Aspetti contabili e fiscali dell`operazione di cessione, di

Aspetti contabili e fiscali dell’operazione di cessione, di
conferimento e di scissione nel concordato in continuità
di Giulio Andreani
PARTE PRIMA: premessa generale sulla tassazione delle plusvalenze ................... 3
1. L’esclusione dell’imponibilità delle plusvalenze nel concordato con cessio
bonorum ........................................................................................................................ 3
1.1. L’interpretazione restrittiva della norma ...........................................................5
1.2. L’interpretazione logica della norma ................................................................6
2. La ratio dell’inapplicabilità dell’art. 86, comma 5, del Tuir al concordato con
garanzia e alle altre forme di concordato.................................................................... 8
3. Il trattamento ai fini delle imposte dirette delle plusvalenze negli accordi di
ristrutturazione del debito omologati ex art. 182-bis L.F. ............................................ 9
4. Il trattamento ai fini dell’Irap delle plusvalenze nel concordato preventivo e negli
accordi di ristrutturazione ............................................................................................. 9
4.1. Brevi considerazioni sui criteri di determinazione della base imponibile
Irap ...................................................................................................................... 10
4.2. La disciplina generale riservata alle plusvalenze e alle minusvalenze relative
ai beni strumentali ...............................................................................................11
4.3. Le plusvalenze nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione
del debito omologati ex art. 182-bis L.F. ............................................................12
PARTE SECONDA: il regime fiscale ordinario delle operazioni di cessione,
conferimento e scissione ............................................................................................... 15
1. La cessione e il conferimento di azienda…...……………………………………. .15
1.1. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il
cedente ........................................................................................................................ 15
1.1.1. Tassazione ordinaria ....................................................................................15
1.1.2. Tassazione rateizzata ...................................................................................16
1.1.3. Tassazione separata .....................................................................................16
1.2. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il
cessionario .................................................................................................................. 17
1.3. Il conferimento di azienda ai fini delle imposte sui redditi .................................. 17
1.3.1. Il regime sospensivo dei conferimenti d’azienda (art. 176) .........................18
1.3.1.1.Riconoscimento fiscale dei maggiori valori ...................................18
1.4. L’imposta regionale sulle attività produttive nella cessione e nel conferimento di
azienda ........................................................................................................................ 20
1.5. L’imposta sul valore aggiunto nella cessione e nel conferimento di azienda ...... 20
1.6. L’imposizione indiretta nella cessione e nel conferimento di azienda ................. 21
1.7. La responsabilità per i debiti tributari .................................................................. 22
2. La scissione……………………………………………………………………….. 23
2.1 La scissione ai fini delle imposte sui redditi.......................................................... 23
2.1.1. La neutralità fiscale della scissione .............................................................23
2.1.2. Trattamento fiscale delle “differenze di scissione” .....................................24
2.1.2.1. Disavanzo di scissione…………………………………………………24
2.1.2.2. Avanzo di scissione……………..………………………………………25
2.1.3. Decorrenza degli effetti tributari .................................................................26
2.1.4. Interruzione del periodo d’imposta e obblighi dichiarativi .........................26
1
2.1.5. Subentro nelle posizioni soggettive della società scissa ..............................26
2.1.6. Riserve in sospensione d’imposta.................................................................27
2.1.6.1. Riserve in sospensione d'imposta tassabili solo in caso di distribuzione.…28
2.1.6.2. Riserve in sospensione d'imposta tassabili anche in ipotesi diverse dalla
distribuzione…………………………………………………………………………… 28
2.1.7. Riporto delle perdite fiscali ..........................................................................29
2.2. Le imposte indirette nella scissione ...................................................................... 30
2.3. la responsabilità per i debiti tributari .................................................................... 30
3. Possibili profili elusivi delle operazioni straordinarie ............................................. 31
3.1. Premessa ............................................................................................................... 31
3.2. Il campo di applicazione della norma antielusiva prevista dall’art. 37 bis del
D.P.R. 600/1973: le fattispecie .............................................................................. 32
3.3. I presupposti per l’applicazione dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973: elementi
oggettivi e di scopo ................................................................................................ 34
3.3.1. Conseguimento di un vantaggio tributario altrimenti indebito....................34
3.3.2. Aggiramento di obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario.......35
3.3.3. Assenza di valide ragioni economiche .........................................................35
3.4. I tributi cui si applica l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 ....................................36
3.5. L’interpello disapplicativo previsto dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973.........38
3.6. Il principio di abuso del diritto elaborato dalla recente giurisprudenza comunitaria
e domestica ......................................................................................................... 39
3.7. L’applicazione delle norme elusive e del principio dell’abuso del diritto al
conferimento di azienda...................................................................................... 43
PARTE TERZA: il regime contabile delle operazioni di cessione, conferimento e
scissione ......................................................................................................................... 46
1. Il bilancio straordinario relativo alla cessione di azienda........................................ 46
2. Il bilancio nel conferimento di azienda ................................................................... 49
3. Il bilancio di apertura della società conferitaria ...................................................... 55
4. Il bilancio di chiusura della società scissa ............................................................... 58
5. Il bilancio di apertura delle beneficiarie .................................................................. 58
2
PARTE PRIMA: premessa generale sulla tassazione delle plusvalenze
La disciplina fiscale delle operazioni straordinarie (cessione, conferimento, fusione,
scissione, trasformazione e liquidazione) è differentemente articolata a seconda che
riguardi «operazioni sui beni», che hanno a oggetto i beni dell’impresa, oppure
«operazioni sui soggetti», che attengono non ai beni dell’impresa, ma all’ente (cioè al
soggetto) titolare di tali beni. Le operazioni sui beni comportano – in genere –
modifiche ai valori fiscalmente riconosciuti e conseguentemente il manifestarsi di
componenti positivi e negativi di reddito, giacché con esse si dà atto a uno scambio di
beni, in cui è possibile riconoscere la figura del tradens e quella dell’accipiens. Al
contrario, le operazioni sui soggetti escludono modifiche ai precedenti valori
fiscalmente riconosciuti ai beni dell’impresa, in quanto, non incidendo su detti beni, non
comportano alcuna sostituzione nel patrimonio dell’impresa e consentono di norma di
mantenere la continuità nei valori fiscalmente riconosciuti. Con le operazioni sui
soggetti, quindi, non si realizza alcuno degli eventi cui la legislazione tributaria
ricollega la rilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze latenti tanto in capo ai
singoli beni sociali quanto in capo all’azienda nel suo complesso, per il che la disciplina
di tali operazioni è caratterizzata dal principio della «neutralità fiscale», atteso che
queste – in quanto estranee alla gestione ordinaria – non sono considerate idonee a
generare reddito, essendo finalizzate alla mera riorganizzazione dell’attività d’impresa.
Ciò posto, le cessioni di azienda (come le liquidazioni) ricadono inequivocabilmente tra
le «operazioni sui beni», dando luogo a un effettivo scambio; il regime fiscale dei
conferimenti di azienda, invece, è caratterizzato oggi dal principio di neutralità fiscale,
connesso a quello di “simmetria dei valori fiscali”, così come la fusione, la scissione e
la trasformazione, che danno luogo, invece, a «operazioni sui soggetti».
Tuttavia, quando le «operazioni sui beni» sono poste in essere nell’ambito di una
procedura di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui
all’art. 182-bis L.F., la ordinaria disciplina fiscale degli istituti menzionati è influenzata
da norme speciali, che regolamentano il trattamento impositivo delle plusvalenze
generate in tale ambito.
Peraltro, quanto al regime concernente la determinazione del reddito d’impresa, a
differenza di quanto accade per l’impresa assoggettata al fallimento, la disciplina cui
soggiace in generale l’impresa ammessa alla procedura del concordato preventivo resta
– a prescindere dalle previsioni del piano concordatario – quella ordinaria,
regolamentata dagli artt. 83 e ss. del Tuir. Ne discende che al reddito d’impresa
maturato durante la procedura concordataria si applica – in astratto – anche la normativa
sulle plusvalenze sancita dall’art. 86, comma 1, del Testo Unico delle imposte sui
redditi (Tuir), ai sensi del quale le plusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da
quelli costituenti “beni-merce”, «concorrono a formare il reddito: a) se sono realizzate
mediante cessione a titolo oneroso; b) se sono realizzate mediante il risarcimento, anche
in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento dei beni; c) se i beni vengono
assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa». Tale regime
tuttavia è derogato, in caso di concordato preventivo con cessione dei beni, dal comma 5
del medesimo art. 86, come si è detto poc’anzi e come sarà meglio illustrato qui di
seguito.
1. L’esclusione dell’imponibilità delle plusvalenze nel concordato con cessio
bonorum
3
Prima della emanazione del Tuir, il tema della tassazione delle plusvalenze realizzate
nel corso dell’esecuzione del concordato preventivo, con prevalente riferimento a quello
per cessione dei beni, era stato assai dibattuto, anche se da più parti veniva negata
l’imponibilità di tali plusvalenze, dubitandosi dell’esistenza di un’effettiva capacità
contributiva nell’ambito di una procedura che comporta, da un lato, la spoliazione del
debitore di tutti i suoi beni e, dall’altro, non consente ai creditori di recuperare
interamente i loro crediti.
La querelle fu definitivamente risolta con l’introduzione nell’art. 54, comma 6, del Tuir
(ora art. 86, comma 5) di una nuova fattispecie di esclusione da imposizione, essendo
stato espressamente stabilito che ai fini delle imposte sui redditi «la cessione dei beni ai
creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e
minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e al valore di
avviamento».
Questa previsione non era contenuta nell’originario schema di testo unico portato
all’esame della Commissione parlamentare dei trenta, presieduta dall’Onorevole
Usellini, tant’è che non se ne trova traccia nella relativa relazione ministeriale. Essa fu
inserita solo in occasione della stesura definitiva del decreto, nell’art. 125 (ora art. 183),
comma 5, del Tuir, nell’ambito, quindi, della disciplina del reddito d’impresa nei casi
fallimento e di liquidazione coatta amministrativa. La collocazione inizialmente
prescelta destò subito alcune perplessità in ordine alla reale modalità di tassazione del
reddito d’impresa imponibile maturato durante la procedura di concordato preventivo e,
segnatamente, alla possibilità di applicare a tale reddito la medesima disciplina prevista
per i casi di fallimento e liquidazione coatta amministrativa. Ciò proprio alla luce del
parere rilasciato dalla commissione parlamentare, che, con specifico riguardo al
succitato art. 125, aveva invitato il legislatore a «estendere l’applicazione di tali norme
(ovverosia di quelle in tema di fallimento e liquidazione coatta amministrativa, n.d.a.)
anche alla liquidazione a seguito di concordato preventivo con cessione dei beni».
Solo con il D.P.R. n. 42 del 4 febbraio 1988 la disposizione in commento fu spostata
nell’art. 54, comma 6, nell’ambito della disciplina generale delle plusvalenze, così
facendo venire meno le perplessità di cui sopra e chiarendo che il reddito d’impresa
maturato in sede di concordato preventivo resta – in linea generale – assoggettato alla
disciplina ordinaria, fatta salva la ricorrenza di disposizioni speciali, quali quella
contenuta nell’art. 88, comma 4, e, per l’appunto, nell’art. 86 (ex 54), comma 5, del
Tuir.
Sebbene lo spostamento della norma abbia contribuito a eliminare i dubbi interpretativi
in ordine alle modalità di tassazione del reddito conseguito nell’ambito della procedura
di concordato preventivo, ancora oggi la formulazione della norma in commento
continua a risultare di difficile interpretazione.
Peraltro, a tale attività esegetica non contribuisce l’esame degli atti parlamentari, non
essendovi traccia della disposizione in commento né nella relazione ministeriale né nel
parere rilasciato dalla Commissione dei trenta; il che ha portato in dottrina ad affermare
che «la stessa è, per così dire “sbucata” fuori all’improvviso nel testo definitivo, sicché
delle ragioni della sua introduzione non abbiamo alcun chiarimento in alcun
documento ufficiale».
Ciò nonostante, in linea di principio dottrina e giurisprudenza sono concordi nel
ritenere che la finalità della norma può essere astrattamente individuata nella volontà
del legislatore, da un lato, di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando
la nascita di un debito d’imposta che, sebbene successivo alla procedura stessa, secondo
l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto gravare sulla medesima; dall’altro, di
impedire che, in capo a un soggetto che ha subito lo “spossessamento” dell’intero
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patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui
pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo per
effetto del predetto spossessamento. La ratio della disposizione testé citata sembra,
quindi, riecheggiare quella posta a fondamento della previsione contenuta nell’art. 88,
comma 4, del Tuir, secondo cui non si considera sopravvenienza attiva la riduzione dei
debiti in sede di concordato preventivo. Infatti, il legislatore del Tuir ha disciplinato il
reddito d’impresa in pendenza del concordato preventivo nell’ottica di alleggerire il
peso degli oneri fiscali gravanti sulla procedura concorsuale, in considerazione della
sostanziale “incapacità contributiva” che caratterizza l’impresa in stato di dissesto. In
questo senso, si comprende come, per espressa previsione normativa, l’esclusione da
imponibilità si applichi non solo ai beni strumentali, ma anche alle rimanenze di
magazzino e all’avviamento, presupponendo la cessione in blocco dell’intero complesso
aziendale (che, come noto, dà luogo all’emersione di un’unica plusvalenza o
minusvalenza, a prescindere dalla presenza nel complesso aziendale di beni da cui
originano ricavi).
Ciò premesso, almeno sul piano letterale la norma de qua sembra subordinare
l’intassabilità delle plusvalenze a un’operazione, la cessione dei beni ai creditori in sede
di concordato preventivo, che di regola non è idonea a generare plusvalenze, dato che
non ha come effetto il trasferimento della proprietà sui beni ceduti in capo ai creditori.
Secondo l’orientamento che trova ampia e consolidata conferma in giurisprudenza,
infatti, la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo, sia che avvenga
pro-solvendo sia che si realizzi pro-soluto, deve essere inquadrata nell’istituto
privatistico disciplinato dagli artt. 1977 e ss del c.c. Pertanto, in base a quest’ultima
norma, la cessione dei beni ai creditori non produce il trasferimento della proprietà (o di
altro diritto reale avente a oggetto tali beni) e la conseguente immediata liberazione del
debitore, ma l’attribuzione agli organi della procedura della legittimazione a disporre
dei beni medesimi, consistendo essa in un mandato irrevocabile (in rem propria)
conferito a terzi (i creditori), anche nel loro interesse, a gestire e a liquidare il
patrimonio ceduto. Dunque, se con la disposizione de qua – aderendo rigorosamente al
dato letterale – il legislatore avesse voluto affermare che la cessione dei beni ai creditori
non è di per sé atta a generare plusvalenze, la norma sarebbe del tutto inutile e
pleonastica.
1.1. L’interpretazione restrittiva della norma
In proposito, con la relazione sull’attività di accertamento espletata nel corso dell’anno
1994 il Secit aderì a un’interpretazione strettamente letterale della norma in commento,
ritenendo che l’art. 54, comma 6, del Tuir escludesse dal concorso alla formazione del
reddito imponibile soltanto le cessioni dei beni ai creditori.
Per giustificare la propria conclusione, il menzionato organo ispettivo evidenziò come il
legislatore avesse usato la medesima formulazione utilizzata per gli artt. 122, 123 e 123bis (ora, rispettivamente artt. 170, 172 e 173) del Tuir relativamente alle plusvalenze
realizzate nell’ambito delle operazioni di finanza straordinaria. Secondo il Secit,
l’utilizzo della medesima locuzione sarebbe stata esplicativa della volontà di dettare una
disciplina simile sotto il profilo sostanziale. Quindi, dato che i citati articoli intendevano
chiarire l’irrilevanza degli eventi giuridici ivi previsti agli effetti dell’emersione di
fattispecie imponibili, il comma 6 dell’art. 54 avrebbe dovuto essere interpretato nel
senso che (solo) la cessione dei beni ai creditori costituisce atto non idoneo a far
emergere plusvalenze (e non qualsiasi, generica cessione a terzi), tanto più - si potrebbe
aggiungere - che le menzionate fattispecie (trasformazione, fusione e scissione) sono
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come la “cessione dei beni ai creditori”. Seguendo questa impostazione, pertanto, la
tassazione non si sarebbe dovuta ritenere esclusa, ma originata dal successivo verificarsi
di uno degli eventi di cui all’art. 54 (ora art. 86), comma 1, del Tuir e tipicamente alla
vendita dei beni a terzi da parte del liquidatore giudiziale.
Secondo il Secit, l’interpretazione proposta sarebbe avallata anche da ragioni di
carattere logico-sistematico. A dire dell’organo ispettivo, infatti, il meccanismo
impositivo previsto per il fallimento dall’art. 125 (ora art. 183) del Tuir non potrebbe
applicarsi al concordato preventivo, perché una qualsiasi assimilazione tra le due
normative dovrebbe essere esclusa alla luce del fatto che il legislatore ha collocato
nell’art. 54 comma 6 la disciplina delle plusvalenze nel concordato (originariamente
inserita – come detto – nell’art.125, comma 5 del Tuir). Inoltre, l’adesione alla tesi più
favorevole al contribuente implicherebbe che i terzi acquirenti – per converso –
dovrebbero acquisire i relativi beni a un valore fiscale corrispondentemente inferiore al
costo di acquisto.
1.2. L’interpretazione logica della norma
Ci sembra, tuttavia, che sussistano diversi motivi per respingere l’interpretazione
fornita sul punto dal Secit. Infatti, seguendo il ragionamento dell’organo ispettivo,
nell’introdurre tale norma il legislatore del Tuir non sarebbe intervenuto per risolvere il
problema della tassabilità delle plusvalenze realizzate nel corso del concordato, ma solo
per sottolineare che l’omologazione del concordato preventivo con cessione di beni non
produce alcuna plusvalenza tassabile; il che era considerato del tutto pacifico in
dottrina e in giurisprudenza già prima dell’introduzione del Tuir; dal che discenderebbe
che la norma sarebbe stata inserita senza fornire alcuna utilità, per di più dopo
un’annosa querelle.
La tesi del Secit non è stata condivisa dalla Corte di Cassazione, la quale, con la
sentenza n. 5112 del 4 giugno 1996, ha ritenuto con un apprezzabile iter argomentativo
che «malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa (il novellato comma 6 dell’art.
54 del Tuir, n.d.a.) riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a
terzi dei beni ceduti effettuato in esecuzione della proposta di concordato».
La Suprema Corte – in linea con l’orientamento della dottrina – ha affermato che la
cessione dei beni ai creditori, quale particolare modo di attuazione del concordato
preventivo, non determina il trasferimento della proprietà dei beni ceduti, ma soltanto
l’attribuzione, in favore degli organi della procedura concordataria, della legittimazione
a disporre degli stessi e a provvedere alla loro liquidazione, al fine di realizzare il
soddisfacimento dei creditori nella misura indicata dalla proposta omologata.
Quindi, secondo il Supremo Collegio, l’art. 54, comma 6 (ora art. 86 comma 5) del Tuir
deve essere letto in combinato disposto con le fattispecie idonee a generare una
plusvalenza individuate nel comma 1, lett. da a) a c), del medesimo articolo. Al
riguardo, dovendosi escludere per evidenti motivi le ipotesi sub b) e c) (in quanto del
tutto estranee al caso concordato preventivo), la cessione concordataria dei beni ai
creditori non può essere ricondotta neppure all’ipotesi sub lett. a), poiché la cessione a
titolo oneroso implica l’alienazione del bene e quindi un effetto che, per effetto della
formulazione della proposta di concordato e della sua approvazione, non si realizza,
dato che la titolarità dei beni rimane in capo al debitore; con la conseguenza che il
novellato regime tributario non può intendersi rivolto all’offerta dei beni ai creditori in
sede di concordato, ma al trasferimento degli stessi a soggetti terzi da parte degli organi
giudiziali.
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I giudici di legittimità hanno fondato il proprio convincimento anche sulla base degli
atti parlamentari, benché ivi non sia rinvenibile un preciso e diretto riferimento alla
disposizione così come inserita nel testo unico, ma – come dianzi riferito –
un’indicazione di ordine generale sulla disciplina fiscale da riservare al reddito
d’impresa conseguito in sede di concordato preventivo. In questa prospettiva la
Cassazione ha constatato quanto segue:
«Dall’esame dei lavori preparatori (e, in particolare dal parere della Commissione dei
trenta sullo schema del Testo unico) si ricava che l’obiettivo che si intendeva
raggiungere con la disposizione in esame era proprio quello di ridurre l’onere
“fiscale” delle operazioni compiute nel corso della liquidazione concordataria. E
questo conferma che, malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda
(non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti
effettuato in esecuzione della proposta di concordato. Né è da credere che, così
interpretando la norma in esame, si vengano a operare ingiustificate discriminazioni
rispetto alla liquidazione volontaria e a quella fallimentare».
Successivamente anche l’Amministrazione finanziaria (cfr. risoluzione n. n. 29/E del 1°
marzo 2004), sposando le argomentazioni esposte dalla Corte di Cassazione nella
citata sentenza n. 5112/1996 e già condivise dalla dottrina, disattendendo il parere del
Secit, ha affermato che «l’agevolazione tributaria concessa dalla predetta disposizione
ha a oggetto non solo la «cessione dei beni ai creditori», ma anche le vendite dei beni
ceduti, effettuate (nei confronti di terzi) dal commissario giudiziale al fine di ricavare i
mezzi liquidi necessari per soddisfare i creditori». Ne consegue che «la parte dell’utile
di esercizio corrispondente alla plusvalenza conseguita a fronte della cessione dei beni
(immobili) effettuata dalla Società ….. non configura componente reddituale imponibile
ai fini dell’imposizione diretta».
Risulta quindi ormai pacifico che la norma di cui trattasi debba trovare piena
applicazione anche con riguardo alle vendite dei beni a terzi, effettuate in esecuzione
della proposta di concordato, in quanto il dato letterale della norma confligge con la
finalità sottesa alla sua adozione, che è quella di escludere la tassazione delle
plusvalenze conseguite in dipendenza di tali vendite, non potendo queste essere
imputate a un imprenditore che è ormai spogliato del possesso di tutti i suoi beni ceduti
e quindi anche della disponibilità dello stesso reddito generato da dette plusvalenze.
In conclusione, alla luce della relativa ratio, la disposizione de qua viene
(condivisibilmente) letta nel senso che l’evento, individuato dal legislatore come
inidoneo a generare plusvalenze imponibili, è in realtà rappresentato dalla vendita a
terzi dei beni ceduti in sede di concordato con cessio bonorum.
Infatti, la norma in esame acquisisce un effettivo valore normativo solo ove si superi il
dato letterale e si ritenga che essa non sia circoscritta all’offerta dei beni ai creditori
isolatamente considerata, ma ricomprenda l’intera vicenda che con tale cessione si apre,
e quindi tutti gli atti di realizzo dei cespiti attuati dal liquidatore incaricato dai creditori
cessionari.
Ciò posto, occorre chiedersi se il regime di non imponibilità previsto dal citato art. 86,
comma 5, possa trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la procedura concorsuale,
dopo che i creditori sono stati soddisfatti nella misura stabilita dalla proposta
concordataria, si concluda con un residuo attivo. Specificamente, la questione concerne
la tassabilità delle plusvalenze emergenti dalla liquidazione dei beni attuata in
esecuzione del concordato, anche relativamente alla parte di reddito da esse generato
che eventualmente residui dopo il pagamento delle spese di giustizia e dei creditori.
Secondo una parte della dottrina, invero minoritaria, la non imponibilità delle
plusvalenze di cui all’art. 86, comma 5, del Tuir sarebbe giustificata solamente quando
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la cessione dei beni opera quale mezzo diretto al soddisfacimento dei creditori. Pertanto,
nel caso in cui dalla liquidazione dei beni dell’impresa, finalizzata a soddisfare i
creditori nella misura prevista dalla proposta concordataria, discenda la realizzazione di
un residuo attivo, la disposizione in esame non si renderebbe in alcun modo applicabile,
nemmeno alla quota della plusvalenza utilizzata per soddisfare i creditori.
Un diverso orientamento sostiene, invece, la intassabilità integrale delle plusvalenze
realizzate in esecuzione della procedura concordataria, anche nel caso in cui questa
termini con un residuo attivo. Ciò in considerazione del fatto che, in base alla regola
ermeneutica per cui ubi lex voluit dixit, il legislatore avrebbe intenzionalmente inteso
non assoggettare a tassazione anche l’eventuale residuo attivo, sancendo un regime
fiscale differente rispetto a quello previsto per la procedura fallimentare.
Infine, secondo una terza tesi, la intassabilità del residuo attivo risulterebbe in contrasto
con la ratio legis, poiché la finalità dell’art. 86, comma 5 del Tuir è quella di non
assoggettare a imposizione le plusvalenze realizzate nel corso della procedura
concorsuale limitatamente alla parte preordinata a soddisfare i creditori. Pertanto,
l’esclusione da imposizione del residuo attivo non troverebbe alcuna giustificazione,
anzi contrasterebbe con quanto previsto in casi analoghi e, in particolare, con riguardo
al fallimento. Non si vede, infatti, la ragione per cui il legislatore avrebbe dovuto
sancire l’imposizione dell’eventuale residuo attivo maturato nel corso del periodo
fallimentare e prevedere invece la completa detassazione del surplus (inteso quale
differenza tra corrispettivi di cessione e debiti soddisfatti) conseguito nell’ambito del
concordato preventivo con cessione dei beni.
Nonostante il tenore letterale della norma, in base al quale non sembrerebbero
sussistere margini per ritenere inapplicabile l’esclusione di cui all’attuale art. 86,
comma 5, del Tuir anche alle plusvalenze che concorrono al superamento del deficit
concordatario e che vengono devolute alla società dopo la chiusura della procedura, è
nostra opinione che l’eventuale residuo attivo concorra alla formazione del reddito,
atteso che in relazione a esso non si genera alcun spossessamento e non è configurabile
quindi il presupposto che giustifica l’esclusione dalla tassazione delle plusvalenze de
quibus né l’imposizione che ne deriva costituisce ostacolo all’esecuzione del
concordato.
2. La ratio dell’inapplicabilità dell’art. 86, comma 5, del Tuir al concordato con
garanzia e alle altre forme di concordato
Precisata la portata della previsione legislativa di cui all’art. 86, comma 5, del Tuir con
riguardo alle plusvalenze realizzate nel corso del concordato preventivo con cessione
dei beni, occorre chiedersi quali siano i riflessi della predetta norma con riguardo al
concordato con garanzia.
Non pare possibile estendere il regime previsto dal citato art. 86, comma 5 anche a
forme diverse dal concordato con cessione di beni, giacché lo impediscono sia la lettera
sia la ratio della norma. Sotto il profilo letterale, la norma contiene un esplicito
riferimento esclusivamente a quest’ultimo tipo di concordato. Quanto all’aspetto
teleologico, nei concordati eseguiti secondo modalità diverse da quella della cessione
integrale dei beni non si produce l’effetto dello spossessamento che costituisce proprio
il presupposto dell’esclusione delle plusvalenze dalla tassazione prevista dalla norma di
cui trattasi. Quindi, la suddetta estensione del campo di applicazione della norma di cui
trattasi non pare consentita, per il che, in tali ipotesi, il conseguimento di plusvalenze –
verificandosi nell’ambito dell’ordinaria attività produttiva – risulta imponibile secondo
le ordinarie regole di determinazione del reddito d’impresa.
