CAPITOLO 1 – UNA «TERZA VIA» PER PENSARE LA CULTURA POPOLARE Il n’est, pour ainsi dire, pas de société où le système d’éducation ne présente un double aspect: il est, à la fois, un et multiple. [...] Il résulte de ces faits que chaque société se fait un certain idéal de l’homme, de ce qu’il doit être tant au point de vue intellectuel que physique et moral; que cet idéal est, dans une certaine mesure, le même pour tous les citoyens; qu’à partir d’un certain point il se différencie suivant les milieux particuliers que toute société comprend dans son sein. C’est cet idéal, à la fois un et divers, qui est le pôle de l’éducation. Emile Durkheim, Education et sociologie, 1911 [1922], pp. 47 e 50 1.1 Una etnografia dell’esperienza scolastica In questo lavoro verranno descritti i risultati di una ricerca etnografica condotta nel contesto dell’Italia contemporanea con l’obiettivo di documentare i modi in cui le famiglie dei ceti popolari che sono più lontane dal mondo dell’istruzione e della cultura legittima vivono l’esperienza della scolarizzazione dei propri figli. Ricostruire le forme di una esperienza significa tentare di cogliere il senso che gli attori le conferiscono, ovvero la misura e i modi nei quali essi la incorporano nell’universo di significati e di pratiche che costituisce la loro cultura.1 Nei termini della presente ricerca, ciò equivale ad indagare quanto e soprattutto come la scuola entra nelle vite di queste famiglie e il posto che vi occupa. Un posto che è prima e più immediatamente materiale, ed ha a che fare con l’articolazione della scuola con i tempi, gli spazi e le risorse economiche familiari. Aspetti di questa articolazione sono, tra gli altri, il rapporto più o meno armonioso tra la strutturazione della vita familiare e i ritmi scolastici, l’investimento temporale dei genitori nel sostegno allo studio a casa, gli spazi dell’abitazione riservati al lavoro e al corredo scolastico, e la proporzione del bilancio familiare destinata alle attività parascolastiche e alla stimolazione educativa e culturale dei figli. Ma il posto materiale che la scuola occupa nel quotidiano delle famiglie altro non è, evidentemente, che un indicatore del suo posto simbolico. È allora in primo luogo quest’ultimo che con questo lavoro si è inteso indagare, andando alla ricerca delle logiche e delle rappresentazioni 1 implicite ed esplicite con le quali gli attori danno senso a quell’insieme di pratiche quotidiane che vanno a costituire il posto materiale che la scuola occupa nelle loro vite. L’interesse per queste attribuzioni di senso è stato rivolto in modo particolare all’analisi dei loro rapporti con le corrispondenti concezioni e valori educativi «legittimi» incarnati nelle istituzioni scolastiche. In altri termini, la prospettiva generale che ha guidato l’indagine è stata quella dell’analisi di matrice antropologica di un incontro tra culture: delle forme, cioè, del contatto tra le rappresentazioni, le pratiche e i valori educativi «legittimi» fatti propri, esibiti e richiesti nel sistema dell’istruzione e quello che si può definire in modi più o meno equivalenti l’universo culturale, o la Weltanschauung, o le logiche dell’agire, delle famiglie popolari. È in questo senso, mi pare, che assumono tutta la loro pertinenza le parole di Education et sociologie con le quali ho scelto di aprire la dissertazione: perché l’obiettivo di questo lavoro è proprio quello di andare alla ricerca e poi di tracciare un ritratto il più possibile accurato di quel certain point a partire dal quale le concezioni antropologiche ed educative implicite ed esplicite, o, come scrive Durkheim, l’«ideale dell’uomo [e] di ciò che deve essere [...] si differenzia a seconda degli ambienti particolari che ogni società comprende al suo interno». Nella ricerca, questa analisi di un incontro tra universi simbolici – o di un rapporto tra saperi – ha preso due direzioni principali, ha riguardato cioè due tipi di saperi. Con una metafora spaziale, si può anche dire che essa ha esplorato due aree diverse dell’universo simbolico legato all’educazione e all’istruzione. La prima di queste aree è anche quella che la definizione durkheimiana di «ideale dell’uomo e di ciò che deve essere» descrive meglio, poiché riguarda proprio le concezioni relative alla natura e allo sviluppo intellettuale, emotivo e sociale dei figli e al ruolo dei genitori in esso. In termini essenziali, le rappresentazioni relative a come un bambino è e deve essere (al mestiere di bambino), e a cosa devono fare i genitori per farlo diventare quello che deve essere (al mestiere di genitore). Riguarda cioè sia quelle che la letteratura antropologica e psicologica (in particolare, nel campo della psicologia dello sviluppo interculturale) recente chiama le etnoteorie genitoriali, o teorie genitoriali implicite, o naïves2 della personalità, dello sviluppo e dell’educazione, sia quelle che la letteratura soprattutto sociologica e pedagogica ha sempre chiamato le concezioni o i modelli dell’educazione familiare. È evidente come questo tipo di sapere riguardi «il mondo privato degli operai» (Schwartz 1990) prima ancora che i loro rapporti con il mondo dell’istruzione, e sia 2 radicato in modo inestricabile nella più generale concezione del mondo, o ethos, o cultura, o modo di vita dei ceti popolari. Ma, soprattutto proprio nei ceti popolari, quella dell’educazione familiare è anche di gran lunga la dimensione della sfera privata riguardo alla quale è più difficile ipotizzare «l’autosufficienza simbolica» (Grignon e Passeron 1989, p. 36), o, per dirla in termini antropologici, una chiusura dei confini culturali.3 Nella quale, in altri termini, è più improbabile che gli attori non debbano confrontarsi in qualche modo con i saperi educativi e pedagogici legittimi. E proprio l’esperienza della scolarizzazione obbligatoria insieme a quella sempre più precoce e diffusa della scolarizzazione della prima infanzia costituisce tuttora per le famiglie dei ceti popolari il più potente e pervasivo veicolo di contatto con l’«ideale» dominante di bambino e di genitore di bambino, ancora prima che con quello di scolaro e di genitore di scolaro. Le rappresentazioni e le pratiche relative al mestiere di scolaro e al mestiere di genitore di scolaro costituiscono invece l’oggetto della seconda grande area simbolica esplorata nella ricerca. Essa riguarda quindi i saperi legati direttamente al mondo dell’istruzione, e in particolare il senso che gli attori conferiscono all’esperienza della scolarizzazione, o, più esattamente, il senso contingente di questa esperienza. Per senso contingente dell’esperienza della scolarizzazione si intende il senso dato dagli attori – qui, i genitori dei ceti popolari – alle loro attività più o meno quotidiane legate alla scuola. Questo senso ha molto a che fare con il rapporto di tipo epistemologico che gli attori intrattengono con i saperi impartiti e con i processi di apprendimento di questi saperi, cioè con le loro «sociologie spontanee» dei processi di apprendimento e, per estensione, delle cause della riuscita scolastica. In primo luogo, quali sono i compiti dei genitori nel sostenere giorno per giorno i propri figli nella loro scolarità, e quali sono i rapporti che essi devono avere con l’istituzione scolastica? In che modo i bambini apprendono le varie materie, e quali sono dunque le attività didattiche che a scuola e a casa favoriscono questo apprendimento? Da che cosa dipendono la riuscita e il fallimento scolastico, e, prima ancora, che cosa vuol dire veramente «andare bene a scuola»? Sono queste alcune delle dimensioni del rapporto epistemologico delle famiglie popolari con il sapere scolastico che l’analisi delle loro vite quotidiane alla prese con la scuola dei figli ha permesso di cogliere. Se in quanto segue la maggior parte dell’attenzione analitica verrà dedicata all’esplorazione delle due aree simboliche che sono state appena presentate – e che nel resto del lavoro saranno indicate di preferenza come i saperi relativi al mestiere di 3 bambino (e di genitore di bambino) e i saperi relativi al mestiere di scolaro (e di genitore di scolaro) – una terza area dell’universo simbolico legato all’educazione e all’istruzione sarà pure l’oggetto di un certo interesse analitico e di alcune riflessioni. Si tratta dei saperi relativi a quello che, sulla scorta delle definizioni offerte per le altre due aree, chiameremo il senso finale dell’esperienza della scolarizzazione, o anche il mestiere della scuola. In termini essenziali, se il senso contingente dell’esperienza scolastica ha a che fare con la risposta alla domanda «che cosa significa studiare», o se si vuole con la questione del «come» si deve studiare, il senso finale riguarda piuttosto la questione del «perché» o «a che cosa serve» farlo.4 Riguarda cioè la funzione che l’attore assegna per sé e per i propri figli alla scolarizzazione e all’istruzione. O, ancora, quello che l’attore concepisce essere il mestiere della scuola. E poiché questo interrogativo può essere ulteriormente ritradotto in «qual è il peso che l’esperienza scolastica ha nell’identità personale, nella costruzione e concezione di sé», sulla scorta di Bernard Charlot (cfr. in particolare Charlot, Bautier e Rochex 1992) il contenuto di questa terza area simbolica può essere definito anche rapporto identitario con il sapere scolastico. In questo caso, il sapere «legittimo» con il quale le famiglie popolari si confrontano è evidentemente costituito da quelli che nella ricerca educativa di parecchi decenni fa era in voga definire gli achievement values (i valori della riuscita sociale, o del successo): quei valori veicolati in primo luogo dalle istituzioni di istruzione ma anche legittimi nella società che in breve ingiungono a perseguire una mobilità sociale ascendente e a privilegiare l’istruzione per farlo. Se l’attribuzione di un senso contingente all’esperienza quotidiana della scolarizzazione è una necessità insita nel fatto stesso di vivere tale esperienza – è cioè genericamente il weberiano «senso soggettivo» senza il quale non si può parlare di agire sociale – questo legame necessario appare, al contrario, tutt’altro che scontato nel caso dell’attribuzione di un senso finale. Come vedremo, i risultati di questa ricerca suggeriscono anzi di cercare proprio in questa direzione – nell’esplorazione della natura del legame tra esperienza scolastica e attribuzione di un senso finale ad essa – una delle chiavi di volta per comprendere il rapporto complesso tra le famiglie popolari e il mondo dell’istruzione. 