Aspetti contabili e fiscali dell’operazione di cessione, di conferimento e di scissione nel concordato in continuità di Giulio Andreani PARTE PRIMA: premessa generale sulla tassazione delle plusvalenze ................... 3 1. L’esclusione dell’imponibilità delle plusvalenze nel concordato con cessio bonorum ........................................................................................................................ 3 1.1. L’interpretazione restrittiva della norma ...........................................................5 1.2. L’interpretazione logica della norma ................................................................6 2. La ratio dell’inapplicabilità dell’art. 86, comma 5, del Tuir al concordato con garanzia e alle altre forme di concordato.................................................................... 8 3. Il trattamento ai fini delle imposte dirette delle plusvalenze negli accordi di ristrutturazione del debito omologati ex art. 182-bis L.F. ............................................ 9 4. Il trattamento ai fini dell’Irap delle plusvalenze nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione ............................................................................................. 9 4.1. Brevi considerazioni sui criteri di determinazione della base imponibile Irap ...................................................................................................................... 10 4.2. La disciplina generale riservata alle plusvalenze e alle minusvalenze relative ai beni strumentali ...............................................................................................11 4.3. Le plusvalenze nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione del debito omologati ex art. 182-bis L.F. ............................................................12 PARTE SECONDA: il regime fiscale ordinario delle operazioni di cessione, conferimento e scissione ............................................................................................... 15 1. La cessione e il conferimento di azienda…...……………………………………. .15 1.1. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il cedente ........................................................................................................................ 15 1.1.1. Tassazione ordinaria ....................................................................................15 1.1.2. Tassazione rateizzata ...................................................................................16 1.1.3. Tassazione separata .....................................................................................16 1.2. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il cessionario .................................................................................................................. 17 1.3. Il conferimento di azienda ai fini delle imposte sui redditi .................................. 17 1.3.1. Il regime sospensivo dei conferimenti d’azienda (art. 176) .........................18 1.3.1.1.Riconoscimento fiscale dei maggiori valori ...................................18 1.4. L’imposta regionale sulle attività produttive nella cessione e nel conferimento di azienda ........................................................................................................................ 20 1.5. L’imposta sul valore aggiunto nella cessione e nel conferimento di azienda ...... 20 1.6. L’imposizione indiretta nella cessione e nel conferimento di azienda ................. 21 1.7. La responsabilità per i debiti tributari .................................................................. 22 2. La scissione……………………………………………………………………….. 23 2.1 La scissione ai fini delle imposte sui redditi.......................................................... 23 2.1.1. La neutralità fiscale della scissione .............................................................23 2.1.2. Trattamento fiscale delle “differenze di scissione” .....................................24 2.1.2.1. Disavanzo di scissione…………………………………………………24 2.1.2.2. Avanzo di scissione……………..………………………………………25 2.1.3. Decorrenza degli effetti tributari .................................................................26 2.1.4. Interruzione del periodo d’imposta e obblighi dichiarativi .........................26 1 2.1.5. Subentro nelle posizioni soggettive della società scissa ..............................26 2.1.6. Riserve in sospensione d’imposta.................................................................27 2.1.6.1. Riserve in sospensione d'imposta tassabili solo in caso di distribuzione.…28 2.1.6.2. Riserve in sospensione d'imposta tassabili anche in ipotesi diverse dalla distribuzione…………………………………………………………………………… 28 2.1.7. Riporto delle perdite fiscali ..........................................................................29 2.2. Le imposte indirette nella scissione ...................................................................... 30 2.3. la responsabilità per i debiti tributari .................................................................... 30 3. Possibili profili elusivi delle operazioni straordinarie ............................................. 31 3.1. Premessa ............................................................................................................... 31 3.2. Il campo di applicazione della norma antielusiva prevista dall’art. 37 bis del D.P.R. 600/1973: le fattispecie .............................................................................. 32 3.3. I presupposti per l’applicazione dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973: elementi oggettivi e di scopo ................................................................................................ 34 3.3.1. Conseguimento di un vantaggio tributario altrimenti indebito....................34 3.3.2. Aggiramento di obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario.......35 3.3.3. Assenza di valide ragioni economiche .........................................................35 3.4. I tributi cui si applica l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 ....................................36 3.5. L’interpello disapplicativo previsto dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973.........38 3.6. Il principio di abuso del diritto elaborato dalla recente giurisprudenza comunitaria e domestica ......................................................................................................... 39 3.7. L’applicazione delle norme elusive e del principio dell’abuso del diritto al conferimento di azienda...................................................................................... 43 PARTE TERZA: il regime contabile delle operazioni di cessione, conferimento e scissione ......................................................................................................................... 46 1. Il bilancio straordinario relativo alla cessione di azienda........................................ 46 2. Il bilancio nel conferimento di azienda ................................................................... 49 3. Il bilancio di apertura della società conferitaria ...................................................... 55 4. Il bilancio di chiusura della società scissa ............................................................... 58 5. Il bilancio di apertura delle beneficiarie .................................................................. 58 2 PARTE PRIMA: premessa generale sulla tassazione delle plusvalenze La disciplina fiscale delle operazioni straordinarie (cessione, conferimento, fusione, scissione, trasformazione e liquidazione) è differentemente articolata a seconda che riguardi «operazioni sui beni», che hanno a oggetto i beni dell’impresa, oppure «operazioni sui soggetti», che attengono non ai beni dell’impresa, ma all’ente (cioè al soggetto) titolare di tali beni. Le operazioni sui beni comportano – in genere – modifiche ai valori fiscalmente riconosciuti e conseguentemente il manifestarsi di componenti positivi e negativi di reddito, giacché con esse si dà atto a uno scambio di beni, in cui è possibile riconoscere la figura del tradens e quella dell’accipiens. Al contrario, le operazioni sui soggetti escludono modifiche ai precedenti valori fiscalmente riconosciuti ai beni dell’impresa, in quanto, non incidendo su detti beni, non comportano alcuna sostituzione nel patrimonio dell’impresa e consentono di norma di mantenere la continuità nei valori fiscalmente riconosciuti. Con le operazioni sui soggetti, quindi, non si realizza alcuno degli eventi cui la legislazione tributaria ricollega la rilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze latenti tanto in capo ai singoli beni sociali quanto in capo all’azienda nel suo complesso, per il che la disciplina di tali operazioni è caratterizzata dal principio della «neutralità fiscale», atteso che queste – in quanto estranee alla gestione ordinaria – non sono considerate idonee a generare reddito, essendo finalizzate alla mera riorganizzazione dell’attività d’impresa. Ciò posto, le cessioni di azienda (come le liquidazioni) ricadono inequivocabilmente tra le «operazioni sui beni», dando luogo a un effettivo scambio; il regime fiscale dei conferimenti di azienda, invece, è caratterizzato oggi dal principio di neutralità fiscale, connesso a quello di “simmetria dei valori fiscali”, così come la fusione, la scissione e la trasformazione, che danno luogo, invece, a «operazioni sui soggetti». Tuttavia, quando le «operazioni sui beni» sono poste in essere nell’ambito di una procedura di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis L.F., la ordinaria disciplina fiscale degli istituti menzionati è influenzata da norme speciali, che regolamentano il trattamento impositivo delle plusvalenze generate in tale ambito. Peraltro, quanto al regime concernente la determinazione del reddito d’impresa, a differenza di quanto accade per l’impresa assoggettata al fallimento, la disciplina cui soggiace in generale l’impresa ammessa alla procedura del concordato preventivo resta – a prescindere dalle previsioni del piano concordatario – quella ordinaria, regolamentata dagli artt. 83 e ss. del Tuir. Ne discende che al reddito d’impresa maturato durante la procedura concordataria si applica – in astratto – anche la normativa sulle plusvalenze sancita dall’art. 86, comma 1, del Testo Unico delle imposte sui redditi (Tuir), ai sensi del quale le plusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli costituenti “beni-merce”, «concorrono a formare il reddito: a) se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso; b) se sono realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento dei beni; c) se i beni vengono assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa». Tale regime tuttavia è derogato, in caso di concordato preventivo con cessione dei beni, dal comma 5 del medesimo art. 86, come si è detto poc’anzi e come sarà meglio illustrato qui di seguito. 1. L’esclusione dell’imponibilità delle plusvalenze nel concordato con cessio bonorum 3 Prima della emanazione del Tuir, il tema della tassazione delle plusvalenze realizzate nel corso dell’esecuzione del concordato preventivo, con prevalente riferimento a quello per cessione dei beni, era stato assai dibattuto, anche se da più parti veniva negata l’imponibilità di tali plusvalenze, dubitandosi dell’esistenza di un’effettiva capacità contributiva nell’ambito di una procedura che comporta, da un lato, la spoliazione del debitore di tutti i suoi beni e, dall’altro, non consente ai creditori di recuperare interamente i loro crediti. La querelle fu definitivamente risolta con l’introduzione nell’art. 54, comma 6, del Tuir (ora art. 86, comma 5) di una nuova fattispecie di esclusione da imposizione, essendo stato espressamente stabilito che ai fini delle imposte sui redditi «la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e al valore di avviamento». Questa previsione non era contenuta nell’originario schema di testo unico portato all’esame della Commissione parlamentare dei trenta, presieduta dall’Onorevole Usellini, tant’è che non se ne trova traccia nella relativa relazione ministeriale. Essa fu inserita solo in occasione della stesura definitiva del decreto, nell’art. 125 (ora art. 183), comma 5, del Tuir, nell’ambito, quindi, della disciplina del reddito d’impresa nei casi fallimento e di liquidazione coatta amministrativa. La collocazione inizialmente prescelta destò subito alcune perplessità in ordine alla reale modalità di tassazione del reddito d’impresa imponibile maturato durante la procedura di concordato preventivo e, segnatamente, alla possibilità di applicare a tale reddito la medesima disciplina prevista per i casi di fallimento e liquidazione coatta amministrativa. Ciò proprio alla luce del parere rilasciato dalla commissione parlamentare, che, con specifico riguardo al succitato art. 125, aveva invitato il legislatore a «estendere l’applicazione di tali norme (ovverosia di quelle in tema di fallimento e liquidazione coatta amministrativa, n.d.a.) anche alla liquidazione a seguito di concordato preventivo con cessione dei beni». Solo con il D.P.R. n. 42 del 4 febbraio 1988 la disposizione in commento fu spostata nell’art. 54, comma 6, nell’ambito della disciplina generale delle plusvalenze, così facendo venire meno le perplessità di cui sopra e chiarendo che il reddito d’impresa maturato in sede di concordato preventivo resta – in linea generale – assoggettato alla disciplina ordinaria, fatta salva la ricorrenza di disposizioni speciali, quali quella contenuta nell’art. 88, comma 4, e, per l’appunto, nell’art. 86 (ex 54), comma 5, del Tuir. Sebbene lo spostamento della norma abbia contribuito a eliminare i dubbi interpretativi in ordine alle modalità di tassazione del reddito conseguito nell’ambito della procedura di concordato preventivo, ancora oggi la formulazione della norma in commento continua a risultare di difficile interpretazione. Peraltro, a tale attività esegetica non contribuisce l’esame degli atti parlamentari, non essendovi traccia della disposizione in commento né nella relazione ministeriale né nel parere rilasciato dalla Commissione dei trenta; il che ha portato in dottrina ad affermare che «la stessa è, per così dire “sbucata” fuori all’improvviso nel testo definitivo, sicché delle ragioni della sua introduzione non abbiamo alcun chiarimento in alcun documento ufficiale». Ciò nonostante, in linea di principio dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la finalità della norma può essere astrattamente individuata nella volontà del legislatore, da un lato, di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che, sebbene successivo alla procedura stessa, secondo l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto gravare sulla medesima; dall’altro, di impedire che, in capo a un soggetto che ha subito lo “spossessamento” dell’intero 4 patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo per effetto del predetto spossessamento. La ratio della disposizione testé citata sembra, quindi, riecheggiare quella posta a fondamento della previsione contenuta nell’art. 88, comma 4, del Tuir, secondo cui non si considera sopravvenienza attiva la riduzione dei debiti in sede di concordato preventivo. Infatti, il legislatore del Tuir ha disciplinato il reddito d’impresa in pendenza del concordato preventivo nell’ottica di alleggerire il peso degli oneri fiscali gravanti sulla procedura concorsuale, in considerazione della sostanziale “incapacità contributiva” che caratterizza l’impresa in stato di dissesto. In questo senso, si comprende come, per espressa previsione normativa, l’esclusione da imponibilità si applichi non solo ai beni strumentali, ma anche alle rimanenze di magazzino e all’avviamento, presupponendo la cessione in blocco dell’intero complesso aziendale (che, come noto, dà luogo all’emersione di un’unica plusvalenza o minusvalenza, a prescindere dalla presenza nel complesso aziendale di beni da cui originano ricavi). Ciò premesso, almeno sul piano letterale la norma de qua sembra subordinare l’intassabilità delle plusvalenze a un’operazione, la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo, che di regola non è idonea a generare plusvalenze, dato che non ha come effetto il trasferimento della proprietà sui beni ceduti in capo ai creditori. Secondo l’orientamento che trova ampia e consolidata conferma in giurisprudenza, infatti, la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo, sia che avvenga pro-solvendo sia che si realizzi pro-soluto, deve essere inquadrata nell’istituto privatistico disciplinato dagli artt. 1977 e ss del c.c. Pertanto, in base a quest’ultima norma, la cessione dei beni ai creditori non produce il trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale avente a oggetto tali beni) e la conseguente immediata liberazione del debitore, ma l’attribuzione agli organi della procedura della legittimazione a disporre dei beni medesimi, consistendo essa in un mandato irrevocabile (in rem propria) conferito a terzi (i creditori), anche nel loro interesse, a gestire e a liquidare il patrimonio ceduto. Dunque, se con la disposizione de qua – aderendo rigorosamente al dato letterale – il legislatore avesse voluto affermare che la cessione dei beni ai creditori non è di per sé atta a generare plusvalenze, la norma sarebbe del tutto inutile e pleonastica. 1.1. L’interpretazione restrittiva della norma In proposito, con la relazione sull’attività di accertamento espletata nel corso dell’anno 1994 il Secit aderì a un’interpretazione strettamente letterale della norma in commento, ritenendo che l’art. 54, comma 6, del Tuir escludesse dal concorso alla formazione del reddito imponibile soltanto le cessioni dei beni ai creditori. Per giustificare la propria conclusione, il menzionato organo ispettivo evidenziò come il legislatore avesse usato la medesima formulazione utilizzata per gli artt. 122, 123 e 123bis (ora, rispettivamente artt. 170, 172 e 173) del Tuir relativamente alle plusvalenze realizzate nell’ambito delle operazioni di finanza straordinaria. Secondo il Secit, l’utilizzo della medesima locuzione sarebbe stata esplicativa della volontà di dettare una disciplina simile sotto il profilo sostanziale. Quindi, dato che i citati articoli intendevano chiarire l’irrilevanza degli eventi giuridici ivi previsti agli effetti dell’emersione di fattispecie imponibili, il comma 6 dell’art. 54 avrebbe dovuto essere interpretato nel senso che (solo) la cessione dei beni ai creditori costituisce atto non idoneo a far emergere plusvalenze (e non qualsiasi, generica cessione a terzi), tanto più - si potrebbe aggiungere - che le menzionate fattispecie (trasformazione, fusione e scissione) sono 5 come la “cessione dei beni ai creditori”. Seguendo questa impostazione, pertanto, la tassazione non si sarebbe dovuta ritenere esclusa, ma originata dal successivo verificarsi di uno degli eventi di cui all’art. 54 (ora art. 86), comma 1, del Tuir e tipicamente alla vendita dei beni a terzi da parte del liquidatore giudiziale. Secondo il Secit, l’interpretazione proposta sarebbe avallata anche da ragioni di carattere logico-sistematico. A dire dell’organo ispettivo, infatti, il meccanismo impositivo previsto per il fallimento dall’art. 125 (ora art. 183) del Tuir non potrebbe applicarsi al concordato preventivo, perché una qualsiasi assimilazione tra le due normative dovrebbe essere esclusa alla luce del fatto che il legislatore ha collocato nell’art. 54 comma 6 la disciplina delle plusvalenze nel concordato (originariamente inserita – come detto – nell’art.125, comma 5 del Tuir). Inoltre, l’adesione alla tesi più favorevole al contribuente implicherebbe che i terzi acquirenti – per converso – dovrebbero acquisire i relativi beni a un valore fiscale corrispondentemente inferiore al costo di acquisto. 1.2. L’interpretazione logica della norma Ci sembra, tuttavia, che sussistano diversi motivi per respingere l’interpretazione fornita sul punto dal Secit. Infatti, seguendo il ragionamento dell’organo ispettivo, nell’introdurre tale norma il legislatore del Tuir non sarebbe intervenuto per risolvere il problema della tassabilità delle plusvalenze realizzate nel corso del concordato, ma solo per sottolineare che l’omologazione del concordato preventivo con cessione di beni non produce alcuna plusvalenza tassabile; il che era considerato del tutto pacifico in dottrina e in giurisprudenza già prima dell’introduzione del Tuir; dal che discenderebbe che la norma sarebbe stata inserita senza fornire alcuna utilità, per di più dopo un’annosa querelle. La tesi del Secit non è stata condivisa dalla Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 5112 del 4 giugno 1996, ha ritenuto con un apprezzabile iter argomentativo che «malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa (il novellato comma 6 dell’art. 54 del Tuir, n.d.a.) riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti effettuato in esecuzione della proposta di concordato». La Suprema Corte – in linea con l’orientamento della dottrina – ha affermato che la cessione dei beni ai creditori, quale particolare modo di attuazione del concordato preventivo, non determina il trasferimento della proprietà dei beni ceduti, ma soltanto l’attribuzione, in favore degli organi della procedura concordataria, della legittimazione a disporre degli stessi e a provvedere alla loro liquidazione, al fine di realizzare il soddisfacimento dei creditori nella misura indicata dalla proposta omologata. Quindi, secondo il Supremo Collegio, l’art. 54, comma 6 (ora art. 86 comma 5) del Tuir deve essere letto in combinato disposto con le fattispecie idonee a generare una plusvalenza individuate nel comma 1, lett. da a) a c), del medesimo articolo. Al riguardo, dovendosi escludere per evidenti motivi le ipotesi sub b) e c) (in quanto del tutto estranee al caso concordato preventivo), la cessione concordataria dei beni ai creditori non può essere ricondotta neppure all’ipotesi sub lett. a), poiché la cessione a titolo oneroso implica l’alienazione del bene e quindi un effetto che, per effetto della formulazione della proposta di concordato e della sua approvazione, non si realizza, dato che la titolarità dei beni rimane in capo al debitore; con la conseguenza che il novellato regime tributario non può intendersi rivolto all’offerta dei beni ai creditori in sede di concordato, ma al trasferimento degli stessi a soggetti terzi da parte degli organi giudiziali. 6 I giudici di legittimità hanno fondato il proprio convincimento anche sulla base degli atti parlamentari, benché ivi non sia rinvenibile un preciso e diretto riferimento alla disposizione così come inserita nel testo unico, ma – come dianzi riferito – un’indicazione di ordine generale sulla disciplina fiscale da riservare al reddito d’impresa conseguito in sede di concordato preventivo. In questa prospettiva la Cassazione ha constatato quanto segue: «Dall’esame dei lavori preparatori (e, in particolare dal parere della Commissione dei trenta sullo schema del Testo unico) si ricava che l’obiettivo che si intendeva raggiungere con la disposizione in esame era proprio quello di ridurre l’onere “fiscale” delle operazioni compiute nel corso della liquidazione concordataria. E questo conferma che, malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti effettuato in esecuzione della proposta di concordato. Né è da credere che, così interpretando la norma in esame, si vengano a operare ingiustificate discriminazioni rispetto alla liquidazione volontaria e a quella fallimentare». Successivamente anche l’Amministrazione finanziaria (cfr. risoluzione n. n. 29/E del 1° marzo 2004), sposando le argomentazioni esposte dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza n. 5112/1996 e già condivise dalla dottrina, disattendendo il parere del Secit, ha affermato che «l’agevolazione tributaria concessa dalla predetta disposizione ha a oggetto non solo la «cessione dei beni ai creditori», ma anche le vendite dei beni ceduti, effettuate (nei confronti di terzi) dal commissario giudiziale al fine di ricavare i mezzi liquidi necessari per soddisfare i creditori». Ne consegue che «la parte dell’utile di esercizio corrispondente alla plusvalenza conseguita a fronte della cessione dei beni (immobili) effettuata dalla Società ….. non configura componente reddituale imponibile ai fini dell’imposizione diretta». Risulta quindi ormai pacifico che la norma di cui trattasi debba trovare piena applicazione anche con riguardo alle vendite dei beni a terzi, effettuate in esecuzione della proposta di concordato, in quanto il dato letterale della norma confligge con la finalità sottesa alla sua adozione, che è quella di escludere la tassazione delle plusvalenze conseguite in dipendenza di tali vendite, non potendo queste essere imputate a un imprenditore che è ormai spogliato del possesso di tutti i suoi beni ceduti e quindi anche della disponibilità dello stesso reddito generato da dette plusvalenze. In conclusione, alla luce della relativa ratio, la disposizione de qua viene (condivisibilmente) letta nel senso che l’evento, individuato dal legislatore come inidoneo a generare plusvalenze imponibili, è in realtà rappresentato dalla vendita a terzi dei beni ceduti in sede di concordato con cessio bonorum. Infatti, la norma in esame acquisisce un effettivo valore normativo solo ove si superi il dato letterale e si ritenga che essa non sia circoscritta all’offerta dei beni ai creditori isolatamente considerata, ma ricomprenda l’intera vicenda che con tale cessione si apre, e quindi tutti gli atti di realizzo dei cespiti attuati dal liquidatore incaricato dai creditori cessionari. Ciò posto, occorre chiedersi se il regime di non imponibilità previsto dal citato art. 86, comma 5, possa trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la procedura concorsuale, dopo che i creditori sono stati soddisfatti nella misura stabilita dalla proposta concordataria, si concluda con un residuo attivo. Specificamente, la questione concerne la tassabilità delle plusvalenze emergenti dalla liquidazione dei beni attuata in esecuzione del concordato, anche relativamente alla parte di reddito da esse generato che eventualmente residui dopo il pagamento delle spese di giustizia e dei creditori. Secondo una parte della dottrina, invero minoritaria, la non imponibilità delle plusvalenze di cui all’art. 86, comma 5, del Tuir sarebbe giustificata solamente quando 7 la cessione dei beni opera quale mezzo diretto al soddisfacimento dei creditori. Pertanto, nel caso in cui dalla liquidazione dei beni dell’impresa, finalizzata a soddisfare i creditori nella misura prevista dalla proposta concordataria, discenda la realizzazione di un residuo attivo, la disposizione in esame non si renderebbe in alcun modo applicabile, nemmeno alla quota della plusvalenza utilizzata per soddisfare i creditori. Un diverso orientamento sostiene, invece, la intassabilità integrale delle plusvalenze realizzate in esecuzione della procedura concordataria, anche nel caso in cui questa termini con un residuo attivo. Ciò in considerazione del fatto che, in base alla regola ermeneutica per cui ubi lex voluit dixit, il legislatore avrebbe intenzionalmente inteso non assoggettare a tassazione anche l’eventuale residuo attivo, sancendo un regime fiscale differente rispetto a quello previsto per la procedura fallimentare. Infine, secondo una terza tesi, la intassabilità del residuo attivo risulterebbe in contrasto con la ratio legis, poiché la finalità dell’art. 86, comma 5 del Tuir è quella di non assoggettare a imposizione le plusvalenze realizzate nel corso della procedura concorsuale limitatamente alla parte preordinata a soddisfare i creditori. Pertanto, l’esclusione da imposizione del residuo attivo non troverebbe alcuna giustificazione, anzi contrasterebbe con quanto previsto in casi analoghi e, in particolare, con riguardo al fallimento. Non si vede, infatti, la ragione per cui il legislatore avrebbe dovuto sancire l’imposizione dell’eventuale residuo attivo maturato nel corso del periodo fallimentare e prevedere invece la completa detassazione del surplus (inteso quale differenza tra corrispettivi di cessione e debiti soddisfatti) conseguito nell’ambito del concordato preventivo con cessione dei beni. Nonostante il tenore letterale della norma, in base al quale non sembrerebbero sussistere margini per ritenere inapplicabile l’esclusione di cui all’attuale art. 86, comma 5, del Tuir anche alle plusvalenze che concorrono al superamento del deficit concordatario e che vengono devolute alla società dopo la chiusura della procedura, è nostra opinione che l’eventuale residuo attivo concorra alla formazione del reddito, atteso che in relazione a esso non si genera alcun spossessamento e non è configurabile quindi il presupposto che giustifica l’esclusione dalla tassazione delle plusvalenze de quibus né l’imposizione che ne deriva costituisce ostacolo all’esecuzione del concordato. 