SOCIALISMO e la Chiesa in Italia

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Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume II - Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 02/04/2015
SOCIALISMO e la Chiesa in Italia
Autore: Gennaro Cassiani
Complesso di ideologie, movimenti e dottrine definitesi nel corso della prima metà del XIX secolo, di
concerto all’esplosione della questione sociale coniugata al prepotente sviluppo tecnologico, industriale e
commerciale dell’Europa occidentale. Promosso dall’intento di dare risposta al desiderio di giustizia delle
masse dei nuovi diseredati, il socialismo tende alla conquista di un regime di convivenza fondato
sull’uguaglianza non solo giuridica ma anche socioeconomica di tutti cittadini, attraverso il superamento
delle classi sociali e l’abolizione, in tutto o in parte, della proprietà privata dei mezzi di produzione e di
scambio.
Al Manifesto del partito comunista (1848) di Marx ed Engels si lega la formulazione della distinzione tra
socialismo «utopistico», qualificato come ottativo e velleitario, e socialismo «scientifico», sorretto da
rigorosa indagine dello sfruttamento della forza-lavoro operaia. Karl Marx ne condurrà l’analisi ne Il
Capitale (1867), cogliendo proprio nello sfruttamento della manodopera il presupposto oggettivo della
nascita e dello sviluppo del capitalismo.
La logica della legge del plusvalore – la legge fondamentale della produzione capitalistica – è ineluttabile,
obiettiva, scientifica. In questa luce, le lotte dei salariati di fabbrica per il miglioramento del loro tenore
di vita appaiono decisive per ridurre lo sfruttamento e contenere l’espropriazione del plusvalore
perseguito dal capitalista. L’obiettivo politico è poi quello di distruggere il sistema capitalistico e
sostituirlo con un sistema socioeconomico nel quale il plusvalore non venga meno, ma appartenga
all’intera collettività.
Socialismo e comunismo, nel pensiero marxista, rinviano, in un primo momento, a due diverse fasi del
medesimo processo rivoluzionario: quella della lotta in vista della collettivizzazione dei mezzi di
produzione e dell’instaurazione della «dittatura del proletariato»; quella tesa all’abolizione della società
di classe e al congedo dello Stato borghese con i suoi postulati economici. Parimenti di matrice socialista,
per quanto in aperta polemica con gli estremi del marxismo, è la dottrina anarchica di Pierre-Joseph
Proudhon che ispirò, tra il 1871 e il 1872, una prima scissione in seno all’Associazione internazionale dei
lavoratori (1864).
La definitiva distinzione fra la prospettiva socialista e quella comunista si ebbe con la rivoluzione
bolscevica (1917) e la costituzione della Terza internazionale (1910), allorché l’ala massimalista del
movimento, si andò organizzando nei partiti comunisti, mentre le formazioni orientate in senso riformista
e inserite nei sistemi democratico-borghesi presero progressivamente le distanze dal marxismo, specie
leninista, recuperando le istanze liberali del socialismo pre-marxista e definendo le linee programmatiche
del socialismo democratico e del socialismo liberale.
In Italia, nell’agosto del 1872, nacque la Federazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori,
articolata in sezioni regionali attive specie in Emilia-Romagna e in Toscana, nelle Marche e nell’Umbria.
L’internazionalismo italiano ebbe essenzialmente un carattere anarchico e libertario. Per tutto
l’Ottocento, mancando ancora una classe operaia omogenea e cosciente, le tesi di Marx ed Engels
registrarono uno scarso successo. A riscuotere consensi furono soprattutto le tesi del rivoluzionario
anarchico russo Michail Alexandrovič Bakunin, di formazione ideologica hegeliana e assai influenzato dal
pensiero di Proudhon.