4 1.2 Il pungolo iniziale: Una «terza via» per pensare la cultura popolare Nella mia frequentazione della letteratura scientifica, da lettrice ho sempre guardato con sospetto alla tendenza degli autori ad indulgere sulle genesi intellettuali personali dei loro lavori, sul modo in cui questi lavori avessero preso forma nelle loro menti e posto nell’evoluzione del loro pensiero. Lo trovavo accettabile e soprattutto di un qualche interesse pubblico solo nel caso dei veramente «grandi». Che poi erano quasi sempre quelli che finivano per rivelarsi i più restii a questo genere di confessioni, offrendo in tal modo un generoso banchetto a tutti quelli che, per dirla con Weber, per lo più «vivono di» sociologia, e per lo più lo fanno attraverso le «letture di».5 In tutti gli altri casi, lo ritenevo niente altro che un presuntuoso esercizio di solipsismo. Poiché non ho cambiato idea, la decisione di aprire questa descrizione del contesto teorico del mio lavoro ragguagliando in primo luogo il lettore su come è nata la ricerca nell’ambito di quella che pomposamente definirò la mia evoluzione intellettuale mi provoca un certo imbarazzo. Credo tuttavia che ciò sia l’unico modo per scongiurare alcuni malintesi probabili che potrebbero nascere nell’interpretazione di un lavoro in cui – come cercherò di spiegare in quanto segue – rispettivamente l’interrogativo teorico di partenza, l’oggetto di studio e la prospettiva analitica con la quale si guarda a tale oggetto non vanno «naturalmente» insieme, vale a dire provengono sia da tradizioni disciplinari diverse sia da fasi differenti della storia interna delle discipline. Soprattutto, si tratta di una eterogeneità non pianificata in partenza, ma costruita involontariamente durante il percorso a tratti tortuoso tra questioni teoriche e ambiti di ricerca che dall’idea iniziale ha portato ai risultati del lavoro. Tentare di ricondurre tale percorso alla linearità del testo scritto è dunque un’impresa che – attraverso le ben note virtù di strutturazione del pensiero proprie della scrittura – si rivela utile a mettere ordine nelle idee di chi questa ricerca l’ha fatta prima ancora che a scongiurare «idee sbagliate» in chi la legge. La discontinuità – il tornante – più importante di questo percorso ha certamente a che fare con l’afferenza disciplinare della ricerca. Perché se, come vedremo, il suo prodotto finale si colloca a pieno titolo in una delle direzioni di sviluppo più recenti – e in fieri – della sociologia dell’educazione contemporanea, il suo stimolo iniziale ha preso le mosse da interessi e, quel che più conta, da competenze estranee a questo ambito disciplinare e radicate piuttosto nella sociologia culturale in senso proprio.6 5 Questa ricerca nasce infatti da un interesse per lo studio delle cosiddette culture di ceto, considerate in sé, nei loro rapporti reciproci e nei loro rapporti con la cultura «dominante» o «legittima» nella società. O, come mi piace piuttosto affermare ostentando un uso moderno di uno dei concetti bandiera della postmodernità, per lo studio di quella peculiare declinazione del multiculturalismo interno alle società che è rappresentata da differenze nei modi di vivere, di pensare e di giudicare il mondo legate a differenze nelle condizioni socio-economiche o – sempre per riesumare il linguaggio della modernità – di classe sociale. Sul terreno dell’indagine empirica l’interesse per questo multiculturalismo d’antan poteva imboccare – e nella lettura socio-antropologica ha solitamente imboccato – almeno tre strade. La prima è la strada di derivazione più classicamente antropologica dell’esplorazione più o meno comprensiva del territorio culturale di un ceto che lasciasse sullo sfondo i suoi rapporti con le culture esterne ai suoi confini. Si tratta di un approccio di studio delle culture di ceto che ha avuto una presenza sempre piuttosto marginale ma continua lungo tutta la storia delle scienze sociali, e con il quale le culture più studiate sono state proprio quelle del proletariato e del sottoproletariato.7 La seconda strada che poteva essere imboccata in una ricerca sulle culture di ceto è quella della comparazione tra territori culturali, cioè tra ceti differenti, su aspetti specifici dell’esistenza.8 Infine – ed è questa la strada che è stata imboccata in questo lavoro – usando ancora una metafora geo-politica, o mercantile, si poteva concentrare l’attenzione sui movimenti che avvengono nelle zone di frontiera tra territori culturali. Dopo aver collocato un posto di osservazione all’interno di uno di questi territori ma vicino al suo confine, si potevano cioè restare a sorvegliare – guardando in direzione dell’esterno – gli incontri, gli scontri, gli scambi, le importazioni e le esportazioni che sarebbero avvenuti con il territorio straniero, e – guardando verso l’interno – gli usi che sarebbero stati fatti dei «prodotti importati». È evidente come questo terzo approccio di studio alle culture di ceto, così come il secondo, avrebbe potuto in linea di principio essere applicato all’analisi di qualsiasi aspetto specifico della cultura e del modo di vita di una classe sociale.9 La scelta di prendere come oggetto di esplorazione empirica l’ambito dei valori, delle rappresentazioni e delle pratiche relative all’educazione e all’istruzione (ed entrare in tal modo in una sfera di competenza della sociologia dell’educazione) è stata quindi logicamente e cronologicamente successiva all’idea seminale della ricerca. 6 Ma essa è stata anche logicamente conseguente, perché questa particolare sfera dell’esistenza appariva per molti versi la più «adatta» a un approccio di analisi della cultura popolare in termini di contatti ed eventualmente, per usare un altro termine bandiera della postmodernità, contaminazioni. Per la ragione ovvia ma a mio avviso molto potente che nella sfera dell’educazione e dell’istruzione il contatto con la cultura «legittima» (intesa sempre nel significato antropologico di universo simbolico dominante nella società) non può essere evitato come invece si può fare – e di solito gli attori fanno – con relativa facilità in altre sfere di vita, prima fra tutte quella dei consumi culturali. E non poter evitare il contatto in questo ambito significa sovente per i membri dei ceti popolari più lontani dal mondo della scuola non potersi sottrarre alla dissonanza cognitiva (o culturale, come è stata ben tradotta in termini sociologici da Bernard Lahire: cfr. Lahire 2004 e Ravaioli 2005) che questo incontro produce in loro. Significa soprattutto che essi cercheranno di ridurre questa dissonanza e saranno costretti a farlo non rifuggendo il contatto con i nuovi elementi culturali ma trovando un accomodamento, un modo di composizione con essi. Venire a patti con elementi simbolici estranei al proprio universo culturale va inteso qui nel significato generico di cominciare a tenere conto della loro esistenza, trovare loro un qualche posto nella propria cultura. Non implica cioè nulla sulla forma di questa incorporazione, che può andare dal rifiuto consapevole dei nuovi elementi culturali (la cosiddetta resistenza culturale, o meglio la rivendicazione di gerarchie di legittimità concorrenti) alla loro piena assimilazione. Una variante mitigata del rifiuto è l’adattamento non convinto, l’acquiescenza diffidente esibita «per non avere grane» in un rapporto di potere che si sa sbilanciato a proprio sfavore, proprio come è quello tra le istituzioni scolastiche e le famiglie popolari (sull’acquiescenza forzata come espressione della resistenza culturale delle famiglie della ricerca all’universo scolastico, cfr. sotto il paragrafo 4.3.1).10 A sua volta, l’assimilazione di un nuovo «pezzo» di cultura può risultare più o meno completa o più o meno manchevole: una assimilazione a metà si verifica tipicamente quando la dimensione valoriale del nuovo elemento culturale viene incorporata dagli attori senza le sue dimensioni cognitiva e soprattutto prasseologica11 – nei termini di Lahire, gli attori assimilano l’«appetenza» per qualcosa, cioè il desiderio o addirittura il gusto per essa, senza riuscire nondimeno ad assimilare la «competenza» pratica per farla.12 È evidente come, quando gli attori diventano consapevoli di questa loro mancanza di 7 competenza, la condivisione di un ordine di legittimità nel quale sanno di essere condannati a occupare i gradini più bassi genera in essi un potente sentimento di illegittimità personale. Tra il rifiuto e l’adattamento forzato da un lato, e l’«acculturazione» o conversione più o meno monca dall’altro, c’è una «terza via» attraverso la quale gli attori incorporano elementi simbolici nuovi e spesso dissonanti nel proprio universo culturale. Una modalità che non è alternativa alle altre, ma molto spesso convive con esse. Perché mentre gli attori fanno posto, recalcitranti, nella propria cultura a un elemento simbolico nuovo che avrebbero respinto volentieri, o, al contrario, mettono tutto il loro impegno per assorbircelo, è molto probabile che essi stiano comunque conferendo a questo elemento un senso – poco o tanto – diverso da quello originario che l’elemento aveva nella sua cultura di provenienza. Soprattutto se questa cultura di provenienza è la cultura legittima e la cultura di destinazione è la cultura popolare, si può a giusto titolo parlare di interpretazioni o conferimenti di senso non ortodossi, «eretici», o, come direbbe Bourdieu, «eterodossi». Analizzare il rapporto tra la cultura dei ceti popolari e la cultura legittima focalizzando l’attenzione su queste trasformazioni di senso che i «prestiti» culturali subiscono nel passaggio dalla seconda alla prima implica l’adozione di una prospettiva molto diversa da quelle delle analisi in termini di resistenza e acculturazione. Queste ultime, infatti, anche se solo metaforicamente – cioè anche quando sono metodologicamente a tutti gli effetti delle analisi interpretative – si può dire che abbiano come preoccupazione ultima quello di produrre una misurazione: confrontare la distanza tra i due territori culturali prima e dopo il transito frontaliero di pezzi di cultura (chiedendosi, per esempio, se la resistenza prodotta dal contatto culturale abbia aumentato questa distanza)13, o quantificare il peso dei pezzi di cultura transitati (chiedendosi, per esempio, se siano passati solo i valori o anche le competenze pratiche relative). Dirigere l’attenzione sulle logiche di interpretazione significa invece preoccuparsi non tanto di quanta parte del carico culturale sia giunta a destinazione, ma piuttosto, per continuare con la metafora mercantile, dello stato in cui esso vi è giunto. Nelle pagine seguenti sosterrò che quella dei conferimenti e delle trasformazioni di senso è una dimensione del contatto culturale che il dibattito teorico classico sulla cultura popolare e sui suoi rapporti con la cultura «dominante» sviluppatosi nella sociologia culturale ha avuto la tendenza a esplorare molto poco. Questa carenza nella elaborazione teorica generale ha avuto ovvie ripercussioni negative sui settori di 8 indagine in cui i prodotti di tale lavoro teorico sono stati applicati all’analisi empirica della realtà sociale, a cominciare dall’analisi culturalista delle disuguaglianze educative, nel campo della socializzazione familiare come in quello dei rapporti con le istituzioni di istruzione ( su questo cfr. in particolare sotto il paragrafo 2.1.2). La tesi che avanzerò in questo lavoro è in particolare che questa sottovalutazione ha molto nuociuto alla elaborazione di un concetto di cultura popolare che fosse di una qualche utilità a fini euristici, e segnatamente ai fini della comprensione dei rapporti tra le i ceti popolari e l’istruzione. Questi rapporti sono stati costantemente al cuore delle preoccupazioni dei sociologi dell’educazione a partire dalla seconda nascita della disciplina, negli anni Quaranta, dopo l’eclissi durkheimiana – quando all’urgenza di fare della scuola lo strumento d’elezione per cementare il legame sociale si sostituì definitivamente quella di farne la strada maestra per riequilibrare le ingiustizie che troppo spesso di quel legame modellavano la forma (cfr. sotto il paragrafo 2.1.1). Ma, come vedremo, la possibilità della loro esplorazione – e quindi comprensione, e infine miglioramento – è stata altrettanto costantemente limitata dal fatto di essere stata preventivamente costretta all’interno dell’uno o dell’altro dei due quadri interpretativi della resistenza e dell’acculturazione descritti sopra. Mettendo a disposizione delle immagini «già pronte» e dai contorni fin troppo netti dei rapporti tra i ceti popolari e l’universo educativo, per lungo tempo queste prospettive analitiche hanno in realtà agito da ostacolo alla ricerca, contribuendo a mantenere tali rapporti opachi agli occhi dei sociologi dell’educazione. Guardando ai decenni di storia delle analisi culturaliste delle disuguaglianze educative, mi pare che la forte frammentazione e la spesso difficile cumulatività dei risultati di queste pur numerosissime esplorazioni, unita alla costante inconcludenza degli altrettanto numerosi tentativi di trasformare questi risultati in azioni di policy, sia lì a testimoniarlo. In questo lavoro sosterrò che una possibile strada per uscire da questa impasse sia proprio quella di mettere almeno temporaneamente da una parte questi quadri interpretativi a vantaggio di quella che ho definito la «terza via» per pensare i rapporti tra la cultura popolare e la cultura legittima: iniziare cioè a guardare all’incontro tra i ceti popolari e l’universo educativo in primo luogo come a un incontro tra saperi. 