2. La ratio dell’inapplicabilità dell’art. 86, comma 5, del Tuir al concordato con garanzia e alle altre forme di concordato Precisata la portata della previsione legislativa di cui all’art. 86, comma 5, del Tuir con riguardo alle plusvalenze realizzate nel corso del concordato preventivo con cessione dei beni, occorre chiedersi quali siano i riflessi della predetta norma con riguardo al concordato con garanzia. Non pare possibile estendere il regime previsto dal citato art. 86, comma 5 anche a forme diverse dal concordato con cessione di beni, giacché lo impediscono sia la lettera sia la ratio della norma. Sotto il profilo letterale, la norma contiene un esplicito riferimento esclusivamente a quest’ultimo tipo di concordato. Quanto all’aspetto teleologico, nei concordati eseguiti secondo modalità diverse da quella della cessione integrale dei beni non si produce l’effetto dello spossessamento che costituisce proprio il presupposto dell’esclusione delle plusvalenze dalla tassazione prevista dalla norma di cui trattasi. Quindi, la suddetta estensione del campo di applicazione della norma di cui trattasi non pare consentita, per il che, in tali ipotesi, il conseguimento di plusvalenze – verificandosi nell’ambito dell’ordinaria attività produttiva – risulta imponibile secondo le ordinarie regole di determinazione del reddito d’impresa. 8 Le medesime conclusioni possono essere estese alle nuove forme di concordato preventivo ammesse dall’art. 160 L.F., quale risultante dopo la riforma che ha recentemente interessato tale procedura. In particolare, la nuova disciplina svincola il debitore dalla necessità di cedere l’intero suo patrimonio e quindi riconosce la possibilità, per l’imprenditore in crisi, di cedere una parte soltanto dei suoi beni (per esempio, quelli non funzionali alla prosecuzione dell’attività d’impresa, o quelli facenti parte di uno o più rami d’azienda). Sul punto è stato sostenuto che ogni soluzione della crisi d’impresa che travalichi lo schema classico della cessione dei beni ai creditori non rientra nell’ambito previsto dall’art. 86, comma 5, del Tuir. Questa conclusione ci sembra condivisibile, perché, anche nel concordato con cessione parziale dei beni, l’imprenditore non subisce un vero e proprio spossessamento e quindi viene meno la fattispecie che giustifica l’esclusione della tassazione delle plusvalenze (quanto meno fino a concorrenza del valore delle “attività non cedute”); tuttavia - in applicazione del principio di capacità contributiva - l’imponibile non può eccedere l’ammontare del patrimonio conservato dall’impresa. 3. Il trattamento ai fini delle imposte dirette delle plusvalenze negli accordi di ristrutturazione del debito omologati ex art. 182-bis L.F. Dato che il legislatore ha stabilito – all’art. 86, comma 5, del Tuir – l’esclusione dal pagamento delle imposte dirette solo per le plusvalenze realizzate nell’ambito del concordato preventivo con cessio bonorum, occorre verificare l’applicabilità di tale disposizione anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti. La effettiva natura giuridica dell’accordo produce rilevanti riflessi fiscali. In particolare, laddove gli accordi di ristrutturazione previsti dall’art. 182-bis della legge fallimentare fossero da qualificare come una particolare forma di concordato preventivo, le plusvalenze realizzate a seguito della cessione dei beni eventualmente prevista dall’accordo di ristrutturazione, sarebbero non imponibili ai fini delle imposte sui redditi, rientrando nella previsione contenuta nell’art. 86, comma 5, del Tuir; in caso contrario, esse sarebbero da considerare imponibili ai fini delle imposte sui redditi secondo le regole generali. Tuttavia, ad avviso di chi scrive dovrebbe fare comunque eccezione l’accordo di ristrutturazione eseguito mediante l’integrale cessione dei beni ai creditori. In questa particolare ipotesi, infatti, il debitore consegue il medesimo effetto che potrebbe ottenere attraverso la procedura concordataria, senza però doverne subire i relativi costi. Stante la medesima finalità dei due procedimenti e differendo essi, sostanzialmente, nel momento dell’acquisizione del consenso dei creditori (che nell’accordo di ristrutturazione precede la fase prettamente giudiziale, mentre nel concordato preventivo interviene durante detta fase), si dovrebbe ritenere applicabile anche a questa particolare fattispecie il medesimo regime fiscale, stante la perfetta identità di ratio. 4. Il trattamento ai fini dell’Irap delle plusvalenze nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione Le considerazioni espresse nei precedenti paragrafi sono rivolte esclusivamente alla disciplina delle imposte sui redditi. Diverse considerazioni devono invece essere svolte con riguardo all’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) disciplinata dal D.Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997. 9 4.1. Brevi considerazioni sui criteri di determinazione della base imponibile Irap Invero, fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2007, l’art. 11- bis del D.Lgs. 446/1997 stabiliva espressamente che i componenti positivi e negativi, che concorrono alla formazione del valore della produzione, «si assumono apportando a essi le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini delle imposte sui redditi». Per effetto di tale norma, quindi, la detassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessio bonorum in sede concordataria trovava diretta applicazione anche in sede di determinazione della base imponibile Irap. Nell’ambito del regime fiscale previgente alle modifiche apportate dalla L. n. 244/2007, l’irrilevanza ai fini dell’Irap delle plusvalenze realizzate nell’ambito del concordato preventivo con cessione dei beni era stata affermata in via interpretativa anche dall’Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 29/E del 1° marzo 2004. A tale riguardo, l’Amministrazione aveva fondato tale irrilevanza non sulla base della diretta applicazione ai fini Irap delle disposizioni dettate ai fini Ires (come peraltro giustamente ventilato dall’istante), ma sulla natura straordinaria dei componenti economici in commento che, non derivando dall’esercizio della normale attività produttiva dell’impresa, dovevano considerarsi esclusi dal valore della produzione imponibile ai fini Irap (questa affermazione, con tutta evidenza, non teneva conto del fatto che rispetto alla versione originaria della disciplina Irap, da un lato era stata prevista la rilevanza fiscale “in ogni caso” delle plusvalenze e minusvalenze relative ai beni strumenti e, dall’altro, era stato introdotto - dal 15 gennaio 2000 - il cosiddetto “principio di correlazione”). Ad ogni buon conto, questo assetto aveva tuttavia cagionato non poche difficoltà nell’applicazione del tributo, dovute alla contemporanea operatività delle disposizioni in materia di bilancio, in materia di reddito d’impresa e in materia di Irap (cosiddetto “terzo binario”). Con la Legge n. 244 del 24 dicembre 2007 il legislatore ha quindi ritenuto di modificare radicalmente le regole di determinazione della base imponibile, abrogando l’art. 11bis sopra richiamato allo scopo di rafforzarne la derivazione dai dati di bilancio e di semplificarne il meccanismo di calcolo. Segnatamente, a seguito delle modifiche apportate dalla legge testé citata le disposizioni in tema di reddito d’impresa non assumono più rilevanza agli effetti della determinazione dell’Irap, che dipende unicamente dalla norme contenute nel D.Lgs. 446/1997, senza prevedere alcun rinvio al Tuir. Con specifico riferimento alle imprese industriali e commerciali, che redigono il conto economico secondo lo schema legale delineato nell’art. 2425 del codice civile, il risultato contabile di partenza è dato dal primo risultato parziale del conto economico, rappresentato dalla differenza tra il valore e i costi della produzione, senza considerare i costi per lavoro dipendente, gli accantonamenti e le svalutazioni dei crediti e delle immobilizzazioni. Al risultato contabile di partenza così determinato occorre successivamente apportare le variazioni in aumento e in diminuzione conseguenti alle previsioni del D.Lgs. 446/1997, in ordine alla irrilevanza impositiva di alcuni componenti positivi e negativi compresi nel risultato contabile di partenza (che sono quindi da escludere dalla base imponibile) nonché alla rilevanza impositiva di alcuni componenti non compresi nel suddetto risultato (e che sono invece da includere nella base imponibile). In estrema sintesi, prima della riforma del 2007 la disciplina Irap era fondata sui seguenti principi: 10 rilevanza dei componenti economici classificabili nelle voci A) e B) dello schema legale del conto economico ex art. 2425 c.c., ad eccezione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente; - rilevanza (tuttavia) dei componenti positivi e negativi classificabili in voci diverse da quelle succitate, se correlati a componenti rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile di periodi d'imposta precedenti o successivi (principio di “correlazione Irap”); - diretta rilevanza delle disposizioni del Tuir in ordine alla determinazione dei componenti positivi e negativi concorrenti alla formazione della base imponibile Irap, salvo diversa disposizione. A seguito della riforma del 2007, la disposizione che attribuiva diretta rilevanza ai fini Irap delle norme contenute nel Tuir - come detto - è stata abrogata, per il che la disciplina Irap è allo stato soggetta unicamente alle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 446/1997, le quali fanno esclusivo riferimento alle voci del conto economico ed escludono, in generale, il rilievo delle voci E20) ed E21). È invece rimasto fermo il principio di correlazione, che attribuisce rilevanza ai componenti positivi e negativi classificabili in voci diverse da quelle succitate, se correlati a componenti rilevanti della base imponibile di periodi d'imposta precedenti o successivi. - 4.2. La disciplina generale riservata alle plusvalenze e alle minusvalenze relative ai beni strumentali Prima della radicale riforma recata alla disciplina Irap dalla L. n. 244 del 2007, la disciplina delle plusvalenze (e delle minusvalenze), derivanti dal realizzo di immobilizzazioni materiali e immateriali, era fondata sui seguenti principi: - rilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze di natura ordinaria o di natura straordinaria relative a beni strumentali, con possibilità di rateizzarne (fino a un massimo di cinque esercizi) il concorso alla formazione della base imponibile, secondo le medesime quote prescelte ai fini delle imposte sui redditi; - irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze concernenti i beni relativi all’impresa diversi da quelli strumentali e non costituenti “beni-merce”, aventi natura straordinaria e, come tali, non classificabili nella voce A5 ovvero nella voce B14 del conto economico; - irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze da trasferimento di aziende per espressa disposizione di legge, a causa della peculiarità della loro origine e natura; - irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze da cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo (giusta l’applicabilità dell’art. 86, comma 5, del Tuir). Come dianzi riferito, a seguito della riforma del 2007 la disposizione che attribuiva diretta rilevanza ai fini Irap alle norme contenute nel Tuir è stata abrogata, per il che la disciplina Irap è ora soggetta unicamente alle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 446/1997, le quali fanno esclusivo riferimento alle voci del conto economico ed escludono, in generale, il rilievo delle voci E20) ed E21). Inoltre, con riguardo alle plusvalenze e minusvalenze sono state apportate le seguenti modifiche: - l’art. 11, comma 3, del D.Lgs. n. 446/1997 ha eliminato la disposizione che attribuiva rilevanza ai fini Irap alle plusvalenze e alle minusvalenze relative a beni strumentali diverse da quelle derivanti da operazioni di trasferimento di azienda; 11 è stata prevista la rilevanza ai fini Irap delle plusvalenze e delle minusvalenze inerenti immobili «patrimonio», a prescindere dalla natura ordinaria o straordinaria delle stesse. In sostanza, per effetto delle succitate modifiche è stata espressamente disciplinata una fattispecie particolare di plusvalenze/minusvalenze, mentre è stata eliminata la norma riferita a quelle relative, in generale, ai beni strumentali. È tuttavia rimasto fermo il principio di “correlazione Irap”, che attribuisce rilevanza ai componenti positivi e negativi classificabili in voci diverse da quelle rilevanti ai fini dell’Irap, se correlati a componenti che hanno concorso a formare la base imponibile di tale tributo in periodi d’imposta precedenti o successivi. Con riguardo a questo nuovo assetto normativo, l’Agenzia delle entrate (circ. n. 27/E del 26 maggio 2009, par. 1.1.) ha affermato che la disposizione avente ad oggetto gli immobili «patrimonio» rivela l’esistenza di un principio di ordine generale, per effetto del quale rientrano nel campo di applicazione dell’Irap le plusvalenze/minusvalenze relative a beni strumentali; non avrebbe, infatti, alcun senso circoscrivere la rilevanza Irap unicamente alla tipologia delle plusvalenze/minusvalenze inerenti immobili «patrimonio», escludendola per la generalità di esse e tanto meno per quelle inerenti beni strumentali. Il principio generale richiamato riposa sulla disposizione che stabilisce l’applicazione della sopra menzionata “correlazione Irap”. Per ragioni di carattere sistematico, si deve in effetti ritenere che alla formazione della base imponibile continuano a concorrere anche le plusvalenze e le minusvalenze dei beni strumentali relative a beni strumentali che ordinariamente partecipano alla processo produttivo. Allo stesso tempo, l’Agenzia delle entrate (par. 1.2. circ. cit), pur in assenza di una norma espressa, ha affermato che (coerentemente con quanto previsto anteriormente alla riforma del 2007) continuano a restare escluse dalla formazione della base imponibile Irap le plusvalenze e minusvalenze derivanti da cessione d’azienda, in quanto si tratta di «un’operazione che genera sempre componenti straordinarie». - 4.3. Le plusvalenze nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione del debito omologati ex art. 182-bis L.F. Alla luce dell’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria, occorre domandarsi se, in virtù delle modifiche che hanno interessato la disciplina Irap, le plusvalenze e le minusvalenze derivanti da operazioni non attinenti la gestione ordinaria dell’impresa restino escluse o meno dalla base imponibile Irap oppure se, nonostante il mutato assetto normativo, si possano considerare ancora valide le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate con la succitata ris. n. 29/E del 2004 (a favore della attuale rilevanza della predetta risoluzione si dichiarano G. Buffelli, P. D’Andrea, Le crisi d’impresa, Il Sole 24-Ore, 2012, pagg. 297 e 298). Questa indagine concerne anche le plusvalenze e le minusvalenze realizzate in sede di concordato preventivo, non trovando più applicazione la previsione contenuta nell’art. 86, comma 5, del TUIR, a seguito del venir meno del collegamento tra la disciplina dell’Irap e quella dell’Ires. Invero, con riguardo alla disciplina previgente, l’Agenzia delle entrate (circ. n. 141 del 4 giugno 1998) aveva affermato che le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali, anche se contabilizzate in voci relative ai componenti straordinari secondo corretti principi contabili, concorrevano in ogni caso alla determinazione della base imponibile Irap, ad eccezione di quelle derivanti da trasferimento di aziende (dapprima espressamente escluse), a nulla rilevando, quindi, il fatto che trovassero causa in operazioni non attinenti la gestione ordinaria dell’azienda. 12 A ben vedere, anche con riferimento alla nuova disciplina l’Agenzia delle entrate non collega la rilevanza ai fini Irap delle plusvalenze e minusvalenze unicamente alla loro genesi (ordinaria o straordinaria), bensì anche al fatto che la cessione riguardi “beni strumentali che ordinariamente partecipano al processo produttivo”. In altri termini, la sola natura straordinaria del componente economico non è di per sé sufficiente ad escluderne la rilevanza ai fini Irap; del resto, se così non fosse, l’esclusione dall’Irap avrebbe dovuto essere affermata per tutte le plusvalenze e le minusvalenze di natura straordinaria (e, quindi, innanzitutto per quelle afferenti gli immobili «patrimonio»). Pertanto, le ragioni per cui l’Agenzia delle entrate ha escluso la rilevanza Irap delle plusvalenze e delle minusvalenze da cessione d’azienda appare dovuta alla contestuale ricorrenza di due condizioni: 1. alla classificazione dei componenti economici in voci non rilevanti ai fini Irap, data la loro chiara natura straordinaria; 2. all’insussistenza di correlazione con componenti economici che hanno partecipato alla formazione dell’imponibile Irap in periodi precedenti, attesa la loro specifica riferibilità a beni singoli e non all’azienda, quale bene unico, ancorché complesso, diverso dai singoli beni che la compongono insieme ad altri. Il motivo per il quale l’Agenzia delle entrate ha ritenuto non applicabile il principio di correlazione alle plusvalenze e alle minusvalenze derivanti dalla cessione d’azienda, è evidentemente da ricercare nel fatto che in tal caso oggetto di trasferimento è un complesso di beni, che, seppur in parte, potrebbe essere costituito da elementi che negli esercizi precedenti non hanno concorso alla formazione della base imponibile Irap (sotto forma di quote di ammortamento, rimanenze finali, ecc.) ed è comunque un bene a sé. Più in generale, la ricorrenza di entrambe le condizioni richieste, ai fini della esclusione della rilevanza Irap di plusvalenze e minusvalenze, è rinvenibile con riguardo a tutte le plusvalenze e minusvalenze di natura straordinaria relative a beni non strumentali (diversi dagli immobili «patrimonio», la cui rilevanza è espressamente prevista dall’art. 5, comma 3), che non abbiano quindi partecipato alla formazione della base imponibile Irap (si pensi, per esempio, agli oggetti d’arte iscritti tra le immobilizzazioni materiali e non soggetti ad ammortamento). Per tali ragioni, la medesima argomentazione utilizzata per la cessione d’azienda non appare estendibile alle plusvalenze (e alle minusvalenze) derivanti dalla cessione dei beni strumentali (e degli immobili “patrimonio”) nell’ambito del concordato preventivo (non rientranti nella nozione di azienda). In tal caso, infatti, con riguardo ai beni che hanno concorso uti singuli alla formazione della base imponibile Irap sotto forma di quote di ammortamento, può ricorrere (semprechè la natura delle plusvalenze/minusvalenze sia straordinaria) solo la prima condizione, ma non la seconda (cioè la mancanza di “correlazione Irap”). Alle medesime conclusioni si perviene con riguardo alle plusvalenze e alle minusvalenze derivanti dalle vendite eseguite in dipendenza di accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F.. Infatti, così come per il concordato preventivo, anche per le operazioni intervenute in attuazione di detti accordi non sono state dettate regole particolari con riferimento alla determinazione della base imponibile Irap, trovando quindi applicazione la disciplina ordinaria. A giudizio di chi scrive, dunque, in virtù del quadro normativo discendente dalla riforma del 2007 e attesa l’assenza di disposizioni specifiche in tema di concordato preventivo e/o di accordi di ristrutturazione del debito, le plusvalenze e le minusvalenze realizzate in tali contesti assumono rilevanza ai fini dell’Irap secondo le regole ordinarie previste per detti componenti economici (in tal senso si vedano anche M. Bana, S. 13 Cerato, Concordato preventivo: profili critici in materia fiscale, in “il fisco” n. 24/2011, pagg. 3797 e 3798). Non si nasconde che questa conclusione non risulta affatto appagante sotto il profilo sistematico, in quanto - a seguito dello sganciamento della disciplina Irap dalle norme Ires - l’ordinamento tributario (per non rendere più difficoltosa l’attuazione della procedura) finisce per contenere norme di evidente favor ai soli fini delle imposte sui redditi, ma non anche dell’Irap. Non si esclude che detto risultato potrebbe essere fortuito e non essere stato effettivamente voluto dal legislatore fiscale, ma alla luce delle disposizioni vigenti non si riscontrano fondati dati normativi per considerare irrilevanti ai fini Irap le plusvalenze (e le minusvalenze) realizzate in sede di concordato preventivo (o di accordi di ristrutturazione del debito), come accadeva prima della riforma del 2007 in virtù del collegamento con la disciplina Ires. Non v’è dubbio che la tassazione ai fini dell’Irap delle plusvalenze realizzate in sede di concordato preventivo stride con la esclusione delle stesse ai fini Ires e con la stessa natura dell’Irap. Per escludere la rilevanza Irap dei componenti economici in commento, non pare peraltro possibile fare appello (almeno con riguardo alle società) all’assenza del presupposto impositivo, riconducibile alla mancanza – nella fase concordataria – di una autonoma organizzazione o di un effettivo valore della produzione realizzata. Infatti, anche l’attività svolta durante la fase di liquidazione di un’impresa (finanche in caso di fallimento) costituisce attività d’impresa e, dunque, l’eventuale reddito che viene a determinarsi durante tale arco temporale si configura quale reddito d‘impresa, come peraltro attestano in maniera inequivocabile le disposizioni del Tuir. Ciò posto, se è vero sia che, ai sensi del comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, presupposto dell’imposta è l'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, sia che generalmente nel concordato preventivo tale plurimo presupposto non sussiste, è altrettanto vero che, ai sensi del successivo comma 2 del medesimo articolo, l'attività esercitata dalle società costituisce in ogni caso presupposto di imposta, a prescindere dalla presenza o meno di un’autonoma organizzazione (invece richiesta per assoggettare a tassazione professionisti e imprenditori individuali). Con riguardo, infine, all’assenza durante la fase liquidatoria di un effettivo valore della produzione, essendo l’attività dell’impresa destinata in tale fase unicamente alla monetizzazione delle attività patrimoniali, occorre considerare che il valore della produzione non attiene al presupposto impositivo (definito dall’art. 2), bensì alla determinazione della base imponibile del tributo regionale. In tal senso, il valore della produzione risulta in concreto sussistente ogniqualvolta mediante l’applicazione delle regole contenute nel D.Lgs. n. 446/1997, si ottiene un’entità positiva, ancorché riconducibile unicamente a componenti di natura straordinaria quali le plusvalenze e le minusvalenze discendenti dal realizzo di beni strumentali. Del resto, se così non fosse, si dovrebbe escludere in generale la rilevanza Irap dei risultati economici conseguiti durante la fase liquidatoria, a seguito dell’interruzione dell’attività d’impresa ordinaria, ma di siffatta esclusione non v’è invero alcuna traccia nelle disposizioni contenute nel succitato decreto. Ne discende che per le società assoggettate alla procedura concordataria (nonché per le società che hanno stipulato un accordo di ristrutturazione con finalità liquidatoria) ricorre ugualmente il presupposto impositivo, mentre per le imprese individuali il medesimo presupposto in tali ipotesi ricorre soltanto se il relativo piano prevede la continuazione dell’attività d’impresa mediante l’utilizzo del compendio aziendale. 14 PARTE SECONDA: il regime fiscale ordinario delle operazioni di cessione, conferimento e scissione 1. la cessione e il conferimento di azienda 1.1. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il cedente Le norme del T.U.I.R., come modificate dal D.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, dettano disposizioni sulle plusvalenze e minusvalenze derivanti da cessione d’azienda o di ramo d’azienda. La disciplina in parola, seppur cristallizzata a livello sistematico su distinte disposizioni (artt. 58 e 86 per le plusvalenze – art. 101 per le minusvalenze)1, mantiene intatto lo stesso trattamento tributario ante riforma. Infatti, da un lato la minusvalenza risulta totalmente deducibile dal reddito di impresa, essendo realizzata mediante cessione a titolo oneroso (ex art. 101); dall’altro la plusvalenza può essere tassata interamente nell’esercizio in cui è conseguita oppure - a determinate condizioni - in quote costanti in detto esercizio e in quelli successivi (ma non oltre il quarto). Per le aziende cedute da imprenditori individuali è inoltre prevista la facoltà di optare per il regime della “tassazione separata”. Resta, invece, esclusa la possibilità di applicare un regime di tassazione sostitutivo, come era previsto - ante riforma - dall’abrogato art. 1, comma 1, del D.lgs. n. 358/19972. A decorrere dal 1° gennaio 2004, infatti, le plusvalenze realizzate per effetto di cessioni d’azienda sono soggette necessariamente alla tassazione ordinaria, salva la possibilità - come anticipato - di ripartire in un periodo massimo di cinque esercizi la plusvalenza conseguita. 1.1.1. Tassazione ordinaria Ai sensi dell’art. 86 T.U.I.R., la cessione del complesso aziendale, inteso come universalità di beni, può determinare il conseguimento - in capo al cedente - di un’unica componente reddituale (plusvalenza o minusvalenza), la quale concorre alla formazione del reddito d’impresa, se realizzata mediante cessione a titolo oneroso. La menzionata plusvalenza va intesa come differenza positiva tra il prezzo di cessione e il valore fiscalmente riconosciuto del complesso di beni che compongono l’azienda. Ai fini del calcolo della plusvalenza, assumono rilevanza tutti gli elementi attivi e passivi, anche quelli che - come le merci - per loro natura non sono plusvalenti, nonché l’avviamento3. L’Agenzia delle Entrate4 ha correttamente affermato che “il corrispettivo percepito per la cessione costituisce un valore riferito all’azienda inteso come unitario complesso di beni da cui origina una plusvalenza che non si può identificare con quella relativa alla cessione delle partecipazioni che ne fanno parte. Ne consegue che, così come concorrono alla determinazione dell’unica plusvalenza i beni merce, allo stesso modo anche l’eventuale plusvalenza relativa alle partecipazioni che si qualificano per l’esenzione ai sensi dell’art. 87 del Tuir non può essere estrapolata, ma concorrerà a determinare la componente straordinaria di reddito riferibile all’intero complesso aziendale e sarà assoggettata a tassazione secondo le regole previste dall’art. 86 del Tuir”. 