Bakunin puntò sull’esasperazione del sottoproletariato urbano e sul latente ribellismo dei contadini
meridionali già messo in luce dal fenomeno del brigantaggio. Il nuovo soggetto associativo raccolse
esponenti del sottoproletariato, ma anche artigiani, salariati, ex mazziniani ed ex garibaldini animati da
spirito di rivolta contro l’iniquità, da sentimenti solidaristici e da ardente fede nei propri ideali. Ingenuità,
vistose carenze di coordinamento e di pianificazione politica saranno alla base degli insuccessi
dell’organizzazione, presto oggetto delle aspre critiche di Marx ed Engels.
Il fallimento dei moti di Imola (1874) e del Matese (1877), gli arresti e gli esili, la messa fuori legge
dell’Internazionale italiana spinsero il movimento ad accantonare il metodo insurrezionale a favore di una
complessiva revisione critica delle strategie di lotta e dell’impegno a sottrarre la classe operaia
dall’influenza delle vecchie società mutualistiche e cooperativistiche mazziniane e radicali.
Nel 1881, Andrea Costa fondò il Partito socialista rivoluzionario delle Romagne. Un anno più tardi,
Osvaldo Gnocchi Viani dette vita, a Milano, al Partito operaio italiano, il quale, disinteressandosi della
politica elettorale, si impegnò esclusivamente a favore delle rivendicazioni economiche e per la libertà di
sciopero.
Il Partito operaio – persuaso che la politica fosse tutta nelle mani dei padroni – fu antiparlamentarista,
antiborghese e anche contrario ad ogni sorta di socialismo autoritario. Le sue iniziative, in numerose
occasioni, incontrarono le censure delle autorità e, sovente, i suoi militanti subirono arresti e condanne.
Il quinto congresso del Partito operaio (1890) segnò il suo avvicinamento al socialismo della Seconda
internazionale (1889); il settimo congresso (1891) decretò invece la sua eclissi. L’anno successivo, la
formazione politica, con il supporto esterno di intellettuali provenienti dalla Prima internazionale e di
esponenti di matrice democratica radicale, quali Filippo Turati, fautore dell’abbandono della linea
operaista, si trasformò in Partito dei lavoratori italiani, quindi, nel 1893, in Partito socialista dei
lavoratori italiani e, nel 1895, in Partito socialista italiano.
L’organismo politico aveva base eterogenea: raccoglieva lavoratori di varia estrazione, provenienti dalle
società di mutuo soccorso e dalle leghe democratiche, dalle cooperative, dalle organizzazioni contadine e
dalle Camere del lavoro. Merito di Turati e con lui di Claudio Treves e di Anna Kuliscioff – la compagna e
consigliera di Turati, la quale aveva contribuito alla sua evoluzione politica verso il socialismo scientifico
– fu di creare un centro di unificazione delle varie esperienze socialiste italiane e di inserire il movimento
nella realtà dei problemi sollevati dal processo di industrializzazione in atto nel Paese.
Malgrado i controlli e le repressioni poliziesche subite negli ultimi anni del secolo, il Partito socialista
italiano – criticato dal filosofo napoletano Antonio Labriola in quanto ideologicamente immaturo e più
positivista e umanitario che marxista – ebbe largo successo fra le masse lavoratrici. Si sviluppò però assai
più nell’Italia settentrionale, fra gli operai e i contadini padani, che non nel Mezzogiorno.
Il Partito uscì trasformato dalla fine del primo conflitto mondiale. Nel 1912, aveva 30 mila iscritti; nel
1920-21, ne raggiunse 216 mila. In parlamento, nel 1913, contava su 52 deputati; nel 1919, ne ebbe 156.