9 1.2.1 Il problema teorico nella sociologia della cultura: La cultura popolare tra legittimismo e relativismo Quello che ho appena delineato è il percorso intellettuale personale attraverso il quale sono arrivata a dare forma al progetto di questa ricerca. L’ambito di interesse in cui questo percorso ha avuto origine è quello dello studio del multiculturalismo di ceto in generale e, al suo interno, dei rapporti tra la cultura dei ceti popolari e la cultura legittima della società. La scelta dell’oggetto empirico specifico, l’universo simbolico legato all’educazione e all’istruzione, è venuta in seguito ed stata dettata dalla convinzione che esso costituisca un terreno d’osservazione privilegiato di questi rapporti. La scelta della prospettiva di analisi, infine, è stata suggerita in primo luogo dall’insoddisfazione per i quadri e per gli strumenti interpretativi con i quali la cultura popolare è stata tradizionalmente teorizzata nella sociologia culturale e raffigurata nelle ricerche classiche sulle disuguaglianze educative. Nelle pagine precedenti questi quadri interpretativi sono stati evocati solo molto brevemente, e solo nel caso dell’analisi culturale generale, mentre niente è stato detto sulla loro applicazione alla sociologia dell’educazione. Il resto di questa sezione sarà dedicata ad una loro illustrazione più ampia e contestualizzata nella letteratura della sociologia culturale. La loro applicazione all’analisi culturalista delle disuguaglianze educative sarà invece l’oggetto specifico del prossimo capitolo. Ho già accennato sopra al posto piuttosto consolidato ma sempre circoscritto che gli studi sulla cultura dei ceti popolari occupano nell’analisi sociologica culturale. Consolidato perché manifestazioni di interesse per questo ambito di ricerca puntellano l’intera storia della sociologia (si veda per una rassegna la nota 7) – e perfino forse la sua preistoria, se queste manifestazioni si fanno idealmente iniziare con l’opera di un contemporaneo di Comte, il mastodontico Les ouvriers européens di Frédéric Le Play del 1855. Circoscritto perché si tratta di un tema che non ha mai occupato il palcoscenico della sociologia culturale – e sul quale, per questo motivo, tuttora non sono state affatto esaurite le potenzialità di indagine (si veda la nota 9). Naturalmente ha avuto momenti di minore e di maggiore fortuna. Questi ultimi tuttavia non hanno coinciso – o almeno non prevalentemente – con i momenti di fortuna generale dell’analisi culturale nelle scienze sociali, vale a dire l’auge del parsonsianesimo prima, e, molto più tardi, il cultural turn della metà degli anni Ottanta. 10 Hanno coinciso piuttosto con gli anni a cavallo tra questi due periodi, quelli in cui la scena era dominata dalle cosiddette sociologie del conflitto, vale a dire gli anni Sessanta e Settanta. Un periodo che è solitamente ricordato nelle storie dell’analisi culturale in sociologia come uno di quelli in cui l’interesse per la dimensione simbolica della vita sociale ebbe la vita più dura, ridotto come era ad una serie di enclaves ben delimitate come per esempio la microsociologia. Eppure proprio in questi due decenni sorsero tre direzioni di ricerca che, seppure in modi differenti, misero al centro l’interesse per lo studio della cultura dei ceti popolari. La prima in ordine di tempo è quella legata al concetto di cultura della povertà introdotto dell’antropologo statunitense Oscar Lewis (Lewis 1959, 1966, 1970). La seconda si sviluppò in un contesto ugualmente tangenziale alla sociologia (sebbene avrebbe esercitato in seguito una influenza notevole sullo sviluppo della «nuova» sociologia culturale) ed è legata ai lavori prodotti nel periodo inglese dei Cultural Studies. La terza direzione di ricerca che negli anni Sessanta e Settanta portò al centro l’interesse per le culture di ceto venne invece dal cuore della sociologia, e anzi nella sociologia in quegli anni detenette un quasi monopolio dell’analisi culturale: si tratta dei lavori ispirati alla teoria della riproduzione sociale di Bourdieu e della sua scuola. Le ricerche e il dibattito stimolati dalla teoria della cultura della povertà negli Stati Uniti, i British Cultural Studies e la sociologia bourdieuiana in Francia non hanno rappresentato soltanto i momenti d’oro dello studio della cultura popolare nelle scienze sociali del Novecento. Essi sono stati anche i momenti nel corso dei quali il dibattito teorico su questa cultura e sui suoi rapporti con la cultura «dominante» si è costituito e soprattutto le due prospettive analitiche classiche su questi rapporti hanno preso forma. Nelle pagine precedenti mi sono limitata a descrivere provvisoriamente e molto imperfettamente questi due quadri interpretativi del rapporto tra i membri della cultura popolare e la cultura «dominante» come la prospettiva del rifiuto (o resistenza, o adattamento forzato) e la prospettiva dell’assimilazione più o meno riuscita (o acculturazione, o conversione). Rifiutare significa evidentemente potere e volere rivendicare una gerarchia di legittimità culturale (relativa a qualsiasi tipo di universo simbolico, a cominciare dalle scale dei valori) alternativa e concorrente. Laddove predisporsi all’assimilazione significa al contrario condividere ancora prima la stessa gerarchia di legittimità culturale.14 Tutto questo significa, a sua volta, che dietro all’ipotesi del rapporto di resistenza e all’ipotesi del rapporto di assimilazione stanno due concezioni molto 11 diverse della cultura popolare: quella relativista – o massimalista (Cuche 2001, p. 88) – di una cultura dotata di una piena autonomia simbolica nel primo caso, quella legittimista – o minimalista (ivi, p. 87) – di un universo simbolico eteronomo (Grignon e Passeron 1989) che è prodotto e funzione di un rapporto di dominio simbolico nel secondo. Ciascuna di queste concezioni porta soprattutto con sé un chiaro corollario metodologico, vale a dire una raccomandazione forte su come fare analisi culturale. Se la cultura popolare ha origini autonome vuol dire infatti che essa è anche autosufficiente nel momento in cui si presta alla comprensione: per coglierla e descriverla non è cioè necessario fare riferimento ad altri universi culturali, e segnatamente a quello dominante. Se al contrario la cultura popolare ha origini eteronome, la comprensione e la descrizione dei suoi elementi non potranno mai prescindere dai riferimenti al rapporto di dominio simbolico rispetto al quale soltanto essi acquistano il loro significato. Ecco come Grignon e Passeron descrivono questo dilemma metodologico generato dalle due concezioni classiche della cultura popolare: Per comprendere una cultura popolare nella sua coerenza simbolica, bisogna allora trattarla come un universo di significato autonomo, dimenticando tutto ciò che si trova al di fuori e al di sopra di essa, e in primo luogo gli effetti simbolici del dominio che subiscono coloro che la praticano, rischiando di tornarci solo dopo? O bisogna al contrario partire dal dominio sociale che la costituisce come cultura dominata per interpretare subito in rapporto a questo principio di eteronomia tutte le sue pratiche e le sue produzioni simboliche? (Grignon e Passeron 1989, p. 19) Relativismo e legittimismo rappresentano dunque i due principi analitici fondamentali attraverso i quali la cultura popolare è stata tradizionalmente pensata e descritta nelle scienze sociali (e secondo Grignon e Passeron anche nella storia della letteratura sui ceti popolari, nella quale essi identificano la presenza dello stesso dualismo interpretativo). Come avremo parzialmente modo di vedere nella breve rassegna che seguirà, tuttavia, molto diverse sono state le forme, o le varianti, che questi due quadri interpretativi di base hanno assunto nei vari filoni di ricerca sulla cultura popolare. Al punto che questo vero e proprio poliformismo ha molto spesso messo in ombra la presenza di elementi ricorrenti e analogie sostanziali tra prospettive teoriche in apparenza molto lontane o basate su presupposti inconciliabili, ma in realtà riconducibili ad una stessa concezione della cultura popolare. 12 1.2.1.1 Le due facce del relativismo: L’Altro-stesso e l’Altro-altro Uno dei più importanti elementi di differenziazione tra teorie della cultura popolare che pure adottano la stessa prospettiva interpretativa di base riguarda in particolare i giudizi di valore sull’oggetto di studio, o quanto meno – volendo presumere una assenza di giudizi di valore – la weberiana relazione con i valori che ha guidato i ricercatori nella scelta dell’oggetto e della prospettiva di analisi. Ovvero, per dirla ancora più infelicemente, la sovrastruttura ideologica delle teorie stesse. Concretamente, ciò significa che per esempio la tesi relativista – o dell’autonomia e dell’alterità culturale – è stata ugualmente evocata sia con l’intento di «glorificare» la cultura dei ceti popolari e rivendicarne la pari dignità rispetto alla cultura legittima, sia come una evidenza scientifica della limitata integrabilità (ed educabilità) dei membri dei ceti popolari nella società e nei suoi valori. E quindi, in ultima analisi, come una spiegazione scientifica della inevitabilità della loro condizione di inferiorità sociale. Vedremo tra poco come il primo uso della concezione relativista della cultura popolare sia associato soprattutto alla prospettiva dei British Cultural Studies. Ma è anche, più in generale, la visione delle culture dominate che informa tradizionalmente la grande maggioranza delle cosiddette pedagogie critiche, e in particolare delle pedagogie popolari moderne.15 Cioè, di quelle elaborazioni teoriche e di quelle pratiche pedagogiche che sono state pensate specificamente per educare efficacemente «i figli del popolo», soprattutto in occasione dei due momenti chiave che l’educazione del popolo ha conosciuto nel Novecento, la democratizzazione dell’istruzione elementare all’inizio del secolo e poi quella dell’istruzione secondaria di sessant’anni dopo. Dalla pédagogie populaire di Célestin Freinet alla questione del cosiddetto multicultural curriculum negli Stati Uniti – vale a dire la politica di trasformazione nel senso del relativismo culturale del curriculum scolastico e universitario iniziata nell’America degli anni Sessanta con l’introduzione dei Black Studies e continuata in tempi molto più recenti con l’instaurazione dei programmi bilingui, e bi-culturali, per studenti ispanici – la grande maggioranza delle riflessioni teoriche e delle sperimentazioni pedagogiche elaborate in queste due grandi ondate di interesse per il tema delle pedagogie popolari avevano in comune il rifiuto di quella «separazione della scuola dalla vita» che costituisce storicamente l’essenza del modo di educazione scolastico (cfr. Durkheim 1938; Ariès 1960; Vincent 1980; Vincent (ed.) 1994).16 E l’idea che la strada per la democratizzazione dell’istruzione passasse piuttosto per l’«apertura» della scuola alla 13 vita e alla cultura di provenienza degli allievi svantaggiati, e segnatamente per la valorizzazione di questa cultura e dei suoi interessi e saperi all’interno del curriculum scolastico (sul passaggio storico dal legittimismo al relativismo nella cultura scolastica, cfr. Chartier 2003).17 Le premesse delle riflessioni sulla pedagogia popolare sono dunque una concezione relativista della cultura popolare e una attribuzione causale proprio a questa diversità culturale del difficile adattamento scolastico dei membri dei ceti più bassi. La conclusione, la necessità di ridurre tale incompatibilità culturale trasformando per quanto possibile l’universo simbolico scolastico nella direzione di un avvicinamento alla cultura di provenienza dei suoi nuovi fruitori popolari. In altri importanti filoni di ricerca sulle culture di ceto della sociologia del Novecento, queste stesse premesse fortemente relativistiche sono state associate a una connotazione assai meno positiva dell’alterità della cultura popolare ed hanno condotto a conclusioni molto meno ottimistiche. È il caso in particolare, come vedremo meglio tra poco, della corrente di studio sui cosiddetti valori di classe che ha dominato la sociologia e la psicologia sociale statunitense di matrice parsonsiana negli anni a metà del secolo, e