1 L’art. 58 riguarda le plusvalenze per le imprese individuali e per le società di persone, mentre l’art. 86 si occupa delle società di capitali ed enti equiparati. 2 Si ricorda che il D.lgs n. 358/1997 relativo alle ristrutturazioni aziendali aveva previsto un regime di tassazione opzionale che contemplava un’imposta sostitutiva (IRPEF e IRPEG), inizialmente, del 27%, poi ridotta al 19%. L’opzione andava esercitata in sede di dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel quale le plusvalenze venivano realizzate. Era, inoltre, necessaria una variazione in diminuzione per l’intero importo della plusvalenza iscritta a conto economico, al fine di non includerla nel calcolo dell’imposta sui redditi. 3 Cfr. risoluzione 9/199 dell’8 febbraio 1979. 4 Cfr. circolare n. 6/E del 13 febbraio 2006. 15 1.1.2. Tassazione rateizzata Come dianzi riferito, il legislatore tributario ha previsto la possibilità di optare per la tassazione integrale della plusvalenza nel solo esercizio in cui essa viene conseguita oppure di ripartire la stessa in quote costanti in un massimo di cinque esercizi, a scelta del contribuente. Tale possibilità spetta a condizione che l’azienda ceduta sia posseduta da più di tre anni, intendendo, con quest’ultima espressione, un periodo di possesso che deve quindi protrarsi per almeno 1095 giorni (come si desume dal fatto che è stata utilizzata la locuzione “tre anni” e non quella di “tre periodi di imposta”). Il dies a quo, che va tenuto in considerazione al fine di verificare il rispetto del requisito temporale, coincide con il giorno in cui l’azienda stessa è stata acquistata ovvero l’impresa è stata costituita, a nulla rilevando l’anzianità dei singoli beni che la compongono (e, quindi, indipendentemente dalla data di acquisto dei beni che ne fanno parte). Segnatamente, l’Amministrazione finanziaria5 ha affermato che, “con riferimento al requisito del possesso per un periodo di tempo non inferiore a tre anni, tale termine va computato, ai sensi dell’art. 2963 Codice Civile, avendo riguardo al giorno in cui l’azienda è stata acquisita o l’impresa si è costituita, indipendentemente dall’acquisto dei singoli beni che concorrono alla formazione dell’azienda”. Una simile considerazione appare in linea con il principio di unitarietà dell’azienda, intesa - come anticipato - nel senso di universalità di beni tutti riconducibili a un’identica realtà economica e a questi fini, pertanto, non valutabili autonomamente6. Presupposto soggettivo imprescindibile ai fini della rateizzazione della plusvalenza è la sussistenza dello stato di imprenditore commerciale da parte del cedente: il meccanismo di ripartizione della plusvalenza si applica a condizione che non venga a mancare in capo al cedente la qualifica di imprenditore; in caso contrario (es. l’imprenditore individuale che ceda l’unica azienda), non può trovare applicazione la norma in commento, rendendosi inevitabile la tassazione ordinaria. Non costituisce ostacolo alla rateizzazione delle plusvalenze il fatto che l’imprenditore individuale, senza soluzione di continuità, da un lato ceda l’unica azienda e dall’altro dia inizio a una nuova attività d’impresa7. Le medesime considerazioni valgono anche in caso di liquidazione ordinaria; infatti, anche nella fase conclusiva della vita societaria - nel periodo che va dall’inizio alla chiusura della procedura di liquidazione - si ha produzione di un reddito di impresa ex art. 182 T.U.I.R.. 1.1.3. Tassazione separata In alternativa, l’art. 17, comma 1, lett. g), del T.U.I.R. consente, all’imprenditore individuale, di optare per la “tassazione separata”, consistente nell’esclusione della plusvalenza dal concorso alla formazione del reddito imponibile complessivo e nella tassazione isolata della sola plusvalenza, mediante l’applicazione dell’aliquota Irpef corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente nel biennio anteriore all’anno in cui i redditi sono stati realizzati. Il legislatore tributario ha previsto tale regime al fine di consentire al contribuente di escludere la plusvalenza dal concorso alla formazione del reddito imponibile 5 Cfr. circolare n. 320/E del 19 dicembre 1997, ove è stato altresì affermato che “… in caso di cessione di azienda precedentemente concessa in affitto o in usufrutto, ai fini della sussistenza del requisito triennale, si tiene conto anche del periodo in cui l'azienda è stata concessa in affitto o in usufrutto”. 6 Esempio: se nel corso dell’anno 2009, a seguito della cessione di un ramo d’azienda posseduto da oltre tre anni si realizza una plusvalenza di 1.000.000, la società può scegliere di tassarla interamente nell’anno 2009 oppure - per esempio - in detto esercizio e nei quattro successivi (quindi, fino all’anno 2013), in quote costanti pari a 200.000 ciascuna. 7 Quello riportato rappresenta l’orientamento assunto dalla DRE dell’Emilia Romagna nella risoluzione n. 39525 del 18 settembre 1996, secondo cui, qualora l’imprenditore dovesse cessare la propria attività nel corso del quinquennio, la residua plusvalenza concorrerebbe a formare il reddito nell’ultimo dei periodi d’imposta interessati. 16 complessivo sottoposto a tassazione progressiva annuale, in quanto trattasi di un provento a formazione pluriennale. La tassazione separata è consentita al ricorrere di tre presupposti: i) la cessione deve riguardare un’azienda commerciale posseduta da più di cinque anni; ii) la plusvalenza deve essere realizzata da un’impresa individuale; iii) l’opzione per la tassazione separata deve essere espressa nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta al quale la plusvalenza è stata conseguita. La tassazione separata può essere adottata anche quando, cedendo l’azienda, il cedente perde la qualifica di imprenditore8. 1.2. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il cessionario Il cessionario acquirente dell’azienda prende in carico tutti gli elementi attivi e passivi costituenti l’azienda a un valore contabile e fiscale pari nel complesso al corrispettivo pattuito per la cessione. Nella generalità dei casi, nell’atto di cessione è indicato distintamente il valore corrente attribuibile a ciascun elemento facente parte del complesso aziendale: l’iscrizione degli elementi aziendali può essere quindi agevolmente effettuata facendo riferimento ai valori espressi nell’atto. L’eventuale eccedenza, tra il corrispettivo dovuto e il valore attribuito ai singoli beni trasferiti, viene imputata ad “avviamento”. Nel caso in cui le parti non abbiano invece distinto il valore corrente attribuito alle singole attività e passività aziendali, l’allocazione del corrispettivo può essere effettuata, anche se la legge non contiene alcuna previsione in merito, in base a un’apposita perizia di stima o comunque sulla scorta di elementi oggettivi. In assenza di tale oggettività l’Amministrazione finanziaria potrebbe censurare le modalità di allocazione del corrispettivo, anche in forza dell’art. 37 bis del D.p.r. n. 600 del 1973, disconoscendo le scelte operate dal contribuente, in quanto tese a conseguire un vantaggio tributario indebito mediante un’attribuzione dei maggiori valori effettuata (non in base al loro effettivo valore corrente, bensì) allo scopo di ottenerne il più veloce recupero fiscale. In merito, la Corte di Cassazione9 ha escluso che la ripartizione contabile tra le singole componenti del corrispettivo versato sia insindacabilmente rimessa all’imprenditore cessionario, essendo tale operazione soggetta al rispetto del criterio della correttezza e veridicità del bilancio; ciò comporta che tutti gli elementi attivi e passivi costituenti l’azienda devono essere iscritti in bilancio al loro valore reale, evitando l’inserimento di poste inesistenti o sopravvalutate; diversamente, l’Ufficio, in presenza di idonee presunzioni, può procedere legittimamente alla rettifica di quanto dichiarato mediante l’accertamento analitico - induttivo, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.p.r. n. 600/1973. In altri termini, l’Amministrazione finanziaria può sindacare le scelte del contribuente sul punto, in presenza di gravi anomalie e contraddizioni logiche. 1.3. Il conferimento di azienda ai fini delle imposte sui redditi In linea generale, tenuto conto che con il conferimento di beni in società si verifica un vero e proprio effetto traslativo, ancorché connesso a una finalità di natura associativa, l’art. 9, comma 5, del T.U.I.R. equipara i conferimenti alle cessioni a titolo oneroso, stabilendo quanto segue: “Ai fini delle imposte sui redditi le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento e per i conferimenti in società”. 8 Nel caso della tassazione separata la perdita della qualifica di imprenditore non è ostativa all’opzione, in quanto questa forma di tassazione trova la sua ragion d’essere esclusivamente nella formazione pluriennale dei redditi e non nello status del contribuente. 9 Cfr. sentenza n. 9950 del 16 aprile 2008. 17 Tuttavia, è altresì vero che il conferimento si distingue dalla cessione per il particolare corrispettivo dell’operazione, rappresentato non da una somma di denaro, ma dalla partecipazione al capitale della società nella quale viene operato il conferimento e per il cui tramite il soggetto conferente mantiene un legame indiretto con i beni conferiti. In altri termini, l’operazione in commento consente di sostituire beni di “primo grado”, rappresentati dai beni e/o dai diritti conferiti, con beni di “secondo grado”, rappresentati dalle partecipazioni sociali ottenute in cambio. Ne consegue che, nel caso del conferimento di un’azienda in una società, da un lato si dà luogo a un trasferimento di beni (dal soggetto conferente alla società conferitaria), ma, dall’altro, il soggetto conferente resta l’effettivo titolare di un valore corrispondente a quello dell’azienda conferita, ancorché in via mediata. Sotto questo profilo, il conferimento d’azienda è dunque un’operazione “double face”, mutevole a seconda del punto di vista da cui la si guarda. Di tale “ambiguità” di fondo il legislatore aveva tenuto conto sia in sede di emanazione del D.lgs. n. 358/1997 sia nell’ambito della riforma introdotta con il D.lgs. n. 344/2003. Entrambi i provvedimenti succitati, infatti, lasciavano ai contribuenti la possibilità di stabilire se considerare il conferimento d’azienda come un’operazione fiscalmente neutrale (ai sensi dell’abrogato art. 4 del D.lgs. n. 358/1997 o dell’art. 176 del T.U.I.R.) oppure se attribuire a detta operazione rilevanza fiscale (ai sensi dell’abrogato art. 3 del D.lgs. n. 358/1997 o degli artt. 9 e 175 del T.U.I.R.). Segnatamente, il regime fiscale previsto dall’art. 175 del T.U.I.R. (nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dalla L. n. 244/2007) si differenziava da quello previsto - in via più generale - dall’art. 9, comma 5, del medesimo decreto per il fatto che, in caso di conferimento d’azienda o di ramo d’azienda, considerava valore di realizzo (non il valore corrente, ma) il valore attribuito alle partecipazioni ricevute in cambio nelle scritture contabili del soggetto conferente ovvero, se superiore, quello attribuito all’azienda conferita nelle scritture contabili del conferitario. In forza di questa particolare disposizione, l’ammontare della plusvalenza imponibile (data dalla differenza tra il valore di realizzo così individuato e il costo fiscale dell’azienda conferita) veniva pertanto determinato dalle stesse imprese partecipanti all’operazione, in virtù delle scelte operate in sede di rilevazione contabile dell’operazione (per questo si parlava di “realizzo controllato”). Per effetto della L. n. 244/2007, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 (e, quindi, nella generalità dei casi, dal 1° gennaio 2008), le norme sul conferimento d’azienda – artt. 175 e 176 del T.U.I.R. sono state modificate, venendo eliminata la sostanziale ambivalenza fiscale di tali operazioni. In seguito alle modifiche normative intervenute, infatti, solo l’art. 176 del T.U.I.R. disciplina il conferimento d’azienda, mentre le disposizioni dell’art. 175 del T.U.I.R. trovano applicazione soltanto per quanto attiene ai “conferimenti di partecipazioni di controllo e collegamento”; tutti gli altri conferimenti sono disciplinati dall’art. 9 del T.U.I.R. 1.3.1. Il regime sospensivo dei conferimenti d’azienda (art. 176) A norma dell’art. 176 del T.U.I.R., i conferimenti di complessi aziendali non costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze e il soggetto conferente deve assumere, quale valore della partecipazione ricevuta, l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita, mentre il soggetto conferitario subentra nella posizione del conferente relativamente agli elementi attivi e passivi ricevuti; qualora i valori attribuiti dal conferitario a tali elementi divergano da quelli fiscali (determinati in base al criterio di continuità rispetto ai valori esistenti in capo al conferente) si creano due classi di valori e sussiste l’obbligo di allegare alla dichiarazione dei redditi un prospetto di riconciliazione tra i valori esposti in bilancio e i valori fiscalmente riconosciuti. Il presupposto soggettivo per l’applicazione del regime fiscale in commento è costituito dal fatto che il conferimento d’azienda deve essere effettuato tra soggetti esercenti imprese commerciali residenti in Italia. Esso, pertanto, si applica anche nel caso in cui il soggetto conferente sia un imprenditore individuale o nel caso in cui il soggetto 18 conferitario sia una società di persone. Sempre sotto il profilo soggettivo, le disposizioni dell’art. 176 T.U.I.R. si applicano peraltro anche nel caso in cui il soggetto conferente non sia fiscalmente residente in Italia, purché il conferimento abbia a oggetto un’azienda ivi situata. Questo regime si fonda sui principi di “neutralità” e di “simmetria” fiscale. Esso quindi consente - come detto - l’iscrizione in bilancio - da parte del conferitario - dei valori correnti dei beni ricevuti oltre che dell’avviamento, ma senza poter attribuire loro alcuna rilevanza fiscale; da qui l’emersione di un «doppio binario» di valori civilistici e fiscali e, quindi, l’obbligo di esporre distintamente nella dichiarazione sia i valori fiscalmente riconosciuti sia quelli contabili dei beni oggetto di conferimento10. Il conferente può del pari iscrivere in bilancio la partecipazione della conferitaria, ricevuta per effetto del conferimento, a un valore contabile superiore a quello fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita, ma il valore fiscale della partecipazione rimane in ogni caso pari a quello dell’ultimo valore fiscalmente riconosciuto di tale azienda. Conseguentemente, quando la partecipazione fosse successivamente ceduta, il suo realizzo originerebbe un plusvalore contabile inferiore a quello fiscale (o una minusvalenza contabile maggiore di quella fiscale). 1.3.1.1. Riconoscimento fiscale dei maggiori valori Con la L. n. 244/2007, è stato aggiunto il comma 2 ter all’art. 176 del T.U.I.R., prevedendo la possibilità - per il conferitario - di eliminare le differenze tra i valori contabili attribuiti a taluni elementi aziendali conferiti e i valori fiscalmente riconosciuti degli stessi, tramite il pagamento di un’imposta sostitutiva di ammontare variabile, allineando (o avvicinando) i secondi ai primi. Così facendo si permette di dare rilevanza fiscale ai valori contabili attribuiti ai beni. Tuttavia, tale imposizione sostitutiva può applicarsi soltanto ai maggiori valori contabili relativi a beni e diritti iscritti tra le immobilizzazioni materiali e immateriali. Infatti, secondo il dettato dell’art. 176, comma 2 ter, la conferitaria può ricorrere - in modo totale o parziale - al versamento dell’imposta sostitutiva, esercitando la relativa opzione nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso del quale è stato effettuato il conferimento o, al più tardi, in quella del periodo d’imposta successivo. I maggiori valori, attribuiti in bilancio agli elementi dell’attivo rappresentati da immobilizzazioni materiali e immateriali relativi all’azienda ricevuta, possono ottenere riconoscimento fiscale tramite il versamento di un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, sull’Ires e sull’Irap, secondo tre distinti scaglioni: fino a 5 milioni di euro 12%; da 5 a 10 milioni di euro 14%; oltre i dieci milioni di euro 16%11. L’imposta sostitutiva deve essere calcolata applicando le suddette aliquote alle differenze esistenti tra il valore contabile attribuito dalla conferitaria ai beni ricevuti per effetto del conferimento e l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto che i beni stessi avevano presso il soggetto conferente12. 10 Per esempio, si pensi a un impianto, il cui costo fiscale è pari a 800.000, che nelle scritture contabili del conferitario viene rilevato al valore corrente, pari a 1.300.000. In questa ipotesi, il maggior valore iscritto di 500.000 non è riconosciuto fiscalmente; pertanto, la società, ai fini del bilancio, dovrà determinare gli ammortamenti contabili facendo riferimento al valore contabile di 1.300.000, mentre ai fini delle determinazione del reddito d’impresa gli ammortamenti deducibili dovranno essere quantificati sul valore fiscale di 800.000. La differenza tra l’ammortamento imputato al conto economico e quello fiscalmente deducibile dovrà dunque essere annualmente “ripresa a tassazione” mediante una variazione in aumento di pari importo. 11 Cfr. circolare n. 57/E del 25 settembre 2008. 12 Esempio di eliminazione del disallineamento: riprendendo il precedente esempio sub nota 10, si ha quindi che, mediante il versamento dell’imposta sostitutiva di 60.000 (= 500.000 x 12%), il maggior 19 La norma in rassegna, inoltre, precisa che i valori assoggettati a imposta sostitutiva ottengono riconoscimento fiscale ai fini dell’ammortamento a partire dal periodo d’imposta nel corso del quale viene esercitata l’opzione, ma allo stesso tempo, per evitare condotte elusive, prevede che, qualora i beni affrancati vengano realizzati anteriormente al quarto periodo successivo a quello dell’opzione, il costo fiscale subisce una riduzione per un importo pari a quello dei maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva e dell’eventuale maggiore ammortamento dedotto medio tempore. In questa eventualità, il contribuente non perde quanto ha versato a titolo di imposta sostitutiva, essendogli consentito il successivo scomputo della stessa dalle imposte sui redditi, ma vede nella sostanza completamente neutralizzato l’incremento del valore fiscale del bene conseguente al pagamento dell’imposta sostitutiva. Un caso particolare di conferimento di azienda è quello che viene effettuato a favore di una società che nasce per effetto del conferimento stesso ed è seguito dalla vendita - da parte del conferente - delle partecipazioni della conferitaria da questi ricevute a seguito del conferimento. La peculiarità di questa operazione consiste nel fatto che: (i) il conferimento è eseguito in regime di neutralità fiscale e quindi senza l’insorgere di imposte; (ii) la vendita delle partecipazioni usufruisce in genere dell’esenzione di cui all’art. 87 del T.U.I.R. e quindi genera la debenza di imposte in misura molto limitata; (iii) l’operazione nel suo complesso non è considerata elusiva dal comma 3 dell’art. 176 del T.U.I.R. Per questi motivi, attraverso questa forma di conferimento si può ottenere il risultato concreto di cedere (nella sostanza) a terzi un’azienda, evitando quasi integralmente che si rendano dovute imposte sulla plusvalenza realizzata. 1.4. L’imposta regionale sulle attività produttive nella cessione e nel conferimento di azienda L’art. 11-bis, comma 3, del D.lgs. n. 446 del 1997, vigente prima dell’entrata in vigore della L. n. 244/2007, considerava espressamente irrilevanti, ai fini della determinazione della base imponibile Irap, le plusvalenze o le minusvalenze derivanti da operazioni di trasferimento di azienda. Con l’art. 1 della citata L. n. 244/2007, la disciplina dell’Irap è stata radicalmente modificata, al fine di semplificare le modalità della sua determinazione, separandola da quella concernente le imposte sui redditi. Così l’art. 11 del D.lgs. n. 446 del 1997 attualmente vigente non prevede più espressamente l’esclusione, ai fini della determinazione della base imponibile Irap, delle plusvalenze e minusvalenze derivanti da operazioni di trasferimento di azienda, Tuttavia, dalla base imponibile Irap sono in linea generale esclusi i componenti straordinari di reddito, ai sensi dell’art. 5 del medesimo decreto. Per questo motivo, la stessa Agenzia delle Entrate13 ha riconosciuto che, nonostante la soppressione della previsione normativa succitata, le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dalla cessione d’azienda continuano a non rilevare ai fini del tributo in esame. Analogamente, dalla base imponibile Irap sono escluse le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dal conferimento d’azienda, in quanto anch’esse componenti straordinari di reddito. 1.5. L’imposta sul valore aggiunto nella cessione e nel conferimento di azienda Ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b), del D.p.r. n. 633/1972, la cessione d’azienda non è considerata cessione di beni e, quindi, per carenza del presupposto oggettivo costituisce operazione esclusa dal campo di applicazione dell’IVA. Tale previsione si valore attribuito all’impianto nelle scritture contabili della società conferitaria può assumere rilevanza anche fiscale. Ne discende la conseguente perfetta identità tra la base di commisurazione delle quote di ammortamento imputate al conto economico e quella degli ammortamenti fiscalmente deducibili, e quindi tra le quote annuali stesse di ammortamento (civilistico e fiscale). 13 Cfr, circolare n. 27/E del 26 maggio 2009, risp. n. 1.2. 20 applica anche nel caso in cui l’azienda, anziché essere ceduta mediante un unico atto, venga ceduta in maniera frazionata, attraverso il trasferimento degli elementi aziendali in più fasi e momenti. La medesima norma stabilisce che anche i conferimenti aventi a oggetto un complesso aziendale non sono soggetti a IVA14. 1.6. L’imposizione indiretta nella cessione e nel conferimento di azienda Stante il principio generale di alternatività “iva – registro”, la cessione d’azienda rileva invece ai fini dell’imposta di registro ed è tassata con l’aliquota proporzionale, ai sensi degli articoli 2 e 3, comma 1, lett. b) del D.p.r. 131/198615. Ai sensi dell’art. 23 del D.p.r. 131/1986, nel caso in cui sia previsto un corrispettivo unico per l’intero compendio industriale, si applica l’aliquota più elevata tra quelle previste per i singoli beni oggetto del trasferimento; qualora sia invece previsto un distinto corrispettivo per ogni singolo bene che compone l’azienda, si applicano le aliquote previste dalla Tariffa – allegato A – relativamente a ciascun bene. In entrambi i casi, dalla base imponibile occorre sottrarre il valore delle passività aziendali; in particolare, ove l’atto di cessione contenga la distinta indicazione dei corrispettivi riferibili a beni soggetti ad aliquote diverse, l’ammontare delle passività aziendali deve essere sottratto da quello delle singole attività in proporzione al rispettivo valore di ciascuna di queste ultime rispetto al loro valore complessivo. Ai fini della determinazione della base imponibile, occorre tenere conto altresì del valore attribuibile all’avviamento. A tal proposito, si osserva che, a norma degli artt. 51 e 52 del D.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986, la base imponibile ai fini dell’imposta di registro è determinata in misura pari al valore dell’azienda ceduta dichiarato dalle parti nell’atto e, in mancanza o se superiore, il corrispettivo pattuito tra le parti; tuttavia, se a giudizio dell’Amministrazione finanziaria al complesso aziendale è attribuibile un valore venale in comune commercio (ovverosia un valore corrente di mercato o “valore normale”) superiore al valore dichiarato in atti o al corrispettivo pattuito, essa può rettificare la base imponibile in funzione di tale maggior valore e può procedere alla liquidazione della maggiore imposta dovuta. Il valore venale in comune commercio esprime il valore medio di mercato di un bene da individuarsi nel prezzo che si dovrebbe realizzare in un determinato momento, in un determinato luogo, sulla base di obiettive circostanze, senza l’influenza di fattori eccezionali che lo possano in qualche modo influenzare in senso positivo o negativo. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione16, il valore venale in comune commercio è rappresentato dal valore attribuibile ai beni oggetto di trasferimento attraverso il libero gioco della domanda e dell’offerta, in una contrattazione fra privati. In altri termini, la base imponibile da assoggettare a tassazione corrisponde al valore corrente attribuibile al complesso aziendale in maniera oggettiva e fondata, senza che assumano rilievo circostanze contingenti o momentanee (come i legami di parentela tra il cedente il cessionario, le difficoltà finanziarie in cui si trova il cedente, l’intenzione di cambiare attività, ecc.), oggettive o soggettive che possano avere influito sulla contrattazione e sulla pattuizione del corrispettivo della cessione. Un assetto normativo 14 Il D.p.r. n. 633/1972, tuttavia, consente al cessionario/conferitario di utilizzare il medesimo plafond relativo all’importazione di beni del cedente, il che implica il beneficio della non imponibilità Iva per gli acquisti di beni e servizi e per l’importazione dei beni e servizi di cui all’art. 8 del D.p.r. n. 633/1972. Il trasferimento di un tale beneficio è condizionato alla circostanza che il cessionario/conferitario prosegua senza soluzione di continuità la medesima attività economica attraverso il complesso aziendale cui inerisce il plafond, e che nell’atto di trasferimento sia incluso espressamente il subentro nei diritti e obblighi. 15 Inoltre, se del complesso aziendale ceduto fanno parte beni immobili, trovano applicazione le imposte ipotecarie e catastali, anch’esse dovute in misura proporzionale. 16 Cfr. sentenza n. 2654 del 23 luglio 1968. 21 siffatto si spiega con la circostanza che l’imposta di registro è tipicamente un’imposta d’atto, nell’ambito della quale il presupposto di fatto è la realizzazione di un atto e la base imponibile è costituita dal valore di esso, anche se superiore al corrispettivo effettivamente pattuito tra le parti; l’atto viene quindi in rilievo in relazione agli effetti giuridici che è idoneo a produrre, non in relazione al suo contenuto economico17. * * * In forza del medesimo principio di alternatività, anche i conferimenti di azienda sono soggetti all’imposta di registro, ma in misura fissa (€ 168,00). Se del complesso aziendale conferito fanno parte beni immobili, trovano applicazione anche le imposte ipotecarie e catastali, pure dovute in misura fissa. 