Ma ciò che più cambiò in seno alla formazione politica, profondamente divisa al suo interno, fu il suo
orientamento ideologico. Nel 1919, durante il congresso di Bologna, si affermò la corrente massimalista,
favorevole alla presa violenta del potere: l’esperienza russa e quella ungherese induceva a ritenere che
anche l’Italia si trovasse ormai in una situazione rivoluzionaria. Il destino della borghesia era ritenuto
segnato: la sua incapacità a fare fronte ai problemi del dopoguerra appariva l’indice del suo prossimo
collasso. In questa prospettiva, qualunque gesto di collaborazione con il governo era considerato un
tradimento della classe operaia. Ma i programmi dei massimalisti non si accompagnarono a un’effettiva
analisi della situazione socioeconomica italiana, né l’organizzazione del Partito mutò in un senso anche
solo vagamente somigliante a quello dell’organizzazione bolscevica.
La direzione socialista, mentre prometteva l’imminenza della rivoluzione e prefigurava l’erezione delle
barricate e la vittoria sui nemici del popolo, si limitò appena a registrare i sintomi della supposta
decomposizione della società borghese, la quale, in realtà, non era affatto alle porte come, due anni più
tardi, con la compiacenza di tanta parte della vecchia classe dirigente moderata, la reazione alle giornate
del settembre del 1920 avrebbe dimostrato.
Tutto sommato, quella socialista seguitava ad essere una specie di confederazione di circoli culturali e di
astratta agitazione politica, mentre i sindacati, controllati da operaisti e riformisti, sottraendosi
sostanzialmente agli indirizzi del Partito, facevano repubblica a sé e continuavano a sostenere programmi
di strette rivendicazioni economiche. Anche il rapporto fra i vertici del Partito e il gruppo parlamentare
era un rapporto carente e il fitto schieramento dei deputati socialisti impegnato ben al di sotto delle sue
potenzialità. Il parlamento stesso era visto come uno strumento borghese. Di conseguenza, l’azione
parlamentare socialista non si esprimeva con quella energia ed incisività che pure avrebbe potuto avere,
mentre – naturalmente – difettava la forza per rovesciare l’istituzione e dare vita a un’assemblea
rivoluzionaria, come avevano fatto i comunisti russi.
Il massimalismo si risolse appena nell’attesa un po’ messianica di una rivoluzione che non sarebbe
venuta. Nel frattempo, mentre la formazione socialista, che pure raccoglieva la fiducia di grandi masse
operaie e contadine, si dilaniava nelle lotte interne, nasceva un altro movimento destinato segnare
profondamente la vita politica italiana del primo dopoguerra: il fascismo, guidato da Benito Mussolini.
La difficile convivenza in seno al Partito socialista italiano tra le prospettive programmatiche riformista e
massimalista sfociò, durante il congresso di Livorno (1921), in una drammatica scissione. Una parte dei
fuoriusciti daranno vita al Partito comunista italiano; un’altra, riformista, una volta espulsa, fonderà il
Partito socialista unitario.
Dopo l’esperienza della clandestinità vissuta durante il ventennio fascista, nel 1943, nacque il Partito
socialista italiano di unità proletaria che, nel 1947, riprenderà il nome di Partito socialista italiano. Sin
dal 1846, il magistero pontificio espresse ferma condanna del socialismo. Presupposta l’ineluttabilità
delle leggi economiche e la fatalità della povertà che accompagna la storia dell’umanità, la prospettiva
dell’egualitarismo socioeconomico è ritenuta utopica e la minaccia alla proprietà privata inaccettabile. La
radice dell’errore è nelle libertà moderne che ispirano l’individualismo, relegano la fede nella sfera
privata e propugnano la separazione tra Chiesa e Stato. Il liberalismo discende dalla riforma protestante,
dal principio del libero esame, dall’affermazione di immanenza, dalla rivoluzione del 1789. Il socialismo
altro non è se non l’ultimo nefasto corollario di un’antica deriva.
La censura del socialismo e del comunismo echeggia nella Qui pluribus (1846), nella Nostis et nobiscum
(1849), nella Quanta cura e nel Sillabo (1864). Nella Qui pluribus, Pio IX definisce il socialismo come
un’ideologia sovvertitrice dei diritti e della proprietà e dissolutrice della società umana. Nella Nostis et
nobiscum, gli ascrive l’intento di rovesciare ogni principio di autorità; nella Quanta cura, qualifica come
esiziale una dottrina secondo la quale la famiglia riceve ogni ragione di esistenza dal solo diritto civile.
