Università di Verona - Seminario internazionale di

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Paolo Jedlowski
Cinema europeo, sfera pubblica e memorie autocritiche 1
1. Nell’ampio territorio evocato dal titolo del nostro convegno, vorrei disegnare oggi una
mappa molto circoscritta. Mi occuperò della memoria pubblica, e osserverò come un certo cinema
europeo inviti oggi la memoria pubblica a una torsione particolare, legata ad un atteggiamento
autocritico nei confronti del nostro passato.
La memoria pubblica non è esattamente la “memoria collettiva”. Il modo più semplice di
definirla è intenderla come la memoria della sfera pubblica. Con Habermas (1962), intendo
quest’ultima come l’ambito della vita delle moderne società democratiche al cui interno i
convincimenti dei cittadini a proposito di questioni di rilevanza collettiva si confrontano e si
influenzano reciprocamente, modificandosi man mano e contribuendo al formarsi dell’opinione
pubblica .
Per certi versi, la sfera pubblica è in se stessa memoria: non può esistere infatti come
confronto delle argomentazioni senza che i discorsi di ieri siano confrontati con quelli di oggi. Ma
essa ospita anche discorsi che riguardano in modo specifico certe rappresentazioni del passato: ed
è a questi discorsi che credo pertenga in senso stretto il nome di memoria pubblica 2.
Questa, in breve, consiste in un insieme di immagini del passato pubblicamente discusse.
Differente dalla memoria collettiva, che è propriamente la memoria di una collettività
determinata, è piuttosto un luogo di confronto delle memorie collettive dei gruppi che vivono in
seno a una società: lo spazio in cui queste dialogano proponendo certi criteri di plausibilità e di
rilevanza relativi al passato ed esponendosi alla critica che altre memorie possono esercitare 3.
1
Il testo riprende con alcune nuove elaborazioni un intervento presentato col titolo Cinema europeo e memorie
autocritiche al convegno Cultura e immagini d’Europa, Università “La Sapienza” di Roma, giugno 2010.
2
Riprendo qui Jedlowski 2007. Così come il concetto di sfera pubblica non si riferisce a ciò che è pubblico in senso
istituzionale, ma ad un ambito di comunicazione pubblico fra cittadini privati, allo stesso modo la memoria pubblica
(almeno per come io intendo il termine) non è la memoria promossa dalle istituzioni, ma è quella costituita dai discorsi
e dagli artefatti culturali riguardanti il passato che si collocano nello spazio comunicativo che sta fra le istituzioni e la
sfera propriamente privata. Concettualizzazioni parzialmente diverse della memoria pubblica sono comprese nei saggi
raccolti in Alexander et al. 2004 e in Phillips 2004; per una discussione vedi Tota 2006; vedi anche Rampazi, Tota 2007.
3
Tale confronto può vedere il prevalere di un gruppo o di un altro ma fintanto che la sfera pubblica esiste in quanto
tale favorisce comunque, almeno in linea di principio, il riconoscimento reciproco e dunque, quanto alla memoria, la
possibilità di espressione di interpretazioni del passato concorrenti fra loro. Il concetto di memoria pubblica eredita
tuttavia sia la vitalità, sia i problemi del concetto da cui deriva. Se è vero, come Habermas pensava, che la sfera
pubblica può essere colonizzata dalle sfere della politica e del mercato e asservita all’interesse di gruppi di pressione
organizzati, la memoria pubblica è esposta al medesimo rischio. E come la colonizzazione della sfera pubblica significa
la perdita da parte della società della possibilità di porre un freno al perseguimento arbitrario di interessi
particolaristici, allo stesso modo l’asservimento della memoria pubblica ad un gruppo di pressione organizzato
significa il venir meno della capacità della società nel suo insieme di riflettere sul passato. Altri problemi
corrispondono alle modifiche e agli arricchimenti che il concetto di sfera pubblica ha subito dopo le prime
formulazioni di Habermas. Nonostante sia in linea di principio una sfera inclusiva, la sfera pubblica è sempre stata,
nello stesso tempo, anche esclusiva: ai suoi albori escludeva donne e ceti popolari; oggi può escludere rifugiati,
L’enigma della memoria collettiva.
Politica, istituzioni, conflitti
The conundrum of collective memory. Politics, Institutions, Conflicts
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Così come la sfera pubblica nel corso della modernità si è spostata dai suoi luoghi fisici di
germinazione (i caffé, i salotti, i circoli cittadini) al mondo dei media, allo stesso modo la memoria
pubblica si è trasferita oggi in gran parte nel regno dell’interazione mediata. Consiste di artefatti
mediali, di prodotti culturali che circolano e si prestano a commenti, discussioni, riprese. Fra questi
prodotti rientrano quelli cinematografici.
Quanto al cinema, naturalmente può venire considerato secondo molte prospettive
diverse. Qui lo prenderò in considerazione soprattutto per la sua capacità di fungere da medium
narrativo: ovvero, come scrive Casetti (2005), come uno spazio pubblico di negoziazione fra
esperienza e rappresentazione. Le narrazioni cinematografiche circolano nella sfera pubblica e ne
sono una parte, contribuendo a dar forma ai modi in cui immaginiamo il mondo. Concorrono
all’insieme dei processi che riguardano la costruzione sociale della realtà: ma questo è vero anche
per la costruzione delle immagini del passato 4.
Ciò è particolarmente rilevante nel contesto europeo. Naturalmente, non è affatto facile
sviluppare un discorso sul cinema europeo di oggi 5. L’epoca d’oro delle sale cinematografiche è
tramontata, ma non è questo il punto (la frequenza con cui si va al cinema in Europa è ancora
notevole; d’altro canto, per quanto in concorrenza con molti altri prodotti, i film circolano e sono
visti anche in televisione, in DVD o scaricandoli da Internet). Il problema è se mai che il settanta
per cento del mercato cinematografico in Europa è occupato da film di produzione americana 6.
Della quota restante, la parte maggiore è occupata da film che non oltrepassano i propri confini
nazionali, e che dunque è difficile chiamare propriamente “europei”.