1.7. La responsabilità per i debiti tributari Ai sensi dell’art. 2560, comma 2, del codice civile, l’acquirente di un’azienda risponde unicamente dei debiti aziendali risultanti dalle scritture contabili. Fa eccezione a tale regola generale la responsabilità del cessionario per i debiti tributari, atteso che, a norma dell’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997, il cessionario di un’azienda è solidalmente responsabile con il soggetto cedente per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore; peraltro, l’Amministrazione finanziaria, prima di far valere le proprie pretese nei confronti del cessionario, deve avere preventivamente escusso il cedente. La responsabilità solidale del cessionario dell’azienda è, tuttavia, limitata al valore dell’azienda ceduta, nonché al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’Amministrazione finanziaria. Quest’ultima è tenuta a rilasciare - a richiesta - un apposito certificato comprovante l’esistenza delle contestazioni in corso (ovverosia ancora potenziali) e delle contestazioni già definite, per le quali i debiti verso l’erario non siano ancora stati soddisfatti; qualora dal certificato non siano rilevabili debiti tributari (effettivi o soltanto potenziali) non ancora soddisfatti, oppure in caso di mancato rilascio del certificato entro quaranta giorni dalla richiesta, il cessionario dell’azienda non è responsabile per i debiti tributari del cedente. Tuttavia, potrebbero sussistere violazioni e/o contestazioni che, sebbene non ancora conosciute dall’Agenzia delle Entrate, siano comunque note al cessionario dell’azienda. In questo caso, il comma 4 del citato art. 14 prevede che, qualora la cessione d’azienda sia stata attuata “in frode dei crediti tributari”, non trovano applicazione le disposizioni generali che limitano o escludono la responsabilità del cessionario; ciò significa che, qualora l’Amministrazione finanziaria sia in grado di dimostrare che la cessione di azienda è stata effettuata in “frode dei crediti tributari”, il cessionario della stessa è responsabile - solidalmente con il cedente (e senza il beneficio della preventiva escussione di quest’ultimo) - per i crediti tributari del cedente (riferibili alla data del trasferimento), a nulla rilevando - in tal caso – il rilascio del predetto certificato da parte dell’Amministrazione finanziaria, comprovante l’esistenza di limitate contestazioni o l’inesistenza di contestazioni. Il successivo comma 5 del medesimo art. 14 individua, nel trasferimento d’azienda effettuato nei sei mesi successivi alla constatazione di una violazione penalmente rilevante, una fattispecie tipica di “cessione attuata in frode dei 17 Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, invece, non assume rilevanza il valore economico teoricamente attribuibile all’azienda ceduta (come per l’imposta di registro), bensì il corrispettivo effettivamente conseguito dall’impresa cedente. Ciò nonostante, la Cassazione ha manifestato un non condivisibile orientamento secondo cui la definizione ai fini dell’imposta di registro del maggior valore dell’azienda (rispetto a quanto dichiarato in atti) assumerebbe automatica rilevanza anche agli effetti delle imposte sui redditi, ancorché sia comunque riconosciuta al contribuente la possibilità di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore accertato in via definitiva ai fini dell’imposta di registro, dimostrando - con qualsiasi mezzo disponibile - di avere in concreto venduto a un prezzo inferiore (cfr. sentenze n. 17600 dell’8 agosto 2005, n. 19830 del 18 luglio 2008 e n. 23001 del 13 dicembre 2012; contra sentenza n. 21348 del 7 agosto 2008, secondo cui non esisterebbe invece alcuna correlazione tra i due accertamenti). 22 crediti tributari” (ammettendo, peraltro, che a tale presunzione legale possa essere opposta la prova contraria da parte del cessionario). * * * Nel prevedere e disciplinare la responsabilità del cessionario d’azienda per i crediti tributari rimasti insoddisfatti, l’art. 14 del D.lgs. n. 472/1997 non contiene alcun espresso riferimento al conferimento d’azienda; lo stesso dicasi per quanto concerne le altre disposizioni del medesimo decreto. Tuttavia, la dottrina maggioritaria si è espressa a favore della estensione della responsabilità solidale fiscale, espressamente prevista dall’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 con riguardo alla cessione di azienda, alla fattispecie del “conferimento” di azienda, ponendo principalmente a fondamento di tale estensione l’assimilazione dell’istituto del conferimento a quello della cessione. Tale conclusione si fonda innanzitutto sull’elaborazione giurisprudenziale maturata in campo civilistico, secondo cui il conferimento in società è giuridicamente equiparabile alla cessione, in quanto, “quando è conferita in società un’azienda, il conferimento equivale – con riferimento ai debiti dell’azienda conferita risultanti dai libri contabili – ad una cessione d’azienda in favore della società conferitaria, e pertanto, ai sensi dell’art. 2560 del codice civile, il cessionario è responsabile al pari del cedente di detti debiti verso i terzi creditori che, a prescindere dalla regolamentazione dei rapporti interni tra le parti, possono pretendere l’adempimento anche immediatamente dal cessionario” (Cass. n. 4351 del 16 maggio 1997). Ne discende ulteriormente che detta norma produce effetto non solo per generare la responsabilità del conferitario, ma anche ai fini della limitazione di tale responsabilità, nel perimetro previsto dallo stesso art. 14 del D.lgs. n. 472/1997. 2. La scissione 2.1. La scissione ai fini delle imposte sui redditi 2.1.1. La neutralità fiscale della scissione Tra le operazioni “sui soggetti” rientra anche la scissione societaria, la quale - al pari della fusione (e della trasformazione) - si configura come una mera modifica dell’atto costitutivo e come una riorganizzazione; eventi questi da cui non possono originare plusvalenze tassabili. Per effetto di tale modifica, nella titolarità di tutte le attività e le passività aziendali della società scissa (nella scissione totale) o solo di alcune di esse (nella scissione parziale) subentrano in toto le società beneficiarie della scissione, le quali, in cambio, emettono partecipazioni sociali assegnandole ai soci della società scissa. In capo a questi ultimi, quindi, le partecipazioni sociali detenute nella società scissa, annullate per effetto della scissione, sono sostituite dalle partecipazioni delle società beneficiarie assegnate in sede di concambio18. Anche le scissioni societarie sono pertanto caratterizzate dalla «neutralità fiscale», atteso che sono inidonee a generare reddito, essendo finalizzate alla sola riorganizzazione dell’attività d’impresa e non avendo lo scopo di attuare un trasferimento di beni. Anche la neutralità fiscale della scissione è sancita esplicitamente dall’art. 173, comma 1, del T.U.I.R., il quale dispone quanto segue: “La scissione totale o parziale di una società in altre preesistenti o di nuova costituzione non dà luogo a realizzo né a distribuzione di plusvalenze e minusvalenze dei beni della società scissa, comprese quelle relative alle rimanenze e al valore di avviamento”. 18 La sostituzione delle partecipazioni della società scissa (annullate per effetto della scissione) con quelle delle società beneficiarie non costituisce un’operazione realizzativa/traslativa per i soci e, quindi, non dà luogo al realizzo di plusvalenze o minusvalenze in capo agli stessi. 23 2.1.2. Trattamento fiscale delle “differenze di scissione” Le differenze contabili, che inevitabilmente vengono a emergere a seguito della scissione, sono comunemente denominate “disavanzi” e “avanzi” di scissione. L’art. 173 del T.U.I.R. disciplina il regime fiscale dell’una e dell’altra posta contabile. 2.1.2.1. Disavanzo di scissione Anche relativamente alla scissione si distinguono due tipologie di disavanzi di scissione, il “disavanzo da annullamento” e il “disavanzo da concambio”. Il disavanzo da annullamento di scissione misura l’eccedenza del valore contabile della partecipazione nella società scissa (detenuta dalla società beneficiaria e annullata per effetto della scissione19) rispetto al valore contabile netto delle attività e passività della società scissa assegnate alla medesima beneficiaria. Il disavanzo da concambio, invece, è la posta contabile che corrisponde all’eccedenza del valore nominale delle partecipazioni emesse dalla società beneficiaria, per effetto della scissione, rispetto al valore contabile netto delle attività e passività della società scissa assegnate alla medesima società beneficiaria. A norma dell’art. 2504 bis, comma 4, del codice civile, anche il disavanzo di scissione (da annullamento o da concambio) può essere allocato sui beni assegnati dalla società scissa, se e nella misura in cui sia imputabile a plusvalori latenti dei suddetti beni aziendali o all’avviamento oppure, in mancanza dei presupposti per la sua iscrizione nell’attivo, deve essere imputato al conto economico quale “perdita di scissione”. Al principio di neutralità fiscale corrisponde il principio di simmetria fiscale. Il comma 2 dell’art. 173 del T.U.I.R. stabilisce, infatti, quanto segue: “i maggiori valori iscritti in bilancio per effetto dell’eventuale imputazione del disavanzo riferibile all’annullamento o al concambio di una partecipazione, con riferimento a elementi patrimoniali della società scissa, non sono imponibili nei confronti della beneficiaria. Tuttavia i beni ricevuti sono valutati fiscalmente in base all’ultimo valore riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione della dichiarazione dei redditi, i dati esposti in bilancio e i valori fiscalmente riconosciuti”. Il principio di “simmetria fiscale” previsto dalla norma testé citata, che costituisce diretto corollario del principio di neutralità fiscale, rende dunque fiscalmente irrilevanti i 19 Normalmente la scissione per incorporazione non comporta l’annullamento dell’intero valore della partecipazione posseduta dalla beneficiaria incorporante nella società scissa, perché in genere tale partecipazione è in parte sostituita da una “nuova” partecipazione in un’altra beneficiaria (ove la scissione abbia luogo a favore non solo della incorporante socia della scissa, ma anche di altra società), per il che l’annullamento riguarda solo l’altra “parte” della partecipazione. Ciò posto occorre individuare un criterio utilizzabile per scomporre il valore (contabile e fiscale) della partecipazione nella scissa detenuta dalla incorporante socia nella parte destinata a essere annullata e nella parte destinata a essere sostituita con la “nuova” partecipazione. Secondo un orientamento condiviso dalla stessa Amministrazione finanziaria (cfr. risoluzione n. 6/E del 13 febbraio 2006), la determinazione del valore contabile e fiscale delle partecipazioni nella società scissa, annullate per effetto della scissione, deve essere operata in proporzione al rapporto tra il valore contabile netto delle attività e passività assegnate alla società beneficiaria e il patrimonio netto contabile della società scissa ante scissione (per esempio, se si assume che il valore contabile delle partecipazioni nella società scissa è pari a 1.000 e che il valore contabile netto delle attività e passività trasferite alla società beneficiaria incorporante, socia della scissa, corrisponde al 40% del patrimonio netto contabile della società scissa, il valore contabile delle partecipazioni annullate ammonta a 400 = 1.000 x 40%). Secondo un diverso orientamento - che a chi scrive pare peraltro preferibile -, la determinazione del valore contabile e fiscale delle partecipazioni nella società scissa, annullate per effetto della scissione, andrebbe invece operata in proporzione al rapporto tra il valore corrente netto delle attività e passività assegnate alla società beneficiaria e il valore corrente della società scissa ante scissione. 24 maggiori valori portati a incremento del valore di bilancio delle attività e passività della società scissa, per effetto dell’allocazione del disavanzo di scissione; le attività e passività della società scissa vengono assunte, dalla o dalle società beneficiarie, allo stesso valore fiscale a esse attribuito anteriormente alla scissione. Anche in questo caso emerge un «doppio binario» tra i valori civilistici e fiscali, per il che la disciplina tributaria prevede l’obbligo - per le società beneficiarie - di allegare alla dichiarazione dei redditi un prospetto di riconciliazione tra i valori fiscalmente riconosciuti e i dati esposti in bilancio (che risulteranno più elevati per effetto della imputazione del disavanzo di scissione). Il disavanzo di scissione, se non allocabile a incremento del valore contabile dei beni o dell’avviamento della società scissa (in quanto tale posta non sia espressiva di un maggior valore corrente di detti beni), deve essere imputato a conto economico quale “perdita di scissione” (per lo più quale conseguenza di un “cattivo affare”). Anche in questa ipotesi, il disavanzo di scissione è fiscalmente irrilevante giusta il disposto dell’art. 173, comma 2, del T.U.I.R., a norma del quale nella determinazione del reddito delle società partecipanti alla scissione non si tiene conto del disavanzo di scissione iscritto in bilancio. Ne discende che, qualora il disavanzo di scissione (da annullamento o da concambio) venisse imputato a conto economico quale “perdita di scissione”, detto componente negativo non è deducibile in sede di determinazione del reddito d’impresa e, dunque, deve essere ripreso a tassazione mediante una variazione in aumento di pari importo. * * * Giusta il disposto del comma 15 bis dell’art. 173 del T.U.I.R., anche per la scissione è ammessa la deroga al generale principio di simmetria fiscale previsto. Infatti, mediante il pagamento dell’imposta sostitutiva prevista dal comma 2 ter all’art. 176 è possibile ottenere il riconoscimento fiscale (per intero o solo in parte) dei maggiori valori iscritti nel bilancio della società beneficiaria a seguito dell’allocazione del disavanzo di scissione (da annullamento o da concambio). 2.1.2.2. Avanzo di scissione L’avanzo da annullamento è la posta contabile che misura l’eccedenza del valore contabile netto delle attività e passività della società scissa, assegnate alla società beneficiaria, rispetto alla parte del valore contabile della partecipazione nella società scissa, detenuta dalla società beneficiaria incorporante socia della scissa, annullata per effetto della scissione. L’avanzo da concambio, invece, misura l’eccedenza del valore contabile netto delle attività e passività della società scissa, assegnate alla società beneficiaria, rispetto al valore nominale delle nuove partecipazioni emesse da quest’ultima per effetto della scissione (e assegnate ai soci della società scissa). Come per la fusione, l’avanzo di scissione (da annullamento o da concambio) è disciplinato dall’art. 2504 bis, comma 4, del codice civile, a norma del quale esso è iscritto in una apposita voce del patrimonio netto della società beneficiaria ovvero tra i fondi per rischi e oneri, quando la sua emersione sia riconducibile a futuri risultati economici sfavorevoli. Sotto il profilo fiscale anche l’avanzo di scissione (da annullamento o da concambio) non assume rilevanza in linea generale, come previsto dal primo periodo del comma 2 dell’art. 173 del T.U.I.R.; ciò sia nel caso in cui esso venga iscritto tra le riserve del patrimonio netto, sia nel caso in cui venga iscritto tra i fondi per rischi e oneri. 25 2.1.3. Decorrenza degli effetti tributari Ai sensi dell’art. 173, comma 11, del T.U.I.R., la decorrenza degli effetti fiscali della scissione segue in linea generale quella prevista ai fini contabili nel progetto di scissione. La retrodatazione degli effetti fiscali (ancorché prevista dal progetto di scissione) opera ai fini delle imposte sui redditi soltanto per la scissione totale e a condizione che vi sia coincidenza tra la data di chiusura dell’ultimo periodo d’imposta della società scissa e quello delle società beneficiarie, nonché per la fase posteriore a tale periodo. Non è dunque possibile retrodatare gli effetti fiscali della scissione in presenza di società beneficiarie costituite per effetto della scissione stessa, né, in ogni caso, con riguardo a una scissione parziale. 2.1.4. Interruzione del periodo d’imposta e obblighi dichiarativi In caso di scissione totale, la società scissa si estingue perdendo la propria soggettività ai fini delle imposte sui redditi. Ne discende l’interruzione del periodo d’imposta di quest’ultima in corso alla data di effetto della scissione. In questa ipotesi, il soggetto tenuto a presentare - entro l’ultimo giorno del nono mese successivo alla data di effetto della scissione (art. 5 bis del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322) - la dichiarazione dei redditi e a effettuare il versamento delle eventuali imposte dovute relativamente al periodo d’imposta interrotto è la società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione e, in caso di mancata designazione, la società beneficiaria indicata per prima in tale documento20. Se gli effetti contabili e fiscali della scissione totale sono stati retrodatati all’inizio dell’esercizio nel corso del quale la scissione è attuata, nessuna dichiarazione deve essere presentata per la società scissa, poiché il reddito prodotto dalla stessa è attribuito alle società beneficiarie. In caso di scissione parziale, invece, la società scissa non si estingue, sicché non si verifica alcuna interruzione del periodo d’imposta e i relativi obblighi restano in capo a essa. 2.1.5. Subentro nelle posizioni soggettive della società scissa Il comma 4 dell’art. 173 disciplina il subentro delle società beneficiarie della scissione nelle «posizioni soggettive» fiscali, facenti capo alla società scissa. Tra le posizioni soggettive rientrano, a titolo esemplificativo, le perdite fiscali “riportabili in avanti”, le variazioni in aumento o in diminuzione da apportare ai redditi imponibili futuri per effetto del differimento della tassazione o della deduzione di determinati componenti reddituali (fenomeno da cui originano le imposte differite e le imposte anticipate) o, ancora, gli anni di possesso dei beni strumentali al fine della rateizzazione della plusvalenza conseguente alla loro cessione (art. 86, comma 4). Nella fusione la sorte delle posizioni soggettive facenti capo alle società incorporate o fuse non richiede una particolare regolamentazione, confluendo esse tutte nella società incorporante o risultante dalla fusione; nella scissione, invece, la questione richiede una apposita regolamentazione, dovendosi stabilire le modalità secondo cui attribuire a più soggetti le situazioni soggettive facenti capo a una sola entità. 20 Analogo obbligo sussiste in relazione alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta anteriore a quello nel corso del quale si attua la scissione, a meno che la società scissa non abbia già provveduto autonomamente a presentare la propria dichiarazione dei redditi e a liquidare le relative imposte. 26 In linea generale, il comma 4 dell’art. 173 prevede che – a partire dalla data di effetto della scissione – le posizioni soggettive della società scissa siano attribuite secondo i seguenti criteri: – in caso di scissione parziale, le posizioni soggettive della società scissa sono attribuite a questa e alle società beneficiarie in proporzione alle quote di patrimonio netto contabile rispettivamente rimaste alla scissa e assegnate alle beneficiarie; – in caso di scissione totale, le posizioni soggettive della società scissa sono attribuite alle società beneficiarie in proporzione alle quote di patrimonio netto contabile a esse assegnate. Tuttavia, le suddette regole non trovano applicazione per le posizioni soggettive connesse specificamente o per insiemi agli elementi del patrimonio netto contabile trasferito (si pensi, per esempio, agli anni di possesso dei beni per la rateizzazione delle plusvalenze o alle variazioni in aumento o in diminuzione legate alle sorti di una determinata attività o passività). Dette posizioni soggettive non vengono distribuite in maniera proporzionale tra le società partecipanti alla scissione, ma sono attribuite per intero soltanto alla società beneficiaria divenuta titolare delle attività e passività cui esse sono connesse21. 2.1.6. Riserve in sospensione d’imposta Alla data di effetto della scissione, nel patrimonio netto contabile della società scissa possono essere presenti riserve in sospensione d’imposta. In tal caso, il comma 9 dell’art. 173 del T.U.I.R. stabilisce che tali riserve si intendono trasferite alle società beneficiarie secondo la regola generale, ovverosia proporzionalmente alle quote di patrimonio netto contabile a esse assegnate; nella stessa misura si riducono le riserve in sospensione d’imposta in capo alla società scissa, in caso di scissione parziale. Inoltre, per evitare che la scissione possa essere utilizzata allo scopo di eliminare tali riserve trasformandole in riserve “libere” (cioè non in sospensione d’imposta) in capo alle società beneficiarie, il comma 9 dell’art. 173 del T.U.I.R. estende alla scissione le medesime regole previste per la fusione, in ordine all’obbligo per le società beneficiarie di ricostituire - a determinate condizioni - le predette riserve nel rispettivo patrimonio netto contabile22. 21 Esempio di ripartizione delle posizioni soggettive: il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l. è pari a € 1.000.000. Alfa S.r.l. attua una scissione parziale a favore delle società beneficiarie neocostituite Beta S.p.A. e Gamma S.r.l., assegnando loro attività e passività aziendali il cui valore netto contabile complessivo ammonta rispettivamente a € 500.000 e € 200.000. Per effetto della scissione, il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l. diventa quindi pari a € 300.000 (= 1.000.000 - 500.000 - 200.000). Ne discende che le posizioni soggettive, facenti capo ad Alfa s.r.l. vengono così ripartite nelle seguenti misure: 30% Alfa S.r.l. 50% Beta S.p.A. 20% Gamma S.r.l. 22 Esempio di ricostituzione di riserve tassabili solo in caso di distribuzione nel patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l., pari a € 1.000.000, sono presenti riserve di rivalutazione ex art. 15, comma 16, del D.L. n. 185/2008 (in sospensione d’imposta) ammontanti a € 500.000. Alfa S.r.l. attua una scissione parziale a favore delle società beneficiarie neocostituite Beta S.p.A. e Gamma S.r.l., assegnando loro attività e passività aziendali il cui valore netto contabile ammonta rispettivamente a € 500.000 e € 200.000 (quindi per complessivi € 700.000). Per effetto della scissione, il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l. diventa pari a € 300.000. Pertanto, nel patrimonio di Alfa S.r.l. le riserve in sospensione d’imposta si riducono di € 350.000 (ovverosia del 70%), passando da € 500.000 a € 150.000; per un pari importo esse si intendono trasferite alle due società beneficiarie Beta S.p.A. e Gamma S.r.l., rispettivamente per € 250.000 (= 350.000 x 500.000 / 700.000) e per € 100.000 (= 350.000 x 200.000 / 700.000), le quali devono ricostituirle nei rispettivi bilanci, successivamente alla scissione, se e nella misura in cui ricorrono i presupposti previsti dall’art. 172, comma 5, del T.U.I.R. (richiamato dall’art. 173, c. 9). 27 In proposito, infatti, l’art. 172, comma 5, del T.U.I.R. contiene un’articolata disciplina relativa alla sorte delle riserve in sospensione d’imposta presenti nel patrimonio netto delle società scissa, in forza della quale è previsto l’obbligo per le società beneficiarie di ricostituire, a determinate condizioni, tra le voci del proprio patrimonio netto contabile le suddette riserve, vincolandole al medesimo regime fiscale cui erano soggette anteriormente alla scissione. Al riguardo, la norma testé citata distingue le riserve e i fondi in sospensione d’imposta della società scissa in tre gruppi. 2.1.6.1. Riserve in sospensione d’imposta tassabili solo in caso di distribuzione Se nel patrimonio netto contabile della società scissa sono presenti riserve che concorrono alla formazione del reddito d’impresa solo in caso di loro distribuzione ai soci (quali, per esempio, le riserve di rivalutazione iscritte in bilancio ex art. 15, commi 16 e ss., del D.L. n. 185/2008), l’obbligo di ricostruzione di dette riserve nel patrimonio netto delle società beneficiarie sussiste se e nel limite in cui dalla scissione sia stato generato un avanzo oppure un aumento di capitale sociale per un valore superiore al capitale della società scissa. Infatti, se per effetto della scissione non è emerso né un avanzo di scissione né tanto meno si è verificato un aumento del capitale sociale “eccedente” il capitale sociale della società scissa, è esclusa in radice la possibilità che le società beneficiarie possano avere “trasformato” le riserve in sospensione d’imposta presenti nelle società scissa in poste del proprio patrimonio netto contabile. Viceversa, laddove per effetto della scissione sia emerso un avanzo o si sia verificato un aumento di capitale sociale eccedente il capitale della società scissa, il vincolo di “non distribuzione” relativo alle riserve presenti nelle società scissa si trasferisce sull’avanzo o sul capitale sociale “eccedente” delle società beneficiarie. In caso di distribuzione ai soci dell’avanzo di scissione o di riduzione del capitale sociale a favore dei soci, si ottiene quindi lo stesso trattamento fiscale che si sarebbe avuto in assenza della scissione. 2.1.6.2. Riserve in sospensione d’imposta tassabili anche in ipotesi diverse dalla distribuzione Nel patrimonio netto contabile della società scissa possono essere presenti riserve che, in qualsiasi modo vengano utilizzate (distribuzione ai soci; copertura delle perdite d’esercizio; aumento gratuito del capitale sociale), concorrono a formare il reddito limitatamente all’importo utilizzato (si tratta in genere di riserve costituite a fronte di norme agevolative23). In questa ipotesi, le società beneficiarie sono obbligate a ricostituire, nel primo bilancio approvato successivamente alla scissione, tali riserve nel proprio patrimonio netto contabile; in caso di mancata ricostituzione, l’ammontare delle riserve in sospensione d’imposta non ricostituite concorre alla formazione del reddito d’impresa delle società beneficiarie, relativo al periodo d’imposta nel corso del quale la scissione è stata attuata. Il comma 5 dell’art. 172 del T.U.I.R. impone che la ricostituzione delle suddette riserve deve avvenire utilizzando prioritariamente l’avanzo di scissione eventualmente emerso. Nel caso in cui l’ammontare dell’avanzo di scissione sia inferiore all’importo delle riserve da ricostituire, le società beneficiarie devono ricostituire dette riserve utilizzando le altre riserve presenti nel proprio patrimonio netto (sempre che a loro volta non siano già in sospensione d’imposta). Inoltre in caso di incapienza delle riserve libere, è possibile vincolare - attraverso un’apposita indicazione nella nota integrativa - il capitale sociale in regime di sospensione d’imposta, per la quota non coperta dall’avanzo di scissione e dalle riserve libere24. 23 24 Cfr. Leo M. (2007), Le imposte sui redditi, p. 2535. Cfr. risoluzione n. 131/E del 18 settembre 2001. 28 Nel caso in cui l’ammontare complessivo dell’avanzo di scissione, delle riserve libere presenti nel patrimonio netto e del capitale sociale della società beneficiarie, sia inferiore all’importo delle riserve in sospensione d’imposta da ricostituire, la differenza concorre ineludibilmente alla formazione del reddito d’impresa delle società beneficiarie, relativo al periodo d’imposta in cui è stata attuata la scissione. 