L’appena eletto Leone XIII si mosse sulla linea del predecessore. Nell’enciclica Quod apostolici muneris
(1878), influenzata dal Sillabo e dalle inquietanti risonanze della Comune di Parigi (1871), esecra il
socialismo e il nichilismo; riafferma il diritto di proprietà; raccomanda ai ricchi di concedere ai poveri i
loro beni superflui ed esorta i bisognosi a dare prova di mansuetudine e di devota accettazione
dell’ordine sociale stabilito. Nella Auspicato concessum (1882), papa Pecci tornò sul tema della
composizione delle ragioni dei poveri e dei ricchi; sul valore della povertà; sulla fede come balsamo delle
sofferenze dei lavoratori. I vigenti mali sociali avevano origine negli errori del laicismo e nell’ateismo;
nell’illimitata libertà di coscienza e di culto; nell’ampiezza della libertà di pensiero e di stampa
(Immortale Dei, 1885). Tutto ciò, a sua volta, rinviava alla pretesa sovranità della ragione umana, la quale
aveva fatto di sé medesima l’unica fonte e criterio di giudizio (Libertas, 1888), quando la libertà non ha
altro senso se non nella soggezione alla Verità che viene da Dio per mezzo della Chiesa.
Nel 1891, al termine di una lunga elaborazione, Leone XIII pubblicò la Rerum (1891), enciclica decisiva
nella definizione del pensiero sociale cattolico. Il testo papale affronta con inedita profondità il tema della
giustizia sociale ed economica. Ribadisce l’inviolabilità della proprietà privata; condanna la lotta di
classe; definisce il socialismo una dottrina fuorviante e inaccettabile e, respinta l’idea del superamento
delle classi sociali e l’utopia dell’uguaglianza, invita gli operai a rispettare i loro doveri nei confronti degli
imprenditori e a rifiutare la violenza e lo sciopero come strumento di difesa dei loro diritti. Al tempo
stesso, incoraggiando la fondazione di un nuovo corso cristiano nei rapporti tra capitale e lavoro, la
Rerum novarum stigmatizza gli eccessi del capitalismo e la cinica visione economicista del profitto,
pronta a fare torto alla dignità umana. Ugualmente, censura la sempre maggiore concentrazione della
ricchezza nelle mani di pochi a fronte di un inarrestabile processo di proletarizzazione. Leone XIII si
pronuncia altresì a favore dell’equa retribuzione del lavoro operaio e approva gli intenti associativi dei
salariati in difesa dei propri diritti.
Filo rosso della Rerum novarum è il richiamo agli inalienabili diritti materiali e morali garanti dello
sviluppo integrale dell’individuo. Al tempo stesso, connotato eminente dell’enciclica è la ferma condanna
del socialismo, ritenuto falso e pericoloso in quanto negatore del diritto di proprietà sancito dal diritto
naturale e conforme alla tradizione della Chiesa. La via prospettata dalla Rerum novarum è la
riconciliazione fra le classi sociali mediante l’armonizzazione dei loro reciproci diritti e doveri;
l’istituzione di organizzazioni professionali miste di imprenditori e di operai; l’intervento arbitrale dello
Stato nell’economia a tutela della comunità, delle sue parti e del bene comune.