della successiva teoria della cultura della povertà degli anni Sessanta. Questi due ambiti di ricerca non si sono interessati tanto, come le riflessioni sulla pedagogia popolare, al comportamento dei membri dei ceti più bassi una volta all’interno del sistema di istruzione – banalmente, al fatto che essi non mostrassero di trarre profitto dall’accesso a tale sistema – quanto piuttosto della loro minore propensione a entrarvi e in generale a ricorrervi per perseguire una mobilità sociale ascendente. Ma nell’uno come nell’altro caso è stata un spiegazione in termini di alterità culturale (prevalentemente centrata sui valori nel secondo caso, centrata sui valori ma anche indissolubilmente sugli stili cognitivi nel primo) originaria – cioè come un fatto primo e non derivato – quella che è stata proposta. Una diversità culturale che, tuttavia, nel relativismo «ottimistico» delle pedagogie popolari e dei Cultural Studies è una risorsa ingiustamente svalorizzata (e potenzialmente e auspicabilmente valorizzabile) dall’«arbitrario culturale»18 dell’universo simbolico dominante. Laddove nel relativismo «pessimistico» delle ricerche culturaliste sulla povertà e ancor più nelle ricerche classiche sui valori è piuttosto l’eterogeneità irriducibile di due universi simbolici – «two nations», secondo la nota definizione di Michael Harrington in The Other America (1962) (cfr. Marcus 2005, p. 36) – che, quasi come il sacro e il profano, «si escludono radicalmente» 14 (Durkheim 1912, p. 42). E in cui, analogamente, il passaggio sempre improbabile di un individuo «da uno di questi mondi nell’altro [...] implica una vera metamorfosi» (ivi, p. 41). Una «metamorfosi» che in quest’ottica non può che procedere segnatamente da una deculturazione e risocializzazione il più possibile precoce dei portatori della cultura popolare – come fu per esempio nei chiari intenti ispiratori della vasta campagna di compensatory programs rivolti a bambini svantaggiati soprattutto di età prescolare che venne lanciata negli Stati Uniti nell’ambito della War on Poverty della seconda metà degli anni Sessanta. 1.2.1.1.1 Il relativismo «pessimistico» della socio-antropologia statunitense: La cultura della povertà, i valori di classe e la questione della sottoclasse La teoria della cultura della povertà ebbe una fortuna piuttosto controversa, circoscritta per lo più al dibattito statunitense degli anni Sessanta e Settanta.19 Questo dibattito riguardava segnatamente la questione delle cause della persistenza della povertà – e soprattutto degli strumenti più idonei per combatterla – e in esso si mescolavano molto più che in altre controversie sociologiche posizioni teoriche, prese di posizione politiche e conseguenti orientamenti di policy. I termini essenziali della dibattito sono ben noti. Per i teorici della cultura della povertà (tra i quali vanno almeno ricordati, oltre a Oscar Lewis, il Daniel Moynihan di The Negro Family, o l’Edward Banfield di The Unheavenly City), la povertà si riproduce perché i poveri non hanno la capacità di percepire e di trarre vantaggio dalle opportunità strutturali di mobilità sociale ascendente che sono offerte loro, per esempio dall’espansione delle possibilità di accesso all’istruzione. Soprattutto, questo accade perché essi possiedono valori diversi da quelli dominanti nella società: non aspirano ad ascendere socialmente, o hanno un’altra idea della riuscita sociale, o in ogni caso non apprezzano i mezzi che sono offerti loro per ottenerla, come appunto l’istruzione. Nelle parole di un noto passo di Lewis: La cultura della povertà [...] non è soltanto un adattamento a una serie di condizioni obiettive della società più vasta. Una volta venuta a determinarsi, tende a perpetuarsi di generazione in generazione a causa del suo effetto sui figli. I fanciulli dei quartieri poveri, una volta giunti all’età di sei o sette anni, hanno già assorbito, di solito, i valori fondamentali e gli atteggiamenti della loro sottocultura e non sono psicologicamente preparati ad approfittare appieno di mutamenti di 15 condizioni o di più numerose opportunità che possono presentarsi nel corso della loro esistenza. (Lewis 1970, tr. it. p. 96)20 È evidente come in quest’ottica le azioni di contrasto alla povertà e alla sua riproduzione avrebbero dovuto essere indirizzate primariamente alla sfera culturale. Azioni di policy volte ad incidere sulle condizioni materiali di esistenza erano invece invocate dai critici della teoria della cultura della povertà (molte delle cui posizioni sono raccolte in Leacock (ed.) 1971 e Winter (ed.) 1971), per i quali la riproduzione della piaga sociale della povertà aveva in primo luogo cause strutturali. Per questi studiosi, i valori e le aspirazioni dei poveri non differivano sostanzialmente da quelli dominanti, e se i poveri esibivano condotte di azione che non apparivano in accordo con questi valori, questo accadeva perché tali condotte erano una forma di adattamento alle condizioni di esistenza e ai condizionamenti imposti da esse. Condizioni di esistenza e condizionamenti intesi nel significato di ostacoli strutturali esterni all’individuo, quali per esempio, concretamente, la mancanza di capitale economico o il fatto di vivere in ghetti privi di buone scuole. I termini della controversia avevano dunque a che fare con la questione della condivisione degli orientamenti di valore all’interno della società, e in secondo luogo con la questione del rapporto tra gli orientamenti di valore e le logiche dell’agire. I poveri che esibivano comportamenti «non ortodossi» rispetto alla cultura dominante nella società erano portatori di orientamenti di valore altrettanto differenti da quelli dominanti o questi valori condivisi lo erano anche da loro? E se gli orientamenti di valore non differivano, come doveva essere spiegato il fatto che spesso tali valori convivessero nei poveri con comportamenti in contrasto con essi?21 Probabilmente per il suo radicamento nell’antropologia culturale (che riguardava molti dei sostenitori ma anche molti dei detrattori del concetto cultura della povertà, a cominciare da quelli in prima fila come Charles Valentine), il dibattito degli anni Sessanta e Settanta sulla teoria della cultura della povertà si sostanziava per lo più in studi di natura etnografica sul modo di vita e sistema di valori – la cultura, appunto – di particolari sottoclassi geograficamente localizzate, come gli abitanti di ghetti urbani. Ed era indubbiamente questo taglio antropologico, che portava con sé una contestualizzazione degli orientamenti di valore all’interno di una cultura più vasta, a conferire al tema gran parte della sua novità nel dibattito scientifico statunitense. 16 Perché in tale dibattito il tema in sé non era affatto nuovo, e il dilemma intorno all’esistenza di un pluralismo di valori legato all’appartenenza di ceto, con particolare – e preoccupato – riferimento ai ceti più bassi, travagliava la sociologia e soprattutto la psicologia sociale americana già da almeno vent’anni. Le ricerche nell’ambito della psicologia sociale finalizzate a misurare se e a che punto finissero i common values e se e dove cominciassero i class differential values (Han 1969), soprattutto nei ceti bassi e nei gruppi devianti (spesso accostati con disinvoltura nelle argomentazioni: cfr. per esempio Rodman 1963), costituirono anzi dagli anni Quaranta fino a tutti gli anni Sessanta uno dei principali campi di applicazione empirica della sociologia parsonsiana.22 Si tratta di un filone di indagine empirica caratterizzato dalla produzione intensiva di un gran numero di contributi (su questa letteratura cfr. più diffusamente sotto il paragrafo 2.2.3.1), e nello stesso tempo da caratteri e contorni molto ben definiti dovuti a una alta omogeneità della produzione stessa. Questa omogeneità è in primo luogo di carattere metodologico ed è data dal ricorso universale a tecniche quantitative di analisi dei dati (per una rassegna parziale, si veda Kahl 1965): surveys con domande dirette, scale di atteggiamento con affermazioni generali esprimenti orientamenti di valore, metodi proiettivi per cogliere i valori «inconsci», fino all’osservazione del comportamento in situazioni sperimentali di laboratorio. In secondo luogo, e soprattutto, in queste ricerche lo studio del pluralismo di valori legato all’appartenenza di ceto è in realtà altrettanto universalmente circoscritto a una porzione ben delimitata del sistema dei valori, i cosiddetti «valori della riuscita sociale» o «valori del successo». Cosicché gli achievement values finiscono per diventare, proprio come in una sineddoche in cui la parte è usata per esprimere il tutto, l’unico metro possibile per misurare il grado di integrazione (e integrabilità) dei ceti più bassi nella società e nei suoi common values. È in particolare primariamente attraverso la rilevazione di aspirazioni (non sempre analiticamente distinte dalle aspettative: per una eccezione cfr. Caro e Pihlblad 1965) che in tali ricerche la presenza di questi «valori del successo» veniva esplorata nei soggetti. E poiché nel sistema dei valori dominante – quello di cui si intendeva appunto misurare l’estensione tra i ceti – l’aspirazione alla riuscita sociale per antonomasia era quella che passava per il livello di istruzione e poi per lo status professionale, la grande maggioranza di queste ricerche finivano concretamente per occuparsi del tema della ambizioni educative e lavorative di genitori e di studenti common man (Kahl 1953). Per rilevare, di nuovo nella grande maggioranza (sebbene 17 non nella totalità: sulla diversità delle conclusioni, cfr. sotto il paragrafo 2.2.3.1), che «quello che risulta in generale è un livello più basso di aspettative e di speranze da parte delle classi inferiori» (Hyman 1953, tr. it. p. 275), e soprattutto interpretare questo dato con l’idea che esiste una variabile interveniente tra la bassa posizione sociale e la mancanza di mobilità verso l’alto, e cioè un sistema di credenze e di valori all’interno delle classi inferiori, che riduce proprio le azioni volontarie che potrebbero migliorare la bassa posizione di queste nella struttura sociale. Questo sistema di valori [...] implica minor importanza della meta tradizionale del successo, maggiore consapevolezza della mancanza di possibilità reali di ascesa, minor interesse per il raggiungimento di obiettivi che a loro volta faciliterebbero il successo. In termini più semplici, l’individuo delle classi inferiori non ha obiettivi di successo, sa che non potrebbe affermarsi anche se lo volesse, e ancora non vuole cose che potrebbero essergli utili nell’ottenere il successo.23 [...] Questo sistema di valori creerebbe un ostacolo auto-imposto nel perseguimento di una ascesa sociale. (Hyman 1953, tr. it. pp. 267-268)24 Qualche anno più tardi, lo abbiamo visto, Oscar Lewis avrebbe cominciato a chiamare questa «variabile interveniente» una cultura della povertà, e avrebbe così inaugurato un nuovo periodo di auge per la tesi dell’alterità valoriale della cultura popolare. Una questione che nella sociologia americana non ha ancora cessato di essere discussa, se si considera la controversia recente sulla cosiddetta sottoclasse (underclass) (cfr. Katz 1993). Si tratta di un dibattito che ricorda molto da vicino quello degli anni Sessanta e Settanta intorno alle cause e alla cultura della povertà. In termini essenziali, infatti, la questione sul tappeto questa volta è se abbia senso o meno parlare dell’esistenza di un sottoproletariato come categoria sociale definita da tratti culturali specifici, una sottoclasse, appunto. E il lato politico della controversia verte naturalmente sull’opportunità della fornitura di servizi sociali: la differenza con il dibattito politico degli anni Sessanta e Settanta è forse che mentre allora era in questione la natura dei servizi sociali da erogare – di tipo soprattutto educativo o soprattutto materiale – oggi il punto è diventato piuttosto se erogarli tout court o lasciare al proprio destino chi di quel destino è considerato l’artefice, cioè l’undeserving poor. Al centro del dibattito sono in particolare le tesi del più