Tuttavia, vi è un certo numero di film prodotti in Europa capaci di circolare nelle sale di più
paesi europei. In Italia, nel 2007, la quota di mercato dei film di produzione europea (esclusi quelli
migranti o gruppi che comunque vengono costruiti come marginali; ciò comporta la creazione di una pluralità di sfere
pubbliche antagoniste fra loro, oppure complessi processi di negoziazione dell’accesso a una sfera pubblica che resta
comunque caratterizzata da contorni sfilacciati e da rapporti ineguali. Queste considerazioni toccano anche la
memoria pubblica: questa è uno spazio in linea di principio aperto al confronto fra le memorie di gruppi diversi, ma è
anche il terreno di ricorrenti ed espliciti tentativi di escludere alcuni, o quanto meno di costruire egemonie a proposito
delle rappresentazioni del passato legittime; come la sfera pubblica, anche la memoria pubblica così può pluralizzarsi,
o si apre a conflitti che riguardano i suoi stessi confini. D’altro canto, a fianco di argomentazioni razionali e riguardanti
questioni strettamente politiche (quelle privilegiate da Habermas nella sua prima formulazione del concetto), la sfera
pubblica ha sempre ospitato presupposti di senso e immagini del mondo che non possono essere ricondotti né alla
razionalità in senso stretto, né alla politica. La “sfera pubblica letteraria” ad esempio (che secondo lo stesso Habermas
precorse in effetti la formazione della sfera pubblica propriamente intesa) è sfera al cui interno non si confrontano
tanto argomentazioni, quanto si condividono risorse per attribuire significato all’esperienza, per immaginare il mondo,
per dar nome a emozioni; si tratta in altri termini di uno spazio di condivisione dell’immaginario. Lo stesso vale per
molti contenuti della memoria pubblica, i quali solo di rado hanno a che fare con decisioni riguardanti “che cosa è
successo”, che per loro natura sarebbero affrontabili razionalmente con i metodi della ricerca e della documentazione,
ma con conflitti di natura identitaria, valoriale, emotiva, incomponibili razionalmente, ma, se mai, negoziabili fra gli
attori nella forma di una concessione di riconoscimento reciproco. (Fra le discussioni del concetto di Habermas a cui
faccio riferimento vedi Calhoun 1992; Privitera 2001; Roberts, Crossley 2004; Affuso 2010b).
4
Nell’ampia letteratura sul tema vedi in particolare: Silverstone 1999; Jedlowski 2005 e 2009; Soncini 2008; Affuso
2010.
5
Per alcune sintesi sul cinema europeo contemporaneo: Sorlin 1991; Bono 1998; Brunetta 1999; Forbes, Street 2000;
Ezra 2004; Comand, Menarini 2006.
6
In Italia nel 2007 la percentuale era del 55%. Questi e i dati seguenti sono tratti da Annuario statistico del cinema
europeo, 2008.
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italiani) era dell’11,6%. Un dato vicino a quelli di Francia, Spagna e Germania. Si tratta di quote
oscillanti anno per anno: non sono alte ma (con l’eccezione della Gran Bretagna) non sono
neppure irrilevanti.
E’ difficile fornire una ricognizione accurata dei film prodotti in Europa che circolano
effettivamente in più paesi europei. I dati sono frammentari e non sempre di facile accesso. In
mancanza di ciò, qualche indicazione la forniscono i palmares dei festival principali: segnalano
certi film all’attenzione e, con ciò, ne favoriscono concretamente la distribuzione internazionale.
I festival di Venezia e Berlino, in verità, premiano più spesso film extra-europei
(manifestando una vocazione globale che della cultura europea è indubbiamente un aspetto). Più
orientati a premiare film europei sono il festival di Cannes e - nella veste che ha assunto a partire
dagli anni novanta - quello di Karlovy Vary (Karlsbad), nella Repubblica Ceca. Sono le mostre
cinematografiche più anziane e di maggiore prestigio. Ma specificamente deputato a segnalare
film europei è lo European Film Award, il premio attribuito dalla European Film Academy dal 1988.
Ebbene, esaminando i film premiati dalla European Film Academy e dai principali festival
europei, emerge qualcosa che al nostro tema è evidentemente connesso: gran parte di questi film
riguardano la nostra memoria.
2. Per quanto siano molto differenti sul piano formale, questi film sono in generale
accomunati da quello che si potrebbe chiamare un realismo tematico. Sembra che la lezione del
neorealismo italiano, mediata dalle diverse correnti nazionali del secondo dopoguerra, dalla
nouvelle vague al free cinema, dalla neue Welle alla nová vlna cecoslovacca, continui a contare, ed
a costituire una sorta di sfondo comune a cui la cinematografia europea fa riferimento.
Certo, concentrarsi sui temi trattati è un modo riduttivo di considerare i filmi. Ma è
significativo. Il cinema non è uno specchio della realtà: per certi versi contribuisce anzi a produrla,
rendendone disponibili certi modi di rappresentarla. Contribuisce a definire ciò che per ciascuno
finisce per essere rilevante e plausibile. Ciò che in momenti o in paesi diversi il cinema sceglie di
rappresentare (o viceversa di non rappresentare), la frequenza ed i modi in cui lo fa, sono
indicatori di ciò che la cultura di cui esso è parte ritiene degno di visibilità e, di fatto, è in grado di
vedere.
Nei film premiati dalla European Academy (ma le stesse osservazioni valgono per i film
europei premiati nei festival) sono spesso centrali le relazioni umane fra i personaggi. Sono film
spesso ambientati in città, non necessariamente ospitali ma di solito non minacciosi al modo in cui
la “cultura della paura” oggi li dipinge (a quest’ultima alcuni film, come La felicità porta fortuna di
Mike Leigh, nomination allo European Award per miglior film e migliore sceneggiatura, sembrano
anzi contrapporsi esplicitamente). Questi film raccontano storie di persone comuni, mostrano
caffè, appartamenti, luoghi di lavoro, mezzi pubblici e biciclette; vi si mangia, si beve. Si trattano
molto frequentemente quelli che potremmo chiamare i “problemi sociali”: lavoro e
disoccupazione (si pensi ai film di Ken Loach e di Cattaneo), integrazione (Cantet, Akin), aborto
(Leigh, Mungiu), giustizia (Amelio); e ancora di droghe e alcoolismo, stupri, razzismo, migrazioni e
conflitti. Ma molto spesso si tratta della memoria.