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Le medesime conclusioni possono essere estese alle nuove forme di concordato
preventivo ammesse dall’art. 160 L.F., quale risultante dopo la riforma che ha
recentemente interessato tale procedura. In particolare, la nuova disciplina svincola il
debitore dalla necessità di cedere l’intero suo patrimonio e quindi riconosce la
possibilità, per l’imprenditore in crisi, di cedere una parte soltanto dei suoi beni (per
esempio, quelli non funzionali alla prosecuzione dell’attività d’impresa, o quelli facenti
parte di uno o più rami d’azienda). Sul punto è stato sostenuto che ogni soluzione della
crisi d’impresa che travalichi lo schema classico della cessione dei beni ai creditori non
rientra nell’ambito previsto dall’art. 86, comma 5, del Tuir. Questa conclusione ci
sembra condivisibile, perché, anche nel concordato con cessione parziale dei beni,
l’imprenditore non subisce un vero e proprio spossessamento e quindi viene meno la
fattispecie che giustifica l’esclusione della tassazione delle plusvalenze (quanto meno
fino a concorrenza del valore delle “attività non cedute”); tuttavia - in applicazione del
principio di capacità contributiva - l’imponibile non può eccedere l’ammontare del
patrimonio conservato dall’impresa.
3. Il trattamento ai fini delle imposte dirette delle plusvalenze negli accordi di
ristrutturazione del debito omologati ex art. 182-bis L.F.
Dato che il legislatore ha stabilito – all’art. 86, comma 5, del Tuir – l’esclusione dal
pagamento delle imposte dirette solo per le plusvalenze realizzate nell’ambito del
concordato preventivo con cessio bonorum, occorre verificare l’applicabilità di tale
disposizione anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti.
La effettiva natura giuridica dell’accordo produce rilevanti riflessi fiscali.
In particolare, laddove gli accordi di ristrutturazione previsti dall’art. 182-bis della legge
fallimentare fossero da qualificare come una particolare forma di concordato
preventivo, le plusvalenze realizzate a seguito della cessione dei beni eventualmente
prevista dall’accordo di ristrutturazione, sarebbero non imponibili ai fini delle imposte
sui redditi, rientrando nella previsione contenuta nell’art. 86, comma 5, del Tuir; in caso
contrario, esse sarebbero da considerare imponibili ai fini delle imposte sui redditi
secondo le regole generali.
Tuttavia, ad avviso di chi scrive dovrebbe fare comunque eccezione l’accordo di
ristrutturazione eseguito mediante l’integrale cessione dei beni ai creditori. In questa
particolare ipotesi, infatti, il debitore consegue il medesimo effetto che potrebbe
ottenere attraverso la procedura concordataria, senza però doverne subire i relativi costi.
Stante la medesima finalità dei due procedimenti e differendo essi, sostanzialmente, nel
momento dell’acquisizione del consenso dei creditori (che nell’accordo di
ristrutturazione precede la fase prettamente giudiziale, mentre nel concordato
preventivo interviene durante detta fase), si dovrebbe ritenere applicabile anche a questa
particolare fattispecie il medesimo regime fiscale, stante la perfetta identità di ratio.
4. Il trattamento ai fini dell’Irap delle plusvalenze nel concordato preventivo e
negli accordi di ristrutturazione
Le considerazioni espresse nei precedenti paragrafi sono rivolte esclusivamente alla
disciplina delle imposte sui redditi. Diverse considerazioni devono invece essere svolte
con riguardo all’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) disciplinata dal D.Lgs.
n. 446 del 15 dicembre 1997.
9
4.1. Brevi considerazioni sui criteri di determinazione della base imponibile Irap
Invero, fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2007, l’art. 11- bis del D.Lgs.
446/1997 stabiliva espressamente che i componenti positivi e negativi, che concorrono
alla formazione del valore della produzione, «si assumono apportando a essi le
variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini delle imposte sui redditi». Per
effetto di tale norma, quindi, la detassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessio
bonorum in sede concordataria trovava diretta applicazione anche in sede di
determinazione della base imponibile Irap.
Nell’ambito del regime fiscale previgente alle modifiche apportate dalla L. n. 244/2007,
l’irrilevanza ai fini dell’Irap delle plusvalenze realizzate nell’ambito del concordato
preventivo con cessione dei beni era stata affermata in via interpretativa anche
dall’Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 29/E del 1° marzo 2004. A tale riguardo,
l’Amministrazione aveva fondato tale irrilevanza non sulla base della diretta
applicazione ai fini Irap delle disposizioni dettate ai fini Ires (come peraltro giustamente
ventilato dall’istante), ma sulla natura straordinaria dei componenti economici in
commento che, non derivando dall’esercizio della normale attività produttiva
dell’impresa, dovevano considerarsi esclusi dal valore della produzione imponibile ai
fini Irap (questa affermazione, con tutta evidenza, non teneva conto del fatto che
rispetto alla versione originaria della disciplina Irap, da un lato era stata prevista la
rilevanza fiscale “in ogni caso” delle plusvalenze e minusvalenze relative ai beni
strumenti e, dall’altro, era stato introdotto - dal 15 gennaio 2000 - il cosiddetto
“principio di correlazione”).
Ad ogni buon conto, questo assetto aveva tuttavia cagionato non poche difficoltà
nell’applicazione del tributo, dovute alla contemporanea operatività delle disposizioni in
materia di bilancio, in materia di reddito d’impresa e in materia di Irap (cosiddetto
“terzo binario”).
Con la Legge n. 244 del 24 dicembre 2007 il legislatore ha quindi ritenuto di modificare
radicalmente le regole di determinazione della base imponibile, abrogando l’art. 11bis sopra richiamato allo scopo di rafforzarne la derivazione dai dati di bilancio e di
semplificarne il meccanismo di calcolo. Segnatamente, a seguito delle modifiche
apportate dalla legge testé citata le disposizioni in tema di reddito d’impresa non
assumono più rilevanza agli effetti della determinazione dell’Irap, che dipende
unicamente dalla norme contenute nel D.Lgs. 446/1997, senza prevedere alcun rinvio al
Tuir.
Con specifico riferimento alle imprese industriali e commerciali, che redigono il conto
economico secondo lo schema legale delineato nell’art. 2425 del codice civile, il
risultato contabile di partenza è dato dal primo risultato parziale del conto economico,
rappresentato dalla differenza tra il valore e i costi della produzione, senza considerare i
costi per lavoro dipendente, gli accantonamenti e le svalutazioni dei crediti e delle
immobilizzazioni.
Al risultato contabile di partenza così determinato occorre successivamente apportare le
variazioni in aumento e in diminuzione conseguenti alle previsioni del D.Lgs. 446/1997,
in ordine alla irrilevanza impositiva di alcuni componenti positivi e negativi compresi
nel risultato contabile di partenza (che sono quindi da escludere dalla base imponibile)
nonché alla rilevanza impositiva di alcuni componenti non compresi nel suddetto
risultato (e che sono invece da includere nella base imponibile).
In estrema sintesi, prima della riforma del 2007 la disciplina Irap era fondata sui
seguenti principi:
10
rilevanza dei componenti economici classificabili nelle voci A) e B) dello schema
legale del conto economico ex art. 2425 c.c., ad eccezione delle perdite su crediti e
delle spese per il personale dipendente;
- rilevanza (tuttavia) dei componenti positivi e negativi classificabili in voci diverse
da quelle succitate, se correlati a componenti rilevanti ai fini della determinazione
della base imponibile di periodi d'imposta precedenti o successivi (principio di
“correlazione Irap”);
- diretta rilevanza delle disposizioni del Tuir in ordine alla determinazione dei
componenti positivi e negativi concorrenti alla formazione della base imponibile
Irap, salvo diversa disposizione.
A seguito della riforma del 2007, la disposizione che attribuiva diretta rilevanza ai fini
Irap delle norme contenute nel Tuir - come detto - è stata abrogata, per il che la
disciplina Irap è allo stato soggetta unicamente alle disposizioni contenute nel D.Lgs. n.
446/1997, le quali fanno esclusivo riferimento alle voci del conto economico ed
escludono, in generale, il rilievo delle voci E20) ed E21). È invece rimasto fermo il
principio di correlazione, che attribuisce rilevanza ai componenti positivi e negativi
classificabili in voci diverse da quelle succitate, se correlati a componenti rilevanti della
base imponibile di periodi d'imposta precedenti o successivi.
-
4.2. La disciplina generale riservata alle plusvalenze e alle minusvalenze relative ai
beni strumentali
Prima della radicale riforma recata alla disciplina Irap dalla L. n. 244 del 2007, la
disciplina delle plusvalenze (e delle minusvalenze), derivanti dal realizzo di
immobilizzazioni materiali e immateriali, era fondata sui seguenti principi:
- rilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze di natura ordinaria o di natura
straordinaria relative a beni strumentali, con possibilità di rateizzarne (fino a un
massimo di cinque esercizi) il concorso alla formazione della base imponibile,
secondo le medesime quote prescelte ai fini delle imposte sui redditi;
- irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze concernenti i beni relativi
all’impresa diversi da quelli strumentali e non costituenti “beni-merce”, aventi
natura straordinaria e, come tali, non classificabili nella voce A5 ovvero nella voce
B14 del conto economico;
- irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze da trasferimento di aziende per
espressa disposizione di legge, a causa della peculiarità della loro origine e natura;
- irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze da cessione dei beni ai creditori
in sede di concordato preventivo (giusta l’applicabilità dell’art. 86, comma 5, del
Tuir).
Come dianzi riferito, a seguito della riforma del 2007 la disposizione che attribuiva
diretta rilevanza ai fini Irap alle norme contenute nel Tuir è stata abrogata, per il che la
disciplina Irap è ora soggetta unicamente alle disposizioni contenute nel D.Lgs. n.
446/1997, le quali fanno esclusivo riferimento alle voci del conto economico ed
escludono, in generale, il rilievo delle voci E20) ed E21).
Inoltre, con riguardo alle plusvalenze e minusvalenze sono state apportate le seguenti
modifiche:
- l’art. 11, comma 3, del D.Lgs. n. 446/1997 ha eliminato la disposizione che
attribuiva rilevanza ai fini Irap alle plusvalenze e alle minusvalenze relative a beni
strumentali diverse da quelle derivanti da operazioni di trasferimento di azienda;
11
è stata prevista la rilevanza ai fini Irap delle plusvalenze e delle minusvalenze
inerenti immobili «patrimonio», a prescindere dalla natura ordinaria o straordinaria
delle stesse.
In sostanza, per effetto delle succitate modifiche è stata espressamente disciplinata una
fattispecie particolare di plusvalenze/minusvalenze, mentre è stata eliminata la norma
riferita a quelle relative, in generale, ai beni strumentali. È tuttavia rimasto fermo il
principio di “correlazione Irap”, che attribuisce rilevanza ai componenti positivi e
negativi classificabili in voci diverse da quelle rilevanti ai fini dell’Irap, se correlati a
componenti che hanno concorso a formare la base imponibile di tale tributo in periodi
d’imposta precedenti o successivi.
Con riguardo a questo nuovo assetto normativo, l’Agenzia delle entrate (circ. n. 27/E
del 26 maggio 2009, par. 1.1.) ha affermato che la disposizione avente ad oggetto gli
immobili «patrimonio» rivela l’esistenza di un principio di ordine generale, per effetto
del quale rientrano nel campo di applicazione dell’Irap le plusvalenze/minusvalenze
relative a beni strumentali; non avrebbe, infatti, alcun senso circoscrivere la rilevanza
Irap unicamente alla tipologia delle plusvalenze/minusvalenze inerenti immobili
«patrimonio», escludendola per la generalità di esse e tanto meno per quelle inerenti
beni strumentali. Il principio generale richiamato riposa sulla disposizione che stabilisce
l’applicazione della sopra menzionata “correlazione Irap”.
Per ragioni di carattere sistematico, si deve in effetti ritenere che alla formazione della
base imponibile continuano a concorrere anche le plusvalenze e le minusvalenze dei
beni strumentali relative a beni strumentali che ordinariamente partecipano alla processo
produttivo.
Allo stesso tempo, l’Agenzia delle entrate (par. 1.2. circ. cit), pur in assenza di una
norma espressa, ha affermato che (coerentemente con quanto previsto anteriormente alla
riforma del 2007) continuano a restare escluse dalla formazione della base imponibile
Irap le plusvalenze e minusvalenze derivanti da cessione d’azienda, in quanto si tratta di
«un’operazione che genera sempre componenti straordinarie».
-
4.3. Le plusvalenze nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione del
debito omologati ex art. 182-bis L.F.
Alla luce dell’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria, occorre
domandarsi se, in virtù delle modifiche che hanno interessato la disciplina Irap, le
plusvalenze e le minusvalenze derivanti da operazioni non attinenti la gestione ordinaria
dell’impresa restino escluse o meno dalla base imponibile Irap oppure se, nonostante il
mutato assetto normativo, si possano considerare ancora valide le indicazioni fornite
dall’Agenzia delle entrate con la succitata ris. n. 29/E del 2004 (a favore della attuale
rilevanza della predetta risoluzione si dichiarano G. Buffelli, P. D’Andrea, Le crisi
d’impresa, Il Sole 24-Ore, 2012, pagg. 297 e 298). Questa indagine concerne anche le
plusvalenze e le minusvalenze realizzate in sede di concordato preventivo, non trovando
più applicazione la previsione contenuta nell’art. 86, comma 5, del TUIR, a seguito del
venir meno del collegamento tra la disciplina dell’Irap e quella dell’Ires.
Invero, con riguardo alla disciplina previgente, l’Agenzia delle entrate (circ. n. 141 del 4
giugno 1998) aveva affermato che le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni
strumentali, anche se contabilizzate in voci relative ai componenti straordinari secondo
corretti principi contabili, concorrevano in ogni caso alla determinazione della base
imponibile Irap, ad eccezione di quelle derivanti da trasferimento di aziende (dapprima
espressamente escluse), a nulla rilevando, quindi, il fatto che trovassero causa in
operazioni non attinenti la gestione ordinaria dell’azienda.
12
A ben vedere, anche con riferimento alla nuova disciplina l’Agenzia delle entrate non
collega la rilevanza ai fini Irap delle plusvalenze e minusvalenze unicamente alla loro
genesi (ordinaria o straordinaria), bensì anche al fatto che la cessione riguardi “beni
strumentali che ordinariamente partecipano al processo produttivo”. In altri termini, la
sola natura straordinaria del componente economico non è di per sé sufficiente ad
escluderne la rilevanza ai fini Irap; del resto, se così non fosse, l’esclusione dall’Irap
avrebbe dovuto essere affermata per tutte le plusvalenze e le minusvalenze di natura
straordinaria (e, quindi, innanzitutto per quelle afferenti gli immobili «patrimonio»).
Pertanto, le ragioni per cui l’Agenzia delle entrate ha escluso la rilevanza Irap delle
plusvalenze e delle minusvalenze da cessione d’azienda appare dovuta alla contestuale
ricorrenza di due condizioni:
1. alla classificazione dei componenti economici in voci non rilevanti ai fini Irap, data
la loro chiara natura straordinaria;
2. all’insussistenza di correlazione con componenti economici che hanno partecipato
alla formazione dell’imponibile Irap in periodi precedenti, attesa la loro specifica
riferibilità a beni singoli e non all’azienda, quale bene unico, ancorché complesso,
diverso dai singoli beni che la compongono insieme ad altri.
Il motivo per il quale l’Agenzia delle entrate ha ritenuto non applicabile il principio di
correlazione alle plusvalenze e alle minusvalenze derivanti dalla cessione d’azienda, è
evidentemente da ricercare nel fatto che in tal caso oggetto di trasferimento è un
complesso di beni, che, seppur in parte, potrebbe essere costituito da elementi che negli
esercizi precedenti non hanno concorso alla formazione della base imponibile Irap
(sotto forma di quote di ammortamento, rimanenze finali, ecc.) ed è comunque un bene
a sé.
Più in generale, la ricorrenza di entrambe le condizioni richieste, ai fini della esclusione
della rilevanza Irap di plusvalenze e minusvalenze, è rinvenibile con riguardo a tutte le
plusvalenze e minusvalenze di natura straordinaria relative a beni non strumentali
(diversi dagli immobili «patrimonio», la cui rilevanza è espressamente prevista dall’art.
5, comma 3), che non abbiano quindi partecipato alla formazione della base imponibile
Irap (si pensi, per esempio, agli oggetti d’arte iscritti tra le immobilizzazioni materiali e
non soggetti ad ammortamento).
Per tali ragioni, la medesima argomentazione utilizzata per la cessione d’azienda non
appare estendibile alle plusvalenze (e alle minusvalenze) derivanti dalla cessione dei
beni strumentali (e degli immobili “patrimonio”) nell’ambito del concordato preventivo
(non rientranti nella nozione di azienda). In tal caso, infatti, con riguardo ai beni che
hanno concorso uti singuli alla formazione della base imponibile Irap sotto forma di
quote di ammortamento, può ricorrere (semprechè la natura delle
plusvalenze/minusvalenze sia straordinaria) solo la prima condizione, ma non la
seconda (cioè la mancanza di “correlazione Irap”).
Alle medesime conclusioni si perviene con riguardo alle plusvalenze e alle
minusvalenze derivanti dalle vendite eseguite in dipendenza di accordi di
ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F.. Infatti, così come per il concordato
preventivo, anche per le operazioni intervenute in attuazione di detti accordi non sono
state dettate regole particolari con riferimento alla determinazione della base imponibile
Irap, trovando quindi applicazione la disciplina ordinaria.
A giudizio di chi scrive, dunque, in virtù del quadro normativo discendente dalla
riforma del 2007 e attesa l’assenza di disposizioni specifiche in tema di concordato
preventivo e/o di accordi di ristrutturazione del debito, le plusvalenze e le minusvalenze
realizzate in tali contesti assumono rilevanza ai fini dell’Irap secondo le regole ordinarie
previste per detti componenti economici (in tal senso si vedano anche M. Bana, S.
13
Cerato, Concordato preventivo: profili critici in materia fiscale, in “il fisco” n. 24/2011,
pagg. 3797 e 3798). Non si nasconde che questa conclusione non risulta affatto
appagante sotto il profilo sistematico, in quanto - a seguito dello sganciamento della
disciplina Irap dalle norme Ires - l’ordinamento tributario (per non rendere più
difficoltosa l’attuazione della procedura) finisce per contenere norme di evidente favor
ai soli fini delle imposte sui redditi, ma non anche dell’Irap. Non si esclude che detto
risultato potrebbe essere fortuito e non essere stato effettivamente voluto dal legislatore
fiscale, ma alla luce delle disposizioni vigenti non si riscontrano fondati dati normativi
per considerare irrilevanti ai fini Irap le plusvalenze (e le minusvalenze) realizzate in
sede di concordato preventivo (o di accordi di ristrutturazione del debito), come
accadeva prima della riforma del 2007 in virtù del collegamento con la disciplina Ires.
Non v’è dubbio che la tassazione ai fini dell’Irap delle plusvalenze realizzate in sede di
concordato preventivo stride con la esclusione delle stesse ai fini Ires e con la stessa
natura dell’Irap. Per escludere la rilevanza Irap dei componenti economici in commento,
non pare peraltro possibile fare appello (almeno con riguardo alle società) all’assenza
del presupposto impositivo, riconducibile alla mancanza – nella fase concordataria – di
una autonoma organizzazione o di un effettivo valore della produzione realizzata.
Infatti, anche l’attività svolta durante la fase di liquidazione di un’impresa (finanche in
caso di fallimento) costituisce attività d’impresa e, dunque, l’eventuale reddito che
viene a determinarsi durante tale arco temporale si configura quale reddito d‘impresa,
come peraltro attestano in maniera inequivocabile le disposizioni del Tuir. Ciò posto, se
è vero sia che, ai sensi del comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, presupposto
dell’imposta è l'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla
produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, sia che
generalmente nel concordato preventivo tale plurimo presupposto non sussiste, è
altrettanto vero che, ai sensi del successivo comma 2 del medesimo articolo, l'attività
esercitata dalle società costituisce in ogni caso presupposto di imposta, a prescindere
dalla presenza o meno di un’autonoma organizzazione (invece richiesta per assoggettare
a tassazione professionisti e imprenditori individuali). Con riguardo, infine, all’assenza
durante la fase liquidatoria di un effettivo valore della produzione, essendo l’attività
dell’impresa destinata in tale fase unicamente alla monetizzazione delle attività
patrimoniali, occorre considerare che il valore della produzione non attiene al
presupposto impositivo (definito dall’art. 2), bensì alla determinazione della base
imponibile del tributo regionale. In tal senso, il valore della produzione risulta in
concreto sussistente ogniqualvolta mediante l’applicazione delle regole contenute nel
D.Lgs. n. 446/1997, si ottiene un’entità positiva, ancorché riconducibile unicamente a
componenti di natura straordinaria quali le plusvalenze e le minusvalenze discendenti
dal realizzo di beni strumentali. Del resto, se così non fosse, si dovrebbe escludere in
generale la rilevanza Irap dei risultati economici conseguiti durante la fase liquidatoria,
a seguito dell’interruzione dell’attività d’impresa ordinaria, ma di siffatta esclusione non
v’è invero alcuna traccia nelle disposizioni contenute nel succitato decreto.
Ne discende che per le società assoggettate alla procedura concordataria (nonché per le
società che hanno stipulato un accordo di ristrutturazione con finalità liquidatoria)
ricorre ugualmente il presupposto impositivo, mentre per le imprese individuali il
medesimo presupposto in tali ipotesi ricorre soltanto se il relativo piano prevede la
continuazione dell’attività d’impresa mediante l’utilizzo del compendio aziendale.
14
PARTE SECONDA: il regime fiscale ordinario delle operazioni di cessione,
conferimento e scissione
1. la cessione e il conferimento di azienda
1.1. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il
cedente
Le norme del T.U.I.R., come modificate dal D.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, dettano
disposizioni sulle plusvalenze e minusvalenze derivanti da cessione d’azienda o di ramo
d’azienda. La disciplina in parola, seppur cristallizzata a livello sistematico su distinte
disposizioni (artt. 58 e 86 per le plusvalenze – art. 101 per le minusvalenze)1, mantiene
intatto lo stesso trattamento tributario ante riforma. Infatti, da un lato la minusvalenza
risulta totalmente deducibile dal reddito di impresa, essendo realizzata mediante
cessione a titolo oneroso (ex art. 101); dall’altro la plusvalenza può essere tassata
interamente nell’esercizio in cui è conseguita oppure - a determinate condizioni - in
quote costanti in detto esercizio e in quelli successivi (ma non oltre il quarto). Per le
aziende cedute da imprenditori individuali è inoltre prevista la facoltà di optare per il
regime della “tassazione separata”. Resta, invece, esclusa la possibilità di applicare un
regime di tassazione sostitutivo, come era previsto - ante riforma - dall’abrogato art. 1,
comma 1, del D.lgs. n. 358/19972. A decorrere dal 1° gennaio 2004, infatti, le
plusvalenze realizzate per effetto di cessioni d’azienda sono soggette necessariamente
alla tassazione ordinaria, salva la possibilità - come anticipato - di ripartire in un periodo
massimo di cinque esercizi la plusvalenza conseguita.
1.1.1. Tassazione ordinaria
Ai sensi dell’art. 86 T.U.I.R., la cessione del complesso aziendale, inteso come
universalità di beni, può determinare il conseguimento - in capo al cedente - di un’unica
componente reddituale (plusvalenza o minusvalenza), la quale concorre alla formazione
del reddito d’impresa, se realizzata mediante cessione a titolo oneroso. La menzionata
plusvalenza va intesa come differenza positiva tra il prezzo di cessione e il valore
fiscalmente riconosciuto del complesso di beni che compongono l’azienda.
Ai fini del calcolo della plusvalenza, assumono rilevanza tutti gli elementi attivi e
passivi, anche quelli che - come le merci - per loro natura non sono plusvalenti, nonché
l’avviamento3.
L’Agenzia delle Entrate4 ha correttamente affermato che “il corrispettivo percepito per
la cessione costituisce un valore riferito all’azienda inteso come unitario complesso di
beni da cui origina una plusvalenza che non si può identificare con quella relativa alla
cessione delle partecipazioni che ne fanno parte. Ne consegue che, così come
concorrono alla determinazione dell’unica plusvalenza i beni merce, allo stesso modo
anche l’eventuale plusvalenza relativa alle partecipazioni che si qualificano per
l’esenzione ai sensi dell’art. 87 del Tuir non può essere estrapolata, ma concorrerà a
determinare la componente straordinaria di reddito riferibile all’intero complesso
aziendale e sarà assoggettata a tassazione secondo le regole previste dall’art. 86 del
Tuir”.
1
L’art. 58 riguarda le plusvalenze per le imprese individuali e per le società di persone, mentre l’art. 86 si
occupa delle società di capitali ed enti equiparati.
2
Si ricorda che il D.lgs n. 358/1997 relativo alle ristrutturazioni aziendali aveva previsto un regime di
tassazione opzionale che contemplava un’imposta sostitutiva (IRPEF e IRPEG), inizialmente, del 27%,
poi ridotta al 19%. L’opzione andava esercitata in sede di dichiarazione dei redditi relativa al periodo di
imposta nel quale le plusvalenze venivano realizzate. Era, inoltre, necessaria una variazione in
diminuzione per l’intero importo della plusvalenza iscritta a conto economico, al fine di non includerla
nel calcolo dell’imposta sui redditi.
3
Cfr. risoluzione 9/199 dell’8 febbraio 1979.
4
Cfr. circolare n. 6/E del 13 febbraio 2006.
15
1.1.2. Tassazione rateizzata
Come dianzi riferito, il legislatore tributario ha previsto la possibilità di optare per la
tassazione integrale della plusvalenza nel solo esercizio in cui essa viene conseguita
oppure di ripartire la stessa in quote costanti in un massimo di cinque esercizi, a scelta
del contribuente. Tale possibilità spetta a condizione che l’azienda ceduta sia posseduta
da più di tre anni, intendendo, con quest’ultima espressione, un periodo di possesso che
deve quindi protrarsi per almeno 1095 giorni (come si desume dal fatto che è stata
utilizzata la locuzione “tre anni” e non quella di “tre periodi di imposta”). Il dies a quo,
che va tenuto in considerazione al fine di verificare il rispetto del requisito temporale,
coincide con il giorno in cui l’azienda stessa è stata acquistata ovvero l’impresa è stata
costituita, a nulla rilevando l’anzianità dei singoli beni che la compongono (e, quindi,
indipendentemente dalla data di acquisto dei beni che ne fanno parte). Segnatamente,
l’Amministrazione finanziaria5 ha affermato che, “con riferimento al requisito del
possesso per un periodo di tempo non inferiore a tre anni, tale termine va computato, ai
sensi dell’art. 2963 Codice Civile, avendo riguardo al giorno in cui l’azienda è stata
acquisita o l’impresa si è costituita, indipendentemente dall’acquisto dei singoli beni
che concorrono alla formazione dell’azienda”. Una simile considerazione appare in
linea con il principio di unitarietà dell’azienda, intesa - come anticipato - nel senso di
universalità di beni tutti riconducibili a un’identica realtà economica e a questi fini,
pertanto, non valutabili autonomamente6.