estremo sostenitore del concetto di underclass, Charles Murray (1984), il quale ritiene che dell’esistenza di una underclass si possa e si debba parlare, e sostiene soprattutto che ciò che definisce questo 18 gruppo sia proprio una alterità (o una «devianza») di tipo culturale. Tentare di sottrarre i membri dell’underclass alla loro condizione attraverso interventi di welfare materiale non solo dunque è inutile, ma può rivelarsi anche controproducente favorendo lo sviluppo in essi di una «cultura della dipendenza» da welfare.25 Questa velocissima carrellata lungo decenni di sociologia statunitense ha avuto a che fare con questioni quali la povertà, la guerra alla povertà e, in generale, il grado di integrabilità materiale e simbolica nella società dei suoi membri più diseredati – fossero essi padri e figli di «uomini della strada» (common man) come nelle ricerche sui valori di classe, membri di una «sottoclasse», o dei semplici «poveri», meritevoli o non meritevoli. Ha toccato quindi filoni di analisi culturalista della stratificazione sociale in parte distinti da quello – in qualche modo meno «estremo» – nel quale si colloca l’oggetto di questo lavoro. Il quale, si potrebbe dire con una affermazione indubbiamente molto inesatta e infinitamente discutibile, si interessa piuttosto alla dimensione culturale della povertà economica e di istruzione «normale», a quella povertà cioè che sta un gradino prima del livello della marginalità sociale e del problema sociale conclamati.26 Ovvero, a quei moderni working poors «dignitosi» e socialmente «invisibili» a proposito dei quali qualcuno che li conosce molto bene come la saggista statunitense Barbara Ehrenreich nella sua celebre inchiesta-shock Nickel and Dimed osserva giustamente: Una strana proprietà ottica della nostra società, così polarizzata e ingiusta, fa sì che i poveri siano praticamente invisibili per chi è loro economicamente superiore. I poveri hanno molte occasioni per vedere i ricchi: alla televisione, per esempio, o sulla copertina delle riviste. Ma è raro che i ricchi vedano i poveri in pubblico, oppure hanno difficoltà a riconoscerli perchè, grazie alle rateizzazioni e ai grandi magazzini popolari, i poveri possono travestirsi da un po’ più ricchi. (Ehrenreich 2001, tr. it. p. 150) Il punto da sottolineare qui è che questa sovrappresentazione di filoni di analisi culturalista dell’alterità estrema non è imputabile tanto ad una mia selezione arbitraria, parziale e comunque poco pertinente della letteratura statunitense sul tema della cultura popolare. Ma è dovuta piuttosto al fatto che un impedimento ottico molto simile a quella di cui parla Ehrenreich, e che oggi sembra rendere la working class e i suoi problemi invisibili alla società americana (e certamente alle società di una gran parte del cosiddetto Primo Mondo anche europeo), pare avere afflitto più o meno cronicamente anche lo studio delle culture di ceto nella storia della socio-antropologia statunitense. 19 Nella quale, se si eccettua una certa consolidata tradizione di ricerche su comunità operaie condotte però per lo più nell’ambito di interessi propri della sociologia del lavoro e dell’industria,27 il termine di confronto esplicito o implicito con l’universo simbolico legittimo incarnato dalla middle class non è stata quasi mai la cultura di una working class intesa «all’europea» ma è stata quasi sempre la cultura di un lumpenproletariat. È quanto osserva in un recente saggio dedicato proprio al posto della working class nella storia delle scienze sociali e della politica statunitense anche l’antropologo Anthony Marcus, il quale tra l’altro scrive: Veniamo lasciati con la parte del proletariato americano che viene recitata dal suo attore sostituto, l’«altra America»: un gruppo scritturato per la sua impotenza economica e per la sua miseria esotica. [...] Non esistendo due soli ricercatori che concordino su una definizione oggettiva teorica o scientificamente replicabile [dell’oggetto di studio], la ricerca sulla povertà in America ha utilizzato tipicamente una unità di analisi definita dalle persone povere che sono maggiormente visibili. (Marcus 2005, pp. 35 e 37) Diventa allora in realtà improprio anche qualificare, sempre «all’europea», gli ambiti di ricerca che ho ricordato nelle pagine precedenti come degli studi sulle culture di ceto. Perché in essi il confronto non è inteso tanto come una messa in relazione tra i modi di vivere e pensare dei vari gruppi di cui la società si compone, ma, piuttosto, come una contrapposizione tra la cultura della società americana (fatta coincidere con quella della sua middle class) e la cultura di un mondo altro e ad essa irriducibile – The Other America, appunto. 1.2.1.1.2 Il relativismo «ottimistico» dei (British) Cultural Studies Questa idea di un multiculturalismo interno alla società è invece ben presente nei cosiddetti Cultural Studies. Ai quali pure la definizione di «studi sulle culture di ceto» si addice poco, se si considera che è in realtà la cultura popolare a costituire l’oggetto di analisi unico e distintivo di questa corrente di analisi culturalista. Una corrente che, come è ampiamente noto, nata British in una coesa famiglia multidisciplinare, alla maggiore età è felicemente espatriata negli Stati Uniti per convolare a nozze sempre più monogamiche con le humanities di quel Paese, spargere la propria discendenza pressoché ovunque nel mondo, e soprattutto cambiare più o meno radicalmente vita 20 convertendosi a un radicale postmodernismo. Non è mia intenzione proporre qui una ricostruzione della biografia di questo polimorfo campo di ricerca, i cui interessi – soprattutto quelli attuali – cadono molto tangenzialmente nell’ambito di pertinenza di questo lavoro. Esso rappresenta tuttavia tuttora una delle versioni più articolate e radicali della prospettiva relativista di analisi della cultura popolare, ed è in questa veste che alcuni dei tratti distintivi di questo approccio verranno qui evocati brevemente. In un saggio ormai classico sull’evoluzione dei primi venticinque anni dei Cultural Studies, Stuart Hall (1980) individua nella convivenza – e tensione – tra un «paradigma culturalista» e un «paradigma strutturalista» il nucleo teorico di questo approccio. Il primo paradigma, storicamente precedente, è quello delle origini di questo campo di ricerca: è l’approccio di analisi culturale delineato tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta nei lavori dei «pionieri» Raymond Williams (1958), Edward Thompson (1963) e Richard Hoggart (1957). Il secondo seguì alla generale fortuna dello strutturalismo simbolico nell’Europa degli anni Settanta. Già il paradigma culturalista era nato nell’area della cosiddetta New Left inglese come un recupero dell’importanza del simbolico e soprattutto del volontarismo in reazione tanto alla teoria culturale della Scuola di Francoforte quanto all’economicismo del marxismo ortodosso britannico (cfr. tra gli altri Williams 1973; Johnson 1979; Dworkin 1997) – un approccio che lo stesso Williams definì materialismo culturale. L’incontro con e l’incorporazione di altre tradizioni, europee continentali, di marxismo culturalista nei due paradigmi dei Cultural Studies caratterizzò poi tutta la storia successiva dell’evoluzione teorica di questo approccio di analisi culturale. In particolare, questa storia fu segnata, dal lato del paradigma strutturalista, dall’appropriazione della riflessione di Althusser e del suo concetto di ideologia negli anni Settanta, e, dal lato prevalentemente del paradigma culturalista, da quella di alcuni aspetti del pensiero di Gramsci e in particolare del suo concetto di egemonia prevalentemente negli anni Ottanta. L’apertura alla teoria psicoanalitica di Lacan, alla semiotica, al post-strutturalismo di Foucault costituirono le evoluzioni principali del coté strutturalista, evoluzioni che prepararono a loro volta il terreno all’apertura sempre più massiccia al postmodernismo e al successo dei Cultural Studies negli Stati Uniti. Se l’eredità del paradigma strutturalista venne prevedibilmente raccolta da filoni di ricerca interessati soprattutto all’analisi degli oggetti culturali, ai «testi» e ai «discorsi», quella del paradigma culturalista arricchito dell’innesto gramsciano rivisse per lo più in approcci che davano 21 la priorità all’analisi dei contesti e delle pratiche di consumo di tali oggetti.28 Le ricerche sulle subculture, quelle sul cosiddetto «consumo produttivo» e in generale le teorie della resistenza culturale – o resistenza «semiotica», nella definizione di John Fiske (cfr. tra gli altri 1989a, p. 7) – costituirono le espressioni principali della seconda eredità. È precisamente a quest’ultima direzione di filiazione e prima ancora al paradigma culturalista originario dalla quale essa proviene che dobbiamo soprattutto guardare in questa sede. Perché è certamente in questo ramo dell’albero genealogico dei Cultural Studies, molto più che nella numerosa e variegata – e preponderante – famiglia strutturalista, che sono stati compiuti gli sforzi maggiori e maggiormente originali per l’elaborazione di una teoria della cultura popolare e dei suoi rapporti con la cultura dominante. Le premesse generali di questa elaborazione, poste dai fondatori del paradigma culturalista, sono state in primo luogo, ovviamente, la «democratizzazione» del concetto di cultura in rottura con la tradizione umanistica – e in particolare con quella inglese dei Matthew Arnold e dei Frank Leavis – che lo identificava con la cultura alta. Quindi l’adesione ad una definizione ad un tempo antropologica e fenomenologica di cultura come «un intero modo di vita, materiale, intellettuale e spirituale» (Williams 1958, p. xvi; cfr. anche Williams 1961). E segnatamente come, sempre nella definizione di Williams, sensuous human activity (cit. in Hall 1980, p. 61), cioè insieme di pratiche attraverso le quali le persone esprimono la loro comprensione e la loro esperienza del mondo (ciò che Williams definisce anche la loro structure of feeling). In terzo luogo, una decisa enfasi posta sulla human agency rispetto ai condizionamenti strutturali che la orientano. Una enfasi che, nel celebre incipit di The Making of the English Working Class (1963), storia sociale della formazione politica e culturale, o della presa di coscienza di classe, della classe operaia inglese nei cinquant’anni a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, Edward Thompson descrive così: «Questo libro ha un titolo sgraziato, ma è un titolo adatto allo scopo. Making, perché è uno studio di un processo attivo, che dipende dall’agency tanto quanto dipende dalle condizioni strutturali. La working class non è sorta come il sole in un momento stabilito. Era presente al suo stesso farsi» (Thompson 1963, p. 10).29 All’interno del paradigma culturalista dei Cultural Studies, queste linee di indirizzo generali per l’analisi culturale hanno costituito in particolare le basi per l’elaborazione di una prospettiva relativista di analisi della cultura popolare. In una variante molto diversa, tuttavia, da quella socio-antropologia americana ricordata sopra. 