Tra i film premiati dallo European Academy Award affrontano memorie collettive
traumatiche La vita è bella di Benigni, Good Bye Lenin di Becker, Niente da nascondere e Il nastro
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bianco di Haneke, Le vite degli altri di Donnersmark. Considerando gli altri festival possiamo
aggiungere Il pianista di Polanski, L’onda di Gansel, Il segreto di Emma di Žbanić, La finestra di
fronte di Ozpetek. Considerando i premi della European Academy e i film europei premiati negli
ultimi dieci anni dai quattro festival più importanti, si tratta più di un quinto del numero di film
complessivo.
A essere messa a tema non è tanto la memoria individuale, quanto quella collettiva. E non
tanto nel senso di un’attenzione per i problemi di disorientamento o di perdita della memoria che
modernizzazione e de-tradizionalizzione provocano in genere (già ampiamente esplorata dal
cinema europeo in decenni passati), quanto in quello di un’attenzione per i processi di rimozione e
di elaborazione di passati traumatici.
Questi film si propongono come stimoli per l’elaborazione di certi passati. Il concetto di
elaborazione (di derivazione freudiana) rimanda a una modalità particolare del lavoro mnestico,
che si colloca nello spazio che ricorrentemente si apre “fra processi di rimozione e tendenze
nostalgiche” (Agazzi 2010, p. 57; vedi anche Adorno 1960). Ai meccanismi spontanei della
dimenticanza privata e a quelli deliberati della manipolazione pubblica della storia, ma anche al
gusto per la contemplazione del “come eravamo”, contrappone il confronto consapevole con il
negativo, in un processo che coincide con l’assunzione di responsabilità nei confronti del proprio
passato, anche e soprattutto per ciò che esso ha di più inquietante.
In effetti, forse più che affrontare passati traumatici, potremmo dire che questo cinema
partecipa ai processi sociali che portano definire certi passati per l’appunto come “traumatici”.
Penso qui alla definizione del “trauma culturale” fornita recentemente da alcuni sociologi. Questo
non è costituito tanto da certi eventi in se stessi, quanto dal processo collettivo che porta a
identificarli come tali. Come scrive Jeffrey Alexander,
… perché un evento traumatico assuma lo status di un trauma culturale bisogna che sia interpretato come
tale […]: è una questione di rappresentazione (Alexander et al. 2004, p. 22).
Ma le rappresentazioni collettive si elaborano negli spazi pubblici. Il cinema vi coopera.
Usando un’espressione di Gérard Namer (1987) potremmo dire che gli autori di questi film si
pongono quasi come degli “imprenditori della memoria”: minoranze attive che agiscono in vista
della presa in carico di certi passati.
3. La questione chiave è naturalmente quella dell’Olocausto. Negli elenchi che ho
considerato compare solo con La vita è bella e Il pianista. Ma se qui vi sono solo due titoli è perché
il tema ha una lunga storia. Nell’immediato dopoguerra è stato a lungo un tabù (pur con qualche
eccezione) (Gaetani 2006). Ma dalla fine degli anni sessanta il rimosso è tornato. Il cinema ha
partecipato delle stesse fasi con cui la cultura europea nel suo complesso ha affrontato il tema:
agli anni del silenzio sono seguiti quelli del ritorno del rimosso, poi la stagione delle testimonianze,
intrecciata con lo sforzo di integrare l’Olocausto nella storia d’Europa, e infine una fase che
potremmo chiamare di consolidamento e articolazione del tema (Traverso 2004 e 2006).
A trainare il processo di riconsiderazione della memoria dell’Olocausto è stata la
cinematografia tedesca della Neue Welle: i firmatari del “Manifesto di Oberhausen”, atto di nascita
del nuovo cinema tedesco, dichiaravano esplicitamente la volontà di non rimuovere più quel
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passato. Altre cinematografie vi hanno contribuito. Non posso ripercorrere qui questa storia. Ma
due elementi almeno vanno sottolineati.
Il primo è l’efficacia del cinema nella diffusione della consapevolezza del tema. E’ difficile
rendere conto del modo in cui gli italiani ricordano la persecuzione degli ebrei, per esempio, senza
fare riferimento a Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica. Più avanti, nel momento in cui i
sopravvissuti cominciavano per ragioni anagrafiche a farsi più rari, Shoah di Lanzmann ne ha
raccolto la testimonianza in modo definitivo. E se oggi i ragazzi ne sanno ancora qualcosa è forse
soprattutto per Schindler’s List (un film americano, ma in questo contesto non si può non citarlo).
Il secondo elemento consiste nella constatazione di quanto il cinema abbia accompagnato
il pubblico in quello che è forse il passaggio cruciale rispetto alla trattazione del tema. Al suo primo
riaffiorare nella coscienza collettiva, l’Olocausto è stato rappresentato come qualcosa la cui
responsabilità era invariabilmente di “altri”: i nazisti, Hitler, o genericamente “i tedeschi”. Era già
importante che il tema affiorasse, ma il male era, per così dire, espulso attraverso la sua
proiezione su qualcuno o qualcosa identificabile come esterno a “noi”. Poi le cose sono cambiate.
E’ esemplare in proposito Mr. Klein di Losey, un film del 1976, ben commentato da Elsaesser
(1996). Nella Francia occupata e collaborazionista, un non ebreo è scambiato con un ebreo che ha
il suo stesso cognome. Finisce per essere deportato anche lui. Nella scena finale, accetta la
deportazione quasi volontariamente. E
… il fatto che Klein non protesti e salga sul treno insieme con tutti gli ebrei catturati spinge lo spettatore ad
aver voglia di dire: ‘Ma avete preso l’uomo sbagliato: lui non è ebreo!’, finché con uno choc improvviso
comprendiamo che tutte le persone su quel treno sono ‘sbagliate’, e veniamo scossi dall’atto di riconoscere […] il
nostro grado di collusione e di complicità (Elsaesser, 1996, tr. it. in Minuz, 2006, p. 181.
Il tema insomma diventa quello della nostra responsabilità. L’Olocausto non è “altro”
rispetto alla nostra storia. Siamo stati “noi” a suscitarlo. Quanto meno a permetterlo. Nello stesso
momento in cui gli storici e i sociologi provavano a fare lo stesso, il cinema ha collocato l’Olocausto
nella storia d’Europa. Non come un monstrum, ma come un fenomeno iscritto nella nostra civiltà.