Presupposto soggettivo imprescindibile ai fini della rateizzazione della plusvalenza è la
sussistenza dello stato di imprenditore commerciale da parte del cedente: il meccanismo
di ripartizione della plusvalenza si applica a condizione che non venga a mancare in
capo al cedente la qualifica di imprenditore; in caso contrario (es. l’imprenditore
individuale che ceda l’unica azienda), non può trovare applicazione la norma in
commento, rendendosi inevitabile la tassazione ordinaria. Non costituisce ostacolo alla
rateizzazione delle plusvalenze il fatto che l’imprenditore individuale, senza soluzione
di continuità, da un lato ceda l’unica azienda e dall’altro dia inizio a una nuova attività
d’impresa7.
Le medesime considerazioni valgono anche in caso di liquidazione ordinaria; infatti,
anche nella fase conclusiva della vita societaria - nel periodo che va dall’inizio alla
chiusura della procedura di liquidazione - si ha produzione di un reddito di impresa ex
art. 182 T.U.I.R..
1.1.3. Tassazione separata
In alternativa, l’art. 17, comma 1, lett. g), del T.U.I.R. consente, all’imprenditore
individuale, di optare per la “tassazione separata”, consistente nell’esclusione della
plusvalenza dal concorso alla formazione del reddito imponibile complessivo e nella
tassazione isolata della sola plusvalenza, mediante l’applicazione dell’aliquota Irpef
corrispondente alla metà del reddito complessivo netto del contribuente nel biennio
anteriore all’anno in cui i redditi sono stati realizzati.
Il legislatore tributario ha previsto tale regime al fine di consentire al contribuente di
escludere la plusvalenza dal concorso alla formazione del reddito imponibile
5
Cfr. circolare n. 320/E del 19 dicembre 1997, ove è stato altresì affermato che “… in caso di cessione di
azienda precedentemente concessa in affitto o in usufrutto, ai fini della sussistenza del requisito triennale,
si tiene conto anche del periodo in cui l'azienda è stata concessa in affitto o in usufrutto”.
6
Esempio: se nel corso dell’anno 2009, a seguito della cessione di un ramo d’azienda posseduto da oltre
tre anni si realizza una plusvalenza di 1.000.000, la società può scegliere di tassarla interamente nell’anno
2009 oppure - per esempio - in detto esercizio e nei quattro successivi (quindi, fino all’anno 2013), in
quote costanti pari a 200.000 ciascuna.
7
Quello riportato rappresenta l’orientamento assunto dalla DRE dell’Emilia Romagna nella risoluzione n.
39525 del 18 settembre 1996, secondo cui, qualora l’imprenditore dovesse cessare la propria attività nel
corso del quinquennio, la residua plusvalenza concorrerebbe a formare il reddito nell’ultimo dei periodi
d’imposta interessati.
16
complessivo sottoposto a tassazione progressiva annuale, in quanto trattasi di un
provento a formazione pluriennale.
La tassazione separata è consentita al ricorrere di tre presupposti: i) la cessione deve
riguardare un’azienda commerciale posseduta da più di cinque anni; ii) la plusvalenza
deve essere realizzata da un’impresa individuale; iii) l’opzione per la tassazione
separata deve essere espressa nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo
d’imposta al quale la plusvalenza è stata conseguita.
La tassazione separata può essere adottata anche quando, cedendo l’azienda, il cedente
perde la qualifica di imprenditore8.
1.2. La cessione d’azienda ai fini delle imposte sui redditi – Riflessi fiscali per il
cessionario
Il cessionario acquirente dell’azienda prende in carico tutti gli elementi attivi e passivi
costituenti l’azienda a un valore contabile e fiscale pari nel complesso al corrispettivo
pattuito per la cessione. Nella generalità dei casi, nell’atto di cessione è indicato
distintamente il valore corrente attribuibile a ciascun elemento facente parte del
complesso aziendale: l’iscrizione degli elementi aziendali può essere quindi
agevolmente effettuata facendo riferimento ai valori espressi nell’atto. L’eventuale
eccedenza, tra il corrispettivo dovuto e il valore attribuito ai singoli beni trasferiti, viene
imputata ad “avviamento”.
Nel caso in cui le parti non abbiano invece distinto il valore corrente attribuito alle
singole attività e passività aziendali, l’allocazione del corrispettivo può essere effettuata,
anche se la legge non contiene alcuna previsione in merito, in base a un’apposita perizia
di stima o comunque sulla scorta di elementi oggettivi.
In assenza di tale oggettività l’Amministrazione finanziaria potrebbe censurare le
modalità di allocazione del corrispettivo, anche in forza dell’art. 37 bis del D.p.r. n. 600
del 1973, disconoscendo le scelte operate dal contribuente, in quanto tese a conseguire
un vantaggio tributario indebito mediante un’attribuzione dei maggiori valori effettuata
(non in base al loro effettivo valore corrente, bensì) allo scopo di ottenerne il più veloce
recupero fiscale.
In merito, la Corte di Cassazione9 ha escluso che la ripartizione contabile tra le singole
componenti del corrispettivo versato sia insindacabilmente rimessa all’imprenditore
cessionario, essendo tale operazione soggetta al rispetto del criterio della correttezza e
veridicità del bilancio; ciò comporta che tutti gli elementi attivi e passivi costituenti
l’azienda devono essere iscritti in bilancio al loro valore reale, evitando l’inserimento di
poste inesistenti o sopravvalutate; diversamente, l’Ufficio, in presenza di idonee
presunzioni, può procedere legittimamente alla rettifica di quanto dichiarato mediante
l’accertamento analitico - induttivo, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.p.r. n.
600/1973. In altri termini, l’Amministrazione finanziaria può sindacare le scelte del
contribuente sul punto, in presenza di gravi anomalie e contraddizioni logiche.
1.3. Il conferimento di azienda ai fini delle imposte sui redditi
In linea generale, tenuto conto che con il conferimento di beni in società si verifica un
vero e proprio effetto traslativo, ancorché connesso a una finalità di natura associativa,
l’art. 9, comma 5, del T.U.I.R. equipara i conferimenti alle cessioni a titolo oneroso,
stabilendo quanto segue: “Ai fini delle imposte sui redditi le disposizioni relative alle
cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano
costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento e per i conferimenti in società”.
8
Nel caso della tassazione separata la perdita della qualifica di imprenditore non è ostativa all’opzione, in
quanto questa forma di tassazione trova la sua ragion d’essere esclusivamente nella formazione
pluriennale dei redditi e non nello status del contribuente.
9
Cfr. sentenza n. 9950 del 16 aprile 2008.
17
Tuttavia, è altresì vero che il conferimento si distingue dalla cessione per il particolare
corrispettivo dell’operazione, rappresentato non da una somma di denaro, ma dalla
partecipazione al capitale della società nella quale viene operato il conferimento e per il
cui tramite il soggetto conferente mantiene un legame indiretto con i beni conferiti. In
altri termini, l’operazione in commento consente di sostituire beni di “primo grado”,
rappresentati dai beni e/o dai diritti conferiti, con beni di “secondo grado”, rappresentati
dalle partecipazioni sociali ottenute in cambio. Ne consegue che, nel caso del
conferimento di un’azienda in una società, da un lato si dà luogo a un trasferimento di
beni (dal soggetto conferente alla società conferitaria), ma, dall’altro, il soggetto
conferente resta l’effettivo titolare di un valore corrispondente a quello dell’azienda
conferita, ancorché in via mediata.
Sotto questo profilo, il conferimento d’azienda è dunque un’operazione “double face”,
mutevole a seconda del punto di vista da cui la si guarda.
Di tale “ambiguità” di fondo il legislatore aveva tenuto conto sia in sede di emanazione
del D.lgs. n. 358/1997 sia nell’ambito della riforma introdotta con il D.lgs. n. 344/2003.
Entrambi i provvedimenti succitati, infatti, lasciavano ai contribuenti la possibilità di
stabilire se considerare il conferimento d’azienda come un’operazione fiscalmente
neutrale (ai sensi dell’abrogato art. 4 del D.lgs. n. 358/1997 o dell’art. 176 del T.U.I.R.)
oppure se attribuire a detta operazione rilevanza fiscale (ai sensi dell’abrogato art. 3 del
D.lgs. n. 358/1997 o degli artt. 9 e 175 del T.U.I.R.).
Segnatamente, il regime fiscale previsto dall’art. 175 del T.U.I.R. (nella formulazione
vigente prima delle modifiche apportate dalla L. n. 244/2007) si differenziava da quello
previsto - in via più generale - dall’art. 9, comma 5, del medesimo decreto per il fatto
che, in caso di conferimento d’azienda o di ramo d’azienda, considerava valore di
realizzo (non il valore corrente, ma) il valore attribuito alle partecipazioni ricevute in
cambio nelle scritture contabili del soggetto conferente ovvero, se superiore, quello
attribuito all’azienda conferita nelle scritture contabili del conferitario. In forza di questa
particolare disposizione, l’ammontare della plusvalenza imponibile (data dalla
differenza tra il valore di realizzo così individuato e il costo fiscale dell’azienda
conferita) veniva pertanto determinato dalle stesse imprese partecipanti all’operazione,
in virtù delle scelte operate in sede di rilevazione contabile dell’operazione (per questo
si parlava di “realizzo controllato”).
Per effetto della L. n. 244/2007, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello
in corso al 31 dicembre 2007 (e, quindi, nella generalità dei casi, dal 1° gennaio 2008),
le norme sul conferimento d’azienda – artt. 175 e 176 del T.U.I.R. sono state
modificate, venendo eliminata la sostanziale ambivalenza fiscale di tali operazioni.
In seguito alle modifiche normative intervenute, infatti, solo l’art. 176 del T.U.I.R.
disciplina il conferimento d’azienda, mentre le disposizioni dell’art. 175 del T.U.I.R.
trovano applicazione soltanto per quanto attiene ai “conferimenti di partecipazioni di
controllo e collegamento”; tutti gli altri conferimenti sono disciplinati dall’art. 9 del
T.U.I.R.
1.3.1. Il regime sospensivo dei conferimenti d’azienda (art. 176)
A norma dell’art. 176 del T.U.I.R., i conferimenti di complessi aziendali non
costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze e il soggetto conferente deve
assumere, quale valore della partecipazione ricevuta, l’ultimo valore fiscalmente
riconosciuto dell’azienda conferita, mentre il soggetto conferitario subentra nella
posizione del conferente relativamente agli elementi attivi e passivi ricevuti; qualora i
valori attribuiti dal conferitario a tali elementi divergano da quelli fiscali (determinati in
base al criterio di continuità rispetto ai valori esistenti in capo al conferente) si creano
due classi di valori e sussiste l’obbligo di allegare alla dichiarazione dei redditi un
prospetto di riconciliazione tra i valori esposti in bilancio e i valori fiscalmente
riconosciuti.
Il presupposto soggettivo per l’applicazione del regime fiscale in commento è costituito
dal fatto che il conferimento d’azienda deve essere effettuato tra soggetti esercenti
imprese commerciali residenti in Italia. Esso, pertanto, si applica anche nel caso in cui il
soggetto conferente sia un imprenditore individuale o nel caso in cui il soggetto
18
conferitario sia una società di persone. Sempre sotto il profilo soggettivo, le disposizioni
dell’art. 176 T.U.I.R. si applicano peraltro anche nel caso in cui il soggetto conferente
non sia fiscalmente residente in Italia, purché il conferimento abbia a oggetto
un’azienda ivi situata. Questo regime si fonda sui principi di “neutralità” e di
“simmetria” fiscale. Esso quindi consente - come detto - l’iscrizione in bilancio - da
parte del conferitario - dei valori correnti dei beni ricevuti oltre che dell’avviamento, ma
senza poter attribuire loro alcuna rilevanza fiscale; da qui l’emersione di un «doppio
binario» di valori civilistici e fiscali e, quindi, l’obbligo di esporre distintamente nella
dichiarazione sia i valori fiscalmente riconosciuti sia quelli contabili dei beni oggetto di
conferimento10.
Il conferente può del pari iscrivere in bilancio la partecipazione della conferitaria,
ricevuta per effetto del conferimento, a un valore contabile superiore a quello
fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita, ma il valore fiscale della partecipazione
rimane in ogni caso pari a quello dell’ultimo valore fiscalmente riconosciuto di tale
azienda. Conseguentemente, quando la partecipazione fosse successivamente ceduta, il
suo realizzo originerebbe un plusvalore contabile inferiore a quello fiscale (o una
minusvalenza contabile maggiore di quella fiscale).
1.3.1.1. Riconoscimento fiscale dei maggiori valori
Con la L. n. 244/2007, è stato aggiunto il comma 2 ter all’art. 176 del T.U.I.R.,
prevedendo la possibilità - per il conferitario - di eliminare le differenze tra i valori
contabili attribuiti a taluni elementi aziendali conferiti e i valori fiscalmente riconosciuti
degli stessi, tramite il pagamento di un’imposta sostitutiva di ammontare variabile,
allineando (o avvicinando) i secondi ai primi. Così facendo si permette di dare rilevanza
fiscale ai valori contabili attribuiti ai beni.
Tuttavia, tale imposizione sostitutiva può applicarsi soltanto ai maggiori valori contabili
relativi a beni e diritti iscritti tra le immobilizzazioni materiali e immateriali. Infatti,
secondo il dettato dell’art. 176, comma 2 ter, la conferitaria può ricorrere - in modo
totale o parziale - al versamento dell’imposta sostitutiva, esercitando la relativa opzione
nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso del quale è stato effettuato
il conferimento o, al più tardi, in quella del periodo d’imposta successivo.
I maggiori valori, attribuiti in bilancio agli elementi dell’attivo rappresentati da
immobilizzazioni materiali e immateriali relativi all’azienda ricevuta, possono ottenere
riconoscimento fiscale tramite il versamento di un’imposta sostitutiva dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche, sull’Ires e sull’Irap, secondo tre distinti scaglioni:
fino a 5 milioni di euro
12%;
da 5 a 10 milioni di euro
14%;
oltre i dieci milioni di euro
16%11.
L’imposta sostitutiva deve essere calcolata applicando le suddette aliquote alle
differenze esistenti tra il valore contabile attribuito dalla conferitaria ai beni ricevuti per
effetto del conferimento e l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto che i beni stessi
avevano presso il soggetto conferente12.
10
Per esempio, si pensi a un impianto, il cui costo fiscale è pari a 800.000, che nelle scritture contabili del
conferitario viene rilevato al valore corrente, pari a 1.300.000. In questa ipotesi, il maggior valore iscritto
di 500.000 non è riconosciuto fiscalmente; pertanto, la società, ai fini del bilancio, dovrà determinare gli
ammortamenti contabili facendo riferimento al valore contabile di 1.300.000, mentre ai fini delle
determinazione del reddito d’impresa gli ammortamenti deducibili dovranno essere quantificati sul valore
fiscale di 800.000. La differenza tra l’ammortamento imputato al conto economico e quello fiscalmente
deducibile dovrà dunque essere annualmente “ripresa a tassazione” mediante una variazione in aumento
di pari importo.
11
Cfr. circolare n. 57/E del 25 settembre 2008.
12
Esempio di eliminazione del disallineamento: riprendendo il precedente esempio sub nota 10, si ha
quindi che, mediante il versamento dell’imposta sostitutiva di 60.000 (= 500.000 x 12%), il maggior
19
La norma in rassegna, inoltre, precisa che i valori assoggettati a imposta sostitutiva
ottengono riconoscimento fiscale ai fini dell’ammortamento a partire dal periodo
d’imposta nel corso del quale viene esercitata l’opzione, ma allo stesso tempo, per
evitare condotte elusive, prevede che, qualora i beni affrancati vengano realizzati
anteriormente al quarto periodo successivo a quello dell’opzione, il costo fiscale subisce
una riduzione per un importo pari a quello dei maggiori valori assoggettati a imposta
sostitutiva e dell’eventuale maggiore ammortamento dedotto medio tempore. In questa
eventualità, il contribuente non perde quanto ha versato a titolo di imposta sostitutiva,
essendogli consentito il successivo scomputo della stessa dalle imposte sui redditi, ma
vede nella sostanza completamente neutralizzato l’incremento del valore fiscale del
bene conseguente al pagamento dell’imposta sostitutiva.
Un caso particolare di conferimento di azienda è quello che viene effettuato a favore di
una società che nasce per effetto del conferimento stesso ed è seguito dalla vendita - da
parte del conferente - delle partecipazioni della conferitaria da questi ricevute a seguito
del conferimento. La peculiarità di questa operazione consiste nel fatto che: (i) il
conferimento è eseguito in regime di neutralità fiscale e quindi senza l’insorgere di
imposte; (ii) la vendita delle partecipazioni usufruisce in genere dell’esenzione di cui
all’art. 87 del T.U.I.R. e quindi genera la debenza di imposte in misura molto limitata;
(iii) l’operazione nel suo complesso non è considerata elusiva dal comma 3 dell’art. 176
del T.U.I.R. Per questi motivi, attraverso questa forma di conferimento si può ottenere il
risultato concreto di cedere (nella sostanza) a terzi un’azienda, evitando quasi
integralmente che si rendano dovute imposte sulla plusvalenza realizzata.
1.4. L’imposta regionale sulle attività produttive nella cessione e nel conferimento di
azienda
L’art. 11-bis, comma 3, del D.lgs. n. 446 del 1997, vigente prima dell’entrata in vigore
della L. n. 244/2007, considerava espressamente irrilevanti, ai fini della determinazione
della base imponibile Irap, le plusvalenze o le minusvalenze derivanti da operazioni di
trasferimento di azienda.
Con l’art. 1 della citata L. n. 244/2007, la disciplina dell’Irap è stata radicalmente
modificata, al fine di semplificare le modalità della sua determinazione, separandola da
quella concernente le imposte sui redditi. Così l’art. 11 del D.lgs. n. 446 del 1997
attualmente vigente non prevede più espressamente l’esclusione, ai fini della
determinazione della base imponibile Irap, delle plusvalenze e minusvalenze derivanti
da operazioni di trasferimento di azienda,
Tuttavia, dalla base imponibile Irap sono in linea generale esclusi i componenti
straordinari di reddito, ai sensi dell’art. 5 del medesimo decreto. Per questo motivo, la
stessa Agenzia delle Entrate13 ha riconosciuto che, nonostante la soppressione della
previsione normativa succitata, le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dalla
cessione d’azienda continuano a non rilevare ai fini del tributo in esame.
Analogamente, dalla base imponibile Irap sono escluse le plusvalenze e le minusvalenze
derivanti dal conferimento d’azienda, in quanto anch’esse componenti straordinari di
reddito.
1.5. L’imposta sul valore aggiunto nella cessione e nel conferimento di azienda
Ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b), del D.p.r. n. 633/1972, la cessione d’azienda non
è considerata cessione di beni e, quindi, per carenza del presupposto oggettivo
costituisce operazione esclusa dal campo di applicazione dell’IVA. Tale previsione si
valore attribuito all’impianto nelle scritture contabili della società conferitaria può assumere rilevanza
anche fiscale. Ne discende la conseguente perfetta identità tra la base di commisurazione delle quote di
ammortamento imputate al conto economico e quella degli ammortamenti fiscalmente deducibili, e quindi
tra le quote annuali stesse di ammortamento (civilistico e fiscale).
13
Cfr, circolare n. 27/E del 26 maggio 2009, risp. n. 1.2.
20
applica anche nel caso in cui l’azienda, anziché essere ceduta mediante un unico atto,
venga ceduta in maniera frazionata, attraverso il trasferimento degli elementi aziendali
in più fasi e momenti.
La medesima norma stabilisce che anche i conferimenti aventi a oggetto un complesso
aziendale non sono soggetti a IVA14.
1.6. L’imposizione indiretta nella cessione e nel conferimento di azienda
Stante il principio generale di alternatività “iva – registro”, la cessione d’azienda rileva
invece ai fini dell’imposta di registro ed è tassata con l’aliquota proporzionale, ai sensi
degli articoli 2 e 3, comma 1, lett. b) del D.p.r. 131/198615.
Ai sensi dell’art. 23 del D.p.r. 131/1986, nel caso in cui sia previsto un corrispettivo
unico per l’intero compendio industriale, si applica l’aliquota più elevata tra quelle
previste per i singoli beni oggetto del trasferimento; qualora sia invece previsto un
distinto corrispettivo per ogni singolo bene che compone l’azienda, si applicano le
aliquote previste dalla Tariffa – allegato A – relativamente a ciascun bene.
In entrambi i casi, dalla base imponibile occorre sottrarre il valore delle passività
aziendali; in particolare, ove l’atto di cessione contenga la distinta indicazione dei
corrispettivi riferibili a beni soggetti ad aliquote diverse, l’ammontare delle passività
aziendali deve essere sottratto da quello delle singole attività in proporzione al rispettivo
valore di ciascuna di queste ultime rispetto al loro valore complessivo.
Ai fini della determinazione della base imponibile, occorre tenere conto altresì del
valore attribuibile all’avviamento.
A tal proposito, si osserva che, a norma degli artt. 51 e 52 del D.P.R. n. 131 del 26
aprile 1986, la base imponibile ai fini dell’imposta di registro è determinata in misura
pari al valore dell’azienda ceduta dichiarato dalle parti nell’atto e, in mancanza o se
superiore, il corrispettivo pattuito tra le parti; tuttavia, se a giudizio
dell’Amministrazione finanziaria al complesso aziendale è attribuibile un valore venale
in comune commercio (ovverosia un valore corrente di mercato o “valore normale”)
superiore al valore dichiarato in atti o al corrispettivo pattuito, essa può rettificare la
base imponibile in funzione di tale maggior valore e può procedere alla liquidazione
della maggiore imposta dovuta.
Il valore venale in comune commercio esprime il valore medio di mercato di un bene da
individuarsi nel prezzo che si dovrebbe realizzare in un determinato momento, in un
determinato luogo, sulla base di obiettive circostanze, senza l’influenza di fattori
eccezionali che lo possano in qualche modo influenzare in senso positivo o negativo.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione16, il valore venale in
comune commercio è rappresentato dal valore attribuibile ai beni oggetto di
trasferimento attraverso il libero gioco della domanda e dell’offerta, in una
contrattazione fra privati.
In altri termini, la base imponibile da assoggettare a tassazione corrisponde al valore
corrente attribuibile al complesso aziendale in maniera oggettiva e fondata, senza che
assumano rilievo circostanze contingenti o momentanee (come i legami di parentela tra
il cedente il cessionario, le difficoltà finanziarie in cui si trova il cedente, l’intenzione di
cambiare attività, ecc.), oggettive o soggettive che possano avere influito sulla
contrattazione e sulla pattuizione del corrispettivo della cessione. Un assetto normativo
14
Il D.p.r. n. 633/1972, tuttavia, consente al cessionario/conferitario di utilizzare il medesimo plafond
relativo all’importazione di beni del cedente, il che implica il beneficio della non imponibilità Iva per gli
acquisti di beni e servizi e per l’importazione dei beni e servizi di cui all’art. 8 del D.p.r. n. 633/1972. Il
trasferimento di un tale beneficio è condizionato alla circostanza che il cessionario/conferitario prosegua
senza soluzione di continuità la medesima attività economica attraverso il complesso aziendale cui
inerisce il plafond, e che nell’atto di trasferimento sia incluso espressamente il subentro nei diritti e
obblighi.
15
Inoltre, se del complesso aziendale ceduto fanno parte beni immobili, trovano applicazione le imposte
ipotecarie e catastali, anch’esse dovute in misura proporzionale.
16
Cfr. sentenza n. 2654 del 23 luglio 1968.
21
siffatto si spiega con la circostanza che l’imposta di registro è tipicamente un’imposta
d’atto, nell’ambito della quale il presupposto di fatto è la realizzazione di un atto e la
base imponibile è costituita dal valore di esso, anche se superiore al corrispettivo
effettivamente pattuito tra le parti; l’atto viene quindi in rilievo in relazione agli effetti
giuridici che è idoneo a produrre, non in relazione al suo contenuto economico17.
*
*
*
In forza del medesimo principio di alternatività, anche i conferimenti di azienda sono
soggetti all’imposta di registro, ma in misura fissa (€ 168,00). Se del complesso
aziendale conferito fanno parte beni immobili, trovano applicazione anche le imposte
ipotecarie e catastali, pure dovute in misura fissa.
1.7. La responsabilità per i debiti tributari
Ai sensi dell’art. 2560, comma 2, del codice civile, l’acquirente di un’azienda risponde
unicamente dei debiti aziendali risultanti dalle scritture contabili. Fa eccezione a tale
regola generale la responsabilità del cessionario per i debiti tributari, atteso che, a norma
dell’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997, il cessionario di un’azienda è solidalmente
responsabile con il soggetto cedente per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni
riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due
precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se
riferite a violazioni commesse in epoca anteriore; peraltro, l’Amministrazione
finanziaria, prima di far valere le proprie pretese nei confronti del cessionario, deve
avere preventivamente escusso il cedente. La responsabilità solidale del cessionario
dell’azienda è, tuttavia, limitata al valore dell’azienda ceduta, nonché al debito
risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’Amministrazione
finanziaria. Quest’ultima è tenuta a rilasciare - a richiesta - un apposito certificato
comprovante l’esistenza delle contestazioni in corso (ovverosia ancora potenziali) e
delle contestazioni già definite, per le quali i debiti verso l’erario non siano ancora stati
soddisfatti; qualora dal certificato non siano rilevabili debiti tributari (effettivi o soltanto
potenziali) non ancora soddisfatti, oppure in caso di mancato rilascio del certificato
entro quaranta giorni dalla richiesta, il cessionario dell’azienda non è responsabile per i
debiti tributari del cedente.
Tuttavia, potrebbero sussistere violazioni e/o contestazioni che, sebbene non ancora
conosciute dall’Agenzia delle Entrate, siano comunque note al cessionario dell’azienda.