Mentre formulava la propria dottrina sociale e proscriveva il socialismo, la Chiesa intensificava la propria
opera assistenziale nei confronti delle fasce di popolazione in stato di più acuto disagio, ricorrendo ad
organismi associativi anche concorrenziali con quelli socialisti. L’insidia del socialismo, composta alle sue
energiche strategie di attivazione del consenso, appariva del più alto grado. Tanto più che quella
propaganda si avvantaggiava di stilemi religiosi ed ecclesiali: le «preghiere» e i «catechismi degli
operai»; l’identificazione del primo maggio nella “Pasqua dei lavoratori”; le osterie e le case del popolo
proposte come ritrovi domenicali alternativi alla parrocchia. Il movimento – il quale si spingeva
addirittura a profilare la figura di Cristo come quella del “vero socialista”, nemico implacabile dei ricchi e
dei loro alleati – affidava le sue strategie proselitistiche a un repertorio di parole d’ordine e di immagini
simboliche che facevano della sua proposta un’opzione totalizzante, in grado di conferire senso
all’esistenza intera mediante la dedizione alla causa del raggiungimento di una comunitaria felicità
terrena. Siffatta speranza di redenzione materiale e morale si connetteva al supposto nucleo originario e
più autentico di un cristianesimo tradito dalla degenerazione della Chiesa e dalle sue compromissioni con
il potere politico ed economico.
L’incondizionata difesa del diritto alla proprietà privata e la ferma condanna del socialismo formulato
dalla Rerum novarum costituirà un riferimento costante per tutta l’elaborazione cattolica successiva.
Lo stesso Paolo VI, quattro anni dopo la ferma denuncia dei guasti del colonialismo e delle responsabilità
dei popoli opulenti nel sottosviluppo del Terzo mondo affidata alla Populorum progressio (1967)
congiuntamente all’affermazione che il sottosviluppo non è un dato di natura di per sé scontato e
immodificabile – argomento, quest’ultimo, che sollevò nei confronti dell’enciclica montiniana reazioni
anche fortemente critiche (il «Wall Street Journal» giunse a bollarla come «warmed up marxism») –, nella
lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), nell’ottantesimo anniversario dell’enciclica leoniana,
riaffermò con forza le errate concezioni del socialismo.
Giovanni Paolo II, il quale aveva vissuto in prima persona l’esperienza del totalitarismo comunista, nella
Laborem exercens (1981), magistrale meditazione sulla natura dell’uomo, sulle umane attività produttive
e sulla libertà, nella ricorrenza del novantesimo anniversario della Rerum novarum, ribadì le vive
premure della Chiesa per la salvaguardia della dignità del lavoro. E, nella Centesimus Annus (1991), nel
centenario dell’enciclica leoniana, dopo aver definito il socialismo un male, sottopose ad analisi l’eclissi
del totalitarismo comunista; riaffermò l’ascendenza naturale del diritto alla proprietà e condusse un’acuta
disamina comparativa del capitalismo tardo-ottocentesco e del moderno capitalismo di mercato, al quale
concesse una sfumata approvazione. Karol Wojtyła, invoca infine la democrazia, la ricerca della verità
nella libertà, la salvaguardia dei diritti umani, l’applicazione del principio di sussidiarietà.
Cinque anni prima, consapevole delle critiche subite dalla Populorum progressio, Giovanni Paolo II, nella
Sollicitudo rei socialis (1987) ricondusse contenuti e verve dell’enciclica montinana alla cornice storica
nella quale essa, un ventennio addietro, era maturata come evento scrittorio. Il papa polacco negò che
Paolo VI avesse concepito quella sua enciclica come uno sprone all’azione politica. La Chiesa non
desidera minimamente intromettersi nella politica degli Stati. Essa non prospetta alcuna terza via tra
capitalismo e socialismo. La sua dottrina sociale trascende qualunque ideologia.
Fonti e Bibl. essenziale
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Capitalismo, ivi, 177-183; E. Zucchetti, Questione sociale, ivi, 536-539. Si segnalano inoltre, con ulteriori
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Mannelli, 2003; L. Demofonti, La riforma nell’Italia del primo Novecento. Gruppi e riviste di ispirazione
evangelica, Roma, 2003, 54-69 (Socialismo e religione); D. Forte, Encicliche sociali, capitalismo e
socialismo, in «Atlantide», 4 (2006), 44-51.
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A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento
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