Con ciò ha contribuito a costituire la memoria dell’Olocausto come il nucleo di quella che
chiamerei una memoria autocritica 7. Si tratta di qualcosa di più dell’elaborazione di un passato
traumatico. Ne è piuttosto un’articolazione o un esito.
Il cinema europeo ha trattato e tratta la memoria in molti modi. Negli ultimi anni, pare di
frequente proporre una sorta di compensazione di quella che molti avvertono come una “perdita
di memoria” delle società contemporanee. Raramente compiace la “ricerca delle radici” (una
reazione molto ambigua ai processi di de-tradizionalizzazione), ma spesso lavora a ritessere i
rapporti fra presente e passato in modi che contrastano il predominio delle “memorie brevi” (si
pensi a opere che vanno dal monumentale Heimat di Edgar Reitz fino al recente Baarìa di
Tornatore). Ma la memoria autocritica si staglia in questo contesto come una memoria particolare.
Così come non corrisponde alla nostalgia, non consiste neppure semplicemente in un riannodare il
filo del tempo. E’ piuttosto l’esatto contrario della memoria autocelebrativa. E’ la memoria più
7
L’espressione è usata da Namer 1993 e ripresa fra gli altri in Jedlowski 2002 e 2009 e Grande 2009.
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scomoda. E’ quella che conserva il ricordo, per così dire, della propria “tradizione negativa”
(Siebert 1992): non di ciò di cui si può essere fieri, ma di quello di cui c’è da vergognarsi.
E, a dire il vero, non è neppure più esattamente la memoria di “traumi”: è la memoria dei
torti che la nostra civiltà è stata capace di infliggere. Il “trauma” non è l’evento in sé, ma la
scoperta attonita, non auto-assolutoria, della nostra faccia mostruosa. Non per “pentirsene” - il
che serve a poco - ma per comprenderne i meccanismi, le cause; per assumersene la
responsabilità, per l’appunto.
Personalmente direi che la memoria autocritica è il complemento necessario ad altre
forme di memoria europea: in sua assenza, è difficile che un’identità dell’Europa come luogo
“civile” possa risultare credibile, dopo le manifestazioni di inciviltà di cui siamo stati gli autori. E’
un pensiero che il cinema europeo è stato ed è capace di sollecitare, contribuendo a porre il
ricordo dell’Olocausto al cuore di quella che alcuni intravedono come la “religione civile”
dell’Europa attuale 8.
4. Oggi alcuni sono arrivati a considerare i film sull’Olocausto quasi come un “genere”, e a
parlare di una memoria “saturata” a riguardo (Robin 2003). Sono scettico rispetto a queste
espressioni. Intanto, è una memoria ancora in parte da articolare: la persecuzione e l’assassinio di
Rom e di omosessuali cominciano appena ad essere trattati (tra i film premiati, La finestra di
fronte è l’unico a ricordare la persecuzione degli omosessuali); i crimini compiuti dal fascismo
italiano sono ancora largamente taciuti. Ma, soprattutto, la questione è la conservazione di questa
memoria, la sua trasmissione intergenerazionale. Riesaminare criticamente il passato non è cosa
che si faccia una volta per tutte.
Prendiamo l’ultimo dei film premiati dalla European Academy (ma lo stesso film è stato
premiato anche a Cannes): Il nastro bianco di Haneke. E’ ambientato in un villaggio tedesco tra il
1913 e 1914. La trama ruota attorno ad alcuni strani incidenti. Ma gli incidenti rimangono oscuri.
D’altro canto, la vicenda è costellata di episodi in cui un’educazione fortemente autoritaria si
abbatte sui bambini e i ragazzi. Comporta frustate e umiliazioni in pubblico. Il nastro bianco, il
“simbolo di purezza” con cui il pastore protestante del luogo premia i suoi figli, è concesso e
ritirato in modi autoritari, non passibili di discussione. I bambini accettano tanto le regole quanto
le punizioni in silenzio; apparentemente sottomessi, sono sfuggenti. Docili davanti agli adulti,
covano sensi di colpa e ansie di liberazione, frustrazione e desiderio di esercitare a propria volta
violenza. Alla fine, lo spettatore è condotto a sospettare che siano loro gli artefici degli incidenti.
Feriscono, uccidono, esercitano tortura sul debole. Ciò che Haneke propone di riesaminare sono i
presupposti da cui il peggio del Novecento europeo ha tratto origine. Non è detto che le sue
indicazioni (l’ipocrisia, il moralismo) siano le uniche pertinenti. Ma si tratta di un’articolazione
rilevante, e ancora poco esplorata, di un orientamento autocritico verso il nostro passato.
E’ vero che nel progetto di Haneke si nasconde un aspetto problematico. Per quanto
brevemente, il punto va sottolineato. Haneke si propone infatti di esaminare non tanto le radici
culturali del nazifascismo, bensì quelle del totalitarismo (Mercier 2009). L’accento si sposta così
8
Sull’idea di una “religione civile” europea rimando a Rusconi 1999; nella discussione è particolarmente rilevante la
posizione di Habermas (vedi fra l’altro Habermas 2004); per una rassegna critica rimando a Santambrogio 2009; vedi
anche Bortolini 2009.
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dalla memoria di ciò che nazismo e fascismo hanno significato a quella, meno specifica, di ogni
progetto totalitario.
Si tratta di una modificazione rilevante nella storia della memoria autocritica. Come ha
notato Luca Baldissara commentando il recentissimo L’uomo che verrà di Giorgio Diritti
(riguardante la strage di Marzabotto), la memoria collettiva in Europa
… dopo l’89 ha spostato l’accento della rievocazione pubblica dalla celebrazione dell’antifascismo […] alla
retorica dell’antitotalitarismo, marcando come le origini delle tragedie che hanno tormentato ogni angolo del Vecchio
continente siano da individuarsi in progetti politici eguali nella loro intrinseca natura totalitaria seppur
ideologicamente antagonisti, nazismo e comunismo (Baldissara 2010, p. 360).