In questo caso, il comma 4 del citato art. 14 prevede che, qualora la cessione d’azienda
sia stata attuata “in frode dei crediti tributari”, non trovano applicazione le disposizioni
generali che limitano o escludono la responsabilità del cessionario; ciò significa che,
qualora l’Amministrazione finanziaria sia in grado di dimostrare che la cessione di
azienda è stata effettuata in “frode dei crediti tributari”, il cessionario della stessa è
responsabile - solidalmente con il cedente (e senza il beneficio della preventiva
escussione di quest’ultimo) - per i crediti tributari del cedente (riferibili alla data del
trasferimento), a nulla rilevando - in tal caso – il rilascio del predetto certificato da parte
dell’Amministrazione finanziaria, comprovante l’esistenza di limitate contestazioni o
l’inesistenza di contestazioni. Il successivo comma 5 del medesimo art. 14 individua,
nel trasferimento d’azienda effettuato nei sei mesi successivi alla constatazione di una
violazione penalmente rilevante, una fattispecie tipica di “cessione attuata in frode dei
17
Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, invece, non assume rilevanza il valore economico
teoricamente attribuibile all’azienda ceduta (come per l’imposta di registro), bensì il corrispettivo
effettivamente conseguito dall’impresa cedente. Ciò nonostante, la Cassazione ha manifestato un non
condivisibile orientamento secondo cui la definizione ai fini dell’imposta di registro del maggior valore
dell’azienda (rispetto a quanto dichiarato in atti) assumerebbe automatica rilevanza anche agli effetti delle
imposte sui redditi, ancorché sia comunque riconosciuta al contribuente la possibilità di superare la
presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore accertato in via definitiva ai fini
dell’imposta di registro, dimostrando - con qualsiasi mezzo disponibile - di avere in concreto venduto a
un prezzo inferiore (cfr. sentenze n. 17600 dell’8 agosto 2005, n. 19830 del 18 luglio 2008 e n. 23001 del
13 dicembre 2012; contra sentenza n. 21348 del 7 agosto 2008, secondo cui non esisterebbe invece
alcuna correlazione tra i due accertamenti).
22
crediti tributari” (ammettendo, peraltro, che a tale presunzione legale possa essere
opposta la prova contraria da parte del cessionario).
*
*
*
Nel prevedere e disciplinare la responsabilità del cessionario d’azienda per i crediti
tributari rimasti insoddisfatti, l’art. 14 del D.lgs. n. 472/1997 non contiene alcun
espresso riferimento al conferimento d’azienda; lo stesso dicasi per quanto concerne le
altre disposizioni del medesimo decreto. Tuttavia, la dottrina maggioritaria si è espressa
a favore della estensione della responsabilità solidale fiscale, espressamente prevista
dall’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 con riguardo alla cessione di azienda, alla fattispecie
del “conferimento” di azienda, ponendo principalmente a fondamento di tale estensione
l’assimilazione dell’istituto del conferimento a quello della cessione. Tale conclusione
si fonda innanzitutto sull’elaborazione giurisprudenziale maturata in campo civilistico,
secondo cui il conferimento in società è giuridicamente equiparabile alla cessione, in
quanto, “quando è conferita in società un’azienda, il conferimento equivale – con
riferimento ai debiti dell’azienda conferita risultanti dai libri contabili – ad una
cessione d’azienda in favore della società conferitaria, e pertanto, ai sensi dell’art.
2560 del codice civile, il cessionario è responsabile al pari del cedente di detti debiti
verso i terzi creditori che, a prescindere dalla regolamentazione dei rapporti interni tra
le parti, possono pretendere l’adempimento anche immediatamente dal cessionario”
(Cass. n. 4351 del 16 maggio 1997).
Ne discende ulteriormente che detta norma produce effetto non solo per generare la
responsabilità del conferitario, ma anche ai fini della limitazione di tale responsabilità,
nel perimetro previsto dallo stesso art. 14 del D.lgs. n. 472/1997.
2. La scissione
2.1. La scissione ai fini delle imposte sui redditi
2.1.1. La neutralità fiscale della scissione
Tra le operazioni “sui soggetti” rientra anche la scissione societaria, la quale - al pari
della fusione (e della trasformazione) - si configura come una mera modifica dell’atto
costitutivo e come una riorganizzazione; eventi questi da cui non possono originare
plusvalenze tassabili. Per effetto di tale modifica, nella titolarità di tutte le attività e le
passività aziendali della società scissa (nella scissione totale) o solo di alcune di esse
(nella scissione parziale) subentrano in toto le società beneficiarie della scissione, le
quali, in cambio, emettono partecipazioni sociali assegnandole ai soci della società
scissa. In capo a questi ultimi, quindi, le partecipazioni sociali detenute nella società
scissa, annullate per effetto della scissione, sono sostituite dalle partecipazioni delle
società beneficiarie assegnate in sede di concambio18.
Anche le scissioni societarie sono pertanto caratterizzate dalla «neutralità fiscale»,
atteso che sono inidonee a generare reddito, essendo finalizzate alla sola
riorganizzazione dell’attività d’impresa e non avendo lo scopo di attuare un
trasferimento di beni. Anche la neutralità fiscale della scissione è sancita esplicitamente
dall’art. 173, comma 1, del T.U.I.R., il quale dispone quanto segue: “La scissione totale
o parziale di una società in altre preesistenti o di nuova costituzione non dà luogo a
realizzo né a distribuzione di plusvalenze e minusvalenze dei beni della società scissa,
comprese quelle relative alle rimanenze e al valore di avviamento”.
18
La sostituzione delle partecipazioni della società scissa (annullate per effetto della scissione) con quelle delle
società beneficiarie non costituisce un’operazione realizzativa/traslativa per i soci e, quindi, non dà luogo al realizzo
di plusvalenze o minusvalenze in capo agli stessi.
23
2.1.2. Trattamento fiscale delle “differenze di scissione”
Le differenze contabili, che inevitabilmente vengono a emergere a seguito della
scissione, sono comunemente denominate “disavanzi” e “avanzi” di scissione. L’art.
173 del T.U.I.R. disciplina il regime fiscale dell’una e dell’altra posta contabile.
2.1.2.1. Disavanzo di scissione
Anche relativamente alla scissione si distinguono due tipologie di disavanzi di
scissione, il “disavanzo da annullamento” e il “disavanzo da concambio”.
Il disavanzo da annullamento di scissione misura l’eccedenza del valore contabile della
partecipazione nella società scissa (detenuta dalla società beneficiaria e annullata per
effetto della scissione19) rispetto al valore contabile netto delle attività e passività della
società scissa assegnate alla medesima beneficiaria.
Il disavanzo da concambio, invece, è la posta contabile che corrisponde all’eccedenza
del valore nominale delle partecipazioni emesse dalla società beneficiaria, per effetto
della scissione, rispetto al valore contabile netto delle attività e passività della società
scissa assegnate alla medesima società beneficiaria.
A norma dell’art. 2504 bis, comma 4, del codice civile, anche il disavanzo di scissione
(da annullamento o da concambio) può essere allocato sui beni assegnati dalla società
scissa, se e nella misura in cui sia imputabile a plusvalori latenti dei suddetti beni
aziendali o all’avviamento oppure, in mancanza dei presupposti per la sua iscrizione
nell’attivo, deve essere imputato al conto economico quale “perdita di scissione”.
Al principio di neutralità fiscale corrisponde il principio di simmetria fiscale. Il comma
2 dell’art. 173 del T.U.I.R. stabilisce, infatti, quanto segue: “i maggiori valori iscritti in
bilancio per effetto dell’eventuale imputazione del disavanzo riferibile all’annullamento
o al concambio di una partecipazione, con riferimento a elementi patrimoniali della
società scissa, non sono imponibili nei confronti della beneficiaria. Tuttavia i beni
ricevuti sono valutati fiscalmente in base all’ultimo valore riconosciuto ai fini delle
imposte sui redditi, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione della
dichiarazione dei redditi, i dati esposti in bilancio e i valori fiscalmente riconosciuti”. Il
principio di “simmetria fiscale” previsto dalla norma testé citata, che costituisce diretto
corollario del principio di neutralità fiscale, rende dunque fiscalmente irrilevanti i
19
Normalmente la scissione per incorporazione non comporta l’annullamento dell’intero valore della
partecipazione posseduta dalla beneficiaria incorporante nella società scissa, perché in genere tale
partecipazione è in parte sostituita da una “nuova” partecipazione in un’altra beneficiaria (ove la scissione
abbia luogo a favore non solo della incorporante socia della scissa, ma anche di altra società), per il che
l’annullamento riguarda solo l’altra “parte” della partecipazione. Ciò posto occorre individuare un criterio
utilizzabile per scomporre il valore (contabile e fiscale) della partecipazione nella scissa detenuta dalla
incorporante socia nella parte destinata a essere annullata e nella parte destinata a essere sostituita con la
“nuova” partecipazione. Secondo un orientamento condiviso dalla stessa Amministrazione finanziaria
(cfr. risoluzione n. 6/E del 13 febbraio 2006), la determinazione del valore contabile e fiscale delle
partecipazioni nella società scissa, annullate per effetto della scissione, deve essere operata in proporzione
al rapporto tra il valore contabile netto delle attività e passività assegnate alla società beneficiaria e il
patrimonio netto contabile della società scissa ante scissione (per esempio, se si assume che il valore
contabile delle partecipazioni nella società scissa è pari a 1.000 e che il valore contabile netto delle
attività e passività trasferite alla società beneficiaria incorporante, socia della scissa, corrisponde al 40%
del patrimonio netto contabile della società scissa, il valore contabile delle partecipazioni annullate
ammonta a 400 = 1.000 x 40%). Secondo un diverso orientamento - che a chi scrive pare peraltro
preferibile -, la determinazione del valore contabile e fiscale delle partecipazioni nella società scissa,
annullate per effetto della scissione, andrebbe invece operata in proporzione al rapporto tra il valore
corrente netto delle attività e passività assegnate alla società beneficiaria e il valore corrente della società
scissa ante scissione.
24
maggiori valori portati a incremento del valore di bilancio delle attività e passività della
società scissa, per effetto dell’allocazione del disavanzo di scissione; le attività e
passività della società scissa vengono assunte, dalla o dalle società beneficiarie, allo
stesso valore fiscale a esse attribuito anteriormente alla scissione. Anche in questo caso
emerge un «doppio binario» tra i valori civilistici e fiscali, per il che la disciplina
tributaria prevede l’obbligo - per le società beneficiarie - di allegare alla dichiarazione
dei redditi un prospetto di riconciliazione tra i valori fiscalmente riconosciuti e i dati
esposti in bilancio (che risulteranno più elevati per effetto della imputazione del
disavanzo di scissione).
Il disavanzo di scissione, se non allocabile a incremento del valore contabile dei beni o
dell’avviamento della società scissa (in quanto tale posta non sia espressiva di un
maggior valore corrente di detti beni), deve essere imputato a conto economico quale
“perdita di scissione” (per lo più quale conseguenza di un “cattivo affare”). Anche in
questa ipotesi, il disavanzo di scissione è fiscalmente irrilevante giusta il disposto
dell’art. 173, comma 2, del T.U.I.R., a norma del quale nella determinazione del reddito
delle società partecipanti alla scissione non si tiene conto del disavanzo di scissione
iscritto in bilancio. Ne discende che, qualora il disavanzo di scissione (da annullamento
o da concambio) venisse imputato a conto economico quale “perdita di scissione”, detto
componente negativo non è deducibile in sede di determinazione del reddito d’impresa
e, dunque, deve essere ripreso a tassazione mediante una variazione in aumento di pari
importo.
*
*
*
Giusta il disposto del comma 15 bis dell’art. 173 del T.U.I.R., anche per la scissione è
ammessa la deroga al generale principio di simmetria fiscale previsto. Infatti, mediante
il pagamento dell’imposta sostitutiva prevista dal comma 2 ter all’art. 176 è possibile
ottenere il riconoscimento fiscale (per intero o solo in parte) dei maggiori valori iscritti
nel bilancio della società beneficiaria a seguito dell’allocazione del disavanzo di
scissione (da annullamento o da concambio).
2.1.2.2. Avanzo di scissione
L’avanzo da annullamento è la posta contabile che misura l’eccedenza del valore
contabile netto delle attività e passività della società scissa, assegnate alla società
beneficiaria, rispetto alla parte del valore contabile della partecipazione nella società
scissa, detenuta dalla società beneficiaria incorporante socia della scissa, annullata per
effetto della scissione.
L’avanzo da concambio, invece, misura l’eccedenza del valore contabile netto delle
attività e passività della società scissa, assegnate alla società beneficiaria, rispetto al
valore nominale delle nuove partecipazioni emesse da quest’ultima per effetto della
scissione (e assegnate ai soci della società scissa).
Come per la fusione, l’avanzo di scissione (da annullamento o da concambio) è
disciplinato dall’art. 2504 bis, comma 4, del codice civile, a norma del quale esso è
iscritto in una apposita voce del patrimonio netto della società beneficiaria ovvero tra i
fondi per rischi e oneri, quando la sua emersione sia riconducibile a futuri risultati
economici sfavorevoli.
Sotto il profilo fiscale anche l’avanzo di scissione (da annullamento o da concambio)
non assume rilevanza in linea generale, come previsto dal primo periodo del comma 2
dell’art. 173 del T.U.I.R.; ciò sia nel caso in cui esso venga iscritto tra le riserve del
patrimonio netto, sia nel caso in cui venga iscritto tra i fondi per rischi e oneri.
25
2.1.3. Decorrenza degli effetti tributari
Ai sensi dell’art. 173, comma 11, del T.U.I.R., la decorrenza degli effetti fiscali della
scissione segue in linea generale quella prevista ai fini contabili nel progetto di
scissione. La retrodatazione degli effetti fiscali (ancorché prevista dal progetto di
scissione) opera ai fini delle imposte sui redditi soltanto per la scissione totale e a
condizione che vi sia coincidenza tra la data di chiusura dell’ultimo periodo d’imposta
della società scissa e quello delle società beneficiarie, nonché per la fase posteriore a
tale periodo.
Non è dunque possibile retrodatare gli effetti fiscali della scissione in presenza di
società beneficiarie costituite per effetto della scissione stessa, né, in ogni caso, con
riguardo a una scissione parziale.
2.1.4. Interruzione del periodo d’imposta e obblighi dichiarativi
In caso di scissione totale, la società scissa si estingue perdendo la propria soggettività
ai fini delle imposte sui redditi. Ne discende l’interruzione del periodo d’imposta di
quest’ultima in corso alla data di effetto della scissione. In questa ipotesi, il soggetto
tenuto a presentare - entro l’ultimo giorno del nono mese successivo alla data di effetto
della scissione (art. 5 bis del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322) - la dichiarazione dei redditi
e a effettuare il versamento delle eventuali imposte dovute relativamente al periodo
d’imposta interrotto è la società beneficiaria appositamente designata nell’atto di
scissione e, in caso di mancata designazione, la società beneficiaria indicata per prima
in tale documento20. Se gli effetti contabili e fiscali della scissione totale sono stati
retrodatati all’inizio dell’esercizio nel corso del quale la scissione è attuata, nessuna
dichiarazione deve essere presentata per la società scissa, poiché il reddito prodotto
dalla stessa è attribuito alle società beneficiarie.
In caso di scissione parziale, invece, la società scissa non si estingue, sicché non si
verifica alcuna interruzione del periodo d’imposta e i relativi obblighi restano in capo a
essa.
2.1.5. Subentro nelle posizioni soggettive della società scissa
Il comma 4 dell’art. 173 disciplina il subentro delle società beneficiarie della scissione
nelle «posizioni soggettive» fiscali, facenti capo alla società scissa. Tra le posizioni
soggettive rientrano, a titolo esemplificativo, le perdite fiscali “riportabili in avanti”, le
variazioni in aumento o in diminuzione da apportare ai redditi imponibili futuri per
effetto del differimento della tassazione o della deduzione di determinati componenti
reddituali (fenomeno da cui originano le imposte differite e le imposte anticipate) o,
ancora, gli anni di possesso dei beni strumentali al fine della rateizzazione della
plusvalenza conseguente alla loro cessione (art. 86, comma 4).
Nella fusione la sorte delle posizioni soggettive facenti capo alle società incorporate o
fuse non richiede una particolare regolamentazione, confluendo esse tutte nella società
incorporante o risultante dalla fusione; nella scissione, invece, la questione richiede una
apposita regolamentazione, dovendosi stabilire le modalità secondo cui attribuire a più
soggetti le situazioni soggettive facenti capo a una sola entità.
20
Analogo obbligo sussiste in relazione alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta anteriore a quello
nel corso del quale si attua la scissione, a meno che la società scissa non abbia già provveduto autonomamente a
presentare la propria dichiarazione dei redditi e a liquidare le relative imposte.
26
In linea generale, il comma 4 dell’art. 173 prevede che – a partire dalla data di effetto
della scissione – le posizioni soggettive della società scissa siano attribuite secondo i
seguenti criteri:
– in caso di scissione parziale, le posizioni soggettive della società scissa sono attribuite
a questa e alle società beneficiarie in proporzione alle quote di patrimonio netto
contabile rispettivamente rimaste alla scissa e assegnate alle beneficiarie;
– in caso di scissione totale, le posizioni soggettive della società scissa sono attribuite
alle società beneficiarie in proporzione alle quote di patrimonio netto contabile a esse
assegnate.
Tuttavia, le suddette regole non trovano applicazione per le posizioni soggettive
connesse specificamente o per insiemi agli elementi del patrimonio netto contabile
trasferito (si pensi, per esempio, agli anni di possesso dei beni per la rateizzazione delle
plusvalenze o alle variazioni in aumento o in diminuzione legate alle sorti di una
determinata attività o passività). Dette posizioni soggettive non vengono distribuite in
maniera proporzionale tra le società partecipanti alla scissione, ma sono attribuite per
intero soltanto alla società beneficiaria divenuta titolare delle attività e passività cui esse
sono connesse21.
2.1.6. Riserve in sospensione d’imposta
Alla data di effetto della scissione, nel patrimonio netto contabile della società scissa
possono essere presenti riserve in sospensione d’imposta. In tal caso, il comma 9
dell’art. 173 del T.U.I.R. stabilisce che tali riserve si intendono trasferite alle società
beneficiarie secondo la regola generale, ovverosia proporzionalmente alle quote di
patrimonio netto contabile a esse assegnate; nella stessa misura si riducono le riserve in
sospensione d’imposta in capo alla società scissa, in caso di scissione parziale.
Inoltre, per evitare che la scissione possa essere utilizzata allo scopo di eliminare tali
riserve trasformandole in riserve “libere” (cioè non in sospensione d’imposta) in capo
alle società beneficiarie, il comma 9 dell’art. 173 del T.U.I.R. estende alla scissione le
medesime regole previste per la fusione, in ordine all’obbligo per le società beneficiarie
di ricostituire - a determinate condizioni - le predette riserve nel rispettivo patrimonio
netto contabile22.
21
Esempio di ripartizione delle posizioni soggettive: il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l. è pari a €
1.000.000. Alfa S.r.l. attua una scissione parziale a favore delle società beneficiarie neocostituite Beta
S.p.A. e Gamma S.r.l., assegnando loro attività e passività aziendali il cui valore netto contabile
complessivo ammonta rispettivamente a € 500.000 e € 200.000. Per effetto della scissione, il patrimonio
netto contabile di Alfa S.r.l. diventa quindi pari a € 300.000 (= 1.000.000 - 500.000 - 200.000). Ne
discende che le posizioni soggettive, facenti capo ad Alfa s.r.l. vengono così ripartite nelle seguenti
misure:
30%
Alfa S.r.l.
50%
Beta S.p.A.
20%
Gamma S.r.l.
22
Esempio di ricostituzione di riserve tassabili solo in caso di distribuzione nel patrimonio netto contabile
di Alfa S.r.l., pari a € 1.000.000, sono presenti riserve di rivalutazione ex art. 15, comma 16, del D.L. n.
185/2008 (in sospensione d’imposta) ammontanti a € 500.000. Alfa S.r.l. attua una scissione parziale a
favore delle società beneficiarie neocostituite Beta S.p.A. e Gamma S.r.l., assegnando loro attività e
passività aziendali il cui valore netto contabile ammonta rispettivamente a € 500.000 e € 200.000 (quindi
per complessivi € 700.000). Per effetto della scissione, il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l. diventa
pari a € 300.000. Pertanto, nel patrimonio di Alfa S.r.l. le riserve in sospensione d’imposta si riducono di
€ 350.000 (ovverosia del 70%), passando da € 500.000 a € 150.000; per un pari importo esse si intendono
trasferite alle due società beneficiarie Beta S.p.A. e Gamma S.r.l., rispettivamente per € 250.000 (=
350.000 x 500.000 / 700.000) e per € 100.000 (= 350.000 x 200.000 / 700.000), le quali devono
ricostituirle nei rispettivi bilanci, successivamente alla scissione, se e nella misura in cui ricorrono i
presupposti previsti dall’art. 172, comma 5, del T.U.I.R. (richiamato dall’art. 173, c. 9).
27
In proposito, infatti, l’art. 172, comma 5, del T.U.I.R. contiene un’articolata disciplina
relativa alla sorte delle riserve in sospensione d’imposta presenti nel patrimonio netto
delle società scissa, in forza della quale è previsto l’obbligo per le società beneficiarie di
ricostituire, a determinate condizioni, tra le voci del proprio patrimonio netto contabile
le suddette riserve, vincolandole al medesimo regime fiscale cui erano soggette
anteriormente alla scissione. Al riguardo, la norma testé citata distingue le riserve e i
fondi in sospensione d’imposta della società scissa in tre gruppi.
2.1.6.1. Riserve in sospensione d’imposta tassabili solo in caso di distribuzione
Se nel patrimonio netto contabile della società scissa sono presenti riserve che
concorrono alla formazione del reddito d’impresa solo in caso di loro distribuzione ai
soci (quali, per esempio, le riserve di rivalutazione iscritte in bilancio ex art. 15, commi
16 e ss., del D.L. n. 185/2008), l’obbligo di ricostruzione di dette riserve nel patrimonio
netto delle società beneficiarie sussiste se e nel limite in cui dalla scissione sia stato
generato un avanzo oppure un aumento di capitale sociale per un valore superiore al
capitale della società scissa.
Infatti, se per effetto della scissione non è emerso né un avanzo di scissione né tanto
meno si è verificato un aumento del capitale sociale “eccedente” il capitale sociale della
società scissa, è esclusa in radice la possibilità che le società beneficiarie possano avere
“trasformato” le riserve in sospensione d’imposta presenti nelle società scissa in poste
del proprio patrimonio netto contabile.
Viceversa, laddove per effetto della scissione sia emerso un avanzo o si sia verificato un
aumento di capitale sociale eccedente il capitale della società scissa, il vincolo di “non
distribuzione” relativo alle riserve presenti nelle società scissa si trasferisce sull’avanzo
o sul capitale sociale “eccedente” delle società beneficiarie. In caso di distribuzione ai
soci dell’avanzo di scissione o di riduzione del capitale sociale a favore dei soci, si
ottiene quindi lo stesso trattamento fiscale che si sarebbe avuto in assenza della
scissione.
2.1.6.2. Riserve in sospensione d’imposta tassabili anche in ipotesi diverse dalla
distribuzione
Nel patrimonio netto contabile della società scissa possono essere presenti riserve che,
in qualsiasi modo vengano utilizzate (distribuzione ai soci; copertura delle perdite
d’esercizio; aumento gratuito del capitale sociale), concorrono a formare il reddito
limitatamente all’importo utilizzato (si tratta in genere di riserve costituite a fronte di
norme agevolative23).
In questa ipotesi, le società beneficiarie sono obbligate a ricostituire, nel primo bilancio
approvato successivamente alla scissione, tali riserve nel proprio patrimonio netto
contabile; in caso di mancata ricostituzione, l’ammontare delle riserve in sospensione
d’imposta non ricostituite concorre alla formazione del reddito d’impresa delle società
beneficiarie, relativo al periodo d’imposta nel corso del quale la scissione è stata attuata.
Il comma 5 dell’art. 172 del T.U.I.R. impone che la ricostituzione delle suddette riserve
deve avvenire utilizzando prioritariamente l’avanzo di scissione eventualmente emerso.
Nel caso in cui l’ammontare dell’avanzo di scissione sia inferiore all’importo delle
riserve da ricostituire, le società beneficiarie devono ricostituire dette riserve utilizzando
le altre riserve presenti nel proprio patrimonio netto (sempre che a loro volta non siano
già in sospensione d’imposta). Inoltre in caso di incapienza delle riserve libere, è
possibile vincolare - attraverso un’apposita indicazione nella nota integrativa - il
capitale sociale in regime di sospensione d’imposta, per la quota non coperta
dall’avanzo di scissione e dalle riserve libere24.
23
24
Cfr. Leo M. (2007), Le imposte sui redditi, p. 2535.
Cfr. risoluzione n. 131/E del 18 settembre 2001.
28
Nel caso in cui l’ammontare complessivo dell’avanzo di scissione, delle riserve libere
presenti nel patrimonio netto e del capitale sociale della società beneficiarie, sia
inferiore all’importo delle riserve in sospensione d’imposta da ricostituire, la differenza
concorre ineludibilmente alla formazione del reddito d’impresa delle società
beneficiarie, relativo al periodo d’imposta in cui è stata attuata la scissione.
2.1.7. Riporto delle perdite fiscali
Al fine di evitare che la scissione possa essere utilizzata per attuare un “commercio di
bare fiscali”, l’art. 173, comma 10, del T.U.I.R. estende alla scissione le medesime
regole previste per il riporto delle perdite in caso di fusione.
Pertanto, le perdite fiscali eventualmente maturate dalla società scissa possono essere
trasferite alle società beneficiarie (in proporzione al patrimonio netto contabile
assegnato a ciascuna di esse) a condizione che dal conto economico della società scissa,
relativo all’esercizio precedente a quello in cui la scissione è stata deliberata, risulti un
ammontare di ricavi e un ammontare di spese per prestazioni di lavoro subordinato
superiore al 40% di quello risultante dalla media dei due esercizi anteriori.
Inoltre, nel caso di superamento del “test di vitalità”, l’importo delle perdite fiscali
maturate dalle società partecipanti alla scissione (compresa la società scissa), riportabili
in avanti, non può essere in ogni caso superiore al minore dei seguenti importi:
a) patrimonio netto contabile dell’ultimo bilancio approvato (prima della scissione);
b) patrimonio netto contabile risultante dalla situazione patrimoniale infrannuale
redatta ai sensi dell’art. 2501 quater del codice civile25.
I medesimi criteri (“test di vitalità”; limite del patrimonio netto contabile) si applicano
anche nei confronti delle società beneficiarie, in relazione al riporto in avanti delle
perdite fiscali dalle stesse eventualmente maturate anteriormente alla scissione26.
25
Nella determinazione del patrimonio netto contabile (da porre a confronto con l’ammontare delle perdite fiscali
della società partecipante alla scissione) devono essere sottratti gli importi dei conferimenti e dei versamenti fatti
negli ultimi 24 mesi prima della data di chiusura del bilancio o a quella cui si riferisce la situazione patrimoniale
infrannuale redatta.