2.1.7. Riporto delle perdite fiscali Al fine di evitare che la scissione possa essere utilizzata per attuare un “commercio di bare fiscali”, l’art. 173, comma 10, del T.U.I.R. estende alla scissione le medesime regole previste per il riporto delle perdite in caso di fusione. Pertanto, le perdite fiscali eventualmente maturate dalla società scissa possono essere trasferite alle società beneficiarie (in proporzione al patrimonio netto contabile assegnato a ciascuna di esse) a condizione che dal conto economico della società scissa, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la scissione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e un ammontare di spese per prestazioni di lavoro subordinato superiore al 40% di quello risultante dalla media dei due esercizi anteriori. Inoltre, nel caso di superamento del “test di vitalità”, l’importo delle perdite fiscali maturate dalle società partecipanti alla scissione (compresa la società scissa), riportabili in avanti, non può essere in ogni caso superiore al minore dei seguenti importi: a) patrimonio netto contabile dell’ultimo bilancio approvato (prima della scissione); b) patrimonio netto contabile risultante dalla situazione patrimoniale infrannuale redatta ai sensi dell’art. 2501 quater del codice civile25. I medesimi criteri (“test di vitalità”; limite del patrimonio netto contabile) si applicano anche nei confronti delle società beneficiarie, in relazione al riporto in avanti delle perdite fiscali dalle stesse eventualmente maturate anteriormente alla scissione26. 25 Nella determinazione del patrimonio netto contabile (da porre a confronto con l’ammontare delle perdite fiscali della società partecipante alla scissione) devono essere sottratti gli importi dei conferimenti e dei versamenti fatti negli ultimi 24 mesi prima della data di chiusura del bilancio o a quella cui si riferisce la situazione patrimoniale infrannuale redatta. 26 Limiti al riporto delle perdite pregresse della società beneficiaria Il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l., risultante dal bilancio al 31 dicembre 2009, ammonta a € 700.000, di cui € 200.000 per versamenti a fondo perduto eseguiti dai soci in data 30 luglio 2008. Alfa S.r.l. ha maturato perdite pregresse per € 550.000, riportabili fino al 2013. I ricavi della gestione caratteristica e le spese per le prestazioni di lavoro dipendente degli ultimi tre esercizi sono i seguenti: 2007 2008 2009 Ricavi 5.000.000 4.700.000 3.800.000 Spese per lavoro dipendente 1.600.000 1.300.000 1.300.000 Nel dicembre 2009, Beta S.p.A. si scinde parzialmente a favore di Alfa S.r.l., assegnandole un patrimonio netto contabile di € 322.000. Il patrimonio netto contabile risultante dalla situazione patrimoniale di Alfa S.r.l. al 30 giugno 2010, redatta ai sensi dell’art. 2501 quater c.c., ammonta a € 350.000 (senza tenere conto dei versamenti a fondo perduto eseguiti dai soci in data 30 luglio 2008). Atteso che Alfa S.pA. supera il “test di vitalità” (in quanto l’ammontare dei ricavi della gestione caratteristica e le spese per lavoro dipendente, risultanti dall’ultimo bilancio approvato prima della fusione,è superiore al 40% della media dei due esercizi anteriori) e considerato che il patrimonio netto contabile di riferimento ammonta a € 350.000 (corrispondente al minore tra il patrimonio netto dell’ultimo bilancio approvato e quello risultante dalla situazione patrimoniale ex art. 2501 quater c.c., calcolati senza tenere conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi), l’ammontare delle perdite fiscali maturate da Alfa S.r.l., utilizzabili dopo la scissione, è pari a € 350.000. Limiti al riporto delle perdite pregresse della società scissa Se Alfa S.r.l. fosse la società scissa, anziché la beneficiaria (come nell’esempio 18.9.), e trasferisse il 40% del suo patrimonio contabile a una beneficiaria mediante una scissione parziale, l’ammontare della perdita fiscale trasferibile alle società beneficiarie pro-quota (in proporzione ai patrimoni netti rispettivamente assegnati) non potrebbe eccedere il 40% di € 350.000 e quindi € 140.000; inoltre, in base 29 Le medesime disposizioni rilevano altresì per la perdita fiscale eventualmente maturata nella frazione di esercizio compresa tra l’inizio dell’esercizio e la data di efficacia civilistica della scissione, quale risultante da un apposito conto economico. Invece, le perdite che rimangono nella disponibilità della società scissa non sono sottoposte alla speciale disciplina di cui all’art. 173, comma 10, del T.U.I.R., in quanto non essendosi sciolto il vincolo tra riporto delle perdite e soggetto che le ha generate – non sussiste il pericolo di una loro compensazione con redditi prodotti da entità terze27. 2.2. Le imposte indirette nella scissione La scissione non costituisce un’operazione rilevante agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, giusta il disposto dall’art. 2, lett. f) del D.P.R. n. 633/72. Anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, le società beneficiarie della scissione subentrano nelle posizioni giuridiche soggettive facenti capo al ramo d’azienda che hanno assunto. In particolare, la società beneficiaria acquisisce il diritto di utilizzare il medesimo “plafond” maturato dalle società incorporate o fuse. Va infine evidenziato che, a differenza di quanto previsto per le imposte sui redditi, non è prevista la possibilità di retrodatare gli effetti della scissione ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini della compilazione della dichiarazione relativa all’imposta sul valore aggiunto, si rappresenta altresì che: • in caso di scissione parziale, le operazioni effettuate dalla società scissa relative al ramo d’azienda assegnato alla società beneficiaria devono essere rappresentate in un apposito modulo, da inserire nella dichiarazione Iva di quest’ultima; • in caso di scissione totale, le operazioni effettuate dalla società scissa relative al ramo d’azienda rispettivamente assegnato a ciascuna delle società beneficiarie deve essere rappresentato in un apposito modulo, da inserire nella dichiarazione Iva di queste ultime. * * * Stante il principio di alternatività “Iva – registro”, le delibere e gli atti di scissione sono soggetti all’imposta di registro, nella misura fissa (attualmente pari a € 168,00). Se nel patrimonio delle società fuse o incorporate sono presenti beni immobili, si applicano anche le imposte ipotecarie e catastali (sempre in misura fissa). Lo stesso è a dirsi se tra le attività patrimoniali assunte dalla società beneficiaria sono presenti beni immobili. 2.3. La responsabilità per i debiti tributari Ai sensi dell’art. 2506-quater, comma 3, del codice civile, ciascuna delle società beneficiarie della scissione risponde in solido con le altre per i debiti della società scissa (da questa non soddisfatti), nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato. Fa eccezione a tale regola generale la responsabilità della società beneficiaria per i debiti tributari; infatti, l’art. 173, dopo aver previsto al comma 12, del T.U.I.R., che gli obblighi tributari della società scissa - riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione ha effetto - sono adempiuti in caso di scissione parziale dalla stessa società scissa o trasferiti, in caso di scissione totale, alla società all’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria (ancorché non condivisibile) la residua perdita utilizzabile da Alfa S.r.l. non sarebbe di € 410.000 (= 550.000 – 140.000), ma di € 210.000 (= 350.000 – 140.000). 27 Cfr. la circolare n. 9/E del 9 marzo 2010, par. 2.2. e la risoluzione n. 168/E del 30 giugno 2009. 30 beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione, al successivo comma 13 precisa che: - i controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo agli obblighi tributari sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione totale, di quella appositamente designata, ferma restando la competenza dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate della società scissa. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di scissione (primo e secondo periodo del comma 13, art. 173 cit.); - le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. Le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l’Amministrazione (terzo periodo del comma 13, art. 173 cit.). Alla luce di tale disposizione, dunque, la società beneficiaria designata risponde in via principale per il pagamento delle imposte, delle sanzioni pecuniarie, degli interessi e di ogni altro debito riferibile a periodi d’imposta precedenti alla scissione, non ancora manifestatisi all’atto di efficacia dell’operazione, mentre le altre società beneficiarie sono solidalmente e illimitatamente responsabili, al contrario di quanto il codice civile prevede relativamente agli altri debiti, rispetto ai quali la responsabilità è circoscritta nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad esse assegnato28. Tale vincolo di solidarietà parrebbe comportare che l’Agenzia delle Entrate possa chiedere l’adempimento delle obbligazioni tributarie indistintamente a una qualunque delle società partecipanti alla scissione, ferma restando in capo alla beneficiaria che abbia ottemperato al pagamento il diritto di regresso nei confronti delle altre29. Infine, per quanto concerne il pagamento delle sanzioni tributarie relative a violazioni commesse antecedentemente alla data in cui la scissione (anche parziale) produce effetto, il legislatore ha ribadito all’art. 15, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997 la responsabilità solidale in capo a ciascuna società o ente partecipante alla scissione. 3. Possibili profili elusivi delle operazioni straordinarie 3.1. Premessa L’elusione fiscale non è violazione, ma aggiramento di disposizioni fiscali. E’ un comportamento formalmente conforme alle norme ma non alla loro ratio, in quanto grazie a esso il contribuente realizza un risparmio fiscale non giustificato da valide ragioni economiche. In altri termini, mentre mediante l’evasione si sottrae all’Erario un reddito tassabile già maturato, con l’elusione si evita, attraverso schemi contrattuali ad hoc, veri ed effettivi, che un elemento economico si manifesti come imponibile. Vi è, dunque, una norma impositiva elusa ed una norma più favorevole abusivamente applicata. Nell’ordinamento tributario italiano non esiste una clausola antielusiva di portata generale, valida per tutti i tributi ma il contrasto all’elusione è stato affidato a discipline puntuali aventi ad oggetto ipotesi ben individuate. Il primo tentativo in tal senso risale all’emanazione dell’art. 10 della L. n. 408 del 1990, successivamente sostituito dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973. Quest’ultima norma, pur essendo dotata di vasta latitudine, rimane delimitata entro precise coordinate di riferimento sia sotto il profilo 28 29 Cfr. G. Cristofori “Operazioni di finanza straordinaria”, Il Sole 24Ore, 2008, p. 780. Cfr. D. Buono, S. Carrara, A. Giannone e E. Vaschetto “Fusioni e scissioni”, Ipsoa, 2008, p. 374. 31 del settore impositivo, concernente le imposte sui redditi, sia sotto il profilo dell’individuazione normativa delle operazioni suscettibili di utilizzo strumentale al fine di conseguire vantaggi fiscali. Pertanto, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato un principio antielusivo suscettibile di applicazione in tutti i settori impositivi e al di fuori delle fattispecie sancite come elusive dall’art. 37 bis, comma 3: il c.d. abuso del diritto. A ben vedere, se le locuzioni “elusione fiscale” e “abuso del diritto in ambito tributario” si riferiscono a un fenomeno che nella sostanza è il medesimo, ciò che rende però non meramente formale la distinzione tra “elusione” e “abuso del diritto” risiede nel presupposto in forza del quale viene mossa la contestazione al contribuente da parte dell’Amministrazione finanziaria. Infatti, la contestazione di “elusione” presuppone l’applicazione di una disposizione antielusiva espressamente prevista nell’ambito dell’ordinamento tributario (ad esempio l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973); mentre quella di “abuso del diritto” l’utilizzo di un principio generale che, secondo la giurisprudenza che lo ha elaborato, deriverebbe direttamente dal disposto dell’art. 53 della Costituzione. 3.2. Il campo di applicazione della norma antielusiva prevista dall’art. 37 bis del D.P.R. 600/1973: le fattispecie L’applicazione della disciplina contenuta nell’art. 37 bis, del D.P.R. n. 600/1973 è subordinata all’utilizzo, isolato o in collegamento funzionale con altri atti, fatti o negozi, delle operazioni elencate nel comma 3 della norma de qua. La suddetta disposizione, infatti, stabilisce che le previsioni antielusione si applicano a condizione che, nell’ambito del comportamento elusivo, siano state utilizzate una o più delle operazioni aventi effetti potenzialmente elusivi di seguito elencate: a. trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzione ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; b. conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; c. cessioni di crediti; d. cessioni di eccedenze di imposta; e. operazioni di cui al D.Lgs. n. 544 del 1992, recante disposizioni per l’adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti di attivo ed altri scambi di azioni concernenti società di Stati membri diversi, nonché il trasferimento della residenza fiscale all’estero da parte di una società; f. operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di bilancio, aventi ad oggetto i diritti relativi a partecipazioni societarie ed altre attività finanziarie; f – bis) cessione di beni e prestazioni di servizi effettuate tra soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo del consolidato nazionale; f – ter) pagamenti di interessi e canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione Europea, qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno Stato dell'Unione europea; f – quater) pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell' art. 2359 del c. c., una delle quali con sede legale in uno degli Stati o territori diversi da quelli individuati ai sensi dell’art. 168 bis, del Tuir, aventi ad 32 oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale. Dunque, l’art. 37 bis - pur costituendo una norma antielusiva di carattere paragenerale si rende applicabile soltanto nel caso in cui il contribuente, per porre in essere il suo disegno elusivo, abbia fatto ricorso ad una o più delle operazioni elencate nel comma 3 della disposizione citata. Si tratta di un ampio spettro di operazioni caratterizzate, per loro natura, da un regime tributario più vantaggioso rispetto a quello previsto ordinariamente, per il che esse si prestano ad essere utilizzate dal contribuente per l’ottenimento di un vantaggio tributario che altrimenti gli sarebbe negato. La scelta di campo di condizionare l’applicazione della norma antielusiva al ricorrere di determinate operazioni tassativamente individuate ha lo scopo di delimitare in maniera oggettiva la portata applicativa della norma antielusiva e di circoscrivere il rischio che essa possa costituire una intollerabile fonte di incertezza del diritto. Questa impostazione è stata tuttavia censurata da una parte della dottrina, secondo la quale il contenuto dell’art. 37 bis consente di affermare che si tratti di una clausola generale. Pertanto l’elencazione di cui al comma 3 non ha carattere tassativo ma meramente esemplificativo, diversamente sarebbe una previsione completamente svuotata di contenuto, essendo troppo facile eludere gli obblighi di contribuzione alle pubbliche spese mediante la realizzazione di operazioni diverse da quelle contenute nella disposizione de qua30. Peraltro, la normativa antielusiva prevede che l’elusione possa derivare non soltanto dal compimento di un’operazione puntuale, singola, ma possa anche discendere da una concatenazione di atti tra loro collegati, purché, ovviamente, si sia fatto comunque ricorso ad una delle suddette operazioni potenzialmente elusive. Come si rileva agevolmente dalla stessa relazione al provvedimento di legge, è evidente che, con tale previsione, il legislatore ha voluto riferirsi all’intero disegno elusivo architettato dal contribuente31. In particolare, allo scopo di rintracciare e ricostruire la presenza di un disegno elusivo, occorre considerare sia gli avvenimenti anteriori sia gli avvenimenti successivi ad un’operazione potenzialmente elusiva. Allo stesso modo, anche l’analisi della tempistica con cui si susseguono le diverse operazioni può fornire importanti indizi sull’eventuale intento elusivo che si vuole perseguire. Così si è del resto espressa la Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza Leur-Bloem del 17 luglio 1997 (causa C-28/95) che, con riguardo alla disposizione antiabuso prevista dall’art. 11 della Direttiva n. 90/434/CEE in materia delle operazioni societarie transfrontaliere, ha rinvenuto gli indizi di un disegno elusivo in una serie anche coordinata di negozi, atti e comportamenti caratterizzati: dalla temporaneità dell’unione delle strutture societarie; dal conferimento effettuato nella previsione della cessione della partecipazione in uno Stato estero comunitario che non assoggetta ad imposizione le relative plusvalenze; 30 Cfr. M. Procopio “L’irrisolto problema dell’elusione fiscale e la necessità di un intervento del legislatore” in Diritto e Pratica Tributaria n. 2/2009, parte I, pag. 357. Dello stesso avviso è stata parte della giurisprudenza Cfr. in tal senso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 85 del 4 febbraio 2008, per un commento M. Beghin “L’elusione fiscale tra presupposti applicativi, esimenti, abuso del diritto ed <<esercizi di stile>>” in Rivista di Diritto Tributario n. 5/2008, parte II, pag. 338 31 Si tratta della relazione allo schema di decreto legislativo n. 358 del 1997. 33 dal grado in cui è concesso alla conferente di determinare le scelte e i comportamenti della conferitaria. 3.3. I presupposti per l’applicazione dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973: elementi oggettivi e di scopo La definizione di operazione elusiva si rinviene nel disposto del comma 1 dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, che stabilisce l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria degli atti, dei fatti e dei negozi, anche collegati tra loro, che siano posti in essere senza valide ragioni economiche e siano diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni d’imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. In base alla norma testé citata, può dirsi che un comportamento elusivo ricorre quando: 1. dall’operazione o dalla serie funzionalmente concatenata di atti, fatti o negozi consegua un vantaggio tributario altrimenti indebito; 2. vi sia aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario; 3. non sia riscontrabile la presenza di valide ragioni economiche nell’effettuazione dell’operazione o della serie concatenata di atti, fatti o negozi messi in essere. Ciò detto, è bene evidenziare che i detti presupposti devono sussistere con riguardo all’operazione complessiva e non con riferimento al singolo atto, fatto o negozio. 3.3.1. Conseguimento di un vantaggio tributario altrimenti indebito Affinché nei confronti di una determinata condotta possa trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, è necessario il raggiungimento di un vantaggio tributario. Detto vantaggio tributario consiste in un risparmio d’imposta, dovuto alla riduzione del carico fiscale ordinariamente sopportato oppure al rimborso dell’imposta. A tale riguardo, da taluno32 è stato osservato che, per potere essere disconosciuto dall’Amministrazione finanziaria, il vantaggio dovrebbe essere “attuale”, nel senso che esso dovrebbe sussistere già all’atto del compimento dell’operazione che l’Amministrazione finanziaria consideri inopponibile. Tuttavia, come sottolineato in un passaggio della stessa relazione governativa al provvedimento di legge, l’attualità del vantaggio tributario non costituisce affatto un requisito per l’applicazione delle disposizioni antielusione, giacché a tale scopo è sufficiente che l’operazione sia semplicemente diretta ad ottenere un vantaggio tributario. Pertanto, ove per l’ottenimento di un vantaggio tributario non si renda necessario il compimento di alcun ulteriore atto, l’operazione potrà dirsi conclusa e il vantaggio tributario ad essa correlato risulterà determinato. Al contrario, ove per l’ottenimento di un vantaggio tributario si renda necessario il compimento di un ulteriore atto o di una pluralità di atti, l’operazione non potrà dirsi conclusa, mancando un decisivo tassello per la sua realizzazione. Tuttavia, in tal caso, 32 Cfr. P.M. Tabellini “Il progetto governativo antielusione” in “Bollettino tributario” n. 14/1997, p. 1063. 34 benché non sia stato ancora conseguito, il vantaggio tributario potrebbe comunque risultare, seppur soltanto astrattamente, individuabile sulla base del comportamento posto in essere e di quelli che è presumibile verranno posti in essere33. In definitiva, per potere qualificare una condotta come elusiva, non occorre che il vantaggio tributario da essa derivante sia attuale al momento del compimento dell’operazione, ma è sufficiente che esso sia, se non determinato, almeno determinabile. Infine, affinché possa parlarsi di condotta elusiva, il vantaggio tributario non deve essere altrimenti conseguibile, ovverosia deve trattarsi di un vantaggio normalmente non ammesso dal sistema tributario se non mediante il ricorso a tale condotta. Con l’espressione “altrimenti indebiti” si vuole significare, infatti, che il risparmio d’imposta conseguito non sarebbe spettato ordinariamente al contribuente ed è solo la conseguenza del particolare comportamento tenuto. 3.3.2. Aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario Ulteriore presupposto per l’applicazione della disposizione antielusione è costituito dal fatto che il contribuente, per raggiungere un determinato risparmio d’imposta, sia dovuto ricorrere all’adozione di particolari stratagemmi, aggirando il sistema impositivo che tale vantaggio tributario altrimenti gli avrebbe negato. La previsione che il comportamento del contribuente sia inteso all’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario costituisce il vero perno intorno a cui ruota l’intera normativa antielusione, richiedendo la presenza di un uso distorto degli strumenti giuridici disponibili in luogo di quelli più consoni al raggiungimento del risultato economico prefigurato. Infatti, l’elusione consiste giustappunto nella tenuta di un comportamento che, pur non violando espressamente alcuna norma, risulta in contrasto con i principi cardine del sistema impositivo ed approfitta delle lacune in esso presenti attraverso il ricorso a espedienti giuridici che, senza dare una falsa rappresentazione della realtà, permettono al contribuente di realizzare un risultato comunque formalmente legittimo34. In particolare, il ricorso a detti espedienti giuridici si sostanzia in un abuso degli strumenti negoziali o, per meglio dire, in un abuso del diritto conseguente ad un uso della libertà negoziale che appare distorto, non aderente alla ratio che si intende perseguire. Sicché la condotta del contribuente, piuttosto che in funzione dello scopo economicogiuridico che (solo incidentalmente) è destinato a provocare, viene ad essere modellata in funzione della normativa tributaria, aggirandone le regole e i principi che disciplinano l’attività di determinazione della base imponibile e di liquidazione dell’imposta. 3.3.3. Assenza di valide ragioni economiche Affinché possa trovare applicazione il disposto di cui all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 è altresì necessario che il contribuente agisca senza valide ragioni economiche. 33 Sul punto si veda P. Piccone Ferrarotti, Riflessioni sulla norma antielusiva introdotta dall’art. 7 del D.Lgs. n. 358/1997, in “Rassegna Tributaria”n. 5/1997, p. 1152. In senso analogo A. Garcea, Il legittimo risparmio d’imposta, 2000, p. 36. 34 Cfr. A. Garcea, cit., 2000, p. 37. 35 Infatti, prendendo atto che, per definizione, il vantaggio tributario costituisce l’obiettivo di un disegno elusivo, il legislatore tributario ha previsto che, qualora detto comportamento trovi attuazione mediante operazioni che consentano di ottenere soltanto un vantaggio tributario, risultando prive di altre valide ragioni economiche, l’operazione deve considerarsi elusiva, ricorrendo gli altri requisiti richiesti. Pertanto, nel caso in cui la condotta elusiva, pur essendo destinata ad aggirare i principi sostanziali del sistema impositivo pervenendo ad un risparmio d’imposta, sia comunque giustificata da valide ragioni economiche, gli effetti fiscali che ne conseguono non sono disconoscibili dall’Amministrazione finanziaria. Al contrario, ove la condotta elusiva sia motivata unicamente dallo scopo di conseguire un vantaggio tributario, gli effetti fiscali da essa conseguenti risultano disconoscibili dall’Amministrazione finanziaria. Ciò detto, si precisa che con l’espressione “valide ragioni economiche” si intende l’esistenza di un apprezzabile interesse economico al compimento di una determinata operazione, che sussista indipendentemente dagli eventuali vantaggi fiscali ad essa connessi. Ne discende che l’esistenza di un apprezzabile interesse economico al compimento di una determinata operazione è riscontrabile ogniqualvolta detta operazione sarebbe stata compiuta anche in assenza dei vantaggi fiscali conseguiti. Al riguardo, si ritiene che l’interesse economico perseguito, che si affianca a quello dell’ottenimento di un risparmio d’imposta, dovrebbe essere valutato tenendo conto non solo degli effetti prodotti in capo alla società soggetto attivo dell'operazione, ma anche di quelli che si producono in capo al gruppo o ai gruppi societari cui detta società è riconducibile. Infatti, una determinata operazione potrebbe risultare del tutto priva di ragioni economiche se valutata considerando unicamente l’attività economica svolta dal soggetto che la mette in essere e, invece, apparire del tutto razionale se valutata alla luce delle esigenze economiche del gruppo di appartenenza35. 3.4. I tributi cui si applica l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 L’ambito di applicazione della clausola antielusiva di cui all’art. 37 bis risente della sua collocazione nel corpo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, che disciplina l’accertamento in materia di imposte sui redditi. Infatti, pur essendo vero che l’attività di accertamento è finalizzata in generale alla tutela di un interesse pubblico sostanzialmente comune, è altrettanto vero che essa è concretamente regolata in forme e termini assai diversi, a seconda delle peculiari caratteristiche delle singole forme di prelievo. Dal che, è da escludere che in assenza di uno specifico rinvio, la norma antielusiva contenuta nell’art. 37 bis trovi applicazione nei confronti di imposte diverse dalle imposte dirette. Ciò risulta anche confermato dal fatto che, ove il legislatore ha ritenuto di dover estendere la previsione ad altri settori impositivi, ha dovuto emanare un’apposita disciplina. Ne è un esempio l’art. 69, comma 7 della L. n. 342 del 2000, con il quale è stato previsto che le disposizioni antielusive contenute nei commi 1 e 2 dell’art. 37 bis sono applicabili anche all’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Con la conseguenza che per tale imposta ha trovato applicazione solo il principio generale previsto dai primi due commi, senza le limitazioni di cui al terzo comma. Ad oggi, tuttavia, ci si interroga se l’art. 69, comma 7 sia ancora in vigore a seguito delle vicende che hanno riguardato l’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Infatti, l’art. 13 della L. n. 383 del 2001 aveva abrogato il Testo Unico in tema di imposta sulle 35 In tal senso G. Zizzo, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in Commento agli interventi di riforma tributaria, AA.VV., 1999, p. 449. 