La critica dei totalitarismi appartiene alla memoria autocritica. Corrisponde forse anche a
un tentativo di conciliare quelle “memorie divise” che hanno segnato drammaticamente la storia
d’Europa. Del resto, certi elementi comuni a comunismo e nazismo (anche senza richiamare le
analisi approfondite di Hannah Arendt) sono evidenti. Per stare al cinema, Europa Europa di
Agniezka Holland (1991) ha mostrato in modo assai convincente quanto i progetti educativi
fossero omologhi entro i due regimi. Ma lo slittamento non è del tutto neutrale: non è questa la
sede per discuterne o per valutarlo, ma va segnalato. Il rischio è quello di fare di ogni erba un
fascio, assolvendo se stessi nella misura in cui si possono addossare colpe analoghe ad altri.
Ciascuno ha di che vergognarsi, ma credo sia un buon principio quello proposto da Brecht: “Parlino
altri della propria vergogna, io parlo della mia” (Brecht 1933, tr. it. 1971, p. 65).
5. Tra i film europei più recenti, a quello di Haneke possono venire affiancati L’onda di
Dennis Gansel e A voce alta (The Reader) di Stephen Daldry, entrambi del 2008 (il primo è stato il
“miglior film per il pubblico” agli European Awards; per il secondo Kate Winslett è stata premiata
come “miglior attrice”). Se il primo mostra in modo propriamente didattico quanto sia facile che
movimenti di stampo fascista riemergano oggi, il secondo ripropone in forme che sono capaci di
coinvolgerci ancora la domanda di come e con quali complicità l’Olocausto fu reso possibile. In
entrambi i casi a essere messa a tema è la continuità fra il passato criminale e il presente.
Ma non si tratta soltanto dell’Olocausto. Mi limiterò a un altro solo tema. Lo stesso Haneke
aveva girato nel 2004 Niente da nascondere. Nel film, un livido Daniel Auteuil impersonava un
francese perbene inseguito dai fantasmi del passato rimosso: il passato in questione era quello del
colonialismo.
Nei discorsi che circolano in Europa, sul colonialismo ci sono molti tabù. Nel cinema
italiano, con eccezioni rarissime, la memoria del colonialismo è del tutto assente. Quando sono
stati altri a sollecitarla, come in The lion of the desert (di Moustapha Akkad, 1981) che mostrava i
nostri crimini in Libia, al film è stata vietata la circolazione. A Teza, il bel film di Hailè Gerima di due
anni fa sull’Etiopia pre- e post-coloniale, gli italiani non hanno collaborato (e le recensioni sono
riuscite nell’impresa di non nominare quasi il fatto che l’Etiopia è stata una colonia italiana).
In altri paesi il tema è più presente, ma la resistenza è forte. In Francia è stato vietato a
lungo La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Rachid Bouchareb al festival di Cannes del 2010 ha
presentato Hors la loi, un film che mostra la feroce repressione da parte dei francesi dei primi moti
di indipendenza algerina; nel 2005 aveva realizzato Indigènes, che affrontava il trattamento
L’enigma della memoria collettiva.
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deplorevole dei soldati di colore nell’esercito francese durante la seconda guerra mondiale, e il
successivo oblio della loro partecipazione alla lotta. Una certa impressione questi film l’hanno
suscitata. La memoria coloniale in Francia, un paese che ha avuto a lungo estesi possedimenti
oltremare, è più marcata che in Italia; ma il giudizio sugli aspetti criminali del colonialismo è
sospeso. Temo siamo ancora, per così dire, alla fase del “ritorno del rimosso”, o a quella della
presa d’atto di un certo passato, più che a quella della sua elaborazione.
Neppure in Gran Bretagna le cose mi sembrano radicalmente diverse. Qui il problema più
esplicito (largamente trattato dal cinema) riguarda la questione irlandese. Quanto alle memorie
dell’Impero, affiorano variamente nel cinema che tratta di migrazioni, ma non mi pare si possa
parlare di un effettiva memoria autocritica. A meno di nominare Passaggio in India di Lean, del
1984, tratto dall’omonimo romanzo di Forster. Nel film, il colonialismo mette a disagio dal punta di
vista degli stessi colonizzatori: per legittimare l’aggressione infatti questi devono negare i principi a
cui si ispirano in patria.
Quella di Forster era un’autocritica a mio avviso magistrale (anche se molto cauta nello
sviluppare le conseguenze delle proprie tesi). Un magistero che mi sembra sia stato poco ripreso.
Negli elenchi di film europei premiati che ho utilizzato, il tema del colonialismo quasi non
compare. Oltre a Niente da nascondere, solo Lamerica di Amelio vi accenna (l’Albania fu occupata
dagli italiani: per il suo destino portiamo almeno una parte di responsabilità).
Eppure la questione non è irrilevante. Non discussa pubblicamente, la memoria del
colonialismo sopravvive in forme latenti. Il razzismo contemporaneo ne è erede. Quest’ultimo
prolunga i presupposti ideologici che legittimarono il colonialismo: le tassonomie razzizzanti e le
politiche di apartheid di allora, date per scontate e mai criticate radicalmente, si protraggono nelle
rappresentazioni, negli atteggiamenti e nelle norme proposte da parte degli europei riguardo a
molti migranti. Specie in Italia, dove insulti ed epiteti spregiativi, particolarmente nei confronti dei
neri, sono figli “… della pressoché assoluta ignoranza di cosa fu il nostro colonialismo. E
dell’assenza di ogni senso di colpa per il razzismo italiano fascista” (Stella 2009, p. 67).
6. Altri film degli ultimi anni, come Good Bye Lenin! o Le vite degli altri, affrontano un altro
insieme di memorie, quelle degli abitanti della cosiddetta “Europa dell’Est”. Si tratta di memorie
ancora debolmente integrate nei racconti che circolano nel complesso dei paesi europei. Questa
integrazione debole, o propriamente mancata, si impone alla riflessione. Ma si tratta di memorie
che pongono diversi problemi particolari. Ne segnalo solo uno, relativo ai rapporti con l’Olocausto.