26
Limiti al riporto delle perdite pregresse della società beneficiaria
Il patrimonio netto contabile di Alfa S.r.l., risultante dal bilancio al 31 dicembre 2009, ammonta a €
700.000, di cui € 200.000 per versamenti a fondo perduto eseguiti dai soci in data 30 luglio 2008. Alfa
S.r.l. ha maturato perdite pregresse per € 550.000, riportabili fino al 2013. I ricavi della gestione
caratteristica e le spese per le prestazioni di lavoro dipendente degli ultimi tre esercizi sono i seguenti:
2007
2008
2009
Ricavi
5.000.000
4.700.000
3.800.000
Spese per lavoro dipendente
1.600.000
1.300.000
1.300.000
Nel dicembre 2009, Beta S.p.A. si scinde parzialmente a favore di Alfa S.r.l., assegnandole un patrimonio
netto contabile di € 322.000. Il patrimonio netto contabile risultante dalla situazione patrimoniale di Alfa
S.r.l. al 30 giugno 2010, redatta ai sensi dell’art. 2501 quater c.c., ammonta a € 350.000 (senza tenere
conto dei versamenti a fondo perduto eseguiti dai soci in data 30 luglio 2008).
Atteso che Alfa S.pA. supera il “test di vitalità” (in quanto l’ammontare dei ricavi della gestione
caratteristica e le spese per lavoro dipendente, risultanti dall’ultimo bilancio approvato prima della
fusione,è superiore al 40% della media dei due esercizi anteriori) e considerato che il patrimonio netto
contabile di riferimento ammonta a € 350.000 (corrispondente al minore tra il patrimonio netto
dell’ultimo bilancio approvato e quello risultante dalla situazione patrimoniale ex art. 2501 quater c.c.,
calcolati senza tenere conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi), l’ammontare delle
perdite fiscali maturate da Alfa S.r.l., utilizzabili dopo la scissione, è pari a € 350.000.
Limiti al riporto delle perdite pregresse della società scissa
Se Alfa S.r.l. fosse la società scissa, anziché la beneficiaria (come nell’esempio 18.9.), e trasferisse il 40%
del suo patrimonio contabile a una beneficiaria mediante una scissione parziale, l’ammontare della perdita
fiscale trasferibile alle società beneficiarie pro-quota (in proporzione ai patrimoni netti rispettivamente
assegnati) non potrebbe eccedere il 40% di € 350.000 e quindi € 140.000; inoltre, in base
29
Le medesime disposizioni rilevano altresì per la perdita fiscale eventualmente maturata
nella frazione di esercizio compresa tra l’inizio dell’esercizio e la data di efficacia
civilistica della scissione, quale risultante da un apposito conto economico.
Invece, le perdite che rimangono nella disponibilità della società scissa non sono
sottoposte alla speciale disciplina di cui all’art. 173, comma 10, del T.U.I.R., in quanto
non essendosi sciolto il vincolo tra riporto delle perdite e soggetto che le ha generate –
non sussiste il pericolo di una loro compensazione con redditi prodotti da entità terze27.
2.2. Le imposte indirette nella scissione
La scissione non costituisce un’operazione rilevante agli effetti dell’imposta sul valore
aggiunto, giusta il disposto dall’art. 2, lett. f) del D.P.R. n. 633/72.
Anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, le società beneficiarie della scissione
subentrano nelle posizioni giuridiche soggettive facenti capo al ramo d’azienda che
hanno assunto. In particolare, la società beneficiaria acquisisce il diritto di utilizzare il
medesimo “plafond” maturato dalle società incorporate o fuse.
Va infine evidenziato che, a differenza di quanto previsto per le imposte sui redditi, non
è prevista la possibilità di retrodatare gli effetti della scissione ai fini dell’imposta sul
valore aggiunto.
Ai fini della compilazione della dichiarazione relativa all’imposta sul valore aggiunto, si
rappresenta altresì che:
• in caso di scissione parziale, le operazioni effettuate dalla società scissa relative al
ramo d’azienda assegnato alla società beneficiaria devono essere rappresentate in un
apposito modulo, da inserire nella dichiarazione Iva di quest’ultima;
• in caso di scissione totale, le operazioni effettuate dalla società scissa relative al
ramo d’azienda rispettivamente assegnato a ciascuna delle società beneficiarie deve
essere rappresentato in un apposito modulo, da inserire nella dichiarazione Iva di
queste ultime.
*
*
*
Stante il principio di alternatività “Iva – registro”, le delibere e gli atti di scissione sono
soggetti all’imposta di registro, nella misura fissa (attualmente pari a € 168,00).
Se nel patrimonio delle società fuse o incorporate sono presenti beni immobili, si
applicano anche le imposte ipotecarie e catastali (sempre in misura fissa). Lo stesso è a
dirsi se tra le attività patrimoniali assunte dalla società beneficiaria sono presenti beni
immobili.
2.3. La responsabilità per i debiti tributari
Ai sensi dell’art. 2506-quater, comma 3, del codice civile, ciascuna delle società
beneficiarie della scissione risponde in solido con le altre per i debiti della società scissa
(da questa non soddisfatti), nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa
assegnato. Fa eccezione a tale regola generale la responsabilità della società beneficiaria
per i debiti tributari; infatti, l’art. 173, dopo aver previsto al comma 12, del T.U.I.R.,
che gli obblighi tributari della società scissa - riferibili a periodi di imposta anteriori
alla data dalla quale l’operazione ha effetto - sono adempiuti in caso di scissione
parziale dalla stessa società scissa o trasferiti, in caso di scissione totale, alla società
all’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria (ancorché non condivisibile) la residua perdita
utilizzabile da Alfa S.r.l. non sarebbe di € 410.000 (= 550.000 – 140.000), ma di € 210.000 (= 350.000 –
140.000).
27
Cfr. la circolare n. 9/E del 9 marzo 2010, par. 2.2. e la risoluzione n. 168/E del 30 giugno 2009.
30
beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione, al successivo comma 13
precisa che:
- i controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo agli obblighi
tributari sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione
totale, di quella appositamente designata, ferma restando la competenza
dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate della società scissa. Se la designazione è
omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di
scissione (primo e secondo periodo del comma 13, art. 173 cit.);
- le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni
pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono
essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. Le società
coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere
cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per
l’Amministrazione (terzo periodo del comma 13, art. 173 cit.).
Alla luce di tale disposizione, dunque, la società beneficiaria designata risponde in via
principale per il pagamento delle imposte, delle sanzioni pecuniarie, degli interessi e di
ogni altro debito riferibile a periodi d’imposta precedenti alla scissione, non ancora
manifestatisi all’atto di efficacia dell’operazione, mentre le altre società beneficiarie
sono solidalmente e illimitatamente responsabili, al contrario di quanto il codice civile
prevede relativamente agli altri debiti, rispetto ai quali la responsabilità è circoscritta nei
limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad esse assegnato28.
Tale vincolo di solidarietà parrebbe comportare che l’Agenzia delle Entrate possa
chiedere l’adempimento delle obbligazioni tributarie indistintamente a una qualunque
delle società partecipanti alla scissione, ferma restando in capo alla beneficiaria che
abbia ottemperato al pagamento il diritto di regresso nei confronti delle altre29.
Infine, per quanto concerne il pagamento delle sanzioni tributarie relative a violazioni
commesse antecedentemente alla data in cui la scissione (anche parziale) produce
effetto, il legislatore ha ribadito all’art. 15, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997 la
responsabilità solidale in capo a ciascuna società o ente partecipante alla scissione.
3. Possibili profili elusivi delle operazioni straordinarie
3.1. Premessa
L’elusione fiscale non è violazione, ma aggiramento di disposizioni fiscali. E’ un
comportamento formalmente conforme alle norme ma non alla loro ratio, in quanto
grazie a esso il contribuente realizza un risparmio fiscale non giustificato da valide
ragioni economiche. In altri termini, mentre mediante l’evasione si sottrae all’Erario un
reddito tassabile già maturato, con l’elusione si evita, attraverso schemi contrattuali ad
hoc, veri ed effettivi, che un elemento economico si manifesti come imponibile. Vi è,
dunque, una norma impositiva elusa ed una norma più favorevole abusivamente
applicata.
Nell’ordinamento tributario italiano non esiste una clausola antielusiva di portata
generale, valida per tutti i tributi ma il contrasto all’elusione è stato affidato a discipline
puntuali aventi ad oggetto ipotesi ben individuate. Il primo tentativo in tal senso risale
all’emanazione dell’art. 10 della L. n. 408 del 1990, successivamente sostituito dall’art.
37 bis del D.P.R. n. 600/1973. Quest’ultima norma, pur essendo dotata di vasta
latitudine, rimane delimitata entro precise coordinate di riferimento sia sotto il profilo
28
29
Cfr. G. Cristofori “Operazioni di finanza straordinaria”, Il Sole 24Ore, 2008, p. 780.
Cfr. D. Buono, S. Carrara, A. Giannone e E. Vaschetto “Fusioni e scissioni”, Ipsoa, 2008, p. 374.
31
del settore impositivo, concernente le imposte sui redditi, sia sotto il profilo
dell’individuazione normativa delle operazioni suscettibili di utilizzo strumentale al fine
di conseguire vantaggi fiscali. Pertanto, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato un
principio antielusivo suscettibile di applicazione in tutti i settori impositivi e al di fuori
delle fattispecie sancite come elusive dall’art. 37 bis, comma 3: il c.d. abuso del diritto.
A ben vedere, se le locuzioni “elusione fiscale” e “abuso del diritto in ambito tributario”
si riferiscono a un fenomeno che nella sostanza è il medesimo, ciò che rende però non
meramente formale la distinzione tra “elusione” e “abuso del diritto” risiede nel
presupposto in forza del quale viene mossa la contestazione al contribuente da parte
dell’Amministrazione finanziaria. Infatti, la contestazione di “elusione” presuppone
l’applicazione di una disposizione antielusiva espressamente prevista nell’ambito
dell’ordinamento tributario (ad esempio l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973); mentre
quella di “abuso del diritto” l’utilizzo di un principio generale che, secondo la
giurisprudenza che lo ha elaborato, deriverebbe direttamente dal disposto dell’art. 53
della Costituzione.
3.2. Il campo di applicazione della norma antielusiva prevista dall’art. 37 bis del
D.P.R. 600/1973: le fattispecie
L’applicazione della disciplina contenuta nell’art. 37 bis, del D.P.R. n. 600/1973 è
subordinata all’utilizzo, isolato o in collegamento funzionale con altri atti, fatti o negozi,
delle operazioni elencate nel comma 3 della norma de qua.
La suddetta disposizione, infatti, stabilisce che le previsioni antielusione si applicano a
condizione che, nell’ambito del comportamento elusivo, siano state utilizzate una o più
delle operazioni aventi effetti potenzialmente elusivi di seguito elencate:
a. trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzione ai soci
di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con
utili;
b. conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il
godimento di aziende;
c. cessioni di crediti;
d. cessioni di eccedenze di imposta;
e. operazioni di cui al D.Lgs. n. 544 del 1992, recante disposizioni per
l’adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni,
scissioni, conferimenti di attivo ed altri scambi di azioni concernenti società di
Stati membri diversi, nonché il trasferimento della residenza fiscale all’estero da
parte di una società;
f. operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di
bilancio, aventi ad oggetto i diritti relativi a partecipazioni societarie ed altre
attività finanziarie;
f – bis) cessione di beni e prestazioni di servizi effettuate tra soggetti ammessi al
regime della tassazione di gruppo del consolidato nazionale;
f – ter) pagamenti di interessi e canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati
membri dell’Unione Europea, qualora detti pagamenti siano effettuati a
soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non
residenti in uno Stato dell'Unione europea;
f – quater) pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell' art.
2359 del c. c., una delle quali con sede legale in uno degli Stati o territori
diversi da quelli individuati ai sensi dell’art. 168 bis, del Tuir, aventi ad
32
oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra
confirmatoria o penitenziale.
Dunque, l’art. 37 bis - pur costituendo una norma antielusiva di carattere paragenerale si rende applicabile soltanto nel caso in cui il contribuente, per porre in essere il suo
disegno elusivo, abbia fatto ricorso ad una o più delle operazioni elencate nel comma 3
della disposizione citata. Si tratta di un ampio spettro di operazioni caratterizzate, per
loro natura, da un regime tributario più vantaggioso rispetto a quello previsto
ordinariamente, per il che esse si prestano ad essere utilizzate dal contribuente per
l’ottenimento di un vantaggio tributario che altrimenti gli sarebbe negato. La scelta di
campo di condizionare l’applicazione della norma antielusiva al ricorrere di determinate
operazioni tassativamente individuate ha lo scopo di delimitare in maniera oggettiva la
portata applicativa della norma antielusiva e di circoscrivere il rischio che essa possa
costituire una intollerabile fonte di incertezza del diritto. Questa impostazione è stata
tuttavia censurata da una parte della dottrina, secondo la quale il contenuto dell’art. 37
bis consente di affermare che si tratti di una clausola generale. Pertanto l’elencazione di
cui al comma 3 non ha carattere tassativo ma meramente esemplificativo, diversamente
sarebbe una previsione completamente svuotata di contenuto, essendo troppo facile
eludere gli obblighi di contribuzione alle pubbliche spese mediante la realizzazione di
operazioni diverse da quelle contenute nella disposizione de qua30.
Peraltro, la normativa antielusiva prevede che l’elusione possa derivare non soltanto dal
compimento di un’operazione puntuale, singola, ma possa anche discendere da una
concatenazione di atti tra loro collegati, purché, ovviamente, si sia fatto comunque
ricorso ad una delle suddette operazioni potenzialmente elusive.
Come si rileva agevolmente dalla stessa relazione al provvedimento di legge, è evidente
che, con tale previsione, il legislatore ha voluto riferirsi all’intero disegno elusivo
architettato dal contribuente31.
In particolare, allo scopo di rintracciare e ricostruire la presenza di un disegno elusivo,
occorre considerare sia gli avvenimenti anteriori sia gli avvenimenti successivi ad
un’operazione potenzialmente elusiva.
Allo stesso modo, anche l’analisi della tempistica con cui si susseguono le diverse
operazioni può fornire importanti indizi sull’eventuale intento elusivo che si vuole
perseguire.
Così si è del resto espressa la Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza
Leur-Bloem del 17 luglio 1997 (causa C-28/95) che, con riguardo alla disposizione
antiabuso prevista dall’art. 11 della Direttiva n. 90/434/CEE in materia delle operazioni
societarie transfrontaliere, ha rinvenuto gli indizi di un disegno elusivo in una serie
anche coordinata di negozi, atti e comportamenti caratterizzati:
dalla temporaneità dell’unione delle strutture societarie;
dal conferimento effettuato nella previsione della cessione della partecipazione
in uno Stato estero comunitario che non assoggetta ad imposizione le relative
plusvalenze;
30
Cfr. M. Procopio “L’irrisolto problema dell’elusione fiscale e la necessità di un intervento del
legislatore” in Diritto e Pratica Tributaria n. 2/2009, parte I, pag. 357. Dello stesso avviso è stata parte
della giurisprudenza Cfr. in tal senso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della
Lombardia n. 85 del 4 febbraio 2008, per un commento M. Beghin “L’elusione fiscale tra presupposti
applicativi, esimenti, abuso del diritto ed <<esercizi di stile>>” in Rivista di Diritto Tributario n. 5/2008,
parte II, pag. 338
31
Si tratta della relazione allo schema di decreto legislativo n. 358 del 1997.
33
dal grado in cui è concesso alla conferente di determinare le scelte e i
comportamenti della conferitaria.
3.3. I presupposti per l’applicazione dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973: elementi
oggettivi e di scopo
La definizione di operazione elusiva si rinviene nel disposto del comma 1 dell’art. 37
bis del D.P.R. n. 600/1973, che stabilisce l’inopponibilità all’Amministrazione
finanziaria degli atti, dei fatti e dei negozi, anche collegati tra loro, che siano posti in
essere senza valide ragioni economiche e siano diretti ad aggirare obblighi e divieti
previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni d’imposte o rimborsi,
altrimenti indebiti.
In base alla norma testé citata, può dirsi che un comportamento elusivo ricorre quando:
1. dall’operazione o dalla serie funzionalmente concatenata di atti, fatti o negozi
consegua un vantaggio tributario altrimenti indebito;
2. vi sia aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario;
3. non sia riscontrabile la presenza di valide ragioni economiche nell’effettuazione
dell’operazione o della serie concatenata di atti, fatti o negozi messi in essere.
Ciò detto, è bene evidenziare che i detti presupposti devono sussistere con riguardo
all’operazione complessiva e non con riferimento al singolo atto, fatto o negozio.
3.3.1. Conseguimento di un vantaggio tributario altrimenti indebito
Affinché nei confronti di una determinata condotta possa trovare applicazione la
disposizione di cui all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, è necessario il raggiungimento
di un vantaggio tributario. Detto vantaggio tributario consiste in un risparmio d’imposta,
dovuto alla riduzione del carico fiscale ordinariamente sopportato oppure al rimborso
dell’imposta.
A tale riguardo, da taluno32 è stato osservato che, per potere essere disconosciuto
dall’Amministrazione finanziaria, il vantaggio dovrebbe essere “attuale”, nel senso che
esso dovrebbe sussistere già all’atto del compimento dell’operazione che
l’Amministrazione finanziaria consideri inopponibile.
Tuttavia, come sottolineato in un passaggio della stessa relazione governativa al
provvedimento di legge, l’attualità del vantaggio tributario non costituisce affatto un
requisito per l’applicazione delle disposizioni antielusione, giacché a tale scopo è
sufficiente che l’operazione sia semplicemente diretta ad ottenere un vantaggio
tributario.
Pertanto, ove per l’ottenimento di un vantaggio tributario non si renda necessario il
compimento di alcun ulteriore atto, l’operazione potrà dirsi conclusa e il vantaggio
tributario ad essa correlato risulterà determinato.
Al contrario, ove per l’ottenimento di un vantaggio tributario si renda necessario il
compimento di un ulteriore atto o di una pluralità di atti, l’operazione non potrà dirsi
conclusa, mancando un decisivo tassello per la sua realizzazione. Tuttavia, in tal caso,
32
Cfr. P.M. Tabellini “Il progetto governativo antielusione” in “Bollettino tributario” n. 14/1997, p. 1063.
34
benché non sia stato ancora conseguito, il vantaggio tributario potrebbe comunque
risultare, seppur soltanto astrattamente, individuabile sulla base del comportamento
posto in essere e di quelli che è presumibile verranno posti in essere33.
In definitiva, per potere qualificare una condotta come elusiva, non occorre che il
vantaggio tributario da essa derivante sia attuale al momento del compimento
dell’operazione, ma è sufficiente che esso sia, se non determinato, almeno
determinabile.
Infine, affinché possa parlarsi di condotta elusiva, il vantaggio tributario non deve
essere altrimenti conseguibile, ovverosia deve trattarsi di un vantaggio normalmente
non ammesso dal sistema tributario se non mediante il ricorso a tale condotta.
Con l’espressione “altrimenti indebiti” si vuole significare, infatti, che il risparmio
d’imposta conseguito non sarebbe spettato ordinariamente al contribuente ed è solo la
conseguenza del particolare comportamento tenuto.
3.3.2. Aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario
Ulteriore presupposto per l’applicazione della disposizione antielusione è costituito dal
fatto che il contribuente, per raggiungere un determinato risparmio d’imposta, sia
dovuto ricorrere all’adozione di particolari stratagemmi, aggirando il sistema impositivo
che tale vantaggio tributario altrimenti gli avrebbe negato.
La previsione che il comportamento del contribuente sia inteso all’aggiramento di
obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario costituisce il vero perno intorno a
cui ruota l’intera normativa antielusione, richiedendo la presenza di un uso distorto
degli strumenti giuridici disponibili in luogo di quelli più consoni al raggiungimento del
risultato economico prefigurato.
Infatti, l’elusione consiste giustappunto nella tenuta di un comportamento che, pur non
violando espressamente alcuna norma, risulta in contrasto con i principi cardine del
sistema impositivo ed approfitta delle lacune in esso presenti attraverso il ricorso a
espedienti giuridici che, senza dare una falsa rappresentazione della realtà, permettono
al contribuente di realizzare un risultato comunque formalmente legittimo34.
In particolare, il ricorso a detti espedienti giuridici si sostanzia in un abuso degli
strumenti negoziali o, per meglio dire, in un abuso del diritto conseguente ad un uso
della libertà negoziale che appare distorto, non aderente alla ratio che si intende
perseguire.
Sicché la condotta del contribuente, piuttosto che in funzione dello scopo economicogiuridico che (solo incidentalmente) è destinato a provocare, viene ad essere modellata
in funzione della normativa tributaria, aggirandone le regole e i principi che
disciplinano l’attività di determinazione della base imponibile e di liquidazione
dell’imposta.
3.3.3. Assenza di valide ragioni economiche
Affinché possa trovare applicazione il disposto di cui all’art. 37 bis del D.P.R. n.
600/1973 è altresì necessario che il contribuente agisca senza valide ragioni
economiche.
33
Sul punto si veda P. Piccone Ferrarotti, Riflessioni sulla norma antielusiva introdotta dall’art. 7 del
D.Lgs. n. 358/1997, in “Rassegna Tributaria”n. 5/1997, p. 1152. In senso analogo A. Garcea, Il legittimo
risparmio d’imposta, 2000, p. 36.
34
Cfr. A. Garcea, cit., 2000, p. 37.
35
Infatti, prendendo atto che, per definizione, il vantaggio tributario costituisce l’obiettivo
di un disegno elusivo, il legislatore tributario ha previsto che, qualora detto
comportamento trovi attuazione mediante operazioni che consentano di ottenere
soltanto un vantaggio tributario, risultando prive di altre valide ragioni economiche,
l’operazione deve considerarsi elusiva, ricorrendo gli altri requisiti richiesti.
Pertanto, nel caso in cui la condotta elusiva, pur essendo destinata ad aggirare i principi
sostanziali del sistema impositivo pervenendo ad un risparmio d’imposta, sia comunque
giustificata da valide ragioni economiche, gli effetti fiscali che ne conseguono non sono
disconoscibili dall’Amministrazione finanziaria. Al contrario, ove la condotta elusiva
sia motivata unicamente dallo scopo di conseguire un vantaggio tributario, gli effetti
fiscali da essa conseguenti risultano disconoscibili dall’Amministrazione finanziaria.
Ciò detto, si precisa che con l’espressione “valide ragioni economiche” si intende
l’esistenza di un apprezzabile interesse economico al compimento di una determinata
operazione, che sussista indipendentemente dagli eventuali vantaggi fiscali ad essa
connessi.
Ne discende che l’esistenza di un apprezzabile interesse economico al compimento di
una determinata operazione è riscontrabile ogniqualvolta detta operazione sarebbe stata
compiuta anche in assenza dei vantaggi fiscali conseguiti.
Al riguardo, si ritiene che l’interesse economico perseguito, che si affianca a quello
dell’ottenimento di un risparmio d’imposta, dovrebbe essere valutato tenendo conto non
solo degli effetti prodotti in capo alla società soggetto attivo dell'operazione, ma anche
di quelli che si producono in capo al gruppo o ai gruppi societari cui detta società è
riconducibile.
Infatti, una determinata operazione potrebbe risultare del tutto priva di ragioni
economiche se valutata considerando unicamente l’attività economica svolta dal
soggetto che la mette in essere e, invece, apparire del tutto razionale se valutata alla luce
delle esigenze economiche del gruppo di appartenenza35.
3.4. I tributi cui si applica l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973
L’ambito di applicazione della clausola antielusiva di cui all’art. 37 bis risente della sua
collocazione nel corpo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, che
disciplina l’accertamento in materia di imposte sui redditi. Infatti, pur essendo vero che
l’attività di accertamento è finalizzata in generale alla tutela di un interesse pubblico
sostanzialmente comune, è altrettanto vero che essa è concretamente regolata in forme e
termini assai diversi, a seconda delle peculiari caratteristiche delle singole forme di
prelievo. Dal che, è da escludere che in assenza di uno specifico rinvio, la norma
antielusiva contenuta nell’art. 37 bis trovi applicazione nei confronti di imposte diverse
dalle imposte dirette. Ciò risulta anche confermato dal fatto che, ove il legislatore ha
ritenuto di dover estendere la previsione ad altri settori impositivi, ha dovuto emanare
un’apposita disciplina. Ne è un esempio l’art. 69, comma 7 della L. n. 342 del 2000, con
il quale è stato previsto che le disposizioni antielusive contenute nei commi 1 e 2
dell’art. 37 bis sono applicabili anche all’imposta sulle successioni e sulle donazioni.
Con la conseguenza che per tale imposta ha trovato applicazione solo il principio
generale previsto dai primi due commi, senza le limitazioni di cui al terzo comma. Ad
oggi, tuttavia, ci si interroga se l’art. 69, comma 7 sia ancora in vigore a seguito delle
vicende che hanno riguardato l’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Infatti, l’art.
13 della L. n. 383 del 2001 aveva abrogato il Testo Unico in tema di imposta sulle
35
In tal senso G. Zizzo, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in Commento agli
interventi di riforma tributaria, AA.VV., 1999, p. 449.
36
successioni e sulle donazioni (D. Lgs. n. 346 del 1990) e successivamente l’art. 2 della
L. n. 286 del 2006 ha reintrodotto l’imposta de qua, ripristinando il D. Lgs. n. 346 del
1990 nella formulazione vigente al momento della suddetta abrogazione. Dal che si è
posto il problema di stabilire se è stata reintegrata anche l’espansione della clausola
antielusiva, posta dal citato art. 69, comma 7. Taluno36 ha sostenuto che la risposta
debba essere negativa, poiché le previsioni di cui all’art. 69, comma 7 sono state
abrogate dal legislatore del 2001, in quanto incompatibili con l’abrogazione
dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni. Inoltre, l’art. 69 della L. n. 342 del
2000 prevedeva che il contenuto del Testo Unico relativo all’imposta sulle successioni e
donazioni fosse modificato solo dalle previsioni contenute nel comma 1, non anche da
quelle contenute nei commi successivi. Di conseguenza, la disposizione antielusiva di
cui al comma 7 non aveva modificato il Testo Unico relativo all’imposta sulle
successioni e donazioni e quindi non ha mai fatto parte del detto Testo Unico che il
legislatore del 2006 ha ripristinato. Diversamente, il Notariato – nelle prime note a
commento della nuova imposta sulle successioni e donazioni – ha affermato che “l’art.
69, comma 7, estende al campo delle successioni e donazioni le disposizioni antielusive
di cui all’art. 37 bis del d.p.r. n. 600/1973. La stessa norma specifica che tali
disposizioni si applicano ai fatti accaduti e agli atti comunque formati successivamente
alla data del 1° luglio 2000”37, ritenendo dunque ancora vigente la previsione ivi
contenuta.
