inghilterra,
covo di tutte le nuove tendenze. È il popolo di Manchester per
primo ad impossessarsi di tale novità musicale, accantonando
così l’entusiasmo per gli Smiths, veri e propri idoli cittadini peraltro
prossimi allo scioglimento.
A grandi linee la nuova musica dei mancuniani altro non è che la fusione
tra pop melodico d’altri tempi e la neonata acid house proveniente
dagli Stati Uniti. Ma il sound tipico possiede fondamentalmente due
ingredienti segreti: innanzitutto una base funk, intesa non come il
genere tipico americano nato a Philadelphia negli anni settanta,
quello per capirci divulgato alla perfezione dai Funkadelic. Il funk di
Manchester produce un suono sporco e crudo ma irresistibile.1 Altro
aspetto fortemente distintivo è un ritorno a melodie e accordi tipici
degli anni sessanta, specie per quanto riguarda le chitarre. C’è ad
esempio qualcosa dei kinks e dei Byrds ma anche accenni al più
attuale Johnny Marr. L’essenziale comunque era creare una musica
dai tratti psichedelici ma orecchiabile allo stesso tempo, una musica
Cfr. R. Luck, The Madchester Scene, Hertfordshire, Pocket
Essentials, 2002, p. 11.
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