Rischio naturalmente schematizzazioni eccessive, ma la differenza fra “Ovest” ed “Est” qui
mi sembra sia stata marcata. E’ particolarmente evidente se si confrontano i discorsi pubblici a
riguardo nelle due Germanie. Mentre nella Repubblica Federale, a partire dagli anni sessanta,
l’Olocausto si pose come punto focale di una questione di colpa e di responsabilità, nella DDR ciò
non avvenne. Riguardo alle responsabilità nei confronti della persecuzione e dello sterminio degli
ebrei d’Europa, la memoria del regime si strutturò sulla base dell’idea che il vero antagonista del
nazismo fosse stato il comunismo (del resto, e simbolicamente, è l’Armata rossa che ha liberato
Auschwitz); di conseguenza e retroattivamente, le responsabilità dei tedeschi della DDR (ma così
anche quelle degli abitanti di tutti i paesi del blocco sovietico) vennero esentate dall’indagine e di
fatto rimosse.
L’enigma della memoria collettiva.
Politica, istituzioni, conflitti
The conundrum of collective memory. Politics, Institutions, Conflicts
L’énigme de la mémoire collective. Politique, institutions, conflicts
Verona, 7 – 8 ottobre 2010
9
A parte alcune eccezioni, il tema dell’Olocausto è comparso così nelle cinematografie di
questi paesi soltanto negli ultimi anni. Ciò avviene secondo moduli narrativi analoghi a quelli già
consolidati nell’Ovest: come in My father, dell’ungherese Egidio Eronico, del 2004, dove un figlio
ha a che fare con un padre fuggito in Brasile alla fine della guerra e che forse era stato funzionario
in un campo di concentramento; o come in Senza destino di Lajos Koltai, del 2005, che ripercorre,
prendendone atto, la vicenda degli ebrei deportati da Budapest. I paesi dell’”Est” che
appartengono ora all’Unione Europea hanno istituito tutti un Giorno della memoria
corrispondente agli inviti dell’Unione stessa 9. La persecuzione e lo sterminio degli ebrei oggi
vengono ricordati pubblicamente: il cinema partecipa di questa sensibilità, ma, per l’appunto, è
una cosa recente.
Una specificità delle memorie dei paesi dell’Europa dell’“Est” è la pressione che il regime vi
ha esercitato. Non a caso la dissidenza ai regimi comunisti, quando ebbe modo di manifestarsi,
prese spesso a tema proprio i modi con cui l’autorità “ritoccava” il passato. Esemplare in
proposito, tra i film che hanno più circolato, è L’uomo di marmo di Wayda 10.
La pressione dei regimi comunisti sulle memorie è stata tale che un libro, immediatamente
a ridosso del loro crollo, potè intitolarsi Á l’Est: la mémoire retrouvée (Brossat et al. 1990). Ma non
è solo di un recupero che si è trattato. Il punto è che ogni cambio di regime pone sotto stress la
memoria degli individui mutando i quadri sociali entro cui i ricordi possono o non possono venir
collocati. Tra i film considerati riguardano questo tema, pur in modi diversi, Good-Bye Lenin e Le
vite degli altri. Ma nominerei anche A est di Bucarest del rumeno Corneliu Porumboiu, del 2006,
una straordinaria rivisitazione dei processi di attribuzione di senso al passato: in questo caso, a
proposito dei giorni della “rivoluzione” di Bucarest, ricordati dieci anni dopo nel programma di una
stazione televisiva della provincia) 11.
Non posso sviluppare oltre questi cenni. In generale, resta il problema di integrare l’Europa
“dell’Est” nei nostri discorsi e nelle nostre rappresentazioni. Abbiamo raccontato la modernità
senza tenere conto delle forme che assumeva al di là della “cortina di ferro”. Ora sappiamo che ci
sono altre storie da raccontare. Il caso tedesco è forse ancora quello più significativo. La DDR
promuoveva una memoria istituzionale rigidamente intesa a legittimare il regime, ma al fianco di
questa vi era stato spazio per memorie difformi, basate su reticoli di vita sociale parzialmente
autonomi dal controllo politico. All’atto della riunificazione della Germania, queste memorie
hanno avuto scarso riconoscimento (Grüning 2006). Per il nuovo sistema politico e attraverso i
discorsi dominanti nei media, il passato della Germania orientale ha potuto essere raccontato
soltanto in due modi: o si era stati vittime, o collaboratori. Interpretazioni rispettose della varietà,
delle ambivalenze e delle eterodossie presenti in questo passato è stata così sterilizzata.
9
Estonia, Repubblica Ceca, Lituania e Slovenia celebrano il Giorno della memoria il 27 gennaio (data dell’apertura dei
cancelli di Aushwitz) come l’Italia e la maggior parte degli altri paesi europei; Bulgaria, Lettonia, Romania, Slovacchia e
Ungheria hanno date diverse, corrispondenti a episodi legati alla persecuzione degli ebrei in ciascun paese: cfr. RI.LE.S.
2009.
10
Sulle manipolazioni della memoria Wajda è tornato recentemente con Katyn, ma si tratta di una memoria critica più
che autocritica; il film che più si avvicina all’idea di una memoria autocritica nel cinema post-comunista mi pare Il sole
ingannatore di Mikhalkov.
11
Quanto a Il segreto di Esma, premiato a Berlino, torniamo alla memoria di un trauma. Siamo nella ex-Jugoslavia,
nell’Europa post-comunista: a tornare alla luce è il ricordo di uno stupro “etnico”.
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10
Del resto, per tornare al cinema, dei paesi dell’Europa dell’“Est” vediamo pochi film.
Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, paesi dalla tradizione cinematografica ricchissima,
producono oggi meno film di quanto non facessero un tempo, ma non sono pochi. Ora si possono
vedere anche i film che il regime censurava (come nel caso di Allodole sul filo di Menzel, ad
esempio: girato ai tempi della primavera di Praga, ma distribuito - e premiato a Berlino - solo
vent’anni dopo). Ma il punto è la distribuzione. Nonostante l’attenzione di alcuni festival e di certi
mercati (specialmente quello francese), il rapporto è asimmetrico 12. Per gli occidentali, l’“Est” è
quasi solo una preda, come documenta con sobria efficacia, per chi lo vada a vedere, Mario il
mago di Tamàs Almàsi, una coproduzione italo-ungherese del 2008, dove un affascinante
imprenditore italiano sfrutta incontrollato la manodopera locale.
7. La memoria europea non è un tutto omogeneo. Non solo e non tanto perché esistono
differenze nazionali, quanto perché le memorie corrispondono a progetti di civiltà differenti.