Un altro tentativo di espansione della portata applicativa dell’art. 37 bis potrebbe
rinvenirsi nel D.L. n. 223 del 2006, il quale ha previsto – mediante l’inserimento
dell’art. 53 bis nel D.P.R. n. 131 del 1986 (c.d. Tur) – che “le attribuzioni e i poteri di
cui agli artt. 31 e seguenti del D.P.R. n. 600 del 1973, e successive modificazioni,
possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte
ipotecaria e catastale”. Dunque, il riferimento generico agli artt. 31 e ss ha fatto
presumere l’estensione alle predette imposte di tutte le previsioni contenute nell’art. 37
bis, comprese quindi anche le limitazioni di cui al comma 3, diversamente da quanto
disposto in materia di successioni e donazione38. In senso contrario, occorre però
rilevare che nel rinvio operato dall’art. 53 bis non può essere incluso l’art. 37 bis,
poiché tale disposizione – nonostante sia stata collocata nel seno dei poteri degli uffici –
“sarebbe in realtà integrativa del sistema sostanziale delle imposte sui redditi, giacchè
stabilisce precisi obblighi (o meglio, divieti) a carico del contribuente” e quindi, “per
poter transitare nel sistema delle imposte indirette, avrebbe avuto bisogno di una
norma che la inserisse nel contesto delle regole sostanziali”39. Ad ulteriore conferma di
ciò la stessa Agenzia delle Entrate – nel fornire una prima analisi delle novità
discendenti dall’introduzione del citato art. 53 bis nel Tur, si è soffermata
esclusivamente sulla descrizione dei poteri istruttori derivanti, grazie al sopra citato
rinvio, dalle disposizioni previste negli artt. 32 e 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, senza
fare alcuna menzione dell’art. 37 bis40.
36
Cfr. P.M. Tabellini cit. pag. 213.
Cfr. lo Studio n. 168 – 2006/T.
38
Cfr. P.M. Tabellini cit. pag. 213.
39
Cfr. lo studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 68 – 2007/T.
40
Cfr. la circolare n. 6/E del 6 febbraio 2007, par. n. 2.1. – 2.4.
37
37
3.5. L’interpello disapplicativo previsto dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973
L’art. 37 bis, comma 8 del D.P.R. n. 600 del 1973 disciplina il c.d. interpello
disapplicativo. Tale istituto consente al Direttore regionale di disapplicare le norme
sostanziali introdotte per contrastare un comportamento elusivo41.
Come è stato messo in evidenza nella relazione governativa al provvedimento di legge,
l’introduzione dell’interpello rappresenta un atto di civiltà giuridica e di pari opportunità
tra il Fisco e il contribuente, poiché, se le norme possono essere disapplicate quando il
contribuente le manipola per ottenere vantaggi indebiti, occorre che lo siano anche
quando condurrebbero a penalizzazioni altrettanto indebite.
Dal punto di vista procedurale, tale istituto è stato regolamentato dal D.M. n. 259 del 19
giugno 1998. In base a tale decreto, l’istanza deve essere presentata42 al Direttore
Regionale delle Entrate competente per territorio e deve essere spedita, a mezzo del
servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, all’ufficio
competente per l’accertamento in ragione del domicilio fiscale del contribuente. Tale
ultimo ufficio trasmette al Direttore Regionale l’istanza, unitamente al proprio parere,
entro trenta giorni dalla ricezione della medesima.
L’istanza deve contenere a pena di inammissibilità i dati identificativi del contribuente e
del suo rappresentante legale, l’indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale
sono effettuate le comunicazioni e la sottoscrizione del contribuente o del suo legale
rappresentante. Nella stessa il contribuente deve poi descrive compiutamente la
fattispecie concreta per la quale ritiene non applicabili le disposizioni normative
antielusive, in quanto è suo onere dimostrare che nel caso concreto gli effetti elusivi
contrastati dalla norma non si possono verificare. Infine, deve allegare copia della
documentazione, con relativo elenco, rilevante ai fini della individuazione e della
qualificazione della fattispecie prospettata.
Non oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, il Direttore regionale
comunica al contribuente mediante servizio postale, in plico raccomandato con avviso
di ricevimento, il parere sulla fattispecie. La risposta può essere positiva o negativa.
Nella prima ipotesi il contribuente può porre in essere l’operazione prospettata, avendo
a garanzia della correttezza del suo operato un parere al quale l’Amministrazione
finanziaria è vincolata. Invece, nella diversa ipotesi in cui il Direttore risponda
negativamente, poiché ritiene elusiva la fattispecie, è stato discusso se sia o meno
configurabile l’impugnabilità di tale risposta. In dottrina taluno43 ha ritenuto che non
possa essere negata l’impugnabilità in astratto della risposta poiché si tratto di un atto
equiparabile ad un diniego alle agevolazioni, che incide immediatamente e
negativamente nella sfera giuridica del contribuente. Altri44 hanno espresso parere
negativo, facendo leva sul fatto che la possibilità di disapplicare una norma antielusiva
non rappresenta un atto che incide direttamente sulla sfera patrimoniale del contribuente
né può essere considerato un atto impositivo, pertanto è assente un qualsiasi interesse
41
Si tratta delle norme che limitano le deduzioni, le detrazioni, i crediti d’imposta o altre posizioni
soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario.
42
L’istanza si intende presentata al momento del ricevimento del plico da parte dell’Ufficio territoriale
deputato all’accertamento.
43
Cfr. G. Fransoni “Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo
all’interpello disapplicativo” in Quaderni della Rivista di Diritto Tributario a cura di G. Maisto, Giuffrè
Editore 2009
44
G. Palumbo “L’elusione fiscale”, Sistemi Editoriali, 2006, pag. 44.
38
giurisdizionalmente tutelabile e, quindi, un’eventuale tutela giurisdizionale deve essere
differita fino al momento dell’emissione di un atto impugnabile ai sensi dell’art. 19 del
D. Lgs. n. 546 del 1992. Alla querelle interpretativa ha posto fine la sentenza della
Corte di Cassazione n. 8663 del 15 aprile 2011. I giudici di legittimità non solo hanno
ritenuto impugnabile il parere emesso a seguito di interpello disapplicativo poiché in
sostanza si tratta di un diniego di agevolazioni; ma hanno anche stabilito che il giudice
investito del ricorso deve valutare nel merito la pretesa, eventualmente stabilendo la
natura non elusiva dell’operazione, senza limitarsi ad appurare la legittimità dell’atto di
diniego. La mancata impugnazione del diniego determina l’intangibilità dello stesso45.
Accanto agli esiti sopra prospettati, si può in concreto verificare una terza ipotesi, ossia
che il Direttore regionale rimanga inerte dinnanzi all’istanza del contribuente. In linea di
principio, l’art. 20 della L. n. 241 del 1990 (c.d. legge sul procedimento amministrativo)
attribuisce al silenzio dell’amministrazione valore di silenzio assenso, nel senso che,
decorso il termine per provvedere senza che la pubblica amministrazione si sia
pronunciata, l’istanza presentata dal privato si considera accolta. Nell’ipotesi di mancata
risposta all’istanza disapplicativa però non è configurabile l’istituto del silenzio assenso,
sancito per i provvedimenti amministrativi, poiché la risposta data dalla Direzione
Regionale non è un provvedimento ma solo un parere, che il contribuente è libero di
disattendere46. In senso contrario, è però stato affermato che la negazione della natura
provvedimentale della risposta all’interpello non coglie nel segno, non tanto perché lo
stesso decreto ministeriale n. 259 del 1998 definisce la detta risposta come
provvedimento; quanto perché la nozione di provvedimento fatta propria dalla legge sul
procedimento amministrativo è talmente ampia, che nella stessa deve essere ricompresa
anche la pronuncia all’interpello47.
3.6. Il principio di abuso del diritto elaborato dalla recente giurisprudenza
comunitaria e domestica
L’abuso del diritto è configurabile quando, a prescindere dalla natura civilistica del
negozio posto in essere, siano utilizzati legittimi strumenti giuridici all’esclusivo scopo
di ottenere un vantaggio fiscale contrario al sistema tributario, in difetto di ragioni
economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di quel vantaggio fiscale,
che giustifichino l’operazione compiuta. Nell’ambito del diritto tributario, dunque, la
nozione di abuso del diritto consiste nell’impiego distorto, rispetto alle loro finalità
proprie, di schemi contrattuali e istituti ordinamentali, al fine sostanziale di conseguire
un risparmio fiscale non ottenibile altrimenti. Il conseguimento di tale vantaggio
tributario può essere disconosciuto da parte dell’Amministrazione finanziaria.
45
Tali conclusioni sono state confermate dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 5843 del 13 aprile
2012. Con una successiva pronuncia (n. 17010 del 5 ottobre 2012) invece i giudici di legittimità si sono
parzialmente discostati dal predetto orientamento. Infatti, pur ammettendo l’impugnazione del diniego
emesso dall’Amministrazione finanziaria a seguito di interpello, la Suprema Corte ha ritenuto che essa
rappresenti una mera facoltà del contribuente; per il che “l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non
pregiudica la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi. Conseguentemente, “la
risposta all'interpello non impedisce innanzitutto alla stessa amministrazione di rivalutare - in sede di
esame della dichiarazione dei redditi o dell'istanza di rimborso - l'orientamento (negativo)
precedentemente espresso, nè al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei
confronti dell'atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la
sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva”.
46
Cfr. la Circolare n. 7/E del 3 marzo 2009, par. 2.2.
47
Cfr. G. Fransoni cit.
39
La suesposta nozione del principio di abuso del diritto trae origine dalla giurisprudenza
in materia di Iva della Corte di Giustizia della CE48 ed ha fatto il suo ingresso nel nostro
ordinamento tramite alcune pronunce della Corte di Cassazione.
Infatti, per la nostra Corte suprema le operazioni compiute essenzialmente per il
conseguimento di un vantaggio fiscale costituiscono abuso del diritto e spetta al
contribuente fornire la dimostrazione delle ragioni economiche, alternative e
concorrenti, di carattere non marginale o teorico poste a fondamento delle stesse.
Dunque, secondo i giudici di legittimità, “nella disciplina anteriore all'entrata in vigore
del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997,
n. 358, art. 7, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale
antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle
fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza
comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed
eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”49.
Successivamente, i Supremi giudici hanno affermato che non contrasterebbe con un
immanente principio generale antielusione non scritto, la presenza nel sistema tributario
di specifiche disposizioni antielusive, anzi le stesse rappresenterebbero il sintomo di una
regola50.
Da quanto sopra esposto emerge come la Corte di Cassazione ha recepito parzialmente
gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto di matrice comunitaria, affermando che una
condotta deve essere considerata abusiva e quindi vietata, quando si traduce in
un’operazione il cui scopo è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. Ma
questo è solo il secondo dei due elementi costitutivi fissati dalla giurisprudenza europea:
manca il primo, ossia l’accertamento che, nonostante la formale osservanza delle
disposizioni interessate, il vantaggio fiscale sia contrario all’obiettivo della norma.
Inoltre, la posizione della Cassazione suscita perplessità anche perchè non si è limitata a
recepire il principio de quo in ambito Iva51 ma l’ha ritenuto applicabile in materie a
rilevanza meramente nazionale, come l’ambito delle imposte dirette. Invece, tale
principio essendo nato nell’ordinamento comunitario dovrebbe avere rilevanza solo
nelle materie rispetto alle quali il diritto comunitario ha qualche incidenza, come nel
settore dell’Iva, delle accise, dei tributi doganali52.
Infine, è opportuno sottolineare che, facendo direttamente riferimento alla nozione di
abuso del diritto, la giurisprudenza di legittimità ha bypassato l’art. 37 bis del D.P.R. n.
48
Cfr. la sentenza Halifax (C-255/02) del 21 febbraio 2006; la sentenza Part Service del 21 febbraio 2008
(C-425/06), per un commento cfr. V. Liprino “Il difficile equilibrio tra libertà di gestione e abuso di
diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: il caso Part service”, in Rivista di Diritto Tributario,
n. 5/2008, parte IV, pag. 113.
49
Cfr. la sentenza n. 21221 del 29 settembre 2006.
50
Cfr. la sentenza n. 8772 del 4 aprile 2008, per un commento cfr. A Lovisolo “Abuso del diritto e
clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio” in Rivista di Diritto Tributario n. 1/2009, parte
I, pag. 49.
51
Cfr. la sentenza n. 10352 del 5 maggio 2006.
52
Cfr. C. Attardi “Abuso del diritto e giurisprudenza comunitaria: il perseguimento di un vantaggio
fiscale come scopo essenziale dell’operazione elusiva” in Diritto e Pratica Tributaria n. 4/2008, parte II,
pag. 637.
40
600 del 1973 e con esso le garanzie sostanziali e procedurali53 che dall’applicazione
dello stesso sarebbero derivate a favore del contribuente54.
A causa delle suddette censure alle argomentazioni sul preteso divieto comunitario di
abuso del diritto, la giurisprudenza italiana ha fondato diversamente una clausola
generale antielusiva implicita nel sistema. Il cambio di rotta è stato delineato dalle
sentenze a SS.UU. della Corte di Cassazione n. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre
2008. Nelle pronunce citate viene ribadito il riconoscimento dell’esistenza nel nostro
ordinamento tributario di un generale principio antielusivo55, secondo il quale “il
contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non
contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere
un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino
l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” e che “non è
lecito utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso per il quale sono state create,
norme fiscali di favore”56.
Ciò che radicalmente muta, rispetto alle precedenti prese di posizione, è
l’individuazione della fonte giuridica del principio di abuso del diritto in tema di tributi
non armonizzati, quali le imposte dirette. Fonte giuridica che va rinvenuta non nella
giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che
informano l’ordinamento tributario italiano. In particolare nei principi di capacità
contributiva e di progressività dell’imposizione sanciti rispettivamente dall’art. 53,
commi 1 e 2, Cost.
Le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nelle sentenze testè menzionate sono
criticabili. In primis è innegabile come le suddette sentenze rappresentino una forzatura
pro fisco poiché l’art. 53 Cost. viene posto a diretto fondamento di un obbligo
tributario. Invece, la norma de qua è innanzitutto un comando rivolto al legislatore e
all’Amministrazione finanziaria, in base al quale può essere richiesta una prestazione
pecuniaria solo a condizione che si ravvisi l’esistenza di una capacità contributiva certa
ed effettiva. Inoltre, neppure in presenza di una ricchezza palese, detta disposizione può
comportare direttamente la creazione di un obbligo tributario ma è necessaria la
mediazione di una disposizione di legge; se così non fosse nulla vieterebbe alla
giurisprudenza di creare norme impositive ad ogni manifestazione di ricchezza57.
Comunque, anche qualora si ritenesse che l’art. 53 Cost. è idoneo a configurare
direttamente una prestazione pecuniaria in capo al contribuente, tale principio dovrebbe
valere anche quando è quest’ultimo ad essere penalizzato ingiustamente
dall’applicazione di norme che, data una certa fattispecie concreta, non avrebbero
53
Ai sensi dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, comma 4 l’emanazione dell’avviso di accertamento
deve essere preceduta, a pena di nullità, dall’invio al contribuente, anche per lettera raccomandata, di una
richiesta di chiarimenti, nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputa applicabile la clausola
antielusiva. Il successivo comma 5 dispone altresì che l’avviso di accertamento deve essere
specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente.
54
Cfr. L. Carpentieri “L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto” in Rivista di Diritto
Tributario n. 12/2008, parte I, pag. 1053.
55
Cfr. le sentenze nn. 8772 del 4 aprile 2008, 10257 del 21 aprile 2008 e 25374 del 17 ottobre 2008.
56
Cfr. nello stesso senso le sentenze n. 21390 del 30 novembre 2012 e la n. 4901 del 27 febbraio 2013.
57
Cfr. A Marcheselli “Equivoci e prospettive della elusione tributaria, tra principi comunitari e principi
nazionali” in Diritto e Pratica Tributaria n. 5/2010, parte I, pag. 801; M. Procopio “L’irrisolto problema
dell’elusione fiscale e la necessità di un intervento del legislatore”, cit.; Cfr. R. Lunelli ed E. Barazza
“L’<<abuso del diritto>> secondo le SS.UU. e la Sezione tributaria della Corte di Cassazione” in
Corriere Tributario n. 20/2009, pag. 1571.
41
dovuto applicarsi, ove si fosse dato direttamente rilievo allo spirito dello legge anziché
alla sua lettera58.
A causa della mancanza di una espressa norma antiabuso, alla definizione degli incerti
confini del divieto generale suindicato e alla sua concreta applicazione hanno
contribuito i successivi interventi della Suprema Corte.
In tal senso è stato precisato che il vantaggio realizzato dal contribuente deve essere
verificato in modo globale, tenuto conto di tutto il complesso delle operazioni, di tutto il
ciclo economico e di tutti i soggetti direttamente coinvolti. In quanto, l’applicazione del
principio di divieto di abuso del diritto deve essere ispirata alla massima cautela
“quando non si tratti di operazioni finanziarie (come avviene nei casi di dividend
washing e di dividend stripping), di artificioso frazionamento di contratti o di anomala
interposizione di stretti congiunti, ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando
le stesse avvengono nell’ambito di grandi gruppi d’imprese”. Con questa affermazione
sembra che i giudici di legittimità abbiano voluto puntualizzare la specificità e la
peculiarità delle fattispecie che caratterizzano le succitate sentenze n. 30055, 30056 e
30057 del 2008, rappresentate da operazioni del tutto fini a se stesse, circolari,
artificiosamente scomposte in più passaggi e prive – anche semplicemente in astratto –
della possibilità di una concreta e reale finalità economica, sulle quali il sospetto e la
presunzione di condotta abusiva gravano quasi naturalmente. Al di fuori di questi casi
eccezionali la valutazione della condotta tenuta dal contribuente non deve essere
inficiata da pregiudizi di sorta, ma diretta ad accertare se lo strumento giuridico, cui lo
stesso ha fatto ricorso, è stato effettivamente utilizzato allo scopo di conseguire gli
obiettivi imprenditoriali (“business purposes”) per i quali esso è stato considerato
meritevole di tutela dall’ordinamento59. Infatti, l’apprezzamento delle ragioni
economiche, indicate dal contribuente a supporto di una determinata condotta, deve
essere sganciato dalla valutazione in ordine ai benefici economici che ne derivano,
giacché le ragioni di una scelta imprenditoriale possono essere le più svariate e, per
essere considerate valide e rilevanti, non necessariamente devono essere destinate a
produrre un immediato riflesso positivo sul conto economico dei soggetti coinvolti. In
questa prospettiva, sono da considerarsi economicamente giustificate le operazioni di
ristrutturazione da cui consegue un obiettivo miglioramento strutturale e funzionale
delle imprese partecipanti, anche se esse hanno natura meramente organizzativa e non
incidono sulla redditività dell’impresa in modo diretto e immediato; tanto più se tali
misure di ristrutturazione vengono adottate all’interno di grandi gruppi d’imprese,
nell’ambito di riorganizzazioni aziendali e societarie di più ampio respiro60.
Da ultimo, è stato anche precisato che l’onere della prova in tema di abuso del diritto
deve essere ripartito tra l’Amministrazione finanziaria, cui spetta dimostrare l’abuso
degli istituti giuridici previsti dall’ordinamento, e il contribuente, al quale spetta provare
le ragioni economiche (diverse dal mero risparmio fiscale) che hanno effettivamente
giustificato il ricorso alle operazioni oggetto di censura61. In merito, tuttavia, occorre
58
Cfr. D. Stevanato “Abuso del diritto ed elusione tributaria: <<anno zero>>” in Dialoghi Tributari n.
3/2009, pag. 255.
59
Cfr. le sentenze della Corte di Cassazione n. 1465 del 21 gennaio 2009 e n. 8487 dell’8 aprile 2009.
60
Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione n. 1372 del 21 gennaio 2011. In dottrina tale sentenza è stata
apprezzata poiché sembra porre dei limiti al potere dell’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte
dell’impresa, G. Andreani e A. Tubelli “La Cassazione limita il ricorso all’abuso del diritto” in Guida
alla Contabilità & Bilancio n. 9/2011, pag. 16.; contra D. Stevanato “Ancora un’accusa di elusione senza
<<aggiramento>> dello spirito della legge” in Corriere Tributario n. 9/2011, pag. 673, secondo il quale
sarebbe affrettato caricare di troppi significati la sentenza de qua, considerando la stessa come una svolta
negli indirizzi della Corte di Cassazione.
61
Cfr. le sentenze della Corte di Cassazione n. 12042 del 25 maggio 2009 e n.1372, cit.
42
evidenziare che la Suprema Corte, con la sentenza n. 7393 dell’11 maggio 2012, ha
affermato che “il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso
del diritto comporta la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a
prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in
causa (Cass. S.U. 30055/08, Cass. 1372/11). Sicchè, è di tutta evidenza come sia del
tutto impossibile configurare, al riguardo, il dedotto vizio di extrapetizione, ai sensi
dell'art. 112 c.p.c.”.
3.7. L’applicazione delle norme elusive e del principio dell’abuso del diritto al
conferimento di azienda
Come detto, il nostro sistema tributario prevede una serie di istituti e di operazioni che,
pur perseguendo finalità economiche analoghe a quelle di altri istituti ed operazioni
sottoposte a tassazione ordinaria, consentono al contribuente di beneficiare di una
imposizione più favorevole per le più svariate ragioni.
L’operazione di conferimento di azienda rientra tra tali operazioni: infatti, ai fini delle
imposte sui redditi, l’art. 176 Tuir dispone che il soggetto conferente iscriva la
partecipazione ricevuta allo stesso valore fiscale che aveva l’azienda al momento del
conferimento e che la società conferitaria acquisisca l’azienda conferita sulla base dei
medesimi valori fiscali che la stessa aveva al momento dell’operazione presso il
conferente. Per quanto riguarda le imposte indirette sconta solo l’imposta di registro in
misura fissa, pari ad € 168, in base all’art. 4, comma 1 lett. a), n. 3 della Tariffa – parte
prima del D.P.R. n. 131 del 1986 (c.d. Tur); nonchè le imposte ipotecaria e catastale
(ove siano presenti beni immobili) sempre nella suddetta misura fissa ai sensi
rispettivamente dell’art. 4 della tariffa allegata al D.Lgs. n. 347 del 1990 e all’art. 10,
comma 2 del medesimo atto legislativo.
Ora se l’ordinamento ha inteso distinguere i regimi impositivi “senza alcuna scala
gerarchica né un rapporto di principalità – accessorietà, è del tutto legittimo che i
contribuenti scelgano in virtù del risparmio fiscale senza dover addurre qualche
ragione economica”62.
Di contrario avviso si sono invece mostrati gli uffici dell’Agenzia delle entrate, che
rinvengono nell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 una norma antielusiva applicabile nel
settore delle imposte indirette63, in forza della quale sarebbe legittimo attribuire rilievo
impositivo alla causa reale di regolamentazione degli interessi reciproci effettivamente
perseguita dai contraenti, non solo mediante l’analisi delle clausole contenute nel
singolo atto sottoposto a registrazione, ma anche attraverso l’analisi di una pluralità di
pattuizioni non contestuali.
Facendo leva sull’aspetto fiscalmente meno oneroso del conferimento di azienda,
l’Amministrazione finanziaria riqualifica il conferimento di azienda (in genere in una
società neo costituita), seguito - a breve distanza di tempo - dalla cessione delle
partecipazioni agli altri soci (oppure alla società stessa), come cessione di azienda.
Da un’attenta analisi della portata del citato art. 20 ed alla luce dell’evoluzione storica
che ha portato alla sua emanazione, emerge con chiarezza l’inattendibilità della
ricostruzione degli Uffici finanziari. Infatti, tale disposizione è stata introdotta dal
legislatore con l’intenzione di porre fine ad una querelle interpretativa iniziata nella
vigenza del R.D. n. 3269 del 1923, il cui art. 8 – con una formulazione ambigua –
62
Cfr. R. Lupi “le operazioni societarie tra lecita pianificazione fiscale ed elusione” Il Sole 24Ore, 2002,
pag. 764.
63
Si veda, in particolare, la nota n. 2007/84127 del 18 maggio 2007.
43
stabiliva che “le tasse sono applicabili secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti
o dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, senza
precisare quali dovessero essere questi effetti, se cioè solo giuridici o anche economici.
L’equivoco è stato eliminato dal detto art. 20, che riferendosi ai soli effetti giuridici, ha
fatto ritenere che non si sarebbero più potuti prendere in considerazione “elementi extra
testuali, estranei al contesto dell’atto sottoposto a registrazione, soprattutto se questi
avessero condotto ad una valorizzazione dell’intento empirico e meramente economico
perseguito dalle parti”64.
Sulla stessa linea di pensiero si è posto anche il Consiglio Nazionale del Notariato nello
Studio n. 95/2003/T, ove ha affermato che l’Ufficio non può andare al di là della
qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili dall’interpretazione del
singolo atto, poichè non esiste una norma generale antielusiva nel sistema dell’imposta
di registro. Per il che è vietata un’interpretazione extratestuale dell’atto sottoposto a
registrazione in collegamento con altri e distinti atti posti in essere dagli stessi soggetti;
e ciò in quanto, in questa prospettiva, l’unica norma prevista dal Tur, ossia l’art. 21,
limita la legittimità di tale operazione interpretativa solo ai collegamenti rinvenibili tra
più disposizioni di uno stesso atto e non di atti distinti e diversi tra loro.
Vale inoltre la pena di notare come l’affermazione della natura antielusiva dell’art. 20,
in mancanza di un testo legislativo che deponga inequivocabilmente in tal senso, sembra
concedere all’Amministrazione finanziaria e ai giudici tributari una discrezionalità
applicativa tale da sfociare in arbitro, in contrasto con l’art. 23 Cost. 65.
In senso conforme alla tesi dell’Agenzia delle entrate si è invece espressa la Sezione
tributaria della Cassazione, che, pur riconoscendo come oggetto dell’imposta di registro
siano gli effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione, ai sensi del succitato art. 20
ha riqualificato:
in termini di compravendita immobiliare il conferimento (in società) di immobili
gravati da finanziamenti ipotecari, seguito - a breve distanza di tempo - dalla
cessione della totalità delle partecipazioni emessa dalla società conferitaria66;
in termini di cessione d’azienda una serie di atti di compravendita susseguitisi tra le
medesime parti67.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, “l'incorporazione in documenti diversi di
dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un
unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo (art. 20 DPR 26 aprile
1986, n. 131), costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si
trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal
legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro
atti in base alla natura dell'effetto giuridico (finale) dei loro comportamenti, semplici o
complessi che essi siano”68. Pertanto, secondo la Cassazione la natura di imposta d’atto
64
Cfr. A Pischetola “L’art. 20 del Tur: solo norma di interpretazione degli atti?” in Notariato n. 1/2011
pag. 112.
65
Cfr. F. Gallio e L. Barbone “Conferimento – cessione d’azienda e logica del tributo di registro” in
Dialoghi Tributari n. 6/2010 pag. 669.
66
Cfr. sentenze n. 2713 del 25 febbraio 2002 e n. 14900 del 23 novembre 2001.
67
Cfr. sentenza n. 10660 del 7 luglio 2003.
68
Così testualmente la sentenza n. 2713 del 25 febbraio 2002. Il medesimo principio è stato sancito anche
con le sentenze n. 24552 del 26 settembre 2007, n. 18374 del 31 agosto 2007 e n. 10723 del 4 marzo
2007.