22 Questa diversità ha a che fare in particolare con il modo in cui questi due differenti «relativismi» concepiscono l’alterità simbolica della cultura popolare. Per la socioantropologia statunitense, lo abbiamo visto, essa è una proprietà essenziale e statica, una cultura che è in realtà natura, e che in quanto tale nulla deve al rapporto che di volta in volta intrattiene con altri universi simbolici. Per il paradigma culturalista dei Cultural Studies, al contrario, l’alterità simbolica della cultura popolare è una proprietà relazionale e dinamica, continuamente costruita e ricostruita in una sorta di incessante processo di differenziazione attiva dalla cultura legittima:30 Il principio strutturante del «popolare» in questo senso sono le tensioni e le opposizioni tra ciò che appartiene al dominio centrale dell’élite o della cultura dominante, e la cultura della «periferia». È questa opposizione che struttura costantemente il dominio della cultura nel «popolare» e nel «non popolare». [...] Da un periodo all’altro i contenuti di ciascuna categoria cambiano. [...] Il principio strutturante non consiste nei contenuti di ciascuna categoria – che, ripeto, si modificheranno da un periodo all’altro. Piuttosto, consiste nelle forze e nelle relazioni che sostengono la distinzione, la differenza. [...] Ciò che è essenziale alla definizione di cultura popolare sono le relazioni che definiscono la «cultura popolare» in una tensione continua (relazione, influenza e antagonismo) con la cultura dominante. (Hall, 1981 [2006], p. 483 e 484) «La cultura popolare in questo uso», scrive John Storey, non è la cultura imposta dei teorici della cultura di massa [mass culture], né è una cultura del «popolo» che emerge dal basso e si oppone spontaneamente [folk culture], è un terreno di scambio e negoziazione tra le due; un terreno [...] segnato da resistenza e incorporazione. [...] Il processo è storico (ciò che è etichettato come cultura popolare un dato momento è etichettato come altro tipo di cultura il momento dopo), ma è anche sincronico (l’alternarsi di resistenza e incorporazione è presente in ogni momento storico). (Storey 2006, p. 8) È questa concezione relazionale e processuale della cultura dominata che è per esempio alla base della nota distinzione di Raymond Williams tra la cultura dominante (effective culture) da un lato e una cultura dominata che può essere alternativa o oppositiva dall’altro, di tipo residuale ed emergente (cfr. tra gli altri Williams 1973). La cultura alternativa, scrive Williams, è quella dei «significati e valori alternativi, opinioni e attitudini alternative, persino conferimenti di senso al mondo alternativi, che 23 possono essere ospitati e tollerati all’interno di una particolare cultura dominante» (Williams 1973, p. 10). «Ma la linea di confine tra alternativo e oppositivo è molto sottile» (ivi, p. 11), egli aggiunge, perché un significato o una pratica può essere tollerato come una deviazione, e tuttavia essere visto ancora come semplicemente un altro particolare modo di vivere. Ma non appena l’indispensabile area di dominio si estende, gli stessi significati e le stesse pratiche possono essere visti dalla cultura dominante non solo come manifestazioni di inosservanza o disprezzo nei suoi riguardi, ma come manifestazioni di sfida. (ibidem) Se la cultura dominante è impegnata in un tentativo continuo di espansione e quindi incorporazione delle forme culturali alternative, queste ultime a loro volta sono continuamente emergenti, ovvero ne «vengono continuamente create» di nuove (ivi, p. 11). Questa immagine del rapporto la tra la cultura legittima e la cultura popolare come una incessante dialettica tra incorporazione e resistenza deve molto, come già accennato, all’incontro tra il paradigma culturalista originario dei Cultural Studies e il marxismo culturalista di Gramsci, e in particolare all’integrazione nel primo della teoria gramsciana dell’egemonia. E segnatamente all’idea centrale di quest’ultima secondo la quale la conservazione del dominio egemonico, ovvero «del consenso “spontaneo” dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante» (Gramsci 1932 [2001], p. 1519), esiga un continuo lavoro di mantenimento – un lavoro egemonico, appunto. Ovvero, il potere egemonico va continuamente creato e ricreato. E ciò va fatto non estirpando la conflittualità sociale, bensì tentando di incanalarla sistematicamente entro i confini simbolici del linguaggio dell’egemonia: «il concetto di egemonia intende suggerire una società in cui il conflitto è contenuto e convogliato in porti ideologicamente sicuri» e non «una società in cui il conflitto sia stato rimosso» (Storey 2006, p. 64).31 Questo equivale a dire che il potere egemonico va continuamente negoziato: «il fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso» (Gramsci 1932-1934 [2001], p. 1591). Anche se, aggiunge ancora Gramsci, «è anche indubbio che» le concessioni fatte dal gruppo dominante al gruppo dominato «non possono riguardare l’essenziale» (ibidem). 24 Se il concetto gramsciano di egemonia è in primo luogo uno strumento concepito per l’analisi del lavoro egemonico svolto dalla classe dominante – e al di fuori della prospettiva dei Cultural Studies è effettivamente utilizzato per lo più in questo senso – la sua appropriazione da parte dei Cultural Studies ha portato con sé una sorta di cambio d’uso che ne ha fatto lo strumento per eccellenza per pensare ed analizzare la cultura popolare. Si è trattato tuttavia di un cambio d’uso, appunto, o di punto di osservazione, e non tanto del significato del concetto, perché se il concetto di egemonia si riferisce ai processi attraverso i quali la classe dominante cerca di condurre negoziazioni con le culture delle classi antagoniste su un terreno culturale e ideologico che gli fa conquistare una posizione di potere, è altrettanto vero che [se si guarda alle culture delle classi antagoniste] quella che in questo modo viene resa possibile è una versione negoziata della cultura e dell’ideologia dominante. (Bennett 1986 [2006], p. 95) Il concetto di egemonia permette cioè di pensare la cultura popolare né come folk culture, la cultura «autentica» prodotta dal popolo, né come mass culture, la cultura manipolativa prodotta per il popolo, ma come «un mix “negoziato” di ciò che è prodotto dall’ “alto” e dal “basso”, [...] un equilibrio mutevole di forze tra resistenza e incorporazione» (Storey 2006, p. 65). Nelle parole di Gramsci, come un sempre precario equilibrio di compromesso. In questa prospettiva, analizzare la cultura popolare significa allora in primo luogo portare alla luce le strategie e le tattiche messe in pratica dai membri dei gruppi subordinati nella loro «negoziazione» – o lotta, o «guerriglia» – quotidiana con la cultura dominante e le sue tendenze all’incorporazione egemonica. Nel filone erede del paradigma culturalista dei Cultural Studies, il terreno di questa negoziazione che ha di fatto ricevuto l’attenzione quasi esclusiva dei ricercatori è stata la sfera del consumo dei prodotti dell’industria di massa, e specialmente (anche se non solo) di quella culturale. E la preoccupazione costante dei ricercatori nell’esplorazione delle pratiche e delle rappresentazioni – degli usi, delle letture, delle interpretazioni, dei conferimenti di senso – legate alla fruizione di questi prodotti è stata quella di mettere in evidenza che «le persone fabbricano la cultura popolare a partire dal repertorio di beni messi a disposizione dalle industrie culturali», ovvero «la cultura popolare è ciò che gli uomini e le donne fabbricano a partire dal loro consumo attivo dei testi e delle pratiche delle industrie culturali» (Storey 2006, p. 69 e 65). Mettere in evidenza, cioè, la natura attiva 25 e creativa dell’atto di consumo, la natura produttiva dell’uso. Dove per lo più «attivo», «creativo» e «produttivo» sta a significare intenzionalmente «non ortodosso» o «deviante» rispetto alla modalità di consumo legittima o attesa inscritta nel prodotto stesso. E dove questa sorta di insubordinazione attiva ma puramente simbolica – o «semiotica», come è stata definita da Fiske (1989a, p. 7) – manifestata dai dominati nei loro atti di consumo è interpretata come la forma di espressione privilegiata – o meglio come l’unica forma di espressione – della loro resistenza alla condizione di subordinazione sociale e strutturale in cui vivono.32 1.2.1.2 Le due facce dell’alterità: L’Altro resistente e lo Stesso rassegnato Questi brevissimi cenni alle diverse versioni della prospettiva relativistica avevano lo scopo di mostrare come nella storia dell’analisi sociologica delle culture di ceto riflessioni apparentemente lontanissime sul rapporto tra l’universo simbolico popolare e l’universo simbolico legittimo abbiano in realtà condiviso una stessa concezione di fondo della cultura popolare. Ma quello che sopra ho definito il polimorfismo del relativismo e del legittimismo nello studio della cultura popolare ha dato luogo anche all’occorrenza contraria. Ha cioè fatto sì che riflessioni teoriche basate su concezioni opposte della cultura popolare abbiano in certi casi generato immagini molto simili, o proprio una stessa immagine, della modalità pratica di rapporto dei membri dei ceti popolari con la cultura legittima. Una immagine che i teorici relativisti descrivono in termini di rifiuto del contatto culturale e i teorici legittimisti in termini di autoesclusione dal contatto stesso, ma che in entrambi i casi si riferisce evidentemente allo stesso tipo di comportamento pratico dei membri dei ceti popolari: l’evitamento dell’incontro (o, se si vuole, l’«impermeabilità» rispetto ad esso) con l’universo simbolico legittimo. Nelle varie teorie della cultura popolare questa immagine di evitamento è stata di volta in volta proposta in relazione a sfere simboliche diverse quali i consumi (in particolare nei Cultural Studies), le pratiche culturali (in particolare nella sociologia bourdieuiana), e ancora una volta soprattutto il rapporto con il mondo dell’istruzione. Ed è stata interpretata, nella prospettiva relativista, come la manifestazione di un rifiuto o di una resistenza o di una contestazione prodotta semplicemente dall’adesione ad un ordine simbolico e di legittimità alternativo e concorrente. 26 La spiegazione legittimista ha in qualche modo tentato di rendere l’interpretazione relativista più complessa, aggiungendole un tassello ulteriore: l’idea che l’adesione dei membri dei ceti popolari a un ordine simbolico alternativo a quello legittimo non fosse in realtà un fatto «primo» ma fosse un fatto «derivato» che si potesse e si dovesse spiegare sociologicamente. In altri termini, l’interpretazione sociologica non poteva fermarsi alla constatazione della diversità ma doveva considerare proprio questa diversità e le sue cause l’oggetto principale dell’analisi. Ecco allora che in quest’ottica l’evitamento del contatto con la cultura legittima da parte dei membri dei ceti popolari diventa non più una differenza «reale» in quanto espressione di una cultura autonoma ma il prodotto di una imitazione impedita, e segnatamente di un adattamento, o meglio ancora di una rassegnazione, alle limitazioni oggettive legate alle condizioni sociali di esistenza. Diventa cioè l’esito di una interiorizzazione – più o meno irriflessiva o più o meno conscia a seconda dei teorici e delle sfere di vita considerate – dei condizionamenti legati alla posizione occupata nella struttura sociale. E così, per fare riferimento al ritratto della cultura popolare che esce dalle analisi di Bourdieu, nelle scelte di consumo dei ceti popolari, la valorizzazione della funzionalità su ogni considerazione estetica formale e, nelle scelte alimentari, la preferenza accordata ai cibi economici e nutrienti non sono semplici gusti propri di una cultura popolare, come avrebbero sostenuto i teorici relativisti. In una prospettiva legittimista, essi sono «gusti di necessità» che «esprimono, nel loro stesso adeguarsi, le necessità delle quali sono il prodotto»: sono «amor fati, scelta del destino, ma una scelta forzata, prodotta da condizioni di esistenza che, escludendo come puro sogno qualsiasi altra possibilità, non lasciano altra scelta che il gusto del necessario» (Bourdieu 1979, pp. 198 e 199). Allo stesso modo, le preferenze popolari per l’arte figurativa rispetto a quella astratta documentate sempre da Bourdieu33 sono prodotto e funzione dell’assenza di competenze artistiche indispensabili per decodificare e apprezzare l’arte astratta: sono dunque «impedimenti diventati non-gusti o disgusti» (Grignon e Passeron 1989, p. 49). Infine, last but not least, la scarsa propensione popolare a utilizzare il sistema di istruzione. Per i teorici legittimisti, ha poca importanza il modo in cui gli attori si rappresentano e dunque danno senso alle forme che in questa sfera di vita prende il loro evitamento della cultura legittima, cioè ai loro abbandoni scolastici precoci e alle loro scelte «modeste» di filiere scolastiche minori. In particolare, fa poca differenza se questo mantenersi ai margini del sistema di istruzione sia vissuto con più o con meno