L’idea di memoria europea che emerge dai film che ho citato è propria di certi gruppi o di
certi strati sociali. Il pubblico che li apprezza non è lo stesso che va a vedere soltanto le produzioni
più pubblicizzate delle majors o - per stare all’Italia - i film pieni di gag e di divi televisivi che si
proiettano nelle sale a Natale. E’ un pubblico urbano (o propriamente metropolitano) che, in ogni
paese, è più simile a quello che ama gli stessi film in altri paesi che al pubblico di connazionali che
a vedere questi film non ci andrebbero mai. Si tratta di un pubblico tendenzialmente cosmopolita
e colto, che non corrisponde alla totalità della popolazione 13.
L’insieme di film che ho citato come espressione di un cinema europeo rappresentano in
realtà non tanto la cultura europea, quanto una cultura europea. E’ l’idea di una cultura europea
in quanto cultura capace, fra altre cose, di proporre nella sfera pubblica una rappresentazione
autocritica del proprio passato. Non tutti la condividono. Ma le culture sono molto più dei progetti
che dei “dati” che si prestino alla registrazione. E spesso si tratta di progetti in conflitto, anche e
soprattutto in seno a una stessa società.
La letteratura sui conflitti di memorie, in Europa e nel mondo, è oggi amplissima. Ma la
memoria pubblica è un luogo di confronto: lo spazio in cui le memorie collettive di gruppi diversi si
propongono alla società nel suo insieme, proponendo le proprie selezioni degli eventi salienti e le
proprie interpretazioni a riguardo ed esponendosi alla critica che altre memorie possono
esercitare 14.
12
Nel 2007 i paesi dell’Europa centro-orientale hanno prodotto circa 150 pellicole, un decimo dei film prodotti
nell’Europa occidentale, ma hanno occupato un centesimo del mercato complessivo europeo. Vedi Annuario statistico
del cinema europeo, 2008.
13
Ovviamente gli elenchi di film su cui mi sono basato sono molto parziali. Vi sono altri film. Ed altri atteggiamenti
verso il passato. Per un discorso accurato sulla ricezione bisognerebbe considerare inoltre che i film non si vedono solo
nelle sale cinematografiche: esiste un ampio mercato dei DVD (a cui si affiancano copie pirata e film condivisi con
internet); e molti film europei sono distribuiti su canali televisivi, a pagamento e non (a riguardo, il veicolo più
importante è il canale franco-tedesco ARTE). In un discorso compiuto andrebbero del resto esaminati anche i film che
si sono occupati dell’idea di Europa in quanto tale. Come Europa di Lars von Trier per esempio (dove il passato
europeo in verità, più che oggetto di un’elaborazione possibile, si presenta come un incubo dal quale non ci si potrà
mai risvegliare), o come la trilogia di Kiezlowski (Film Blu, Film bianco, Film rosso)
14
Con ciò evidentemente non nego affatto che sia anche luogo di conflitti. Ma la negoziazione è almeno altrettanto
frequente: per un esempio paradigmatico rimando a Wagner-Pacifici, Schwartz 1991. Per fare un esempio nostrano,
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11
Perché i film lavorino alla tessitura di una memoria pubblica bisogna ovviamente che essi
circolino: che siano commentati, ripresi, si intreccino altre rappresentazioni del passato, le
interpellino. I film hanno una vocazione dialogica, ma questa deve realizzarsi concretamente nel
rapporto col pubblico.
Tra i film che ho nominato (per quanto qui l’abbia nominato solo incidentalmente) è
esemplare il caso di Heimat, il ciclo di film diretto da Reitz. Intanto, perchè la sua stessa
realizzazione costituì la risposta a film precedenti 15, e perché di fatto ha dato di luogo a
numerosissimi commenti 16. Ma soprattutto perché illustra al suo interno l’operazione a cui mira.
L’opera si apre con la figura di un reduce dalle trincee della prima guerra mondiale che non è in
grado di raccontare ciò che ha vissuto. La stessa situazione si ripete più volte: l’intero Novecento,
almeno per quanto riguarda i suoi aspetti più inquietanti o traumatici, appare come una storia che
non abbiamo saputo narrare. Ma a questa incapacità il film stesso intende supplire. Nel rapporto
che suggerisce fra i suoi destinatari e la figura del narratore interna al testo - un personaggio
marginale della stessa comunità intorno ruotano le vicende narrate, il quale si incarica ad ogni
episodio di ricostruire la trama di tutto il racconto - esso indica il modello di comunicazione cui
intende dar luogo. Alla comunità narrativa che si è spezzata nel corso del secolo propone di
sostituire la nuova comunità narrativa costituita dal film e dal suo pubblico 17.
La sfera pubblica entro cui film come questo si situano non riguarda questioni di rilevanza
collettiva che si possano intendere come immediatamente politiche (come è il caso in genere per i
discorsi che associamo al concetto di sfera pubblica): ricorda piuttosto quella che Habermas
chiamava la “sfera pubblica letteraria”, quella in cui i cittadini, piuttosto che di politica, “discutono
sulle esperienza della loro soggettività” (Habermas 1962, tr. it. 1984, p. 65). Ciò che in altre epoche
è stata la letteratura a consentire, più tardi ha potuto essere consentito dal cinema. E la memoria
pubblica cui questi film lavorano ha a che fare così più con l’elaborazione dell’esperienza che con
questioni immediatamente politiche. Consiste in un insieme di proposte testuali che si offrono ai
singoli come risorse per la rimediazione della propria esperienza, sollecitando a nuove
formulazioni le rappresentazioni del passato che ciascuno elabora nella propria sfera privata.
Ma in un’epoca come la nostra, in cui le questioni identitarie hanno enorme rilievo politico,
la capacità di elaborare la propria esperienza e di collocarla in modo non ideologico nel contesto
della storia collettiva riveste un’importanza che non va sottovalutata anche da chi è di politica che
intende occuparsi.
Elisa Soncini ha notato come nella storia del cinema italiano abbia svolto un ruolo di negoziazione e forse di equilibrio
tra memorie divise il ciclo di film dedicati a Camillo e Don Peppone (Soncini 2009).
