IL SECOLO DEI LUMI 1715-1789 Verso la Rivoluzione francese Durante il « secolo dei lumi » – è così che viene comunemente interpretato il Settecento – nuovi scenari politici, economici e sociali si delinearono in Europa. È necessario tuttavia fornire fin da subito una chiave interpretativa di questo complesso periodo storico, nel corso del quale ci imbatteremo in fenomeni decisivi all’interno della nostra storia : si pensi tra tutti alla Prima rivoluzione industriale in Gran Bretagna, alla Rivoluzione americana e, soprattutto, a quella Rivoluzione spirituale che è l’Illuminismo. Una rivoluzione, quest’ultima, che risulta essere tanto fondamentale da aver dato il nome a un’intera epoca. Non è un caso allora che il periodo storico in analisi si fermi al 1789, data d’inizio della Rivoluzione francese, nella quale confluiscono tutte le riflessioni propriamente filosofiche che avevano animato il dibattito culturale in Europa e che determinarono il senso stesso delle rivoluzioni politiche ed economiche che interessarono il Settecento. In altre parole, la Rivoluzione francese costituisce il punto di arrivo della nostra ricerca, nella misura in cui le analisi relative a questo secolo potranno fornirci le indicazioni necessarie a comprendere l’intera portata di quel fenomeno – la Rivoluzione francese, appunto – a cui costantemente ci richiamiamo ancora oggi nel momento in cui viene creata una nuova formazione politica, sia essa uno Stato nazionale o addirittura l’Unione europea. Illuminismo e Rivoluzione francese : è questa la coppia concettuale intorno a cui ruotano queste osservazioni. Meglio : l’Illuminismo è la chiave di lettura della Rivoluzione francese e, più ampiamente, dell’intero Settecento, di cui detta Rivoluzione costituisce il culmine. Che cosa infatti si nasconde nella presa della Bastiglia del 1789, nella dittatura giacobina di Robespierre del 1793, nella reazione termidoriana del 1794, nel colpo di Stato del 18 brumaio del 1799 (Napoleone si impadronì con la forza del potere) e nella proclamazione nel 1804 di Napoleone a imperatore dei francesi con titolo ereditario ? Scrive François Furet in un suo splendido saggio intitolato Augustin Cochin : La teoria del giacobinismo (in Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 2004) : « La società di pensiero di tipo “filosofico” costituisce nel XVIII secolo la matrice di un nuovo rapporto politico che sarà una caratteristica della Rivoluzione, la sua principale innovazione. Nel consenso delle logge, dei circoli e dei musei già si profila la volontà generale di Rousseau, quella libertà imprescrittibile del cittadino che non è riducibile ai suoi interessi particolari, “quel puro atto dell’intelletto che, ridotta al silenzio ogni passione, riflette su ciò che l’uomo può esigere dal suo simile, e su ciò che il suo simile ha il diritto di esigere da lui” [Rousseau, Contratto sociale, 1762] : la società filosofica è la prima forma di produzione di un obbligo collettivo nato dalla combinazione di un meccanismo sociologico con una filosofia dell’individuo. La somma delle volontà libere crea la tirannia del Sociale, religione della Rivoluzione francese e del XIX secolo ». * La citazione da Furet ci serve da spunto per iniziare a comprendere che cosa sia stato l’Illuminismo e quale sia stata la portata di questo fenomeno, che sembra aver avuto inizio intorno al 1730 in Francia, per poi diffondersi in tutta Europa condizionando le vicende culturali e politiche in Italia, in Russia, in Austria e in Prussia. Prima tuttavia di ampliare la riflessione sull’Illuminismo, pare opportuno premettere alcune annotazioni di carattere geopolitico, che ci permettono di comprendere ancor più chiaramente lo spirito che vigeva in Europa a quel tempo. Austria, Russia e Prussia formano, insieme a Gran Bretagna e Francia, le cinque maggiori potenze europee nel periodo successivo al tramonto del predominio francese di Luigi XIV. Tra di esse si formò un sistema politico internazionale fondato sul « principio dell’equilibrio », sancito dai trattati di pace che posero termine alla guerra di Successione spagnola. Tuttavia il nuovo ordine continentale fondato sull’equilibrio non garantì la pace : ne siano una prova la guerra della Quadruplice Alleanza (1717-1719), le guerre di Successione polacca (1733-1738) e austriaca (17401748), causate da crisi aperte da questioni dinastiche, e la guerra dei Sette anni (17561763), nella quale confluirono gli antagonismi austro-prussiano e franco-britannico già emersi nella guerra di Successione austriaca. Valgano poi alcune osservazioni sulla condizione in cui si trovarono alla fine del Settecento le potenze prima menzionate : se, da una parte, la Gran Bretagna rafforzò il proprio primato marittimo e coloniale e, conseguentemente, la propria posizione di potenza mondiale (nonostante la perdita delle colonie nordamericane, che diedero vita tra il 1776 e il 1783 a un nuovo Stato indipendente, gli Stati Uniti d’America, che si richiamava agli ideali liberali e democratici proclamati dall’Illuminismo), dall’altra Austria, Prussia e Russia iniziarono sempre più decisamente ad attrezzarsi per conquistare un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. Un interessante aspetto è costituito dalla politica espansionistica operata a partire dal 1739 dall’Austria e, in particolare, dalla Russia ai danni dell’Impero ottomano in vista della conquista di uno sbocco sul Mar Nero, ossia sul Mediterraneo (prima e seconda guerra contro i turchi promosse da Caterina II, 1769 & 1787-1792). A questo si aggiungano le tre « spartizioni della Polonia » operate da Austria, Russia e Prussia tra il 1772 e il 17951. Torniamo ora al tema delle nostre analisi sull’Illuminismo e sull’influenza da esso esercitata sul pensiero politico settecentesco in Europa e, più precisamente, proprio in quelle grandi nazioni a cui abbiamo fatto più sopra riferimento – eccezion fatta per la Francia e la Gran Bretagna, la quale nel corso di questo secolo compì ulteriori decisivi passi verso il « parlamentarismo », andando ben oltre i limiti fissati dal Bill of Rights. In Gran Bretagna, infatti, venne istituzionalizzata la pratica che Si precisino qui alcuni aspetti riguardanti la storia della Prussia e della Russia durante il periodo di Luigi XIV. Tra il 1660 e il 1688, sotto il governo di Federico Guglielmo, il Brandeburgo-Prussia, il più vasto e potente dei principati tedeschi, si trasformò in uno Stato unitario con un governo accentrato di tipo assolutistico sul modello francese. Allo stesso modo, la Russia dello zar Pietro I Romanov (detto « il Grande ») fu trasformata in una monarchia centralizzata e burocratica di stampo europeo: affascinato dal progresso scientifico e tecnologico dell’Occidente, Pietro I rinnovò le strutture produttive del paese (sul modello protezionistico di Colbert), limitò l’influenza politica e la potenza economica del clero e fece ogni sforzo per rompere il secolare isolamento culturale della Russia. Emblematica a questo proposito è la costruzione di Pietroburgo – la nuova capitale – sotto la direzione di ingegneri e architetti italiani, tedeschi e svizzeri. 1 2 faceva del gabinetto dei ministri – formato da membri del partito di maggioranza – il vero detentore del potere esecutivo, responsabile davanti al Parlamento : ciò significava che un gabinetto, per mantenersi, doveva godere della fiducia del Parlamento anziché del Re. Nello stesso tempo il Parlamento avocò a sé tutto il potere legislativo, dapprima condiviso con la Corona, che aveva in materia un diritto di veto. Ora, in Austria, Russia e Prussia ebbe luogo il noto fenomeno del « dispotismo illuminato », nel quale la forma politica dell’assolutismo venne sempre più rischiarata dal lume della ragione, evolvendosi dunque in un sistema sempre più democratico, sempre più civile. Detto altrimenti, nel corso del Settecento e, più specificamente, all’interno della riflessione dei philosophes francesi vengono gettate le basi di quello che chiamiamo « Stato di diritto », col quale si assiste al superamento di quel sistema politico, economico e sociale che va comunemente sotto il nome di « Antico Regime ». Pensiamo, tra gli altri, ai casi di Federico II di Prussia (17401786), della zarina Caterina II di Russia e di Maria Teresa d’Asburgo, la quale, in particolare, diede il via tra il 1740 e il 1780 a una politica di riformismo che spaziava dalla razionalizzazione dell’apparato di governo alla centralizzazione amministrativa, dalla più equa ripartizione delle imposte (al cui pagamento vennero costretti anche i nobili) alla realizzazione di un nuovo catasto (anche nel Ducato di Milano, secondo la nuova metodologia “parcellare”, i cui parametri fondamentali erano la destinazione d’uso e la produttività dei suoli), dall’introduzione dell’istruzione primaria obbligatoria alla laicizzazione delle scuole, dalla soppressione delle corporazioni all’abolizione della tortura. Una politica, quella di Maria Teresa, che fu fortemente condiviso dal figlio e successore Giuseppe II d’Asburgo, il quale concesse la tolleranza religiosa, sottopose la Chiesa cattolica all’autorità dello Stato e promulgò un nuovo codice penale che stabiliva l’uguaglianza dei sudditi di fronte alla legge (« giuseppinismo »). * Ma per quale motivo compaiono allora nelle parole di Furet sopra citate espressioni come « tirannia del sociale », e perché la filosofia o, meglio, la società filosofica – la quale costituisce il culmine della società civile – diviene « la prima forma di produzione di un obbligo collettivo » ? « Obbligo », « tirannia »… sono parole che evocano una minaccia, e non una limpida e lineare emancipazione dell’uomo, il quale avrebbe in questo periodo sempre più coltivato i valori civili dell’uguaglianza, della libertà e della tolleranza, e che conseguentemente avrebbe favorito un vasto programma di riforme “modernizzatrici” nel campo dell’amministrazione, dell’economia, dell’istruzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa. Che dire poi della definizione del « Sociale » in termini di una « religione » della Rivoluzione francese e, più ampiamente ancora, di tutto l’Ottocento (« Stato liberale ») ? Ricordiamo le parole con cui Augustin Cochin definiva il giacobinismo e, più precisamente, il tristemente noto fenomeno del « Comitato di salute pubblica », con il quale ebbe inizio la fase del Grande Terrore : « La “salute pubblica” è una finzione indispensabile, in democrazia, come il “diritto divino” in un regime autoritario ». Il riferimento è certamente l’episodio che vide coinvolto l’intero partito giacobino in 3 una mattanza devastante ; e tuttavia è chiaro come l’espressione « salute pubblica » evochi un valore da noi considerato “sacro”, per il quale cioè saremmo disposti, proprio per difendere la democrazia, anche a commettere dei crimini pur di preservarlo. « Salute pubblica » diviene allora la traduzione secolarizzata di quella salvezza eterna che animava gli strenui difensori di una fede che si era sempre più cristallizzata in una vuota dottrina tanto perbenista quanto quella liberal-borghese (si pensi, a questo proposito, al fenomeno tipicamente illuminista del « deismo », in cui tutte le Chiese storicamente esistenti vengono rifiutate in nome di una religione “naturale”, fondata sulla sola ragione. I deisti non sono atei : per loro era infatti razionale credere in un Dio creatore e ordinatore dell’universo e provare gratitudine e ammirazione per lui). Ma non è tutto questo in netto contrasto con la concezione comune dell’Illuminismo e della stessa Rivoluzione francese ? L’illuminismo, infatti, si affermò anche in Italia tra il 1750 e il 1770, e vide tra i protagonisti Giambattista Vico, i fratelli Pietro e Alessandro Verri (Il Caffè, 1764-1766) e, soprattutto, Cesare Beccaria, il cui nome è legato al celeberrimo trattato Dei delitti e delle pene (1764), in cui l’autore sostiene, sulla scorta dei principi utilitaristici, razionalistici e umanitari (in che senso ?) propri dell’Illuminismo, la necessità che il giudice sia imparziale e distinto dall’accusatore, che le leggi siano scritte in modo chiaro e inequivocabile, che le pene siano commisurate ai delitti. In questa prospettiva Beccaria esprime una risoluta condanna della pensa di morte, definita una « guerra della nazione contro un cittadino », priva di ogni fondamento giuridico e inutile come deterrente di fronte al crimine. In sostituzione di essa Beccaria propone lunghe pene detentive basate sul lavoro, dal momento che costituiscono esempi ben più efficaci nella prevenzione del delitto. Un’epoca riformatrice, dunque, capace di produrre tra il 1751 e il 1772 quell’impressionante progetto che fu l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, e alla quale contribuirono intellettuali del calibro di Voltaire, Montesquieu e Rousseau. Scopo dell’Enciclopedia, secondo le parole dello stesso Diderot, è quello di delineare « un quadro generale degli sforzi dello spirito umano in tutti i generi e in tutti i secoli ». Di straordinaria modernità, in tal senso, fu il rilievo dato alle arti meccaniche (le voci ad esse dedicate, accompagnate da numerose tavole illustrative, furono il frutto dell’osservazione diretta del lavoro degli operai nelle loro officine) – a dimostrazione di una mentalità laica, razionale e insieme pragmatica. Per tale mentalità, emancipata da ogni dogmatismo e da ogni immobilismo culturale, la stessa scienza era provvisoria e il suo cammino – e con esso quello di tutti gli uomini – sempre aperto al miglioramento e al progresso. La stessa Enciclopedia, infatti, si proponeva non come acquisizione definitiva del sapere, ma come sintesi provvisoria e aperta al futuro. Come dobbiamo allora intendere il monito lanciato da Furet a proposito della Rivoluzione francese e del pensiero che ne è alla base, anche alla luce della celeberrima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, la quale costituisce la prima traccia di quel problematico e attualissimo fenomeno dei « diritti dell’uomo » ? 4