consapevolezza dei condizionamenti strutturali che pesano su di esso. Vale a dire se sia 27 percepito come una rinuncia forzata – per mancanza di denaro, capacità, sostegno culturale familiare, o di tutte queste cose insieme – alle proprie «reali» aspirazioni, con doloroso rimpianto o con la serena accettazione del proprio destino sociale del «fare gli studi non è roba per gente come noi». O se, al contrario, la «scelta del destino» appaia agli occhi di chi la compie proprio una scelta «vera», un libero atto di volontà scaturito da quella predisposizione innata che quando si parla di istruzione si ha l’abitudine di chiamare una vocazione – o, per i più fortunati, un dono, e per i più sfortunati un «non esserci portato». In una prospettiva legittimista, quella che passa tra queste due attribuzioni di senso è solo una differenza di grado nella interiorizzazione dei condizionamenti strutturali. Nel secondo caso questa interiorizzazione è penetrata tanto in profondità nell’individuo da trasformare, per dirla con Lahire, le sue «competenze» in «appetenze», la sua capacità di fare qualcosa nel suo desiderio di farla (e soprattutto la sua incapacità di fare qualcos’altro in una provvidenziale assenza di desiderio di farlo), e indebolire fino a far scomparire la riflessività nel suo rapporto con le proprie disposizioni all’azione. Nel primo caso qualcosa nel meccanismo di interiorizzazione si è inceppato34 e questa trasformazione del «posso» nel «voglio» non si è compiuta, lasciando così l’attore nella dolorosa consapevolezza del «voglio ma non posso» e privando di ogni «incanto» il suo rapporto con i propri condizionamenti sociali interiorizzati. Per l’attore, il suo benessere esistenziale e soprattutto, per dirla con Bernstein, la sua possibilità di avere «accesso alle basi della propria socializzazione e [...] stabilire un rapporto riflessivo con l’ordine sociale in cui è inserito» (Bernstein 1971, tr. it. p. 240), cadere in una occorrenza o nell’altra fa evidentemente una certa differenza. Che poi equivale proprio alla differenza che c’è tra lo stare bene con se stessi e l’avere consapevolezza dei propri condizionamenti sociali, due disposizioni che purtroppo di solito per questi attori si muovono in direzioni opposte. Per la teoria legittimista, invece, ne fa poca, perché tanto il «voglio ciò che posso» quanto il «faccio ciò che posso anche se non è ciò che voglio» sono in questa prospettiva due varianti dello stesso meccanismo di adattamento ovvero rassegnazione alle possibilità oggettive inscritte nella propria condizione sociale. Rassegnazione che soprattutto nel caso del rapporto di evitamento con il sistema di istruzione conduce in particolare i membri dei ceti popolari ad anticipare le scarse probabilità di accedere ai gradi più alti di istruzione che sono associate alla loro posizione sociale autoescludendosi dal sistema di istruzione prima 28 ancora sia il sistema stesso ad escluderli (un meccanismo che nella sociologia bourdieuiana ha preso il nome di causalità del probabile: cfr. sotto il paragrafo 2.2.3.1). 1.3 Alla ricerca della «terza via»: Alternanza e ambivalenza Causalità del probabile o resistenza, rassegnazione o contestazione, differenza reale o rinuncia e adattamento? «Come interpretare» infine l’evitamento popolare della cultura legittima, queste non-pratiche che, a seconda del punto di vista che si adotta possono essere considerate sia come delle esclusioni, sia, al contrario, come dei rifiuti (e senza dubbio non soltanto, o non sempre, come dei rifiuti obbligati, o delle esclusioni interiorizzate, proibizioni divenute non-gusti o disgusti)? (Grignon e Passeron 1989, p. 49) E, prima ancora di chiedersi quale di questi due sensi di lettura descriva meglio la logica dell’azione dei membri dei ceti popolari nel loro rapporto con la cultura legittima, più fondamentalmente, è davvero euristicamente utile descrivere questo rapporto con il linguaggio dell’evitamento, come entrambe le interpretazioni concordano nel fare, pur spiegando poi l’evitamento in modi diversi? Detto in altri termini, a me pare che la cassetta degli attrezzi interpretativi messa a disposizione dall’insieme delle due prospettive classiche di analisi della cultura popolare adottate nella sociologia culturale, nelle loro diverse varianti che qui ho rapidamente evocato, si riveli poco utile allo studio della logica dell’agire dei ceti popolari. La ragione più immediata è l’insensibilità di questi strumenti interpretativi alle variazioni delle condizioni empiriche che dovrebbero aiutare a leggere. O meglio, la vaghezza delle indicazioni sugli indizi e sulle piste da seguire nell’esplorazione di queste condizioni. Lo abbiamo visto. Abbiamo visto che una stessa pratica come l’evitamento dell’universo simbolico legittimo da parte dei membri dei ceti popolare può essere utilizzata come evidenza di concezioni opposte della cultura popolare. Abbiamo visto anche che per il legittimismo fa poca differenza il modo in cui l’attore dà senso al suo agire non ortodosso rispetto alla cultura dominante, perché la «verità» di tale agire è comunque che esso scaturisce dalla condivisione da parte del soggetto popolare dello stesso ordine di legittimità della cultura dominante. In entrambi i casi, tuttavia, non ci è dato sapere quali siano – e prima ancora se esistano – gli indizi empirici che escludono una interpretazione a favore dell’altra. 29 E questo non accade per la ragione essenziale che i due concetti fondamentali di cultura popolare con cui abbiamo a che fare sono delle prese di posizione teoriche molto più che delle prospettive analitiche elaborate come generalizzazioni empiriche a partire da un confronto con gli interrogativi e i problemi posti dalla ricerca sul terreno. Ciò spiega anche la predilezione condivisa da entrambe le posizioni per l’immagine dell’evitamento nella descrizione della logica dell’agire dei membri dei ceti popolari nel loro rapporto con la cultura legittima. Una immagine che è a sua volta molto più un corollario funzionale delle due concezioni della cultura popolare di quanto sia l’evidenza empirica a partire da un confronto con la quale le due concezioni hanno preso forma (per una riflessione analoga sull’immagine di lontananza mentale e pratica delle famiglie popolari dall’universo dell’istruzione che domina gran parte della ricerca educativa classica, cfr. sotto il paragrafo 2.1.2). Si potrebbe certamente obiettare che non ci sia nulla di male nel fatto che una posizione teorica sia stata elaborata lontano da un confronto con la realtà empirica – che anzi per certi versi questa lontananza sia inevitabile – a patto che l’insieme di concetti di questa teoria si riveli comunque euristicamente utile nella lettura di tale realtà. Come ho già sostenuto nelle pagine precedenti, a me pare che le teorie socio-antropologiche della cultura popolare non soddisfino questo secondo requisito, ed abbiano anzi storicamente costituito un ostacolo importante sulla strada della comprensione del modo di vita, dell’universo simbolico e delle logiche di azione dei ceti popolari. Comprensione che è infatti ancora in larga misura ferma all’alternanza tra i due poli del quadro interpretativo fornito dal relativismo e dal legittimismo, senza che peraltro la prova del confronto con la realtà empirica si sia mai rivelata risolutiva nel far emergere in un modo che fosse inequivocabile la superiorità di una delle due prospettive sull’altra, o la maggiore plausibilità di una lettura sull’altra. Ma allora, se nell’analisi empirica queste due concezioni della cultura popolare si comportano ugualmente bene – o male, a seconda dei punti di vista – pare lecito ipotizzare che ciò accada perché la questione posta in questi termini è in realtà empiricamente indecidibile. E se la realtà empirica non è in grado di fornire una risposta al tipo di domande che le si sta rivolgendo, l’unico modo per interrogarla produttivamente pare quello di abbandonare le vecchie domande e provare a riformulare i nostri interrogativi, sperando che questa volta l’interlocutore si dimostri maggiormente reattivo e informativo. Fuor di metafora, «non si incontrano [...] delle pratiche, dei discorsi, dei simbolismi popolari che si lasciano costruire indifferentemente, negli 30 enunciati descrittivi, come fatti di autonomia e fatti di eteronomia?» (Grignon e Passeron 1989, p. 71). E allora non può essere che ciò accada perché tali simbolismi sono in realtà e soprattutto nello stesso tempo fatti di autonomia e fatti di eteronomia? Nel senso non tanto che nella cultura popolare simbolismo autonomo e simbolismo eteronomo convivono fianco a fianco in alternanza, vale a dire dividendosi i domini e i momenti della pratica (per esempio, con l’universo delle pratiche educative eteronomo e l’universo delle pratiche culturali autonomo), i contesti di interazione, o anche i sottogruppi interni al ceto (ivi, capitolo II). Ma nel senso, più forte, che autonomia ed eteronomia convivono in ogni elemento simbolico della cultura popolare, rendendolo, nella definizione di Grigon e Passeron, ambivalente: La difficoltà propria di una sociologia del simbolismo dominato è che i tratti e i comportamenti dominati non sono mai puramente autonomi o puramente reattivi. Il concetto di ambivalenza ricorda che è raro un tratto culturale dica tutto ciò che ha da dire in una delle due griglie concettuali di descrizione. (ivi, p. 93) Fino all’enunciazione, contro la parzialità della tesi relativista e della tesi legittimista, dell’«ipotesi di ambivalenza di ogni simbolismo e di ogni pratica di classe dominata» (ivi, p. 71), l’argomento di Grignon e Passeron appare dunque pienamente condivisibile. A questa pars destruens del ragionamento non corrisponde tuttavia una successiva pars construens che sfrutti fino in fondo le potenzialità dell’intuizione iniziale, e dunque costruisca una prospettiva di analisi della cultura popolare che sia realmente percorribile e alternativa a quelle scartate. La costruzione compiuta di un simile strumento analitico non rientra del resto nemmeno tra gli obiettivi dichiarati della riflessione di Grignon e Passeron, la quale anzi si apre proprio con il caveat che «l’esame dei lavori e dei concetti che costituisce l’oggetto di questo dibattito non mira a proporre una teoria delle culture popolari e nemmeno a prescrivere una metodologia», ma solo a «esplicitare un imbarazzo che abbiamo avvertito, tanto nelle nostra inchieste quanto nelle nostre letture, ogni volta che il Popolo appare nella letteratura» (ivi, p. 9). È dunque a questo punto che occorre staccarsi anche da Grignon e Passeron lasciandoli dove si sono volutamente arrestati e tentare di avventurarsi ancora oltre nell’esplorazione della direzione indicata. Per trasformarla in un sentiero effettivamente percorribile. 