44
dell’imposta di registro non impedirebbe - ai fini dell’individuazione della struttura del
rapporto giuridico tributario - di privilegiare la sostanza sulla forma, vale a dire:
il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e dei loro effetti
giuridici rispetto ai dati formalmente enunciati anche frazionatamente in uno o più
atti;
il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali
e strumentali ad una molteplicità di comportamenti formali.
Su tale questione la giurisprudenza di merito risulta diametralmente divisa, tra pronunce
a favore dell’interpretazione in chiave antielusiva del succitato art. 2069 e pronunce a
sfavore di tale lettura70; quest’ultima posizione, in particolare, si fonda sul presupposto
che detta norma avrebbe unicamente la funzione di consentire l’applicazione
dell’imposta di registro in conformità all’effettivo contenuto giuridico dell’atto, senza
fermarsi al nomen iuris ad esso attribuito dalle parti.
Recentemente anche l’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti – intervenendo
sull’interpretazione dell’art. 20 del Tur con la norma di comportamento n. 186 del 2012
– ha affermato che il conferimento di azienda e la successiva cessione della
partecipazione sono atti aventi una causa autonoma e come tali devono essere sottoposti
all’imposta di registro (prevista per gli stessi in misura fissa). Pertanto, tali operazioni
non possono essere riqualificate come cessione di azienda, poiché nel nostro
ordinamento non è presente una norma che dispone in tal senso né una tale funzione può
essere attribuita all’art. 20 del Tur.
*
*
*
Posto il dibattito incentrato sulla corretta interpretazione dell’art. 20 del D.P.R. n.
131/1986, è lecito chiedersi se gli Uffici finanziari possano censurare il conferimento di
azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni ricevute facendo leva sul principio di
abuso del diritto, quale generale strumento interpretativo idoneo a valutare le valide
ragioni economiche in ogni comportamento del contribuente.
Nessuno dubita che il diritto, così come qualsiasi altro strumento, possa essere abusato
da chi se ne serve, tuttavia la dottrina ha sempre ritenuto necessario un presupposto
normativo, perché possa essere contestata ad un contribuente l’elusività del suo
comportamento e conseguentemente possano essere disconosciuti gli effetti nei
confronti dell’Erario71. Di diverso avviso è invece stata la giurisprudenza di legittimità.
Infatti, la Suprema Corte si è pronunciata per la prima volta sull’applicazione dell’abuso
del diritto in tema di imposta di registro nella sentenza n. 18374 del 31 agosto 200772. In
69
Cfr. le sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze n. 150 del 5 novembre 2007 e n.
90 del 29 settembre 2009; la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 36 del 3
marzo 2011.
70
Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno n. 461 dell’11 novembre 2008; la
sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Treviso n. 41 del 22 aprile 2009, la sentenza della
Commissione Tributaria Provinciale di Rimini n. 184 dell’11 maggio 2011,la sentenza della
Commissione Tributaria Provinciale di Prato n. 65 del 29 giugno 2011, la sentenza della Commissione
Tributaria Provinciale di Milano n. 388 del 19 novembre 2010 e n. 168 del 29 maggio 2012.
71
G. Corasanti “L’art. 20 del T.U. dell’imposta di registro e gli strumenti di contrasto all’elusione: brevi
spunti ricostruttivi a margine di due contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito” in Diritto e
Pratica Tributaria n. 3/2010 pag. 565.
72
La fattispecie concretamente esaminata dai giudici di legittimità atteneva alla stipula nella medesima
data di due convenzioni entrambe qualificate come contratti preliminari di compravendita: l’uno avente
ad oggetto la promessa di trasferire ad una società un appartamento e un box dietro pagamento di un
45
tale pronuncia veniva affermata l’utilizzabilità in funzione antielusiva dell’art. 20 del
Tur facendo leva sul concetto di abuso del diritto sancito dalla giurisprudenza
comunitaria. Più recentemente, l’applicazione di tale principio nel campo dell’imposta
di registro è stato consolidato dalle sentenze a Sezioni Unite n. 30055 – 30056 – 30057
del 23 dicembre 2008, in forza delle quali il principio del “divieto di abuso del diritto” è
assunto a canone interpretativo dell’intero ordinamento tributario. In quanto di diretta
derivazione costituzionale, infatti, il suddetto divieto trova applicazione anche in
assenza di un’espressa disposizione “antiabuso” con riguardo al settore impositivo cui
inerisce la condotta contestata73.
Alla luce di queste pronunce, l’Amministrazione finanziaria può disporre con l’abuso
del diritto di uno strumento accertativo volto a combattere le fattispecie di elusione
fiscale in materia di imposizione indiretta che è indipendente e prescinde dall’art. 20 del
Tur. In realtà, tale assunto inizia ad essere messo in discussione dalla più recente
giurisprudenza di merito, secondo la quale è difficilmente sostenibile che vi sia abuso
del diritto ai fini dell’imposta di registro quando neppure ai fini delle imposte dirette
tale comportamento è considerato elusivo74; pertanto l’operazione di conferimento di
azienda seguita dalla cessione delle partecipazioni è pienamente legittima, giacché “non
è vietato al contribuente ricercare legittimamente il risparmio d’imposta, così come
garantito dalla Costituzione ex artt. 23 e 41, con la scelta degli atti che gli consentono
tutto questo”75.
PARTE TERZA: il regime contabile delle operazioni di cessione, conferimento e
scissione
1. Il bilancio straordinario relativo alla cessione di azienda
La disciplina civilistica non pone alcun obbligo circa la redazione di un bilancio
straordinario relativo alla cessione d’azienda; tuttavia, è comune nella prassi
predisporre, da parte del cedente, un documento (il cosiddetto «bilancio di cessione») la
cui finalità consiste nell’individuare il valore di cessione dell’azienda76.
corrispettivo; l’altro avente ad oggetto l’impegno del venditore a rilasciare l’immobile entro sei mesi con
obbligo della società di corrispondere una somma a titolo di indennità. A fronte di tali preliminari veniva
iscritta ipoteca sull’immobile per un valore pari agli importi complessivamente previsti nei due contratti
preliminari. Nonostante l’atto definitivo di compravendita riportasse solo il corrispettivo del primo
contratto preliminare, l’Ufficio liquidava l’imposta sulla somma complessiva scambiata tra le parti,
comprendente non solo il corrispettivo ma anche l’indennizzo, sostenendo che le parti avevano voluto
scambiarsi l’immobile per un importo pari alle somme complessivamente indicate nei due preliminari.
73
In particolare, con le sentenze n. 18374 del 31 agosto 2007, n. 12237 del 15 maggio 2008 e n. 12042
del 25 maggio 2009, la Cassazione ha ritenuto espressamente applicabile il divieto di abuso del diritto agli
effetti dell’imposizione indiretta.
74
Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Treviso n. 41 del 22 aprile 2009.
75
Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 388 del 19 novembre 2010,
commentata da F. Pedrotti “Conferimento di ramo di azienda e successiva cessione di quote attribuite al
soggetto conferente. Considerazioni intorno alla presunta elusività ai fini dell’imposta di registro” in
Rivista di Diritto Tributario n. 4/2011, parte II, pag. 226. Cfr. la sentenza della Commissione Tributaria
Provinciale di Brescia n. 14 del 18 febbraio 2011 e la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale
di Rimini n. 184 dell’11 maggio 2011.
76
Ovviamente le parti sono libere di determinare a loro piacimento il prezzo da attribuire al compendio
aziendale oggetto del trasferimento, ma tale valutazione non potrà prescindere dalla consistenza
patrimoniale dell’azienda e dalla sua attitudine a produrre un reddito, di cui viene per l’appunto data
evidenza nel documento in esame.
46
Detto «bilancio» si sostanzia in una mera situazione patrimoniale extra – contabile, ove,
oltre alle attività e le passività – indicate al loro valore di mercato77 –, viene altresì
indicato l’avviamento attribuito al compendio aziendale, così da evidenziare il capitale
economico dell’azienda oggetto del trasferimento78; la sua redazione compete agli
amministratori ma, in quanto atto «interno», non sono ovviamente richieste né
approvazione assembleare né forme di pubblicità legale per lo stesso79.
La forma adottata è in linea di massima quella prevista dall’art. 2424 c.c., il cui
contenuto viene comunque adattato alle peculiari finalità del «bilancio di cessione».
Ciò posto, occorre a tale proposito rammentare come la dottrina aziendalistica abbia
individuato diversi metodi di valutazione del capitale economico di un’azienda,
essenzialmente riconducibili a due macro-categorie: quella dei metodi analitici e quella
dei metodi sintetici80. I primi (detti anche metodi «patrimoniali»), determinano – come
noto – il capitale economico attraverso la somma dei singoli elementi dell’attivo e del
passivo che compongono il patrimonio aziendale, valutati analiticamente a valori
correnti. I secondi (tra cui si rammentano i metodi «reddituale» e «finanziario»), al
contrario, individuano il valore del capitale economico attraverso formule sintetiche che
prescindono dalla valutazione analitica degli elementi patrimoniali.
Dalla disamina che precede, si evince pertanto come il ricorso, quanto meno come
criterio base, a metodi di valutazione analitici quale quello «patrimoniale» risulti
maggiormente coerente con la predisposizione del bilancio in esame, permettendo una
valutazione puntuale di ciascuna voce patrimoniale di cui poter dare evidenza nel
suddetto documento. Nella prassi, in effetti, risulta particolarmente frequente la
determinazione del valore economico del capitale attraverso il cosiddetto metodo «misto
con stima autonoma del goodwill»; tale metodo, come noto, permette di determinare il
valore economico del capitale conferito sommando al valore dello stesso determinato
con il metodo patrimoniale, l’avviamento autonomamente stimato,
giusta la formula:
W = K + (R – Ki) a
n i’
ove i suesposti simboli assumono il significato qui sotto espresso:
W = Valore economico del capitale
K = Valore del capitale determinato con metodo patrimoniale
(R – Ki) a n i’ = Valore dell’avviamento (o sovrareddito) autonomamente stimato
R = Reddito medio annuo prospettico
i = Tasso di rendimento normale
n = Durata presunta del sovrareddito
i’ = Tasso di attualizzazione
a = Fattore di attualizzazione
77
Il suddetto valore di mercato delle attività cedute e delle passività accollate può ovviamente essere
accettato dalle parti per la negoziazione del prezzo di cessione oppure costituire un limite massimo di
valutazione.
78
Parte della dottrina ha equiparato detto documento al bilancio di fusione, avendo entrambi a oggetto la
rilevazione del capitale economico; cfr. in tal senso Confalonieri, Bilanci e operazioni straordinarie., p.
266.
79
Al fine di addivenire a una valutazione la più oggettiva possibile, è possibile da parte del cedente e del
cessionario conferire a un esperto l’incarico di redigere un’apposita relazione di stima che contenga, oltre
all’indicazione del valore corrente dei beni che costituiscono l’azienda, anche una stima dell’avviamento
della stessa, valori che – in tal caso – confluiranno nel bilancio straordinario de quo.
80
Per un’approfondita disamina sull’argomento si rimanda all’esauriente opera di Guatri, Trattato sulla
valutazione delle aziende, Egea, 1998.
47
Il ricorso al suddetto criterio, pertanto, consente un’autonoma valutazione di tutte le
poste attive e passive, ivi compreso il valore dell’avviamento81, ferma restando
ovviamente la possibilità di una controprova dell’attendibilità del valore complessivo
così determinato giusta il ricorso ai metodi reddituali e/o finanziari.
In particolare, nella valutazione delle singole poste oggetto di trasferimento è possibile
enucleare i seguenti criteri guida, considerando che i vari elementi patrimoniali
dovranno essere espressi a «valori correnti»82:
a) le poste attive sono valutate a valori di realizzo o all’eventuale costo di
riproduzione;
b) il valore dei debiti deve far riferimento al valore di estinzione, considerando
anche gli interessi maturati;
c) le attività immateriali vanno distinte in «beni immateriali» (marchi, brevetti,
licenze, ecc.), idonei a essere trasferiti autonomamente e «oneri immateriali
pluriennali» al contrario non cedibili in quanto voci non suscettibili di una
valutazione economica oggettiva, di talché possono essere al più fatti rientrare
nell’avviamento83.
Ciò posto, la valutazione delle singole poste può essere sintetizzata come segue:
a) le immobilizzazioni materiali vanno iscritte al valore corrente di mercato, ovvero
– qualora non esista un mercato dell’usato per detti cespiti – al valore di
riacquisto o produzione, rettificato per tener conto dell’usura nonché
dell’obsolescenza economica degli stessi; gli immobili civili, in particolare,
dovranno essere valorizzate esclusivamente al valore di mercato, come da
apposita stima;
b) i titoli quotati vanno valorizzati in base ai prezzi correnti di borsa; per quanto
attiene, al contrario, quelli privi di negoziazione in mercati regolamentati,
occorrerà far riferimento, rispettivamente:
- per i titoli a reddito fisso, a quelli similari quotati;
- per le partecipazioni di controllo o collegamento, in proporzione al
valore del capitale economico della società che esse rappresentano, e per
le altre, in base al patrimonio netto contabile;
c) le merci e le materie in genere presenti in magazzino, vanno iscritte al valore di
riacquisto, mentre i semilavorati e i prodotti finiti a quello di realizzo dalla
vendita sul mercato;
d) i crediti andranno iscritti al valore di presumibile realizzo degli stessi,
convertendo quelli in valuta in base al cambio corrente al momento della stima;
e) i debiti, coerentemente, devono essere iscritti al valore di estinzione,
eventualmente convertiti al cambio corrente, se espressi in valuta;
f) nei fondi per rischi e oneri occorre effettuare quegli accantonamenti che
permettano di far fronte a tutte le passività potenziali, come stimate dall’esperto,
in base alla diligenza professionale richiesta.
Mette conto evidenziare, a tale proposito, come per quanto attiene gli assets
immateriali, rilevino esclusivamente quelle immobilizzazioni di tipo immateriale
costituiti da veri e propri diritti, i quali:
81
Mette conto evidenziare, a tale proposito, come – nel caso in cui oggetto delle cessione sia un mero
ramo di azienda privo di qualsiasi autonomia gestionale nel periodo anteriore al trasferimento –
l’oggettiva difficoltà riscontrabile nell’attribuire allo stesso un autonomo reddito potrebbe comportare
altresì l’impossibilità ad attribuire ragionevolmente un avviamento al compendio industriale in oggetto, di
talché la valutazione dovrebbe avvenire avvalendosi esclusivamente di un metodo meramente
patrimoniale.
82
Cfr. Caratozzolo, I bilanci straordinari, Milano, Giuffrè, 1996., p. 94 ss.
83
Cfr. Confalonieri, op. cit., p. 266.
48
siano suscettibili di generare utilità differita nel tempo;
siano giuridicamente trasferibili (ovvero cedibili a terzi), corrispondendo a essi
un diritto di sfruttamento esclusivo, regolato dalla legge;
- siano misurabili nel loro valore.
Conseguentemente verranno inseriti nel bilancio di cessione quei beni immateriali che
soddisfino le seguenti condizioni, tra cui:
a) quelli già iscritti in bilancio, quali – a titolo esemplificativo – i diritti di brevetto,
quelli su softwares e, in generale, tutte le opere dell’ingegno, protette e tutelate
dalla legge;
b) quegli ulteriori intangibles i quali, seppur non inseriti in contabilità, concorrono
comunque alla formazione del valore economico del capitale del compendio
aziendale trasferito84.
In particolare, tra gli assets sub b), la migliore dottrina in materia è solita farvi rientrare
quegli intangibles relativi al marketing (quali i marchi, le insegne, il design dei prodotti,
le idee pubblicitarie, ecc.) nonché quelli legati alla tecnologia (come know-how,
softwares, tecnologia, progetti di ricerca e sviluppo, ecc.), suscettibili senza dubbio di
influenzare positivamente il valore economico del complesso aziendale ove inseriti85.
Al contrario, non potranno essere iscritte nel suddetto bilancio quelle poste immateriali
(i cosiddetti «oneri immateriali pluriennali») i quali non sono suscettibili di concorrere
alla formazione del valore economico dell’azienda trasferita, quali, per esempio, i costi
di impianto, ampliamento, sviluppo, pubblicità, ecc.; in tal senso, non troverà altresì
autonoma evidenza nel documento in esame l’avviamento (cosiddetto «derivativo») già
iscritto nella contabilità del cedente a seguito di un precedente acquisto a titolo oneroso
(o conferimento) di un’azienda, e ciò in considerazione del fatto che lo stesso confluirà
nell’avviamento originario attribuito al complesso aziendale oggetto di valutazione.
Nel bilancio di cessione, come detto, comparirà anche il goodwill (ovvero l’eventuale
badwill) determinato, a seconda delle metodologie adottate, sulla base della stima
autonoma dello stesso propria del metodo «misto» ovvero come differenza tra il valore
risultante dall’applicazione del metodo reddituale e quello emergente dalla valutazione
con il metodo patrimoniale.
Peraltro, in presenza di avviamento «negativo» (badwill) questo dovrà essere
neutralizzato attraverso una rettifica del valore dei beni.
-
2. Il bilancio nel conferimento di azienda
Come noto, nelle operazioni di conferimento in società di capitali, l’art. 2343 c.c. pone
l’obbligo di stima del bene oggetto di conferimento da parte di un perito nominato dal
Presidente del Tribunale, al fine di verificare la corrispondenza tra il prezzo di
emissione delle azioni e il valore reale dei beni conferiti, garantendo in tal modo
l’idoneità del patrimonio della società ad assolvere la funzione di garanzia per i
creditori; ovviamente, nel caso in cui il conferimento abbia a oggetto un’azienda ovvero
84
A tale riguardo si rileva come l’evidenziazione di dette poste non avvenga sempre, dipendendo ciò dal
metodo valutativo adottato in concreto. Se, infatti, il ricorso al metodo patrimoniale «complesso»
comporta ex se la valorizzazione di tutti quegli assets non iscrivibili autonomamente in bilancio,
l’utilizzo, al contrario, del metodo patrimoniale «semplice», comporta esclusivamente la valutazione al
valore corrente di quelle poste già presenti in contabilità; in tal caso, pertanto, le poste de quibus
confluiranno all’interno dell’avviamento che risulterà, conseguentemente, di ammontare maggiore
rispetto a quello che deriverebbe dall’utilizzazione del metodo complesso.
85
Cfr. in tal senso, Gualtri L., Trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, Egea, 1998, pag. 244.
49
un ramo della stessa, la suddetta perizia dovrà avere a oggetto detto compendio
aziendale, e in special modo, i beni che lo compongono.
Poiché la relazione di stima deve «contenere la descrizione dei beni o dei crediti
conferiti, il valore a ciascuno di essi attribuito, i criteri di valutazione seguiti», questa
può essere certamente configurata come un bilancio, ragion per cui si suole parlare nella
prassi di bilancio di conferimento. Tale bilancio rientra nella categoria dei bilanci
straordinari in quanto il suo fine è quello di determinare il valore netto dell’azienda da
conferire e non il reddito di periodo; inoltre, a differenza dei bilanci ordinari, utilizza
criteri di valutazione riconducibili alle valutazioni proprie del capitale economico in
ipotesi di cessione d’azienda.
Il bilancio di conferimento, quindi, consta unicamente di una situazione patrimoniale,
senza conto economico né nota integrativa, inserita nella relazione peritale dell’esperto
nominato dal Presidente del Tribunale; per quanto attiene la forma, deve ritenersi che lo
stesso si sostanzi in un inventario analitico-descrittivo piuttosto che in uno stato
patrimoniale vero e proprio.
Conseguentemente il redattore – ben potendosi comunque avvalere, come mero schema
di riferimento, della struttura di cui all’art. 2424 c.c. – elencherà le attività e passività
che compongono il compendio aziendale oggetto del conferimento, fornendone una
sommaria descrizione e attribuendo loro il relativo valore di trasferimento86; ovviamente
– in considerazione del fatto che scopo di questo documento è quello di fornire la
rappresentazione del valore economico del capitale oggetto del conferimento – tra le
attività verrà altresì inserito l’avviamento attribuito all’azienda.
Mette conto peraltro evidenziare come la suddetta valutazione analitica, in luogo di una
valutazione complessiva che abbia a oggetto l’intero complesso aziendale, è conforme
al dettato legislativo, atteso che l’art. 2343 c.c. richiede espressamente al perito di
indicare, oltre alla descrizione dei beni o crediti conferiti, anche «il valore a ciascuno di
essi attribuito».
Per quanto concerne i criteri di valutazione, dato che il legislatore non definisce in tal
senso alcun principio guida, è opinione comune in dottrina che al perito sia concessa la
più ampia discrezionalità in merito alla scelta dei criteri valutativi da adottare, con
l’obbligo, peraltro, di evidenziare gli stessi nella sua relazione87.
La discrezionalità dell’esperto non deve comunque far pensare che egli sia del tutto
libero nella scelta delle modalità estimative, atteso che lo stesso potrà avvalersi
unicamente dei metodi ritenuti più idonei a rispondere alle finalità della perizia88.
Infatti, poiché la relazione di stima è volta alla contemporanea tutela di opposti interessi
– individuabili da una parte negli interessi dei creditori della società conferitaria e dei
terzi a evitare un annacquamento del capitale sociale e dall’altra degli interessi del
conferente a non subire un ingiustificato deprezzamento di quanto egli conferisce – la
valutazione posta in essere dall’esperto deve essere il più possibile obiettiva, dovendo
prescindere in tutto da interessi particolari89.
La dottrina aziendalistica ha individuato diversi metodi di valutazione del capitale
economico di un’azienda, peraltro tutti riconducibili a due macrocategorie: quella dei
86
Cfr. in tal senso Caratozzolo, op. cit., p. 88.
In tal senso Pisani Massamormile, I conferimenti nelle società per azioni, Giuffrè, 1994, p.70, nota 59;
Poli, I conferimenti in aziende, in «Riv. dott. comm.», 1980, p. 424; Pozza, La valutazione delle aziende
ai sensi degli articoli 2343 e 2343-bis, in «Riv. dott. comm.», n. 4,
1995, p. 705.
88
Cfr. Pisani Massamormile, op. cit., p. 71
89
Cfr. Pozza, op. cit., p. 704.
87
50
metodi analitici e quella dei metodi sintetici90. I primi (detti anche metodi
«patrimoniali»), determinano il capitale economico attraverso la somma dei singoli
elementi dell’attivo e del passivo che compongono il patrimonio aziendale, valutati
analiticamente a valori correnti. I secondi (tra cui si rammentano i metodi «reddituale» e
«finanziario»), al contrario, individuano il valore del capitale economico attraverso
formule sintetiche che prescindono dalla valutazione analitica degli elementi
patrimoniali.
Parte della dottrina, riferendosi al dato letterale dell’art. 2343 c.c. – il quale prevede la
descrizione di ciascun elemento dell’attivo e del passivo dell’azienda oggetto di
conferimento nonché il valore attribuito – ritiene necessario attenersi, quanto meno
come criterio base, ai metodi di valutazione analitici, quale quello «patrimoniale»91.
Altra parte della dottrina ritiene, al contrario, che l’azienda oggetto di conferimento non
possa prescindere da una valutazione unitaria, legittimando, in tal modo, il ricorso ai
metodi di valutazione sintetici92.
A nostra avviso, in linea con quanto sostenuto dalla dottrina giuridica prevalente e dalla
prassi, è preferibile attenersi, nella redazione della perizia estimativa ex art. 2343 c.c., a
metodi di valutazione analitici, in funzione della minore soggettività che li
contraddistingue93. Tuttavia, il ricorso ai metodi sintetici risulta comunque opportuno
sia come «controprova» dei valori forniti dai metodi analitici sia per la determinazione
dell’eventuale avviamento positivo (goodwill) o negativo (badwill) dell’azienda.
Infatti, qualora l’applicazione dei metodi sintetici porti alla determinazione di un valore
complessivo del compendio aziendale sostanzialmente analogo a quello determinato
dall’applicazione dei metodi analitici, si potrà ritenere corretta la stima. Al contrario,
una significativa divergenza dovrà indurre l’esperto a indagare sulle cause di tale
divario. Una differenza positiva è, di norma, attribuibile all’avviamento (da iscriversi
nella perizia de qua quale bene «autonomo» oggetto di conferimento), mentre una
differenza negativa è riconducibile al fatto che il valore attribuito ai beni non rispecchia
l’utilità attesa, rendendo quindi necessaria una rettifica del valore dei beni94.
A tale proposito, si rileva come nella prassi risulti particolarmente frequente il ricorso al
cosiddetto metodo «misto con stima autonoma del goodwill»; tale metodo, come noto,
permette infatti di determinare il valore economico del capitale conferito sommando al
valore dello stesso determinato
con il metodo patrimoniale, l’avviamento autonomamente stimato, giusta la formula:
W = K + (R – Ki) a n i’
ove i suesposti simboli assumono il significato qui sotto espresso:
W = Valore economico del capitale
K = Valore del capitale determinato con metodo patrimoniale
(R – Ki) a
90
Per un’approfondita disamina sull’argomento si rimanda all’esauriente opera di Guatri, Trattato sulla
valutazione delle aziende, Egea, 1998
91
Cfr. Guatri, op. cit., p. 363.
92
Pisani Massamormile, op. cit., p. 67
93
Cfr. Portale, Problemi in tema di valutazione e della revisione della stima dei conferimenti in natura
nelle società per azioni, in «Giur. Comm.», 1974, II, p. 286; Quatraro-Mauri, L’aumento di capitale con
conferimenti di beni in natura o di crediti, in «Riv. dott. comm.», 1993, p. 437. A conferma della suddetta
tesi, si osserva come l’applicazione dei metodi «sintetici» renderebbe particolarmente difficoltosa la
valorizzazione, in sede di bilancio di apertura della conferitaria, dei singoli elementi attivi e passivi
trasferiti
94
Conseguentemente il perito esperirà una valutazione del compendio aziendale avvalendosi del metodo
«patrimoniale», il quale deve ritenersi fornire il valore «minimo» dell’azienda; in un secondo momento il
suddetto valore verrà comparato con quello determinato con il metodo reddituale, la cui eccedenza sul
primo ben potrà essere iscritto in bilancio come «avviamento» attribuibile all’azienda stessa.
51
n i’ = Valore dell’avviamento (o sovrareddito) autonomamente stimato
R = Reddito medio annuo prospettico
i = Tasso di rendimento normale
n = Durata presunta del sovrareddito
i’ = Tasso di attualizzazione
a
n i’ = Fattore di attualizzazione
Il suddetto metodo, pertanto, risulta quello maggiormente aderente al dettato legislativo,
sostanziandosi in una autonoma valutazione di tutte le poste attive e passive, ivi
compreso il valore dell’avviamento95.
A tale proposito, occorre peraltro rilevare come, per semplicità, si debba evitare di
effettuare la valutazione de qua basandosi sulle prospettive reddituali future, limitandosi
al contrario a valutare il complesso aziendale in maniera autonoma (ovvero senza tener
conto delle «sinergie» eventualmente realizzabili a seguito del conferimento), risultando
ciò maggiormente in linea con l’obiettività e l’oggettività che deve, al contrario,
caratterizzare la stima predisposta dal perito.