36 successioni e sulle donazioni (D. Lgs. n. 346 del 1990) e successivamente l’art. 2 della L. n. 286 del 2006 ha reintrodotto l’imposta de qua, ripristinando il D. Lgs. n. 346 del 1990 nella formulazione vigente al momento della suddetta abrogazione. Dal che si è posto il problema di stabilire se è stata reintegrata anche l’espansione della clausola antielusiva, posta dal citato art. 69, comma 7. Taluno36 ha sostenuto che la risposta debba essere negativa, poiché le previsioni di cui all’art. 69, comma 7 sono state abrogate dal legislatore del 2001, in quanto incompatibili con l’abrogazione dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Inoltre, l’art. 69 della L. n. 342 del 2000 prevedeva che il contenuto del Testo Unico relativo all’imposta sulle successioni e donazioni fosse modificato solo dalle previsioni contenute nel comma 1, non anche da quelle contenute nei commi successivi. Di conseguenza, la disposizione antielusiva di cui al comma 7 non aveva modificato il Testo Unico relativo all’imposta sulle successioni e donazioni e quindi non ha mai fatto parte del detto Testo Unico che il legislatore del 2006 ha ripristinato. Diversamente, il Notariato – nelle prime note a commento della nuova imposta sulle successioni e donazioni – ha affermato che “l’art. 69, comma 7, estende al campo delle successioni e donazioni le disposizioni antielusive di cui all’art. 37 bis del d.p.r. n. 600/1973. La stessa norma specifica che tali disposizioni si applicano ai fatti accaduti e agli atti comunque formati successivamente alla data del 1° luglio 2000”37, ritenendo dunque ancora vigente la previsione ivi contenuta. Un altro tentativo di espansione della portata applicativa dell’art. 37 bis potrebbe rinvenirsi nel D.L. n. 223 del 2006, il quale ha previsto – mediante l’inserimento dell’art. 53 bis nel D.P.R. n. 131 del 1986 (c.d. Tur) – che “le attribuzioni e i poteri di cui agli artt. 31 e seguenti del D.P.R. n. 600 del 1973, e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale”. Dunque, il riferimento generico agli artt. 31 e ss ha fatto presumere l’estensione alle predette imposte di tutte le previsioni contenute nell’art. 37 bis, comprese quindi anche le limitazioni di cui al comma 3, diversamente da quanto disposto in materia di successioni e donazione38. In senso contrario, occorre però rilevare che nel rinvio operato dall’art. 53 bis non può essere incluso l’art. 37 bis, poiché tale disposizione – nonostante sia stata collocata nel seno dei poteri degli uffici – “sarebbe in realtà integrativa del sistema sostanziale delle imposte sui redditi, giacchè stabilisce precisi obblighi (o meglio, divieti) a carico del contribuente” e quindi, “per poter transitare nel sistema delle imposte indirette, avrebbe avuto bisogno di una norma che la inserisse nel contesto delle regole sostanziali”39. Ad ulteriore conferma di ciò la stessa Agenzia delle Entrate – nel fornire una prima analisi delle novità discendenti dall’introduzione del citato art. 53 bis nel Tur, si è soffermata esclusivamente sulla descrizione dei poteri istruttori derivanti, grazie al sopra citato rinvio, dalle disposizioni previste negli artt. 32 e 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, senza fare alcuna menzione dell’art. 37 bis40. 36 Cfr. P.M. Tabellini cit. pag. 213. Cfr. lo Studio n. 168 – 2006/T. 38 Cfr. P.M. Tabellini cit. pag. 213. 39 Cfr. lo studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 68 – 2007/T. 40 Cfr. la circolare n. 6/E del 6 febbraio 2007, par. n. 2.1. – 2.4. 37 37 3.5. L’interpello disapplicativo previsto dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 L’art. 37 bis, comma 8 del D.P.R. n. 600 del 1973 disciplina il c.d. interpello disapplicativo. Tale istituto consente al Direttore regionale di disapplicare le norme sostanziali introdotte per contrastare un comportamento elusivo41. Come è stato messo in evidenza nella relazione governativa al provvedimento di legge, l’introduzione dell’interpello rappresenta un atto di civiltà giuridica e di pari opportunità tra il Fisco e il contribuente, poiché, se le norme possono essere disapplicate quando il contribuente le manipola per ottenere vantaggi indebiti, occorre che lo siano anche quando condurrebbero a penalizzazioni altrettanto indebite. Dal punto di vista procedurale, tale istituto è stato regolamentato dal D.M. n. 259 del 19 giugno 1998. In base a tale decreto, l’istanza deve essere presentata42 al Direttore Regionale delle Entrate competente per territorio e deve essere spedita, a mezzo del servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, all’ufficio competente per l’accertamento in ragione del domicilio fiscale del contribuente. Tale ultimo ufficio trasmette al Direttore Regionale l’istanza, unitamente al proprio parere, entro trenta giorni dalla ricezione della medesima. L’istanza deve contenere a pena di inammissibilità i dati identificativi del contribuente e del suo rappresentante legale, l’indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale sono effettuate le comunicazioni e la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante. Nella stessa il contribuente deve poi descrive compiutamente la fattispecie concreta per la quale ritiene non applicabili le disposizioni normative antielusive, in quanto è suo onere dimostrare che nel caso concreto gli effetti elusivi contrastati dalla norma non si possono verificare. Infine, deve allegare copia della documentazione, con relativo elenco, rilevante ai fini della individuazione e della qualificazione della fattispecie prospettata. Non oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, il Direttore regionale comunica al contribuente mediante servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, il parere sulla fattispecie. La risposta può essere positiva o negativa. Nella prima ipotesi il contribuente può porre in essere l’operazione prospettata, avendo a garanzia della correttezza del suo operato un parere al quale l’Amministrazione finanziaria è vincolata. Invece, nella diversa ipotesi in cui il Direttore risponda negativamente, poiché ritiene elusiva la fattispecie, è stato discusso se sia o meno configurabile l’impugnabilità di tale risposta. In dottrina taluno43 ha ritenuto che non possa essere negata l’impugnabilità in astratto della risposta poiché si tratto di un atto equiparabile ad un diniego alle agevolazioni, che incide immediatamente e negativamente nella sfera giuridica del contribuente. Altri44 hanno espresso parere negativo, facendo leva sul fatto che la possibilità di disapplicare una norma antielusiva non rappresenta un atto che incide direttamente sulla sfera patrimoniale del contribuente né può essere considerato un atto impositivo, pertanto è assente un qualsiasi interesse 41 Si tratta delle norme che limitano le deduzioni, le detrazioni, i crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario. 42 L’istanza si intende presentata al momento del ricevimento del plico da parte dell’Ufficio territoriale deputato all’accertamento. 43 Cfr. G. Fransoni “Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo” in Quaderni della Rivista di Diritto Tributario a cura di G. Maisto, Giuffrè Editore 2009 44 G. Palumbo “L’elusione fiscale”, Sistemi Editoriali, 2006, pag. 44. 38 giurisdizionalmente tutelabile e, quindi, un’eventuale tutela giurisdizionale deve essere differita fino al momento dell’emissione di un atto impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D. Lgs. n. 546 del 1992. Alla querelle interpretativa ha posto fine la sentenza della Corte di Cassazione n. 8663 del 15 aprile 2011. I giudici di legittimità non solo hanno ritenuto impugnabile il parere emesso a seguito di interpello disapplicativo poiché in sostanza si tratta di un diniego di agevolazioni; ma hanno anche stabilito che il giudice investito del ricorso deve valutare nel merito la pretesa, eventualmente stabilendo la natura non elusiva dell’operazione, senza limitarsi ad appurare la legittimità dell’atto di diniego. La mancata impugnazione del diniego determina l’intangibilità dello stesso45. Accanto agli esiti sopra prospettati, si può in concreto verificare una terza ipotesi, ossia che il Direttore regionale rimanga inerte dinnanzi all’istanza del contribuente. In linea di principio, l’art. 20 della L. n. 241 del 1990 (c.d. legge sul procedimento amministrativo) attribuisce al silenzio dell’amministrazione valore di silenzio assenso, nel senso che, decorso il termine per provvedere senza che la pubblica amministrazione si sia pronunciata, l’istanza presentata dal privato si considera accolta. Nell’ipotesi di mancata risposta all’istanza disapplicativa però non è configurabile l’istituto del silenzio assenso, sancito per i provvedimenti amministrativi, poiché la risposta data dalla Direzione Regionale non è un provvedimento ma solo un parere, che il contribuente è libero di disattendere46. In senso contrario, è però stato affermato che la negazione della natura provvedimentale della risposta all’interpello non coglie nel segno, non tanto perché lo stesso decreto ministeriale n. 259 del 1998 definisce la detta risposta come provvedimento; quanto perché la nozione di provvedimento fatta propria dalla legge sul procedimento amministrativo è talmente ampia, che nella stessa deve essere ricompresa anche la pronuncia all’interpello47. 3.6. Il principio di abuso del diritto elaborato dalla recente giurisprudenza comunitaria e domestica L’abuso del diritto è configurabile quando, a prescindere dalla natura civilistica del negozio posto in essere, siano utilizzati legittimi strumenti giuridici all’esclusivo scopo di ottenere un vantaggio fiscale contrario al sistema tributario, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di quel vantaggio fiscale, che giustifichino l’operazione compiuta. Nell’ambito del diritto tributario, dunque, la nozione di abuso del diritto consiste nell’impiego distorto, rispetto alle loro finalità proprie, di schemi contrattuali e istituti ordinamentali, al fine sostanziale di conseguire un risparmio fiscale non ottenibile altrimenti. Il conseguimento di tale vantaggio tributario può essere disconosciuto da parte dell’Amministrazione finanziaria. 45 Tali conclusioni sono state confermate dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 5843 del 13 aprile 2012. Con una successiva pronuncia (n. 17010 del 5 ottobre 2012) invece i giudici di legittimità si sono parzialmente discostati dal predetto orientamento. Infatti, pur ammettendo l’impugnazione del diniego emesso dall’Amministrazione finanziaria a seguito di interpello, la Suprema Corte ha ritenuto che essa rappresenti una mera facoltà del contribuente; per il che “l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non pregiudica la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi. Conseguentemente, “la risposta all'interpello non impedisce innanzitutto alla stessa amministrazione di rivalutare - in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell'istanza di rimborso - l'orientamento (negativo) precedentemente espresso, nè al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell'atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva”. 46 Cfr. la Circolare n. 7/E del 3 marzo 2009, par. 2.2. 47 Cfr. G. Fransoni cit. 39 La suesposta nozione del principio di abuso del diritto trae origine dalla giurisprudenza in materia di Iva della Corte di Giustizia della CE48 ed ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento tramite alcune pronunce della Corte di Cassazione. Infatti, per la nostra Corte suprema le operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale costituiscono abuso del diritto e spetta al contribuente fornire la dimostrazione delle ragioni economiche, alternative e concorrenti, di carattere non marginale o teorico poste a fondamento delle stesse. Dunque, secondo i giudici di legittimità, “nella disciplina anteriore all'entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”49. Successivamente, i Supremi giudici hanno affermato che non contrasterebbe con un immanente principio generale antielusione non scritto, la presenza nel sistema tributario di specifiche disposizioni antielusive, anzi le stesse rappresenterebbero il sintomo di una regola50. Da quanto sopra esposto emerge come la Corte di Cassazione ha recepito parzialmente gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto di matrice comunitaria, affermando che una condotta deve essere considerata abusiva e quindi vietata, quando si traduce in un’operazione il cui scopo è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. Ma questo è solo il secondo dei due elementi costitutivi fissati dalla giurisprudenza europea: manca il primo, ossia l’accertamento che, nonostante la formale osservanza delle disposizioni interessate, il vantaggio fiscale sia contrario all’obiettivo della norma. Inoltre, la posizione della Cassazione suscita perplessità anche perchè non si è limitata a recepire il principio de quo in ambito Iva51 ma l’ha ritenuto applicabile in materie a rilevanza meramente nazionale, come l’ambito delle imposte dirette. Invece, tale principio essendo nato nell’ordinamento comunitario dovrebbe avere rilevanza solo nelle materie rispetto alle quali il diritto comunitario ha qualche incidenza, come nel settore dell’Iva, delle accise, dei tributi doganali52. Infine, è opportuno sottolineare che, facendo direttamente riferimento alla nozione di abuso del diritto, la giurisprudenza di legittimità ha bypassato l’art. 37 bis del D.P.R. n. 48 Cfr. la sentenza Halifax (C-255/02) del 21 febbraio 2006; la sentenza Part Service del 21 febbraio 2008 (C-425/06), per un commento cfr. V. Liprino “Il difficile equilibrio tra libertà di gestione e abuso di diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: il caso Part service”, in Rivista di Diritto Tributario, n. 5/2008, parte IV, pag. 113. 49 Cfr. la sentenza n. 21221 del 29 settembre 2006. 50 Cfr. la sentenza n. 8772 del 4 aprile 2008, per un commento cfr. A Lovisolo “Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio” in Rivista di Diritto Tributario n. 1/2009, parte I, pag. 49. 51 Cfr. la sentenza n. 10352 del 5 maggio 2006. 52 Cfr. C. Attardi “Abuso del diritto e giurisprudenza comunitaria: il perseguimento di un vantaggio fiscale come scopo essenziale dell’operazione elusiva” in Diritto e Pratica Tributaria n. 4/2008, parte II, pag. 637. 40 600 del 1973 e con esso le garanzie sostanziali e procedurali53 che dall’applicazione dello stesso sarebbero derivate a favore del contribuente54. A causa delle suddette censure alle argomentazioni sul preteso divieto comunitario di abuso del diritto, la giurisprudenza italiana ha fondato diversamente una clausola generale antielusiva implicita nel sistema. Il cambio di rotta è stato delineato dalle sentenze a SS.UU. della Corte di Cassazione n. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008. Nelle pronunce citate viene ribadito il riconoscimento dell’esistenza nel nostro ordinamento tributario di un generale principio antielusivo55, secondo il quale “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” e che “non è lecito utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso per il quale sono state create, norme fiscali di favore”56. Ciò che radicalmente muta, rispetto alle precedenti prese di posizione, è l’individuazione della fonte giuridica del principio di abuso del diritto in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette. Fonte giuridica che va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano. In particolare nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione sanciti rispettivamente dall’art. 53, commi 1 e 2, Cost. Le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nelle sentenze testè menzionate sono criticabili. In primis è innegabile come le suddette sentenze rappresentino una forzatura pro fisco poiché l’art. 53 Cost. viene posto a diretto fondamento di un obbligo tributario. Invece, la norma de qua è innanzitutto un comando rivolto al legislatore e all’Amministrazione finanziaria, in base al quale può essere richiesta una prestazione pecuniaria solo a condizione che si ravvisi l’esistenza di una capacità contributiva certa ed effettiva. Inoltre, neppure in presenza di una ricchezza palese, detta disposizione può comportare direttamente la creazione di un obbligo tributario ma è necessaria la mediazione di una disposizione di legge; se così non fosse nulla vieterebbe alla giurisprudenza di creare norme impositive ad ogni manifestazione di ricchezza57. Comunque, anche qualora si ritenesse che l’art. 53 Cost. è idoneo a configurare direttamente una prestazione pecuniaria in capo al contribuente, tale principio dovrebbe valere anche quando è quest’ultimo ad essere penalizzato ingiustamente dall’applicazione di norme che, data una certa fattispecie concreta, non avrebbero 53 Ai sensi dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, comma 4 l’emanazione dell’avviso di accertamento deve essere preceduta, a pena di nullità, dall’invio al contribuente, anche per lettera raccomandata, di una richiesta di chiarimenti, nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputa applicabile la clausola antielusiva. Il successivo comma 5 dispone altresì che l’avviso di accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente. 54 Cfr. L. Carpentieri “L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto” in Rivista di Diritto Tributario n. 12/2008, parte I, pag. 1053. 55 Cfr. le sentenze nn. 8772 del 4 aprile 2008, 10257 del 21 aprile 2008 e 25374 del 17 ottobre 2008. 56 Cfr. nello stesso senso le sentenze n. 21390 del 30 novembre 2012 e la n. 4901 del 27 febbraio 2013. 57 Cfr. A Marcheselli “Equivoci e prospettive della elusione tributaria, tra principi comunitari e principi nazionali” in Diritto e Pratica Tributaria n. 5/2010, parte I, pag. 801; M. Procopio “L’irrisolto problema dell’elusione fiscale e la necessità di un intervento del legislatore”, cit.; Cfr. R. Lunelli ed E. Barazza “L’<<abuso del diritto>> secondo le SS.UU. e la Sezione tributaria della Corte di Cassazione” in Corriere Tributario n. 20/2009, pag. 1571. 41 dovuto applicarsi, ove si fosse dato direttamente rilievo allo spirito dello legge anziché alla sua lettera58. A causa della mancanza di una espressa norma antiabuso, alla definizione degli incerti confini del divieto generale suindicato e alla sua concreta applicazione hanno contribuito i successivi interventi della Suprema Corte. In tal senso è stato precisato che il vantaggio realizzato dal contribuente deve essere verificato in modo globale, tenuto conto di tutto il complesso delle operazioni, di tutto il ciclo economico e di tutti i soggetti direttamente coinvolti. In quanto, l’applicazione del principio di divieto di abuso del diritto deve essere ispirata alla massima cautela “quando non si tratti di operazioni finanziarie (come avviene nei casi di dividend washing e di dividend stripping), di artificioso frazionamento di contratti o di anomala interposizione di stretti congiunti, ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi d’imprese”. Con questa affermazione sembra che i giudici di legittimità abbiano voluto puntualizzare la specificità e la peculiarità delle fattispecie che caratterizzano le succitate sentenze n. 30055, 30056 e 30057 del 2008, rappresentate da operazioni del tutto fini a se stesse, circolari, artificiosamente scomposte in più passaggi e prive – anche semplicemente in astratto – della possibilità di una concreta e reale finalità economica, sulle quali il sospetto e la presunzione di condotta abusiva gravano quasi naturalmente. Al di fuori di questi casi eccezionali la valutazione della condotta tenuta dal contribuente non deve essere inficiata da pregiudizi di sorta, ma diretta ad accertare se lo strumento giuridico, cui lo stesso ha fatto ricorso, è stato effettivamente utilizzato allo scopo di conseguire gli obiettivi imprenditoriali (“business purposes”) per i quali esso è stato considerato meritevole di tutela dall’ordinamento59. Infatti, l’apprezzamento delle ragioni economiche, indicate dal contribuente a supporto di una determinata condotta, deve essere sganciato dalla valutazione in ordine ai benefici economici che ne derivano, giacché le ragioni di una scelta imprenditoriale possono essere le più svariate e, per essere considerate valide e rilevanti, non necessariamente devono essere destinate a produrre un immediato riflesso positivo sul conto economico dei soggetti coinvolti. In questa prospettiva, sono da considerarsi economicamente giustificate le operazioni di ristrutturazione da cui consegue un obiettivo miglioramento strutturale e funzionale delle imprese partecipanti, anche se esse hanno natura meramente organizzativa e non incidono sulla redditività dell’impresa in modo diretto e immediato; tanto più se tali misure di ristrutturazione vengono adottate all’interno di grandi gruppi d’imprese, nell’ambito di riorganizzazioni aziendali e societarie di più ampio respiro60. Da ultimo, è stato anche precisato che l’onere della prova in tema di abuso del diritto deve essere ripartito tra l’Amministrazione finanziaria, cui spetta dimostrare l’abuso degli istituti giuridici previsti dall’ordinamento, e il contribuente, al quale spetta provare le ragioni economiche (diverse dal mero risparmio fiscale) che hanno effettivamente giustificato il ricorso alle operazioni oggetto di censura61. In merito, tuttavia, occorre 58 Cfr. D. Stevanato “Abuso del diritto ed elusione tributaria: <<anno zero>>” in Dialoghi Tributari n. 3/2009, pag. 255. 59 Cfr. le sentenze della Corte di Cassazione n. 1465 del 21 gennaio 2009 e n. 8487 dell’8 aprile 2009. 60 Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione n. 1372 del 21 gennaio 2011. In dottrina tale sentenza è stata apprezzata poiché sembra porre dei limiti al potere dell’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte dell’impresa, G. Andreani e A. Tubelli “La Cassazione limita il ricorso all’abuso del diritto” in Guida alla Contabilità & Bilancio n. 9/2011, pag. 16.; contra D. Stevanato “Ancora un’accusa di elusione senza <<aggiramento>> dello spirito della legge” in Corriere Tributario n. 9/2011, pag. 673, secondo il quale sarebbe affrettato caricare di troppi significati la sentenza de qua, considerando la stessa come una svolta negli indirizzi della Corte di Cassazione. 61 Cfr. le sentenze della Corte di Cassazione n. 12042 del 25 maggio 2009 e n.1372, cit. 42 evidenziare che la Suprema Corte, con la sentenza n. 7393 dell’11 maggio 2012, ha affermato che “il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa (Cass. S.U. 30055/08, Cass. 1372/11). Sicchè, è di tutta evidenza come sia del tutto impossibile configurare, al riguardo, il dedotto vizio di extrapetizione, ai sensi dell'art. 112 c.p.c.”. 3.7. L’applicazione delle norme elusive e del principio dell’abuso del diritto al conferimento di azienda Come detto, il nostro sistema tributario prevede una serie di istituti e di operazioni che, pur perseguendo finalità economiche analoghe a quelle di altri istituti ed operazioni sottoposte a tassazione ordinaria, consentono al contribuente di beneficiare di una imposizione più favorevole per le più svariate ragioni. L’operazione di conferimento di azienda rientra tra tali operazioni: infatti, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 176 Tuir dispone che il soggetto conferente iscriva la partecipazione ricevuta allo stesso valore fiscale che aveva l’azienda al momento del conferimento e che la società conferitaria acquisisca l’azienda conferita sulla base dei medesimi valori fiscali che la stessa aveva al momento dell’operazione presso il conferente. Per quanto riguarda le imposte indirette sconta solo l’imposta di registro in misura fissa, pari ad € 168, in base all’art. 4, comma 1 lett. a), n. 3 della Tariffa – parte prima del D.P.R. n. 131 del 1986 (c.d. Tur); nonchè le imposte ipotecaria e catastale (ove siano presenti beni immobili) sempre nella suddetta misura fissa ai sensi rispettivamente dell’art. 4 della tariffa allegata al D.Lgs. n. 347 del 1990 e all’art. 10, comma 2 del medesimo atto legislativo. Ora se l’ordinamento ha inteso distinguere i regimi impositivi “senza alcuna scala gerarchica né un rapporto di principalità – accessorietà, è del tutto legittimo che i contribuenti scelgano in virtù del risparmio fiscale senza dover addurre qualche ragione economica”62. Di contrario avviso si sono invece mostrati gli uffici dell’Agenzia delle entrate, che rinvengono nell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 una norma antielusiva applicabile nel settore delle imposte indirette63, in forza della quale sarebbe legittimo attribuire rilievo impositivo alla causa reale di regolamentazione degli interessi reciproci effettivamente perseguita dai contraenti, non solo mediante l’analisi delle clausole contenute nel singolo atto sottoposto a registrazione, ma anche attraverso l’analisi di una pluralità di pattuizioni non contestuali. Facendo leva sull’aspetto fiscalmente meno oneroso del conferimento di azienda, l’Amministrazione finanziaria riqualifica il conferimento di azienda (in genere in una società neo costituita), seguito - a breve distanza di tempo - dalla cessione delle partecipazioni agli altri soci (oppure alla società stessa), come cessione di azienda. Da un’attenta analisi della portata del citato art. 20 ed alla luce dell’evoluzione storica che ha portato alla sua emanazione, emerge con chiarezza l’inattendibilità della ricostruzione degli Uffici finanziari. Infatti, tale disposizione è stata introdotta dal legislatore con l’intenzione di porre fine ad una querelle interpretativa iniziata nella vigenza del R.D. n. 3269 del 1923, il cui art. 8 – con una formulazione ambigua – 62 Cfr. R. Lupi “le operazioni societarie tra lecita pianificazione fiscale ed elusione” Il Sole 24Ore, 2002, pag. 764. 63 Si veda, in particolare, la nota n. 2007/84127 del 18 maggio 2007. 43 stabiliva che “le tasse sono applicabili secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, senza precisare quali dovessero essere questi effetti, se cioè solo giuridici o anche economici. L’equivoco è stato eliminato dal detto art. 20, che riferendosi ai soli effetti giuridici, ha fatto ritenere che non si sarebbero più potuti prendere in considerazione “elementi extra testuali, estranei al contesto dell’atto sottoposto a registrazione, soprattutto se questi avessero condotto ad una valorizzazione dell’intento empirico e meramente economico perseguito dalle parti”64. Sulla stessa linea di pensiero si è posto anche il Consiglio Nazionale del Notariato nello Studio n. 95/2003/T, ove ha affermato che l’Ufficio non può andare al di là della qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili dall’interpretazione del singolo atto, poichè non esiste una norma generale antielusiva nel sistema dell’imposta di registro. Per il che è vietata un’interpretazione extratestuale dell’atto sottoposto a registrazione in collegamento con altri e distinti atti posti in essere dagli stessi soggetti; e ciò in quanto, in questa prospettiva, l’unica norma prevista dal Tur, ossia l’art. 21, limita la legittimità di tale operazione interpretativa solo ai collegamenti rinvenibili tra più disposizioni di uno stesso atto e non di atti distinti e diversi tra loro. Vale inoltre la pena di notare come l’affermazione della natura antielusiva dell’art. 20, in mancanza di un testo legislativo che deponga inequivocabilmente in tal senso, sembra concedere all’Amministrazione finanziaria e ai giudici tributari una discrezionalità applicativa tale da sfociare in arbitro, in contrasto con l’art. 23 Cost. 65. In senso conforme alla tesi dell’Agenzia delle entrate si è invece espressa la Sezione tributaria della Cassazione, che, pur riconoscendo come oggetto dell’imposta di registro siano gli effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione, ai sensi del succitato art. 20 ha riqualificato: in termini di compravendita immobiliare il conferimento (in società) di immobili gravati da finanziamenti ipotecari, seguito - a breve distanza di tempo - dalla cessione della totalità delle partecipazioni emessa dalla società conferitaria66; in termini di cessione d’azienda una serie di atti di compravendita susseguitisi tra le medesime parti67. Secondo i giudici di legittimità, infatti, “l'incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo (art. 20 DPR 26 aprile 1986, n. 131), costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell'effetto giuridico (finale) dei loro comportamenti, semplici o complessi che essi siano”68. Pertanto, secondo la Cassazione la natura di imposta d’atto 64 Cfr. A Pischetola “L’art. 20 del Tur: solo norma di interpretazione degli atti?” in Notariato n. 1/2011 pag. 112. 