15
Se da un lato Heimat (il cui primo ciclo esce nel 1984) si colloca al termine di un più che ventennale lavoro del
cinema tedesco volto a recuperare riflessivamente il passato, dall’altro costituisce dichiaratamente una risposta alla
miniserie televisiva americana Holocaust, la cui trasmissione in Germania, alla fine degli anni settanta, ebbe molto
rilievo.
16
Specie riguardo al primo ciclo, alcuni commenti sono stati negativi (vedi ad esempio Hansen 1985): di fatto, il
carattere autocritico della rappresentazione del passato, soprattutto riguardo alla questione centrale dell’Olocausto,
vi appare poco marcato; una valutazione del punto richiede però anche la considerazione del secondo ciclo (Die zweite
Heimat, del 1992); per una discussione rimando a Galli 2005. Presso il grande pubblico, la ricezione del film ha dato
luogo a veri e propri fenomeni di culto, sia in Germania che altrove.
17
Per la nozione di “comunità narrativa” mi permetto di rimandare a Jedlowski 2009.
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Appendice
European Film Awards - Film of the Year:
1988 - Breve film sull’uccidere, regia di Krysztof Kieslowski (Polonia, 1987)
1989 - Paesaggio nella nebbia, regia di Theo Angelopoulos (Grecia, 1988)
1990 - Porte aperte, regia di Gianni Amelio (Italia, 1989)
1991 - Riff raff, regia di Ken Loach (Gran Bretagna, 1991)
1992 - Il ladro di bambini, regia di Gianni Amelio (Italia/Francia/Svizzera/Germania, 1991)
1993 - Urga, regia di Nikita Mikhalkov (Russia/Francia, 1991)
1994 - Lamerica, regia di Gianni di Amelio (Italia/Francia, 1994)
1995 - Terra e libertà, regia di Ken Loach (Gran Bretagna/Spagna/Germania/Italia, 1995)
1996 - Le onde del destino, regia di Lars Von Trier (Danimarca/Francia/Svezia/Paesi Bassi,1996)
1997 - Full Monty, regia di Peter Cattaneo (Gran Bretagna, 1997)
1998 - La vita è bella, regia di Roberto Benigni (Italia, 1997)
1999 - Tutto su mia madre regia di Pedro Almodòvar (Spagna/Francia, 1999)
2000 - Dancer in the Dark, regia di Lars von Trier (Danimarca e altri, 2000)
2001 - Il favoloso mondo di Amélie, regia di Jean-Pierre Jaunet (Francia/Germania, 2001)
2002 - Parla con lei, regia di Pedro Almodòvar (Spagna, 2002)
2003 - Good Bye Lenin!, regia di Wolfgang Becker (Germania, 2002)
2004 - La sposa turca, regia di Fatih Akin (Germania/Turchia, 2004)
2005 - Niente da nascondere, regia di Michael Haneke (Francia/Austria/Germania/Italia, 2005)
2006 - Le vite degli altri, regia di Florian Henckel von Donnersmark (Germania, 2006)
2007 - 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, regia di Cristian Mungiu (Romania, 2007)
2008 - Gomorra, regia di Matteo Garrone (Italia, 2008)
2009 - Il nastro bianco, regia di Michael Haneke (Austria/Germania/Francia/Italia, 2009)
Altri film citati:
A est di Bucarest, regia di C. Porumboiu (Romania, 2006);
Allodole sul filo, regia di J. Menzel (Cecoslovacchia, 1990)
A voce alta, regia di Stephen Daldry (Germania, 2008);
La battaglia di Algeri, regia di G. Pontecorvo (Italia/Algeria 1966);
Baarìa, regia di G. Tornatore (Italia/Francia, 2009);
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La classe, regia di L. Cantet (Francia, 2008)
Europa, regia di L. von Trier (Dan./Francia/Germania/Svezia, 1991);
Europa Europa, regia di A. Holland (Germania/Francia, 1991);
La felicità porta fortuna, regia di M. Leigh (Gran Bretagna, 2008)
La finestra di fronte, regia di F. Özpetek (Italia/Gran Bretagna/Turchia/Portogallo, 2003);
Il giardino dei Finzi-Contini, regia di V. De Sica (Italia, 1970);
Heimat, regia di E. Reitz (RFT, 1984);
Heimat 2, regia di E. Reitz (Germania, 1992);
Heimat 3 - Cronaca di un cambiamento epocale, regia di E. Reitz (Germania, 2004);
Hors la loi, regia di R. Bouchareb (Francia, 2010);
Katyn, regia di A. Wajda (Polonia, 2007);
Indigènes, regia di R. Bouchareb (Francia/Marocco/Algeria/Belgio, 2006);
The Lion of the Desert, regia di M. Akkad (Libia/USA, 1981);
Mario il mago, regia di T. Almàsi (Italia/Ungheria, 2008);
Mr. Klein, regia di J. Losey (Francia/Italia, 1976);
My father, regia di E. Eronico (Ungheria/Italia/Brasile,2006);
Niente da nascondere, regia di M. Haneke (Francia/Austria/Germania/Italia, 2005);
Passaggio in India, regia di D. Lean (Gran Bretagna(USA, 1984);
L’onda, regia di D. Gansel (Germania, 2008);
Il pianista, regia di R. Polanski (Francia/Polonia, Germania/Gran Bretagna, 2002);
Schindler’s List, regia di S. Spielberg (USA, 1993);
Il segreto di Esma, regia di J. Žbanić (Bosnia-Erzegovina, 2006);
Senza destino, regia di L. Koltai (Ungheria/Germania/Gran Bretagna, 2005);
Shoah, regia di C. Lanzmann (Francia, 1985);
Il sole ingannatore, regia di N. Mikalkov (Russia/Francia, 1994);
Teza, regia di H. Gerima (Germania, Etiopia, Francia, 2008);
Tre colori: Film bianco, regia di K. Kieslowski (Francia(Polonia/Svizzera, 1994);
Tre colori: film blu, regia di K. Kieslowski (Francia/Gran Bretagna/Polonia/Svizzera, 1993);
Tre colori: film rosso, regia di K. Kieslowski (Francia(Polonia/Svizzera, 1994);
L’uomo che verrà, regia di G. Diritti (Italia, 2009);
L’uomo di marmo, regia di A. Wajda (Polonia, 1977).
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