Una volta chiarite le finalità a cui risponde la relazione peritale e individuate le diverse
soluzioni metodologiche che meglio consentono di raggiungere lo scopo della
valutazione, è possibile passare all’analisi del contenuto della perizia nonché delle
conseguenti problematiche.
In primo luogo, il perito è chiamato a effettuare un’indagine tesa a individuare tutti gli
elementi attivi e passivi componenti l’azienda e a giudicare la loro idoneità a essere
conferiti, procedendo poi alla loro valutazione avvalendosi – come si è detto – del
metodo «patrimoniale», salva la successiva iscrizione del valore di avviamento
determinato separatamente con il metodo suesposto.
Nella valutazione delle singole poste oggetto di conferimento è possibile enucleare i
seguenti criteri guida, considerando che i vari elementi patrimoniali dovranno essere
espressi a «valori correnti», tenendo conto della loro destinazione economica nel
bilancio dell’impresa conferente96:
- le poste attive sono valutate a valori di realizzo o all’eventuale costo di
riproduzione;
- il valore dei debiti deve far riferimento al valore di estinzione, considerando
anche interessi maturati;
- le attività immateriali vanno distinte in «beni immateriali» (marchi, brevetti,
licenze, ecc.), suscettibili di essere trasferiti autonomamente e quindi
sicuramente conferibili, e «oneri immateriali pluriennali», la cui conferibilità è
ritenuta dubbia dalla maggior parte della dottrina97 (in quanto beni non
suscettibili di una valutazione economica oggettiva), di talché possono essere al
più fatti rientrare nell’avviamento98.
Per quanto riguarda la possibilità di iscrizione del valore di avviamento, sia nella
relazione di stima che nel bilancio della società conferitaria, si ritiene che, in base a
quanto prevede l’art. 2426 c.c. al n. 6, non sussistano dubbi in merito all’iscrivibilità di
95
Mette conto evidenziare, a tale proposito, come – nel caso in cui il ramo d’azienda conferito sia stato
privo di qualsiasi autonomia gestionale nel periodo ante-conferimento – l’oggettiva difficoltà riscontrabile
nell’attribuire allo stesso un autonomo reddito potrebbe comportare altresì l’impossibilità ad attribuire
ragionevolmente un avviamento al compendio industriale in oggetto, di talché la valutazione dovrebbe
avvenire avvalendosi esclusivamente di un metodo meramente patrimoniale; cfr. sul punto Guatri,
Trattato sulla valutazione delle aziende, Egea, 1999, p. 362 ss.
96
Cfr. Caratozzolo, op. cit., p. 94 ss.
97
Cfr. Campobasso, Diritto delle società, Utet, 1992, p. 179
98
Cfr. Caratozzolo, op. cit., p. 111.
52
tale posta; detta disposizione, infatti, prescrive che l’avviamento può essere iscritto
nell’attivo, con il consenso del collegio sindacale, se l’acquisto è a titolo oneroso.
Pertanto l’iscrizione dell’avviamento è possibile indipendentemente dal tipo di
corrispettivo pagato, denaro o partecipazioni che sia.
Ciò posto, la valutazione delle singole poste può essere sintetizzata come segue:
1) le immobilizzazioni materiali vanno iscritte al valore corrente di mercato,
ovvero – qualora non esista un mercato dell’usato per detti cespiti – al valore di
riacquisto o produzione, rettificato per tener conto dell’usura nonché
dell’obsolescenza economica degli stessi; gli immobili civili, in particolare,
dovranno essere valorizzati esclusivamente al valore di mercato, come da
apposita stima;
2) i titoli quotati vanno valorizzati in base ai prezzi correnti di borsa; per quanto
attiene, al contrario, quelli privi di negoziazione in mercati regolamentati,
occorrerà far riferimento, rispettivamente:
a) per i titoli a reddito fisso, a quelli similari quotati;
b) per le partecipazioni di controllo o collegamento, in proporzione al valore
del capitale economico della società che esse rappresentano, e per le altre, in
base al patrimonio netto contabile;
3) le merci e le materie in genere presenti in magazzino, vanno iscritte al valore di
riacquisto, mentre i semilavorati e i prodotti finiti a quello di realizzo dalla
vendita sul mercato;
4) i crediti andranno iscritti al valore di presumibile realizzo degli stessi,
convertendo quelli in valuta in base al cambio corrente al momento della stima;
5) i debiti, coerentemente, devono essere iscritti al valore di estinzione,
eventualmente convertiti al cambio corrente, se espressi in valuta;
6) nei fondi per rischi e oneri occorre effettuare quegli accantonamenti che
permettano di far fronte a tutte le passività potenziali, come stimate dall’esperto,
in base alla diligenza professionale richiesta.
Nel bilancio di conferimento, come detto, comparirà anche il goodwill (ovvero
l’eventuale badwill) determinato, a seconda delle metodologie adottate, sulla base della
stima autonoma dello stesso propria del metodo «misto» ovvero come differenza tra il
valore risultante dall’applicazione del metodo reddituale e quello emergente dalla
valutazione con il metodo patrimoniale. Peraltro, in presenza di avviamento «negativo»
(badwill) questo dovrà essere neutralizzato attraverso una rettifica del valore dei beni99.
Per quanto attiene poi alla presenza nel suddetto documento di ulteriori voci, oltre a
quelle suesposte, si osserva quanto segue:
a) la differenza tra le attività (comprensive dell’avviamento) e le passività iscritte
nel documento de quo costituisce il valore netto dell’azienda conferita;
b) sono legittimamente conferibili, come detto, i cosiddetti «beni immateriali» in
senso stretto, ovvero quelle immobilizzazioni di tipo immateriale costituiti da
veri e propri diritti, i quali:
- siano suscettibili di generare utilità differita nel tempo;
- siano giuridicamente trasferibili (ovvero cedibili a terzi), corrispondendo
a essi un diritto di sfruttamento esclusivo, regolato dalla legge;
- siano misurabili nel loro valore100;
99
Cfr. Olivieri, I conferimenti in natura nelle società per azioni, Cedam, 1989, p. 425.
Vi rientrano pertanto, a titolo esemplificativo, i diritti di brevetto, quelli su softwares e, in generale,
tutte le opere dell’ingegno, protette e tutelate dalla legge.
100
53
al contrario, non possono costituire oggetto di conferimento quelle poste
immateriali (i suddetti «oneri immateriali pluriennali») eventualmente iscritte
dal conferente e prive di valore autonomo, quali, per esempio i costi di impianto,
ampliamento, sviluppo, pubblicità, ecc. In tal senso, deve altresì ritenersi non
conferibile l’avviamento (cosiddetto derivativo) già iscritto nella contabilità
della conferente a seguito di un precedente acquisto a titolo oneroso (o
conferimento) di un’azienda, e ciò in considerazione del fatto che lo stesso
confluirà nell’avviamento originario attribuito al compendio aziendale oggetto
del conferimento.
Discusso in dottrina, appare peraltro la possibilità di poter conferire in maniera
autonoma specifici intangibles non precedentemente iscritti in contabilità, i quali
tuttavia – stante la loro indubbia rilevanza – concorrono senza dubbio alla formazione
del capitale economico dell’impresa conferita e, in linea generale, possono anche
prestarsi a una stima del relativo valore da parte del perito (come avviene avvalendosi
del metodo patrimoniale complesso)101. Per alcuni autori, difatti, l’effettivo passaggio di
invenzioni non brevettabili o, in generale, del know-how risulterebbe sempre incerto,
atteso che nulla vieterebbe al conferente di utilizzare comunque tali conoscenze nella
prosecuzione della propria attività; ne discenderebbe pertanto una costante incertezza
circa l’acquisizione a titolo esclusivo di detti intangibles da parte del conferitario102;
conseguentemente, altra parte della dottrina ritiene che il suddetto conferimento
necessiti di un contestuale impegno, da parte del conferente, ad astenersi dall’esercizio
di attività concorrenziali che possano in qualche modo limitare o, comunque, rendere
incerto, l’effettiva fruibilità di tale «patrimonio d’esperienza» da parte del
conferitario103.
Ovviamente, quand’anche si decidesse di non valutare (e pertanto di conferire)
autonomamente detti beni immateriali (ricorrendo, per esempio, a un metodo di
valutazione patrimoniale semplice), gli stessi confluiranno nell’avviamento originario
attribuito al compendio aziendale oggetto del conferimento, il cui valore risulterà
pertanto di importo maggiore di quanto non sarebbe stato avvalendosi al contrario di un
metodo patrimoniale complesso.
In merito poi agli adempimenti formali, il bilancio di conferimento non è sottoposto ad
approvazione assembleare. Tuttavia, secondo quanto disposto dall’art. 2343, comma 3
c.c., occorre la verifica dei valori da parte degli amministratori e sindaci della società
conferitaria entro sei mesi dal conferimento.
Qualora, in particolare, dalla suddetta verifica risulti che il valore attribuito ai beni
risulta inferiore di oltre un quinto a quanto indicato dal perito nella sua relazione di
stima, la società deve proporzionalmente ridurre il capitale, a meno che il socio decida
di versare la differenza in denaro o di recedere dalla società.
101
Si tratta, a titolo esemplificativo, di tutti quegli assets relativi al marketing (notorietà del marchio,
catena distributiva, design, ecc.) nonché dell’area tecnico-produttiva (quali i knowhow produttivi, i
progetti di ricerca e sviluppo, design software, ecc.) la cui rilevanza economica, in un’economia come
quella odierna, appare innegabile; in tal senso si veda Guatri, Trattato sulla valutazione delle aziende,
Egea, 1998, p. 239 ss.
102
Cfr. in tal senso Pisani Massamormile, I conferimenti nelle Spa e formazione del capitale, Napoli,
1992, p. 29; Portale, I conferimenti in natura «atipici» nelle Spa. Profili critici, Milano, 1974; favorevole,
al contrario, alla conferibilità dei suddetti intangibles, Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle
società, Utet, 1994, p. 180; Di Sabato, Manuale delle società, Utet, 1990, p. 255
103
cfr. Olivier G., op. cit., p. 283.
54
3. Il bilancio di apertura della società conferitaria
Per effetto del conferimento si viene a modificare la struttura patrimoniale dell’impresa
conferitaria e per tale motivo risulta quanto mai opportuno dare rappresentazione alla
nuova struttura del patrimonio mediante un documento apposito, denominato «bilancio
di apertura».
Se l’impresa conferitaria è di nuova costituzione, la redazione di un apposito bilancio di
apertura è obbligatorio per legge; infatti, ai sensi dell’art. 2217, comma 1 c.c., ciascuna
impresa commerciale deve redigere, al momento della sua costituzione, un inventario
generale delle sue attività e passività, e, quindi, quello da noi definito come bilancio di
apertura.
Peraltro, anche nell’ipotesi di aumento di capitale a seguito di conferimento in
un’impresa già costituita, si ritiene comunque necessaria la predisposizione di un
documento contabile di apertura, in quanto, col conferimento d’azienda si verificano
comunque degli effetti rilevanti sulla situazione patrimoniale dell’impresa preesistente.
È quindi opportuno procedere a un «consolidamento» tra la precedente e la nuova
situazione contabile e rappresentare il tutto in un bilancio di apertura; in questo caso,
però, il bilancio di apertura ha una minor valenza e non deve essere iscritto nel libro
inventari104. Per quanto attiene alla forma di detto documento, occorrerà seguire la
struttura della situazione patrimoniale di cui all’art. 2424 c.c.
Come detto, la conferitaria iscrive le attività e passività apportate di norma ai valori di
perizia, i quali costituiscono il limite massimo di iscrizione dei beni conferiti105.
Peraltro, parte della dottrina critica la possibilità di assumere le attività ricevute in
apporto per importi inferiori a quelli risultanti dalla perizia di stima106; infatti, una
sottovalutazione, per esempio, del valore dei beni strumentali apportati comporta la
determinazione di minori quote di ammortamento, con una corrispondente
sopravvalutazione dell’utile di esercizio. Se l’utile viene distribuito, ciò determina un
depauperamento del patrimonio sociale, con conseguente grave lesione degli interessi
dei creditori.
Non vi sono invece preclusioni nell’imputare il valore complessivo del conferimento,
parte a capitale sociale e parte a una riserva per sovraprezzo, in quanto è lo stesso art.
2343 c.c. che ne prevede la possibilità.
Peraltro tale suddivisione è senza dubbio corretta in caso di aumento di capitale sociale
a seguito di conferimento in una società già costituita, in quanto il sovraprezzo svolge la
funzione di tutela dei soci preesistenti all’operazione stessa. Poiché il valore economico
effettivo delle azioni è di solito superiore al valore nominale di esse, i nuovi soci,
pagando le azioni a valore nominale, beneficerebbero di tale surplus a danno dei vecchi
soci. Il pagamento di una somma a titolo di sovraprezzo serve pertanto a riallineare la
situazione di squilibrio.
Ai fini del calcolo del sovraprezzo, in sede di aumento di capitale sociale, risulta
necessario conoscere il valore reale (e quindi il capitale economico) sia della società
conferitaria sia dell’azienda conferita.
104
Cfr. Caratozzolo, op. cit., p. 128 ss.
L’ipotesi di sottovalutazione del conferimento «deve ritenersi pienamente consentita, anche in
mancanza di espresse previsioni»; cfr. in tal senso Miola, I conferimenti in natura, in «Trattato delle
società per azioni», a cura di Colombo e Portale, vol. I, Utet, 1998, p. 213.
106
Caratozzolo, op. cit., p. 136.
105
55
Il sovraprezzo è determinato come differenza tra il valore economico effettivo
dell’azienda conferita e l’aumento di capitale sociale della conferitaria da attribuire al
conferente, per la cui determinazione si usa la seguente espressione:
C.S.a.c. : Incr.c.s. = WE conf.ria : WE con.ta
dove:
C.S.a.c. = Capitale sociale conferitaria ante conferimento
Incr.c.s. = Aumento capitale sociale della conferitaria
WE conf.ria = Valore economico conferitaria
WE con.ta = Valore effettivo azienda conferita
Per esempio, ipotizzando che il capitale sociale della conferitaria antecedente al
conferimento sia 200, il suo capitale economico 2000, e il valore effettivo del
complesso conferito sia 4000, avremo:
200 : x = 2.000 : 4.000
x = 200 x 400 = 400 aumento capitale sociale
2000
Sovraprezzo = (4.000 – 400) = 3.600
Non pare, invece, corretta la suddivisione tra capitale sociale e sovraprezzo in sede di
costituzione delle società in quanto il valore effettivo delle azioni non può che
coincidere con il valore nominale.
Nei conferimenti effettuati nelle società di capitali, gli amministratori e i sindaci della
società conferitaria hanno l’obbligo, imposto dall’art. 2343, comma 3 e 4 c.c., di
controllo dei valori assegnati ai beni conferiti presenti nella perizia di stima. L’esito di
tale controllo può avere effetti sulla contabilità dell’apporto da parte della conferitaria.
Infatti, a detta dell’art. 2343 c.c., se risulta dai controlli effettuati che il valore degli
elementi patrimoniali apportati «è inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il
conferimento, la società deve ridurre il capitale sociale annullando le azioni che
risultano scoperte. Tuttavia il socio conferente può versare la differenza in denaro o
recedere dalla società».
La disciplina civilistica non prende in considerazione l’ipotesi in cui i valori riscontrati
dal successivo controllo siano superiori a quelli di perizia; si ritiene comunque che il
maggior valore non possa essere iscritto nella contabilità della conferitaria107. Le
possibili ipotesi che si possono verificare e le relative conseguenze contabili vengono
qua di seguito riportate:
a) il valore revisionato è sostanzialmente uguale a quello risultante dalla perizia: in
tal caso non sorge alcun problema e i valori di perizia sono quelli definitivi;
b) il valore di perizia è inferiore a quello di perizia ma entro i limiti di un quinto: il
valore della partecipazione del socio non subisce riduzioni, mentre la
conferitaria procederà alla svalutazione del valore dei beni conferiti;
c) il valore di perizia risulta inferiore di oltre un quinto del valore revisionato:
troverà applicazione il comma 4 dell’art. 2343 c.c. e quindi si procede alla
riduzione del capitale sociale della società conferitaria o a un versamento
integrativo del socio conferente, salvo che questi non decida di recedere dalla
società;
d) il valore revisionato è superiore a quello di perizia: il maggior valore non può
essere iscritto dalla conferitaria.
*
107
*
*
Conforme in tal senso Caratozzolo, op. cit., p. 127.
56
Tutto ciò posto, si ricorda che l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. del 4 agosto 2008, n. 142 ha
inserito nel codice civile l’art. 2343 ter, del cod.civ., in base al quale è ammessa la
possibilità di procedere al conferimento di beni in natura senza relazione di stima.
Specificamente al comma 2 la disposizione de qua – nel testo ad oggi vigente a seguito
delle modifiche apportate dall’art. 1, del D.Lgs. del 24 novembre 2010, n. 224 –
prevede la possibilità di effettuare un conferimento di beni in natura senza la necessità
di predisporre una perizia di stima da parte di un esperto nominato dal tribunale quando
il valore ad essi attribuito, ai fini della determinazione del capitale sociale e
dell’eventuale sovrapprezzo, corrisponde:
a) al fair value iscritto nel bilancio dell’esercizio precedente quello nel quale è
effettuato il conferimento a condizione che il bilancio sia sottoposto a revisione
legale e la relazione del revisore non esprima rilievi in ordine alla valutazione
dei beni oggetto del conferimento, ovvero;
b) al valore risultante da una valutazione riferita ad una data precedente di non oltre
sei mesi il conferimento e conforme ai principi e criteri generalmente
riconosciuti per la valutazione dei beni oggetto del conferimento, a condizione
che essa provenga da un esperto indipendente da chi effettua il conferimento,
dalla società e dai soci che esercitano individualmente o congiuntamente il
controllo sul soggetto conferente o sulla società medesima, dotato di adeguata e
comprovata professionalità.
All’ultimo comma, dell’art. 2343 ter cit., inoltre, è stato chiarito che “i fini
dell’applicazione del secondo comma, lettera a), per la definizione di fair value si fa
riferimento ai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea”. Pertanto,
l’applicazione di tale criterio presuppone che la società conferente abbia iscritto il bene
da conferire in un bilancio redatto secondo gli IAS e che detto bene sia stato valutato in
base al fair value.
Un aspetto rilevante è vedere se le nuove regole introdotte dall’art. 2343 ter, comma 2
lett a) e b) del cod. civ. possano essere utilizzate anche per il conferimento di azienda (o
ramo di azienda).
Per quanto concerne l’ipotesi sancita dalla lett. a) – dato che la Direttiva n. 77/91/CEE
fa riferimento al fair value ricavato per ogni singolo cespite, anche in caso di
conferimento di azienda si deve guardare il valore attribuito ad ogni singolo bene
iscritto nel bilancio della società conferente, incluso l’avviamento ove anch’esso risulti
dal detto bilancio108. Conseguentemente, il criterio di valutazione in commento potrà
trovare applicazione solamente ove siano valutate al fair value “tutte le entità attive e
passive facenti parte del complesso aziendale che si intende conferire”109
Invece, pare plausibile nei casi de quibus fare ricorso alla previsione sancita dalla lett.
b)110; questa impostazione non è condivisa da tutta la dottrina, la quale ritiene che solo
la qualifica professionale di un perito nominato dal tribunale sia idonea a garantire
l’affidabilità della valutazione, sulla base del fatto che il conferimento di azienda è
108
Cfr. l’art. 10 bis, par 3 della Direttiva n. 77/91/CEE intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le
garanzie che sono richieste, negli Stati Membri, alle società di cui all'articolo 58, secondo comma, del
Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi per quanto riguarda la costituzione della società per
azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni del capitale sociale della stessa, come modificata dalla
Direttiva n. 2006/68/CE.
109
Cfr. la circolare Assonime n, 19 del 28 luglio 2011 “La nuova disciplina dei beni in natura e crediti”
pag. 25
110
Cfr. P. Ceppellini e R. Lugano “Più facili i conferimenti in Spa” in Il Sole 24 Ore del 23 settembre
2008 pa. 33.
57
disciplinato per analogia dall’art. 2343 del cod. civ.111. Peraltro, il Notariato del
Triveneto, con la massima n. H.A.10 del settembre 2010, ha condiviso il primo
orientamento: infatti, ha esplicitamente ammesso che - stante l’alternatività dell’ipotesi
sancita dalla lett. b) rispetto a quella della lett. a) e l’assenza di esclusioni o limitazioni
testuali - il conferimento può avere ad oggetto qualsiasi bene conferibile in natura,
inclusa l’azienda, a prescindere da una sua preesistente ed autonoma iscrizione nel
bilancio della conferente o da un’autonoma ascrivibilità nel bilancio della conferitaria.
4. Il bilancio di chiusura della società scissa
L’esigenza di predisporre il bilancio di chiusura sorge in capo alla società scissa
principalmente in caso di scissione totale, atteso che a decorrere dalla data di efficacia
della suddetta operazione la stessa cessa di esistere. Conseguentemente, occorrerà
redigere un apposito bilancio atto a determinare il risultato di periodo e, se del caso,
l’utile eventualmente distribuibile ai soci.
Mette conto evidenziare, a tale proposito, come la predisposizione del suddetto
rendiconto sia peraltro obbligatoria ai fini fiscali, atteso che l’art. 5-bis del DPR 322/98
impone – in caso di scissione totale – in capo alla società designata a norma del comma
14 dell’art. 123-bis (ora art. 173) del TUIR di presentare la dichiarazione relativa alla
frazione di periodo della società scissa entro l’ultimo giorno del nono mese successivo
alla data in cui diviene efficace l’operazione di scissione, in via telematica.
Il suddetto bilancio costituisce un vero e proprio bilancio «infrannuale», da redigere in
osservanza delle norme del codice civile in materia di bilancio d’esercizio, e deve essere
composto – come di regola – da stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa;
per quanto attiene poi la data di riferimento, occorre distinguere. In linea generale,
infatti, il suddetto bilancio risulta riferito alla data in cui la scissione acquista efficacia,
che corrisponde – salvo eventuale posticipazione della stessa – alla data in cui avviene
l’ultima delle iscrizioni dell’atto di scissione nel Registro delle Imprese; al contrario,
qualora le parti abbiano optato per la retrodatazione degli effetti contabili – rilevante
peraltro anche ai fini delle imposte dirette112 – il suddetto bilancio dovrà essere redatto
con riferimento a tale diversa (nonché anteriore) data. Ovviamente, qualora la
retrodatazione fosse al 1° gennaio, l’ultimo esercizio autonomo della scissa
corrisponderebbe con quello chiuso al 31 dicembre, di talché il bilancio di chiusura in
esame corrisponderebbe con quello dell’ultimo esercizio.
Diversamente, nel caso in cui la scissione sia parziale, non è richiesta la redazione di
alcun bilancio «di chiusura» da parte della scissa, atteso che la stessa rimarrebbe
comunque in vita, seppur decurtata dall’apporto effettuato nei confronti delle
beneficiarie.
5. Il bilancio di apertura delle beneficiarie
Il bilancio di apertura delle società beneficiarie presenta notevoli analogie con il
bilancio di apertura delle società risultanti dalla fusione.
Infatti, la finalità a cui risponde detto bilancio è quella di dare rappresentazione della
struttura e della composizione del patrimonio della beneficiaria, così come risulta a
111
Cfr. L. Miele e V. Russo “Cessione e conferimento di azienda” cit. pag. 143.
Mette conto evidenziare, a tale proposito, come dal punto di vista fiscale la retrodatazione degli effetti
contabili risulti ammessa esclusivamente in caso di scissione totale e a condizione che vi sia coincidenza
tra la chiusura dell’ultimo periodo d’imposta della società scissa e delle beneficiarie e per la fase
posteriore a tale periodo, giusta quanto previsto in tal senso dall’art. 173 del TUIR.
112
58
seguito del trasferimento del compendio aziendale della scissa; nel caso di beneficiarie
di nuova costituzione, inoltre, il suddetto documento ottempera all’obbligo di cui all’art.
2217 c.c., di redigere l’inventario all’inizio dell’esercizio dell’attività d’impresa.
L’iscrizione degli elementi patrimoniali trasferiti deve essere effettuata ai valori
«storici», atteso che ciò assicura la continuità contabile degli stessi: infatti, l’art. 2504bis, comma 4, c.c., richiamato dall’art. 2506-quater c.c., dispone espressamente come
«nel primo bilancio successivo alla fusione le attività e le passività sono iscritte ai
valori risultanti dalle scritture contabili alla data di efficacia della fusione
medesima»113.
A tale proposito, mette conto evidenziare come – in materia di principi contabili
internazionali – lo IFRS n. 3, stabilisce in modo indifferenziato la corretta
contabilizzazione delle operazioni di aggregazione aziendale (tra le quali rientra anche
la scissione). Specificamente l’IFRS n. 3 prevede l’applicazione dell’acquisition
method, ossia “l’acquirente deve valutare le attività acquisite e le passività assunte
identificabili ai rispettivi fair value (valori equi) alla data di acquisizione”.
In merito alla struttura e alla forma, tale documento risulta costituito dal solo stato
patrimoniale, redatto secondo lo schema di cui all’art. 2424 c.c., senza conto economico
né nota integrativa, atteso che la sua finalità principale risulta quella di esporre la
struttura e la composizione del patrimonio iniziale della beneficiaria e non già alcun
risultato economico di periodo. In particolare, al suo interno saranno inserite tutte le
attività e le passività trasferite dalla scissa alla medesima beneficiaria, ivi comprese le
eventuali poste rettificative (quali fondi di ammortamento, svalutazione crediti, ecc.), la
cui iscrizione – come detto – avviene ai valori contabili ai quali risultavano in carico
alla scissa; peraltro, nel suddetto documento troverà altresì evidenza l’eventuale avanzo
o disavanzo da scissione, come risulta dal confronto tra il valore contabile del
patrimonio netto trasferito e l’aumento del capitale sociale posto in essere dalla
beneficiaria.
Il bilancio di apertura, infine, non risulta soggetto ad alcuna approvazione da parte
dell’assemblea dei soci, stante la sua rilevanza meramente interna, alla stregua di
qualsiasi altro inventario. Ad ogni modo, il controllo da parte del suddetto organo sulle
poste trasferite con la scissione risulta solamente differito al momento
dell’approvazione del primo bilancio d’esercizio redatto in epoca posteriore al
perfezionamento dell’operazione de qua.
113
Cfr. G. Cremona, P. Monarca e N. Tarantino “Manuale delle operazioni straordinarie”, Ipsoa, 2009,
p. 231. Secondo altri autori, invece, il nostro ordinamento ammette che le poste trasferite possano essere
iscritte anche ai valori correnti (ad esempio, nel caso di scissione a favore di una società beneficiaria
preesistente che possieda una partecipazione nella società scissa, in tal senso cfr. G. Cristofori “operazioni
di finanza straordinaria”, Il Sole 24 Ore, 2008, pag. 714.
59