65 Cfr. F. Gallio e L. Barbone “Conferimento – cessione d’azienda e logica del tributo di registro” in Dialoghi Tributari n. 6/2010 pag. 669. 66 Cfr. sentenze n. 2713 del 25 febbraio 2002 e n. 14900 del 23 novembre 2001. 67 Cfr. sentenza n. 10660 del 7 luglio 2003. 68 Così testualmente la sentenza n. 2713 del 25 febbraio 2002. Il medesimo principio è stato sancito anche con le sentenze n. 24552 del 26 settembre 2007, n. 18374 del 31 agosto 2007 e n. 10723 del 4 marzo 2007. 44 dell’imposta di registro non impedirebbe - ai fini dell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario - di privilegiare la sostanza sulla forma, vale a dire: il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e dei loro effetti giuridici rispetto ai dati formalmente enunciati anche frazionatamente in uno o più atti; il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali ad una molteplicità di comportamenti formali. Su tale questione la giurisprudenza di merito risulta diametralmente divisa, tra pronunce a favore dell’interpretazione in chiave antielusiva del succitato art. 2069 e pronunce a sfavore di tale lettura70; quest’ultima posizione, in particolare, si fonda sul presupposto che detta norma avrebbe unicamente la funzione di consentire l’applicazione dell’imposta di registro in conformità all’effettivo contenuto giuridico dell’atto, senza fermarsi al nomen iuris ad esso attribuito dalle parti. Recentemente anche l’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti – intervenendo sull’interpretazione dell’art. 20 del Tur con la norma di comportamento n. 186 del 2012 – ha affermato che il conferimento di azienda e la successiva cessione della partecipazione sono atti aventi una causa autonoma e come tali devono essere sottoposti all’imposta di registro (prevista per gli stessi in misura fissa). Pertanto, tali operazioni non possono essere riqualificate come cessione di azienda, poiché nel nostro ordinamento non è presente una norma che dispone in tal senso né una tale funzione può essere attribuita all’art. 20 del Tur. * * * Posto il dibattito incentrato sulla corretta interpretazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, è lecito chiedersi se gli Uffici finanziari possano censurare il conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni ricevute facendo leva sul principio di abuso del diritto, quale generale strumento interpretativo idoneo a valutare le valide ragioni economiche in ogni comportamento del contribuente. Nessuno dubita che il diritto, così come qualsiasi altro strumento, possa essere abusato da chi se ne serve, tuttavia la dottrina ha sempre ritenuto necessario un presupposto normativo, perché possa essere contestata ad un contribuente l’elusività del suo comportamento e conseguentemente possano essere disconosciuti gli effetti nei confronti dell’Erario71. Di diverso avviso è invece stata la giurisprudenza di legittimità. Infatti, la Suprema Corte si è pronunciata per la prima volta sull’applicazione dell’abuso del diritto in tema di imposta di registro nella sentenza n. 18374 del 31 agosto 200772. In 69 Cfr. le sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze n. 150 del 5 novembre 2007 e n. 90 del 29 settembre 2009; la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 36 del 3 marzo 2011. 70 Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno n. 461 dell’11 novembre 2008; la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Treviso n. 41 del 22 aprile 2009, la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Rimini n. 184 dell’11 maggio 2011,la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Prato n. 65 del 29 giugno 2011, la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 388 del 19 novembre 2010 e n. 168 del 29 maggio 2012. 71 G. Corasanti “L’art. 20 del T.U. dell’imposta di registro e gli strumenti di contrasto all’elusione: brevi spunti ricostruttivi a margine di due contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito” in Diritto e Pratica Tributaria n. 3/2010 pag. 565. 72 La fattispecie concretamente esaminata dai giudici di legittimità atteneva alla stipula nella medesima data di due convenzioni entrambe qualificate come contratti preliminari di compravendita: l’uno avente ad oggetto la promessa di trasferire ad una società un appartamento e un box dietro pagamento di un 45 tale pronuncia veniva affermata l’utilizzabilità in funzione antielusiva dell’art. 20 del Tur facendo leva sul concetto di abuso del diritto sancito dalla giurisprudenza comunitaria. Più recentemente, l’applicazione di tale principio nel campo dell’imposta di registro è stato consolidato dalle sentenze a Sezioni Unite n. 30055 – 30056 – 30057 del 23 dicembre 2008, in forza delle quali il principio del “divieto di abuso del diritto” è assunto a canone interpretativo dell’intero ordinamento tributario. In quanto di diretta derivazione costituzionale, infatti, il suddetto divieto trova applicazione anche in assenza di un’espressa disposizione “antiabuso” con riguardo al settore impositivo cui inerisce la condotta contestata73. Alla luce di queste pronunce, l’Amministrazione finanziaria può disporre con l’abuso del diritto di uno strumento accertativo volto a combattere le fattispecie di elusione fiscale in materia di imposizione indiretta che è indipendente e prescinde dall’art. 20 del Tur. In realtà, tale assunto inizia ad essere messo in discussione dalla più recente giurisprudenza di merito, secondo la quale è difficilmente sostenibile che vi sia abuso del diritto ai fini dell’imposta di registro quando neppure ai fini delle imposte dirette tale comportamento è considerato elusivo74; pertanto l’operazione di conferimento di azienda seguita dalla cessione delle partecipazioni è pienamente legittima, giacché “non è vietato al contribuente ricercare legittimamente il risparmio d’imposta, così come garantito dalla Costituzione ex artt. 23 e 41, con la scelta degli atti che gli consentono tutto questo”75. PARTE TERZA: il regime contabile delle operazioni di cessione, conferimento e scissione 1. Il bilancio straordinario relativo alla cessione di azienda La disciplina civilistica non pone alcun obbligo circa la redazione di un bilancio straordinario relativo alla cessione d’azienda; tuttavia, è comune nella prassi predisporre, da parte del cedente, un documento (il cosiddetto «bilancio di cessione») la cui finalità consiste nell’individuare il valore di cessione dell’azienda76. corrispettivo; l’altro avente ad oggetto l’impegno del venditore a rilasciare l’immobile entro sei mesi con obbligo della società di corrispondere una somma a titolo di indennità. A fronte di tali preliminari veniva iscritta ipoteca sull’immobile per un valore pari agli importi complessivamente previsti nei due contratti preliminari. Nonostante l’atto definitivo di compravendita riportasse solo il corrispettivo del primo contratto preliminare, l’Ufficio liquidava l’imposta sulla somma complessiva scambiata tra le parti, comprendente non solo il corrispettivo ma anche l’indennizzo, sostenendo che le parti avevano voluto scambiarsi l’immobile per un importo pari alle somme complessivamente indicate nei due preliminari. 73 In particolare, con le sentenze n. 18374 del 31 agosto 2007, n. 12237 del 15 maggio 2008 e n. 12042 del 25 maggio 2009, la Cassazione ha ritenuto espressamente applicabile il divieto di abuso del diritto agli effetti dell’imposizione indiretta. 74 Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Treviso n. 41 del 22 aprile 2009. 75 Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 388 del 19 novembre 2010, commentata da F. Pedrotti “Conferimento di ramo di azienda e successiva cessione di quote attribuite al soggetto conferente. Considerazioni intorno alla presunta elusività ai fini dell’imposta di registro” in Rivista di Diritto Tributario n. 4/2011, parte II, pag. 226. Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Brescia n. 14 del 18 febbraio 2011 e la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Rimini n. 184 dell’11 maggio 2011. 76 Ovviamente le parti sono libere di determinare a loro piacimento il prezzo da attribuire al compendio aziendale oggetto del trasferimento, ma tale valutazione non potrà prescindere dalla consistenza patrimoniale dell’azienda e dalla sua attitudine a produrre un reddito, di cui viene per l’appunto data evidenza nel documento in esame. 46 Detto «bilancio» si sostanzia in una mera situazione patrimoniale extra – contabile, ove, oltre alle attività e le passività – indicate al loro valore di mercato77 –, viene altresì indicato l’avviamento attribuito al compendio aziendale, così da evidenziare il capitale economico dell’azienda oggetto del trasferimento78; la sua redazione compete agli amministratori ma, in quanto atto «interno», non sono ovviamente richieste né approvazione assembleare né forme di pubblicità legale per lo stesso79. La forma adottata è in linea di massima quella prevista dall’art. 2424 c.c., il cui contenuto viene comunque adattato alle peculiari finalità del «bilancio di cessione». Ciò posto, occorre a tale proposito rammentare come la dottrina aziendalistica abbia individuato diversi metodi di valutazione del capitale economico di un’azienda, essenzialmente riconducibili a due macro-categorie: quella dei metodi analitici e quella dei metodi sintetici80. I primi (detti anche metodi «patrimoniali»), determinano – come noto – il capitale economico attraverso la somma dei singoli elementi dell’attivo e del passivo che compongono il patrimonio aziendale, valutati analiticamente a valori correnti. I secondi (tra cui si rammentano i metodi «reddituale» e «finanziario»), al contrario, individuano il valore del capitale economico attraverso formule sintetiche che prescindono dalla valutazione analitica degli elementi patrimoniali. Dalla disamina che precede, si evince pertanto come il ricorso, quanto meno come criterio base, a metodi di valutazione analitici quale quello «patrimoniale» risulti maggiormente coerente con la predisposizione del bilancio in esame, permettendo una valutazione puntuale di ciascuna voce patrimoniale di cui poter dare evidenza nel suddetto documento. Nella prassi, in effetti, risulta particolarmente frequente la determinazione del valore economico del capitale attraverso il cosiddetto metodo «misto con stima autonoma del goodwill»; tale metodo, come noto, permette di determinare il valore economico del capitale conferito sommando al valore dello stesso determinato con il metodo patrimoniale, l’avviamento autonomamente stimato, giusta la formula: W = K + (R – Ki) a n i’ ove i suesposti simboli assumono il significato qui sotto espresso: W = Valore economico del capitale K = Valore del capitale determinato con metodo patrimoniale (R – Ki) a n i’ = Valore dell’avviamento (o sovrareddito) autonomamente stimato R = Reddito medio annuo prospettico i = Tasso di rendimento normale n = Durata presunta del sovrareddito i’ = Tasso di attualizzazione a = Fattore di attualizzazione 77 Il suddetto valore di mercato delle attività cedute e delle passività accollate può ovviamente essere accettato dalle parti per la negoziazione del prezzo di cessione oppure costituire un limite massimo di valutazione. 78 Parte della dottrina ha equiparato detto documento al bilancio di fusione, avendo entrambi a oggetto la rilevazione del capitale economico; cfr. in tal senso Confalonieri, Bilanci e operazioni straordinarie., p. 266. 79 Al fine di addivenire a una valutazione la più oggettiva possibile, è possibile da parte del cedente e del cessionario conferire a un esperto l’incarico di redigere un’apposita relazione di stima che contenga, oltre all’indicazione del valore corrente dei beni che costituiscono l’azienda, anche una stima dell’avviamento della stessa, valori che – in tal caso – confluiranno nel bilancio straordinario de quo. 80 Per un’approfondita disamina sull’argomento si rimanda all’esauriente opera di Guatri, Trattato sulla valutazione delle aziende, Egea, 1998. 47 Il ricorso al suddetto criterio, pertanto, consente un’autonoma valutazione di tutte le poste attive e passive, ivi compreso il valore dell’avviamento81, ferma restando ovviamente la possibilità di una controprova dell’attendibilità del valore complessivo così determinato giusta il ricorso ai metodi reddituali e/o finanziari. In particolare, nella valutazione delle singole poste oggetto di trasferimento è possibile enucleare i seguenti criteri guida, considerando che i vari elementi patrimoniali dovranno essere espressi a «valori correnti»82: a) le poste attive sono valutate a valori di realizzo o all’eventuale costo di riproduzione; b) il valore dei debiti deve far riferimento al valore di estinzione, considerando anche gli interessi maturati; c) le attività immateriali vanno distinte in «beni immateriali» (marchi, brevetti, licenze, ecc.), idonei a essere trasferiti autonomamente e «oneri immateriali pluriennali» al contrario non cedibili in quanto voci non suscettibili di una valutazione economica oggettiva, di talché possono essere al più fatti rientrare nell’avviamento83. Ciò posto, la valutazione delle singole poste può essere sintetizzata come segue: a) le immobilizzazioni materiali vanno iscritte al valore corrente di mercato, ovvero – qualora non esista un mercato dell’usato per detti cespiti – al valore di riacquisto o produzione, rettificato per tener conto dell’usura nonché dell’obsolescenza economica degli stessi; gli immobili civili, in particolare, dovranno essere valorizzate esclusivamente al valore di mercato, come da apposita stima; b) i titoli quotati vanno valorizzati in base ai prezzi correnti di borsa; per quanto attiene, al contrario, quelli privi di negoziazione in mercati regolamentati, occorrerà far riferimento, rispettivamente: - per i titoli a reddito fisso, a quelli similari quotati; - per le partecipazioni di controllo o collegamento, in proporzione al valore del capitale economico della società che esse rappresentano, e per le altre, in base al patrimonio netto contabile; c) le merci e le materie in genere presenti in magazzino, vanno iscritte al valore di riacquisto, mentre i semilavorati e i prodotti finiti a quello di realizzo dalla vendita sul mercato; d) i crediti andranno iscritti al valore di presumibile realizzo degli stessi, convertendo quelli in valuta in base al cambio corrente al momento della stima; e) i debiti, coerentemente, devono essere iscritti al valore di estinzione, eventualmente convertiti al cambio corrente, se espressi in valuta; f) nei fondi per rischi e oneri occorre effettuare quegli accantonamenti che permettano di far fronte a tutte le passività potenziali, come stimate dall’esperto, in base alla diligenza professionale richiesta. Mette conto evidenziare, a tale proposito, come per quanto attiene gli assets immateriali, rilevino esclusivamente quelle immobilizzazioni di tipo immateriale costituiti da veri e propri diritti, i quali: 81 Mette conto evidenziare, a tale proposito, come – nel caso in cui oggetto delle cessione sia un mero ramo di azienda privo di qualsiasi autonomia gestionale nel periodo anteriore al trasferimento – l’oggettiva difficoltà riscontrabile nell’attribuire allo stesso un autonomo reddito potrebbe comportare altresì l’impossibilità ad attribuire ragionevolmente un avviamento al compendio industriale in oggetto, di talché la valutazione dovrebbe avvenire avvalendosi esclusivamente di un metodo meramente patrimoniale. 82 Cfr. Caratozzolo, I bilanci straordinari, Milano, Giuffrè, 1996., p. 94 ss. 83 Cfr. Confalonieri, op. cit., p. 266. 48 siano suscettibili di generare utilità differita nel tempo; siano giuridicamente trasferibili (ovvero cedibili a terzi), corrispondendo a essi un diritto di sfruttamento esclusivo, regolato dalla legge; - siano misurabili nel loro valore. Conseguentemente verranno inseriti nel bilancio di cessione quei beni immateriali che soddisfino le seguenti condizioni, tra cui: a) quelli già iscritti in bilancio, quali – a titolo esemplificativo – i diritti di brevetto, quelli su softwares e, in generale, tutte le opere dell’ingegno, protette e tutelate dalla legge; b) quegli ulteriori intangibles i quali, seppur non inseriti in contabilità, concorrono comunque alla formazione del valore economico del capitale del compendio aziendale trasferito84. In particolare, tra gli assets sub b), la migliore dottrina in materia è solita farvi rientrare quegli intangibles relativi al marketing (quali i marchi, le insegne, il design dei prodotti, le idee pubblicitarie, ecc.) nonché quelli legati alla tecnologia (come know-how, softwares, tecnologia, progetti di ricerca e sviluppo, ecc.), suscettibili senza dubbio di influenzare positivamente il valore economico del complesso aziendale ove inseriti85. Al contrario, non potranno essere iscritte nel suddetto bilancio quelle poste immateriali (i cosiddetti «oneri immateriali pluriennali») i quali non sono suscettibili di concorrere alla formazione del valore economico dell’azienda trasferita, quali, per esempio, i costi di impianto, ampliamento, sviluppo, pubblicità, ecc.; in tal senso, non troverà altresì autonoma evidenza nel documento in esame l’avviamento (cosiddetto «derivativo») già iscritto nella contabilità del cedente a seguito di un precedente acquisto a titolo oneroso (o conferimento) di un’azienda, e ciò in considerazione del fatto che lo stesso confluirà nell’avviamento originario attribuito al complesso aziendale oggetto di valutazione. Nel bilancio di cessione, come detto, comparirà anche il goodwill (ovvero l’eventuale badwill) determinato, a seconda delle metodologie adottate, sulla base della stima autonoma dello stesso propria del metodo «misto» ovvero come differenza tra il valore risultante dall’applicazione del metodo reddituale e quello emergente dalla valutazione con il metodo patrimoniale. Peraltro, in presenza di avviamento «negativo» (badwill) questo dovrà essere neutralizzato attraverso una rettifica del valore dei beni. - 2. Il bilancio nel conferimento di azienda Come noto, nelle operazioni di conferimento in società di capitali, l’art. 2343 c.c. pone l’obbligo di stima del bene oggetto di conferimento da parte di un perito nominato dal Presidente del Tribunale, al fine di verificare la corrispondenza tra il prezzo di emissione delle azioni e il valore reale dei beni conferiti, garantendo in tal modo l’idoneità del patrimonio della società ad assolvere la funzione di garanzia per i creditori; ovviamente, nel caso in cui il conferimento abbia a oggetto un’azienda ovvero 84 A tale riguardo si rileva come l’evidenziazione di dette poste non avvenga sempre, dipendendo ciò dal metodo valutativo adottato in concreto. Se, infatti, il ricorso al metodo patrimoniale «complesso» comporta ex se la valorizzazione di tutti quegli assets non iscrivibili autonomamente in bilancio, l’utilizzo, al contrario, del metodo patrimoniale «semplice», comporta esclusivamente la valutazione al valore corrente di quelle poste già presenti in contabilità; in tal caso, pertanto, le poste de quibus confluiranno all’interno dell’avviamento che risulterà, conseguentemente, di ammontare maggiore rispetto a quello che deriverebbe dall’utilizzazione del metodo complesso. 85 Cfr. in tal senso, Gualtri L., Trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, Egea, 1998, pag. 244. 49 un ramo della stessa, la suddetta perizia dovrà avere a oggetto detto compendio aziendale, e in special modo, i beni che lo compongono. Poiché la relazione di stima deve «contenere la descrizione dei beni o dei crediti conferiti, il valore a ciascuno di essi attribuito, i criteri di valutazione seguiti», questa può essere certamente configurata come un bilancio, ragion per cui si suole parlare nella prassi di bilancio di conferimento. Tale bilancio rientra nella categoria dei bilanci straordinari in quanto il suo fine è quello di determinare il valore netto dell’azienda da conferire e non il reddito di periodo; inoltre, a differenza dei bilanci ordinari, utilizza criteri di valutazione riconducibili alle valutazioni proprie del capitale economico in ipotesi di cessione d’azienda. Il bilancio di conferimento, quindi, consta unicamente di una situazione patrimoniale, senza conto economico né nota integrativa, inserita nella relazione peritale dell’esperto nominato dal Presidente del Tribunale; per quanto attiene la forma, deve ritenersi che lo stesso si sostanzi in un inventario analitico-descrittivo piuttosto che in uno stato patrimoniale vero e proprio. Conseguentemente il redattore – ben potendosi comunque avvalere, come mero schema di riferimento, della struttura di cui all’art. 2424 c.c. – elencherà le attività e passività che compongono il compendio aziendale oggetto del conferimento, fornendone una sommaria descrizione e attribuendo loro il relativo valore di trasferimento86; ovviamente – in considerazione del fatto che scopo di questo documento è quello di fornire la rappresentazione del valore economico del capitale oggetto del conferimento – tra le attività verrà altresì inserito l’avviamento attribuito all’azienda. Mette conto peraltro evidenziare come la suddetta valutazione analitica, in luogo di una valutazione complessiva che abbia a oggetto l’intero complesso aziendale, è conforme al dettato legislativo, atteso che l’art. 2343 c.c. richiede espressamente al perito di indicare, oltre alla descrizione dei beni o crediti conferiti, anche «il valore a ciascuno di essi attribuito». Per quanto concerne i criteri di valutazione, dato che il legislatore non definisce in tal senso alcun principio guida, è opinione comune in dottrina che al perito sia concessa la più ampia discrezionalità in merito alla scelta dei criteri valutativi da adottare, con l’obbligo, peraltro, di evidenziare gli stessi nella sua relazione87. La discrezionalità dell’esperto non deve comunque far pensare che egli sia del tutto libero nella scelta delle modalità estimative, atteso che lo stesso potrà avvalersi unicamente dei metodi ritenuti più idonei a rispondere alle finalità della perizia88. Infatti, poiché la relazione di stima è volta alla contemporanea tutela di opposti interessi – individuabili da una parte negli interessi dei creditori della società conferitaria e dei terzi a evitare un annacquamento del capitale sociale e dall’altra degli interessi del conferente a non subire un ingiustificato deprezzamento di quanto egli conferisce – la valutazione posta in essere dall’esperto deve essere il più possibile obiettiva, dovendo prescindere in tutto da interessi particolari89. La dottrina aziendalistica ha individuato diversi metodi di valutazione del capitale economico di un’azienda, peraltro tutti riconducibili a due macrocategorie: quella dei 86 Cfr. in tal senso Caratozzolo, op. cit., p. 88. In tal senso Pisani Massamormile, I conferimenti nelle società per azioni, Giuffrè, 1994, p.70, nota 59; Poli, I conferimenti in aziende, in «Riv. dott. comm.», 1980, p. 424; Pozza, La valutazione delle aziende ai sensi degli articoli 2343 e 2343-bis, in «Riv. dott. comm.», n. 4, 1995, p. 705. 88 Cfr. Pisani Massamormile, op. cit., p. 71 89 Cfr. Pozza, op. cit., p. 704. 87 50 metodi analitici e quella dei metodi sintetici90. I primi (detti anche metodi «patrimoniali»), determinano il capitale economico attraverso la somma dei singoli elementi dell’attivo e del passivo che compongono il patrimonio aziendale, valutati analiticamente a valori correnti. I secondi (tra cui si rammentano i metodi «reddituale» e «finanziario»), al contrario, individuano il valore del capitale economico attraverso formule sintetiche che prescindono dalla valutazione analitica degli elementi patrimoniali. Parte della dottrina, riferendosi al dato letterale dell’art. 2343 c.c. – il quale prevede la descrizione di ciascun elemento dell’attivo e del passivo dell’azienda oggetto di conferimento nonché il valore attribuito – ritiene necessario attenersi, quanto meno come criterio base, ai metodi di valutazione analitici, quale quello «patrimoniale»91. Altra parte della dottrina ritiene, al contrario, che l’azienda oggetto di conferimento non possa prescindere da una valutazione unitaria, legittimando, in tal modo, il ricorso ai metodi di valutazione sintetici92. A nostra avviso, in linea con quanto sostenuto dalla dottrina giuridica prevalente e dalla prassi, è preferibile attenersi, nella redazione della perizia estimativa ex art. 2343 c.c., a metodi di valutazione analitici, in funzione della minore soggettività che li contraddistingue93. Tuttavia, il ricorso ai metodi sintetici risulta comunque opportuno sia come «controprova» dei valori forniti dai metodi analitici sia per la determinazione dell’eventuale avviamento positivo (goodwill) o negativo (badwill) dell’azienda. Infatti, qualora l’applicazione dei metodi sintetici porti alla determinazione di un valore complessivo del compendio aziendale sostanzialmente analogo a quello determinato dall’applicazione dei metodi analitici, si potrà ritenere corretta la stima. Al contrario, una significativa divergenza dovrà indurre l’esperto a indagare sulle cause di tale divario. Una differenza positiva è, di norma, attribuibile all’avviamento (da iscriversi nella perizia de qua quale bene «autonomo» oggetto di conferimento), mentre una differenza negativa è riconducibile al fatto che il valore attribuito ai beni non rispecchia l’utilità attesa, rendendo quindi necessaria una rettifica del valore dei beni94. A tale proposito, si rileva come nella prassi risulti particolarmente frequente il ricorso al cosiddetto metodo «misto con stima autonoma del goodwill»; tale metodo, come noto, permette infatti di determinare il valore economico del capitale conferito sommando al valore dello stesso determinato con il metodo patrimoniale, l’avviamento autonomamente stimato, giusta la formula: W = K + (R – Ki) a n i’ ove i suesposti simboli assumono il significato qui sotto espresso: W = Valore economico del capitale K = Valore del capitale determinato con metodo patrimoniale (R – Ki) a 90 Per un’approfondita disamina sull’argomento si rimanda all’esauriente opera di Guatri, Trattato sulla valutazione delle aziende, Egea, 1998 91 Cfr. Guatri, op. cit., p. 363. 92 Pisani Massamormile, op. cit., p. 67 93 Cfr. Portale, Problemi in tema di valutazione e della revisione della stima dei conferimenti in natura nelle società per azioni, in «Giur. Comm.», 1974, II, p. 286; Quatraro-Mauri, L’aumento di capitale con conferimenti di beni in natura o di crediti, in «Riv. dott. comm.», 1993, p. 437. A conferma della suddetta tesi, si osserva come l’applicazione dei metodi «sintetici» renderebbe particolarmente difficoltosa la valorizzazione, in sede di bilancio di apertura della conferitaria, dei singoli elementi attivi e passivi trasferiti 94 Conseguentemente il perito esperirà una valutazione del compendio aziendale avvalendosi del metodo «patrimoniale», il quale deve ritenersi fornire il valore «minimo» dell’azienda; in un secondo momento il suddetto valore verrà comparato con quello determinato con il metodo reddituale, la cui eccedenza sul primo ben potrà essere iscritto in bilancio come «avviamento» attribuibile all’azienda stessa. 51 n i’ = Valore dell’avviamento (o sovrareddito) autonomamente stimato R = Reddito medio annuo prospettico i = Tasso di rendimento normale n = Durata presunta del sovrareddito i’ = Tasso di attualizzazione a n i’ = Fattore di attualizzazione Il suddetto metodo, pertanto, risulta quello maggiormente aderente al dettato legislativo, sostanziandosi in una autonoma valutazione di tutte le poste attive e passive, ivi compreso il valore dell’avviamento95. A tale proposito, occorre peraltro rilevare come, per semplicità, si debba evitare di effettuare la valutazione de qua basandosi sulle prospettive reddituali future, limitandosi al contrario a valutare il complesso aziendale in maniera autonoma (ovvero senza tener conto delle «sinergie» eventualmente realizzabili a seguito del conferimento), risultando ciò maggiormente in linea con l’obiettività e l’oggettività che deve, al contrario, caratterizzare la stima predisposta dal perito. Una volta chiarite le finalità a cui risponde la relazione peritale e individuate le diverse soluzioni metodologiche che meglio consentono di raggiungere lo scopo della valutazione, è possibile passare all’analisi del contenuto della perizia nonché delle conseguenti problematiche. In primo luogo, il perito è chiamato a effettuare un’indagine tesa a individuare tutti gli elementi attivi e passivi componenti l’azienda e a giudicare la loro idoneità a essere conferiti, procedendo poi alla loro valutazione avvalendosi – come si è detto – del metodo «patrimoniale», salva la successiva iscrizione del valore di avviamento determinato separatamente con il metodo suesposto. Nella valutazione delle singole poste oggetto di conferimento è possibile enucleare i seguenti criteri guida, considerando che i vari elementi patrimoniali dovranno essere espressi a «valori correnti», tenendo conto della loro destinazione economica nel bilancio dell’impresa conferente96: - le poste attive sono valutate a valori di realizzo o all’eventuale costo di riproduzione; - il valore dei debiti deve far riferimento al valore di estinzione, considerando anche interessi maturati; - le attività immateriali vanno distinte in «beni immateriali» (marchi, brevetti, licenze, ecc.), suscettibili di essere trasferiti autonomamente e quindi sicuramente conferibili, e «oneri immateriali pluriennali», la cui conferibilità è ritenuta dubbia dalla maggior parte della dottrina97 (in quanto beni non suscettibili di una valutazione economica oggettiva), di talché possono essere al più fatti rientrare nell’avviamento98. Per quanto riguarda la possibilità di iscrizione del valore di avviamento, sia nella relazione di stima che nel bilancio della società conferitaria, si ritiene che, in base a quanto prevede l’art. 2426 c.c. al n. 6, non sussistano dubbi in merito all’iscrivibilità di 95 Mette conto evidenziare, a tale proposito, come – nel caso in cui il ramo d’azienda conferito sia stato privo di qualsiasi autonomia gestionale nel periodo ante-conferimento – l’oggettiva difficoltà riscontrabile nell’attribuire allo stesso un autonomo reddito potrebbe comportare altresì l’impossibilità ad attribuire ragionevolmente un avviamento al compendio industriale in oggetto, di talché la valutazione dovrebbe avvenire avvalendosi esclusivamente di un metodo meramente patrimoniale; cfr. sul punto Guatri, Trattato sulla valutazione delle aziende, Egea, 1999, p. 362 ss. 96 Cfr. Caratozzolo, op. cit., p. 94 ss. 97 Cfr. Campobasso, Diritto delle società, Utet, 1992, p. 179 98 Cfr. Caratozzolo, op. cit., p. 111. 52 tale posta; detta disposizione, infatti, prescrive che l’avviamento può essere iscritto nell’attivo, con il consenso del collegio sindacale, se l’acquisto è a titolo oneroso. Pertanto l’iscrizione dell’avviamento è possibile indipendentemente dal tipo di corrispettivo pagato, denaro o partecipazioni che sia. Ciò posto, la valutazione delle singole poste può essere sintetizzata come segue: 1) le immobilizzazioni materiali vanno iscritte al valore corrente di mercato, ovvero – qualora non esista un mercato dell’usato per detti cespiti – al valore di riacquisto o produzione, rettificato per tener conto dell’usura nonché dell’obsolescenza economica degli stessi; gli immobili civili, in particolare, dovranno essere valorizzati esclusivamente al valore di mercato, come da apposita stima; 2) i titoli quotati vanno valorizzati in base ai prezzi correnti di borsa; per quanto attiene, al contrario, quelli privi di negoziazione in mercati regolamentati, occorrerà far riferimento, rispettivamente: a) per i titoli a reddito fisso, a quelli similari quotati; b) per le partecipazioni di controllo o collegamento, in proporzione al valore del capitale economico della società che esse rappresentano, e per le altre, in base al patrimonio netto contabile; 3) le merci e le materie in genere presenti in magazzino, vanno iscritte al valore di riacquisto, mentre i semilavorati e i prodotti finiti a quello di realizzo dalla vendita sul mercato; 4) i crediti andranno iscritti al valore di presumibile realizzo degli stessi, convertendo quelli in valuta in base al cambio corrente al momento della stima; 5) i debiti, coerentemente, devono essere iscritti al valore di estinzione, eventualmente convertiti al cambio corrente, se espressi in valuta; 6) nei fondi per rischi e oneri occorre effettuare quegli accantonamenti che permettano di far fronte a tutte le passività potenziali, come stimate dall’esperto, in base alla diligenza professionale richiesta. Nel bilancio di conferimento, come detto, comparirà anche il goodwill (ovvero l’eventuale badwill) determinato, a seconda delle metodologie adottate, sulla base della stima autonoma dello stesso propria del metodo «misto» ovvero come differenza tra il valore risultante dall’applicazione del metodo reddituale e quello emergente dalla valutazione con il metodo patrimoniale. Peraltro, in presenza di avviamento «negativo» (badwill) questo dovrà essere neutralizzato attraverso una rettifica del valore dei beni99. Per quanto attiene poi alla presenza nel suddetto documento di ulteriori voci, oltre a quelle suesposte, si osserva quanto segue: a) la differenza tra le attività (comprensive dell’avviamento) e le passività iscritte nel documento de quo costituisce il valore netto dell’azienda conferita; b) sono legittimamente conferibili, come detto, i cosiddetti «beni immateriali» in senso stretto, ovvero quelle immobilizzazioni di tipo immateriale costituiti da veri e propri diritti, i quali: - siano suscettibili di generare utilità differita nel tempo; - siano giuridicamente trasferibili (ovvero cedibili a terzi), corrispondendo a essi un diritto di sfruttamento esclusivo, regolato dalla legge; - siano misurabili nel loro valore100; 99 Cfr. Olivieri, I conferimenti in natura nelle società per azioni, Cedam, 1989, p. 425. Vi rientrano pertanto, a titolo esemplificativo, i diritti di brevetto, quelli su softwares e, in generale, tutte le opere dell’ingegno, protette e tutelate dalla legge. 100 53 al contrario, non possono costituire oggetto di conferimento quelle poste immateriali (i suddetti «oneri immateriali pluriennali») eventualmente iscritte dal conferente e prive di valore autonomo, quali, per esempio i costi di impianto, ampliamento, sviluppo, pubblicità, ecc. In tal senso, deve altresì ritenersi non conferibile l’avviamento (cosiddetto derivativo) già iscritto nella contabilità della conferente a seguito di un precedente acquisto a titolo oneroso (o conferimento) di un’azienda, e ciò in considerazione del fatto che lo stesso confluirà nell’avviamento originario attribuito al compendio aziendale oggetto del conferimento. Discusso in dottrina, appare peraltro la possibilità di poter conferire in maniera autonoma specifici intangibles non precedentemente iscritti in contabilità, i quali tuttavia – stante la loro indubbia rilevanza – concorrono senza dubbio alla formazione del capitale economico dell’impresa conferita e, in linea generale, possono anche prestarsi a una stima del relativo valore da parte del perito (come avviene avvalendosi del metodo patrimoniale complesso)101. Per alcuni autori, difatti, l’effettivo passaggio di invenzioni non brevettabili o, in generale, del know-how risulterebbe sempre incerto, atteso che nulla vieterebbe al conferente di utilizzare comunque tali conoscenze nella prosecuzione della propria attività; ne discenderebbe pertanto una costante incertezza circa l’acquisizione a titolo esclusivo di detti intangibles da parte del conferitario102; conseguentemente, altra parte della dottrina ritiene che il suddetto conferimento necessiti di un contestuale impegno, da parte del conferente, ad astenersi dall’esercizio di attività concorrenziali che possano in qualche modo limitare o, comunque, rendere incerto, l’effettiva fruibilità di tale «patrimonio d’esperienza» da parte del conferitario103. Ovviamente, quand’anche si decidesse di non valutare (e pertanto di conferire) autonomamente detti beni immateriali (ricorrendo, per esempio, a un metodo di valutazione patrimoniale semplice), gli stessi confluiranno nell’avviamento originario attribuito al compendio aziendale oggetto del conferimento, il cui valore risulterà pertanto di importo maggiore di quanto non sarebbe stato avvalendosi al contrario di un metodo patrimoniale complesso. In merito poi agli adempimenti formali, il bilancio di conferimento non è sottoposto ad approvazione assembleare. Tuttavia, secondo quanto disposto dall’art. 2343, comma 3 c.c., occorre la verifica dei valori da parte degli amministratori e sindaci della società conferitaria entro sei mesi dal conferimento. Qualora, in particolare, dalla suddetta verifica risulti che il valore attribuito ai beni risulta inferiore di oltre un quinto a quanto indicato dal perito nella sua relazione di stima, la società deve proporzionalmente ridurre il capitale, a meno che il socio decida di versare la differenza in denaro o di recedere dalla società. 101 Si tratta, a titolo esemplificativo, di tutti quegli assets relativi al marketing (notorietà del marchio, catena distributiva, design, ecc.) nonché dell’area tecnico-produttiva (quali i knowhow produttivi, i progetti di ricerca e sviluppo, design software, ecc.) la cui rilevanza economica, in un’economia come quella odierna, appare innegabile; in tal senso si veda Guatri, Trattato sulla valutazione delle aziende, Egea, 1998, p. 239 ss. 102 Cfr. in tal senso Pisani Massamormile, I conferimenti nelle Spa e formazione del capitale, Napoli, 1992, p. 29; Portale, I conferimenti in natura «atipici» nelle Spa. Profili critici, Milano, 1974; favorevole, al contrario, alla conferibilità dei suddetti intangibles, Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Utet, 1994, p. 180; Di Sabato, Manuale delle società, Utet, 1990, p. 255 103 cfr. Olivier G., op. cit., p. 283. 54 3. Il bilancio di apertura della società conferitaria Per effetto del conferimento si viene a modificare la struttura patrimoniale dell’impresa conferitaria e per tale motivo risulta quanto mai opportuno dare rappresentazione alla nuova struttura del patrimonio mediante un documento apposito, denominato «bilancio di apertura». Se l’impresa conferitaria è di nuova costituzione, la redazione di un apposito bilancio di apertura è obbligatorio per legge; infatti, ai sensi dell’art. 2217, comma 1 c.c., ciascuna impresa commerciale deve redigere, al momento della sua costituzione, un inventario generale delle sue attività e passività, e, quindi, quello da noi definito come bilancio di apertura. Peraltro, anche nell’ipotesi di aumento di capitale a seguito di conferimento in un’impresa già costituita, si ritiene comunque necessaria la predisposizione di un documento contabile di apertura, in quanto, col conferimento d’azienda si verificano comunque degli effetti rilevanti sulla situazione patrimoniale dell’impresa preesistente. È quindi opportuno procedere a un «consolidamento» tra la precedente e la nuova situazione contabile e rappresentare il tutto in un bilancio di apertura; in questo caso, però, il bilancio di apertura ha una minor valenza e non deve essere iscritto nel libro inventari104. Per quanto attiene alla forma di detto documento, occorrerà seguire la struttura della situazione patrimoniale di cui all’art. 2424 c.c. Come detto, la conferitaria iscrive le attività e passività apportate di norma ai valori di perizia, i quali costituiscono il limite massimo di iscrizione dei beni conferiti105. Peraltro, parte della dottrina critica la possibilità di assumere le attività ricevute in apporto per importi inferiori a quelli risultanti dalla perizia di stima106; infatti, una sottovalutazione, per esempio, del valore dei beni strumentali apportati comporta la determinazione di minori quote di ammortamento, con una corrispondente sopravvalutazione dell’utile di esercizio. Se l’utile viene distribuito, ciò determina un depauperamento del patrimonio sociale, con conseguente grave lesione degli interessi dei creditori. Non vi sono invece preclusioni nell’imputare il valore complessivo del conferimento, parte a capitale sociale e parte a una riserva per sovraprezzo, in quanto è lo stesso art. 2343 c.c. che ne prevede la possibilità. Peraltro tale suddivisione è senza dubbio corretta in caso di aumento di capitale sociale a seguito di conferimento in una società già costituita, in quanto il sovraprezzo svolge la funzione di tutela dei soci preesistenti all’operazione stessa. Poiché il valore economico effettivo delle azioni è di solito superiore al valore nominale di esse, i nuovi soci, pagando le azioni a valore nominale, beneficerebbero di tale surplus a danno dei vecchi soci. Il pagamento di una somma a titolo di sovraprezzo serve pertanto a riallineare la situazione di squilibrio. Ai fini del calcolo del sovraprezzo, in sede di aumento di capitale sociale, risulta necessario conoscere il valore reale (e quindi il capitale economico) sia della società conferitaria sia dell’azienda conferita. 104 Cfr. Caratozzolo, op. cit., p. 128 ss. L’ipotesi di sottovalutazione del conferimento «deve ritenersi pienamente consentita, anche in mancanza di espresse previsioni»; cfr. in tal senso Miola, I conferimenti in natura, in «Trattato delle società per azioni», a cura di Colombo e Portale, vol. I, Utet, 1998, p. 213. 106 Caratozzolo, op. cit., p. 136. 105 55 Il sovraprezzo è determinato come differenza tra il valore economico effettivo dell’azienda conferita e l’aumento di capitale sociale della conferitaria da attribuire al conferente, per la cui determinazione si usa la seguente espressione: C.S.a.c. : Incr.c.s. = WE conf.ria : WE con.ta dove: C.S.a.c. = Capitale sociale conferitaria ante conferimento Incr.c.s. = Aumento capitale sociale della conferitaria WE conf.ria = Valore economico conferitaria WE con.ta = Valore effettivo azienda conferita Per esempio, ipotizzando che il capitale sociale della conferitaria antecedente al conferimento sia 200, il suo capitale economico 2000, e il valore effettivo del complesso conferito sia 4000, avremo: 200 : x = 2.000 : 4.000 x = 200 x 400 = 400 aumento capitale sociale 2000 Sovraprezzo = (4.000 – 400) = 3.600 Non pare, invece, corretta la suddivisione tra capitale sociale e sovraprezzo in sede di costituzione delle società in quanto il valore effettivo delle azioni non può che coincidere con il valore nominale. Nei conferimenti effettuati nelle società di capitali, gli amministratori e i sindaci della società conferitaria hanno l’obbligo, imposto dall’art. 2343, comma 3 e 4 c.c., di controllo dei valori assegnati ai beni conferiti presenti nella perizia di stima. L’esito di tale controllo può avere effetti sulla contabilità dell’apporto da parte della conferitaria. Infatti, a detta dell’art. 2343 c.c., se risulta dai controlli effettuati che il valore degli elementi patrimoniali apportati «è inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento, la società deve ridurre il capitale sociale annullando le azioni che risultano scoperte. Tuttavia il socio conferente può versare la differenza in denaro o recedere dalla società». La disciplina civilistica non prende in considerazione l’ipotesi in cui i valori riscontrati dal successivo controllo siano superiori a quelli di perizia; si ritiene comunque che il maggior valore non possa essere iscritto nella contabilità della conferitaria107. Le possibili ipotesi che si possono verificare e le relative conseguenze contabili vengono qua di seguito riportate: a) il valore revisionato è sostanzialmente uguale a quello risultante dalla perizia: in tal caso non sorge alcun problema e i valori di perizia sono quelli definitivi; b) il valore di perizia è inferiore a quello di perizia ma entro i limiti di un quinto: il valore della partecipazione del socio non subisce riduzioni, mentre la conferitaria procederà alla svalutazione del valore dei beni conferiti; c) il valore di perizia risulta inferiore di oltre un quinto del valore revisionato: troverà applicazione il comma 4 dell’art. 2343 c.c. e quindi si procede alla riduzione del capitale sociale della società conferitaria o a un versamento integrativo del socio conferente, salvo che questi non decida di recedere dalla società; d) il valore revisionato è superiore a quello di perizia: il maggior valore non può essere iscritto dalla conferitaria. * 107 * * Conforme in tal senso Caratozzolo, op. cit., p. 127. 56 Tutto ciò posto, si ricorda che l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. del 4 agosto 2008, n. 142 ha inserito nel codice civile l’art. 2343 ter, del cod.civ., in base al quale è ammessa la possibilità di procedere al conferimento di beni in natura senza relazione di stima. Specificamente al comma 2 la disposizione de qua – nel testo ad oggi vigente a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, del D.Lgs. del 24 novembre 2010, n. 224 – prevede la possibilità di effettuare un conferimento di beni in natura senza la necessità di predisporre una perizia di stima da parte di un esperto nominato dal tribunale quando il valore ad essi attribuito, ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo, corrisponde: a) al fair value iscritto nel bilancio dell’esercizio precedente quello nel quale è effettuato il conferimento a condizione che il bilancio sia sottoposto a revisione legale e la relazione del revisore non esprima rilievi in ordine alla valutazione dei beni oggetto del conferimento, ovvero; b) al valore risultante da una valutazione riferita ad una data precedente di non oltre sei mesi il conferimento e conforme ai principi e criteri generalmente riconosciuti per la valutazione dei beni oggetto del conferimento, a condizione che essa provenga da un esperto indipendente da chi effettua il conferimento, dalla società e dai soci che esercitano individualmente o congiuntamente il controllo sul soggetto conferente o sulla società medesima, dotato di adeguata e comprovata professionalità. All’ultimo comma, dell’art. 2343 ter cit., inoltre, è stato chiarito che “i fini dell’applicazione del secondo comma, lettera a), per la definizione di fair value si fa riferimento ai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea”. Pertanto, l’applicazione di tale criterio presuppone che la società conferente abbia iscritto il bene da conferire in un bilancio redatto secondo gli IAS e che detto bene sia stato valutato in base al fair value. Un aspetto rilevante è vedere se le nuove regole introdotte dall’art. 2343 ter, comma 2 lett a) e b) del cod. civ. possano essere utilizzate anche per il conferimento di azienda (o ramo di azienda). Per quanto concerne l’ipotesi sancita dalla lett. a) – dato che la Direttiva n. 77/91/CEE fa riferimento al fair value ricavato per ogni singolo cespite, anche in caso di conferimento di azienda si deve guardare il valore attribuito ad ogni singolo bene iscritto nel bilancio della società conferente, incluso l’avviamento ove anch’esso risulti dal detto bilancio108. Conseguentemente, il criterio di valutazione in commento potrà trovare applicazione solamente ove siano valutate al fair value “tutte le entità attive e passive facenti parte del complesso aziendale che si intende conferire”109 Invece, pare plausibile nei casi de quibus fare ricorso alla previsione sancita dalla lett. b)110; questa impostazione non è condivisa da tutta la dottrina, la quale ritiene che solo la qualifica professionale di un perito nominato dal tribunale sia idonea a garantire l’affidabilità della valutazione, sulla base del fatto che il conferimento di azienda è 108 Cfr. l’art. 10 bis, par 3 della Direttiva n. 77/91/CEE intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati Membri, alle società di cui all'articolo 58, secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi per quanto riguarda la costituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni del capitale sociale della stessa, come modificata dalla Direttiva n. 2006/68/CE. 109 Cfr. la circolare Assonime n, 19 del 28 luglio 2011 “La nuova disciplina dei beni in natura e crediti” pag. 25 110 Cfr. P. Ceppellini e R. Lugano “Più facili i conferimenti in Spa” in Il Sole 24 Ore del 23 settembre 2008 pa. 33. 57 disciplinato per analogia dall’art. 2343 del cod. civ.111. Peraltro, il Notariato del Triveneto, con la massima n. H.A.10 del settembre 2010, ha condiviso il primo orientamento: infatti, ha esplicitamente ammesso che - stante l’alternatività dell’ipotesi sancita dalla lett. b) rispetto a quella della lett. a) e l’assenza di esclusioni o limitazioni testuali - il conferimento può avere ad oggetto qualsiasi bene conferibile in natura, inclusa l’azienda, a prescindere da una sua preesistente ed autonoma iscrizione nel bilancio della conferente o da un’autonoma ascrivibilità nel bilancio della conferitaria. 4. Il bilancio di chiusura della società scissa L’esigenza di predisporre il bilancio di chiusura sorge in capo alla società scissa principalmente in caso di scissione totale, atteso che a decorrere dalla data di efficacia della suddetta operazione la stessa cessa di esistere. Conseguentemente, occorrerà redigere un apposito bilancio atto a determinare il risultato di periodo e, se del caso, l’utile eventualmente distribuibile ai soci. Mette conto evidenziare, a tale proposito, come la predisposizione del suddetto rendiconto sia peraltro obbligatoria ai fini fiscali, atteso che l’art. 5-bis del DPR 322/98 impone – in caso di scissione totale – in capo alla società designata a norma del comma 14 dell’art. 123-bis (ora art. 173) del TUIR di presentare la dichiarazione relativa alla frazione di periodo della società scissa entro l’ultimo giorno del nono mese successivo alla data in cui diviene efficace l’operazione di scissione, in via telematica. Il suddetto bilancio costituisce un vero e proprio bilancio «infrannuale», da redigere in osservanza delle norme del codice civile in materia di bilancio d’esercizio, e deve essere composto – come di regola – da stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa; per quanto attiene poi la data di riferimento, occorre distinguere. In linea generale, infatti, il suddetto bilancio risulta riferito alla data in cui la scissione acquista efficacia, che corrisponde – salvo eventuale posticipazione della stessa – alla data in cui avviene l’ultima delle iscrizioni dell’atto di scissione nel Registro delle Imprese; al contrario, qualora le parti abbiano optato per la retrodatazione degli effetti contabili – rilevante peraltro anche ai fini delle imposte dirette112 – il suddetto bilancio dovrà essere redatto con riferimento a tale diversa (nonché anteriore) data. Ovviamente, qualora la retrodatazione fosse al 1° gennaio, l’ultimo esercizio autonomo della scissa corrisponderebbe con quello chiuso al 31 dicembre, di talché il bilancio di chiusura in esame corrisponderebbe con quello dell’ultimo esercizio. Diversamente, nel caso in cui la scissione sia parziale, non è richiesta la redazione di alcun bilancio «di chiusura» da parte della scissa, atteso che la stessa rimarrebbe comunque in vita, seppur decurtata dall’apporto effettuato nei confronti delle beneficiarie. 5. Il bilancio di apertura delle beneficiarie Il bilancio di apertura delle società beneficiarie presenta notevoli analogie con il bilancio di apertura delle società risultanti dalla fusione. Infatti, la finalità a cui risponde detto bilancio è quella di dare rappresentazione della struttura e della composizione del patrimonio della beneficiaria, così come risulta a 111 Cfr. L. Miele e V. Russo “Cessione e conferimento di azienda” cit. pag. 143. Mette conto evidenziare, a tale proposito, come dal punto di vista fiscale la retrodatazione degli effetti contabili risulti ammessa esclusivamente in caso di scissione totale e a condizione che vi sia coincidenza tra la chiusura dell’ultimo periodo d’imposta della società scissa e delle beneficiarie e per la fase posteriore a tale periodo, giusta quanto previsto in tal senso dall’art. 173 del TUIR. 112 58 seguito del trasferimento del compendio aziendale della scissa; nel caso di beneficiarie di nuova costituzione, inoltre, il suddetto documento ottempera all’obbligo di cui all’art. 2217 c.c., di redigere l’inventario all’inizio dell’esercizio dell’attività d’impresa. L’iscrizione degli elementi patrimoniali trasferiti deve essere effettuata ai valori «storici», atteso che ciò assicura la continuità contabile degli stessi: infatti, l’art. 2504bis, comma 4, c.c., richiamato dall’art. 2506-quater c.c., dispone espressamente come «nel primo bilancio successivo alla fusione le attività e le passività sono iscritte ai valori risultanti dalle scritture contabili alla data di efficacia della fusione medesima»113. A tale proposito, mette conto evidenziare come – in materia di principi contabili internazionali – lo IFRS n. 3, stabilisce in modo indifferenziato la corretta contabilizzazione delle operazioni di aggregazione aziendale (tra le quali rientra anche la scissione). Specificamente l’IFRS n. 3 prevede l’applicazione dell’acquisition method, ossia “l’acquirente deve valutare le attività acquisite e le passività assunte identificabili ai rispettivi fair value (valori equi) alla data di acquisizione”. In merito alla struttura e alla forma, tale documento risulta costituito dal solo stato patrimoniale, redatto secondo lo schema di cui all’art. 2424 c.c., senza conto economico né nota integrativa, atteso che la sua finalità principale risulta quella di esporre la struttura e la composizione del patrimonio iniziale della beneficiaria e non già alcun risultato economico di periodo. In particolare, al suo interno saranno inserite tutte le attività e le passività trasferite dalla scissa alla medesima beneficiaria, ivi comprese le eventuali poste rettificative (quali fondi di ammortamento, svalutazione crediti, ecc.), la cui iscrizione – come detto – avviene ai valori contabili ai quali risultavano in carico alla scissa; peraltro, nel suddetto documento troverà altresì evidenza l’eventuale avanzo o disavanzo da scissione, come risulta dal confronto tra il valore contabile del patrimonio netto trasferito e l’aumento del capitale sociale posto in essere dalla beneficiaria. Il bilancio di apertura, infine, non risulta soggetto ad alcuna approvazione da parte dell’assemblea dei soci, stante la sua rilevanza meramente interna, alla stregua di qualsiasi altro inventario. Ad ogni modo, il controllo da parte del suddetto organo sulle poste trasferite con la scissione risulta solamente differito al momento dell’approvazione del primo bilancio d’esercizio redatto in epoca posteriore al perfezionamento dell’operazione de qua. 113 Cfr. G. Cremona, P. Monarca e N. Tarantino “Manuale delle operazioni straordinarie”, Ipsoa, 2009, p. 231. Secondo altri autori, invece, il nostro ordinamento ammette che le poste trasferite possano essere iscritte anche ai valori correnti (ad esempio, nel caso di scissione a favore di una società beneficiaria preesistente che possieda una partecipazione nella società scissa, in tal senso cfr. G. Cristofori “operazioni di finanza straordinaria”, Il Sole 24 Ore, 2008, pag. 714. 59