31 Perché sul modo per rendere operatoria l’ipotesi di ambivalenza del simbolismo dominato il solo suggerimento che ci arriva dai due sociologi è quello di restare sulle strade del relativismo e del legittimismo e cercare di percorrerle entrambe in parallelo. Considerando cioè «ogni “tratto” popolare un palindromo a doppio senso» (ivi, p. 73) e in quanto tale bisognoso di due direzioni di lettura: una lettura che sia attenta al senso che tale tratto ricava dal suo rapporto con gli altri elementi interni dell’universo simbolico popolare35 e nello stesso tempo al senso che gli deriva invece dal suo rapporto con il tratto corrispondente dell’universo simbolico dominante. Nelle parole di Grigon e Passeron: L’ipotesi dell’ambivalenza significante delle realtà simboliche obbliga [...] ad ammettere pienamente nell’analisi e nell’interpretazione i diritti della doppia lettura. [...] Del resto non è sufficiente distinguere, per racchiudere in universi di senso senza comunicazione, i due significati di uno stesso comportamento che costruiscono l’analisi culturalista [cioè, la prospettiva relativista] e l’analisi ideologica [cioè, la prospettiva legittimista] dell’ordine simbolico. Bisogna anche servirsi delle due descrizioni per descrivere i rapporti sociali e simbolici attraverso i quali ciascuno dei due significati capovolge l’altro, derivando la propria efficacia proprio da questo capovolgimento. (ibidem) Ciò che Grignon e Passeron fanno non è dunque molto più che mettere in guardia il ricercatore con una serie di considerazioni sulle quali solo gli oltranzisti del relativismo e del legittimismo avrebbero da ridire, e in particolare ammonirlo sulla necessità che tutte queste considerazioni insieme dovrebbero essere tenute in conto da qualsiasi analisi della cultura popolare. In primo luogo, a fini analitici la cultura popolare va intesa, weberianamente e con una operazione di «autonomizzazione metodologica» (ivi, p. 21), come il risultato dell’attività di produzione simbolica stimolata dal bisogno di senso di un certo gruppo sociale. Essa tuttavia non esiste nel vuoto ma insieme alle culture di altri gruppi sociali. I suoi confini non sono impermeabili. Infine, i flussi simbolici (o, in un linguaggio meno postmoderno, gli scambi) che attraversano questi confini non impermeabili sono regolati da un rapporto di forza tra l’interno e l’esterno che non è favorevole ai portatori della cultura popolare. Sul come questa specie di collazione tra lettura dell’autonomia e lettura dell’eteronomia possa essere realizzata non solo nella pratica della ricerca ma prima ancora epistemologicamente – cioè nella sintesi di una nuova concezione della logica dell’agire 32 popolare – essi lasciano il ricercatore con nessuna indicazione metodologica e con un concetto interessante ma troppo poco definito e per nulla operatorio di ambivalenza. Un concetto, meglio, che i due autori pensano più nella sua accezione psicoanalitica o comunque riferito a qualcosa di simile alla falsa coscienza marxiana che in termini che siano utilizzabili proficuamente in una analisi sociologica culturalista. Consapevoli essi stessi della scarsa fruibilità sociologica dell’idea di ambivalenza simbolica della cultura popolare che hanno in mente, Grignon e Passeron non sono tuttavia per questo indotti ad elaborare ulteriormente il concetto per farne uno strumento utile per la ricerca sociale. Piuttosto, essi sono indotti a concludere pessimisticamente che con gli strumenti dell’analisi sociologica la coesistenza di autonomia ed eteronomia nell’universo simbolico popolare non potrà mai essere colta nella sua dimensione forte dell’ambivalenza interna ad ogni elemento. Essa potrà essere colta unicamente nella sua dimensione debole dell’alternanza tra elementi o tratti culturali autonomi ed eteronomi a seconda dei domini, dei momenti o degli attori della pratica. Potrà essere cioè colta in una analisi della cultura popolare che sia, per dirla con il linguaggio della ricerca sociale, una analisi delle condizioni empiriche dell’autonomia o dell’eteronomia della logica dell’agire popolare rispetto all’universo simbolico dominante. Scrivono Grignon e Passeron: Nella misura in cui [l’analisi sociologica] si aggrappa alla prospettiva alternativista, la quale, delimitando per essa un terreno specifico, le apre una carriera empirica e le permette di far intervenire appieno le tecniche dell’accertamento e della misurazione, la sociologia delle culture popolari guarda decisamente dal lato di una scienza definita in relazione al modello delle scienze sperimentali. Nella misura in cui essa sceglie al contrario l’ambivalenza, [...] come si fa a sapere se ciò che si crede di rilevare abiti realmente «l’inconscio» del gusto popolare, se i significati ai quali conduce l’analisi non sono al contrario degli artefatti puri e semplici, il prodotto di una messa a confronto forzata e ossessiva delle culture, o la proiezione di fantasmi dell’interprete? Come sapere se il «contenuto latente» che ci si dà in questo modo la possibilità di svelare è proprio la traduzione integrale, veritiera e adeguata dei gusti e dei desideri racchiusi nelle pratiche e nei discorsi «manifesti» dei dominati? (Grignon e Passeron 1989, pp. 112-113) Conoscere, attraverso la prospettiva dell’alternanza, quali sono le sfere della vita dei ceti popolari che sono maggiormente al riparo da influenze simboliche eteronome e quali sono in particolare le condizioni che le preservano meglio, o, al contrario, quelle che le espongono maggiormente a queste influenze offre certamente un punto di vista 33 importante sui rapporti tra la cultura popolare e la cultura legittima. Ma un punto di vista altrettanto prezioso è quello, preso da un’altra angolatura, che può offrire la conoscenza di ciò che accade quando una particolare sfera di pratiche della cultura popolare è investita da un «attacco» più o meno ufficiale – anziché, per usare il linguaggio delle teorie della resistenza culturale, da una «guerriglia» diffusa e mai dichiarata apertamente – da parte della cultura dominante. Ovvero nei casi in cui il contatto culturale è obbligato e la penetrazione di elementi simbolici eteronomi nell’universo simbolico popolare avviene più o meno d’imperio. Qui l’interrogativo di ricerca diventa, in termini banali, in che modo i tratti simbolici legittimi invasori che hanno sferrato l’attacco al confine tra le culture siano stati accolti nella porzione di territorio invaso, vale a dire nel particolare dominio di pratiche e di rappresentazioni popolari in cui sono penetrati con la forza. In questo caso, non si tratta più, come sopra, di procedere a un censimento dei tratti culturali della cultura popolare distinguendo tra quelli «contaminati» e quelli «puri»: si tratta invece di concentrare l’attenzione sui tratti che si sanno già essere stati molto probabilmente «contaminati» d’imperio e studiare, per usare una metafora organica à la Durkheim, la natura e il grado della loro «intossicazione» e il modo i loro organismi «reagiscono» ad essa. È evidente che in questo caso la prospettiva di analisi elettiva diventa allora quella della coesistenza di autonomia ed eteronomia nello stesso elemento simbolico o tratto culturale, prospettiva che con Grignon e Passeron ho definito sopra dell’ambivalenza. Perché sia euristicamente utile ed effettivamente fruibile nell’analisi culturale, tuttavia, questo concetto di ambivalenza simbolica va a mio avviso qui inteso primariamente in una accezione derivata dai principi dell’analisi culturale strutturalistica. Come cioè quell’«indeterminatezza» (Bourdieu 1977, p. 140) di significato, o polisemia, che è propria di ogni elemento simbolico e fa sì in particolare che esso assuma significati diversi a seconda del sistema simbolico nel quale è inserito, ovvero a seconda della particolare configurazione di tratti culturali con la quale si trova di volta in volta a fare senso e sistema, appunto (cfr. su questo Giglioli e Ravaioli 2004). Che a fini analitici l’ambivalenza simbolica della cultura popolare vada intesa in questo senso strutturalistico di base non significa che essa non possa essere studiata, per usare le dicotomie sociologiche classiche, in una prospettiva soggettivistica e fenomenologica, attenta cioè al senso che gli attori conferiscono alle proprie azioni. Significa piuttosto che i cambiamenti di significato e di uso che i tratti culturali dominanti subiscono una volta penetrati all’interno della cultura popolare non debbano 34 essere interpretati per forza con il linguaggio del volontarismo, della creatività, e, al limite dell’insubordinazione attiva e della «resistenza» simbolica popolare. Significa, in altri termini, che la dimensione «eretica» delle interpretazioni popolari della cultura legittima costituisce un aspetto costitutivo e sempre presente di tali conferimenti di senso pur non essendo nello stesso tempo necessariamente l’espressione di una azione sacrilega intenzionale. Ma, essendo, il più delle volte, niente altro che la conseguenza necessaria del «trasferimento» e del successivo inevitabile «riadattamento» nel senso della coerenza di un tratto culturale da un universo simbolico a un altro. 36 La specificazione e operazionalizzazione in senso strutturalistico che ho proposto del concetto di ambivalenza simbolica della cultura popolare non è evidentemente la chiave di volta per superare la parzialità dei punti di vista relativista e legittimista nella sintesi di una nuova prospettiva di analisi dell’universo simbolico popolare. E non lo è perché si tratta di uno strumento analitico adatto all’esplorazione di un aspetto particolare di tale universo – i suoi terreni di incontro più o meno «ufficiale» e documentato con la cultura dominante – e non della cultura popolare tout court. Si tratta quindi di una «soluzione» molto parziale al problema della operazionalizzazione sociologica dell’ipotesi di ambivalenza della cultura popolare proposta da Grignon e Passeron, che non ne esaurisce in alcun modo la portata. Quest’ultima doveva infatti costituire la base per una sintesi analitica tra la prospettiva relativista e la prospettiva legittimista che aiutasse a fornire una risposta finalmente plausibile all’annoso problema del grado di autonomia o eteronomia simbolica dell’universo simbolico popolare. La mia «terza via» allo studio della cultura popolare aggira invece del tutto questo problema concentrando deliberatamente l’attenzione sulle sole parti sicuramente «eteronome» di questo sistema e quindi sui soli casi documentati di incontro tra la cultura popolare e la cultura dominante. La strada che ho scelto per il superamento dei due quadri interpretativi classici della cultura popolare non è cioè tanto quella di un tentativo di sintesi quanto quella di un cambio radicale di prospettiva. Una scorciatoia, quindi, certamente. Ma anche un modo finalmente praticabile per uscire da un cul-desac teorico e cominciare a guardare almeno una parte della cultura popolare con degli occhiali interpretativi che lascino filtrare un po’ della sua realtà empirica. Prima di provare a indossare, nel resto di questo lavoro, questi occhiali, ci soffermeremo ancora un po’ sulle prospettive socio-antropologiche classiche di analisi della cultura popolare. Nel capitolo successivo cominceremo infatti ad avvicinarci all’oggetto empirico specifico di questo lavoro analizzando le forme nelle quali queste 35 concezioni tradizionali della cultura popolare hanno trovato posto nelle analisi culturaliste classiche delle disuguaglianze educative. Per vedere come questo posto lo abbiano infine perso negli sviluppi più interessanti della sociologia dell’educazione degli ultimi anni. Nella quale, va aggiunto in conclusione, una «terza via» per pensare – e soprattutto per analizzare empiricamente – la cultura popolare appare oggi molto più al centro degli interessi e soprattutto alla portata di mano dei ricercatori che in ogni altro campo dell’analisi sociologica culturale contemporanea. 36 NOTE AL CAPITOLO PRIMO 1 Cultura che è intesa quindi, weberianamente, come quella «sezione finita dall’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo» (Weber 1904 [1922], tr. it. p. 96). 2 Ma anche rappresentazioni, idee, credenze, concezioni: per una rassegna delle definizioni più o meno intercambiabili che sono state utilizzate negli studi di psicologia dello sviluppo intercultuale, cfr. utilmente Bril 1999. Le pubblicazioni a cura dei membri dell’Association pour la recherche interculturelle (ARIC) che ha sede all’Università di Friburgo (tra le quali Bril, Dasen, Sabatier e Krewer (eds.) 1999) offrono un utile osservatorio su questo recente settore di ricerca. Sul quale, per l’area anglofona, cfr. anche Sigel (ed.) 1985; Harkness e Super (eds.) 1996. 3 L’ambito dell’allevamento (la puericultura) e dell’educazione familiare dei bambini è stato infatti storicamente uno dei terreni privilegiati nei tentativi di «moralizzazione» del popolo, e in questo senso costituisce «un oggetto privilegiato per chi voglia cogliere i caratteri specifici della diffusione delle tecniche e dei saperi all’interno di una società stratificata» (Boltanski 1969, p. 15). 4 Con riferimento alla tradizione di analisi sociologica del sapere, mi pare possa essere forse utile pensare la differenza tra il senso contingente e il senso finale dell’esperienza della scolarizzazione nei termini della differenza tra gli oggetti di analisi privilegiati dai due principali filoni di questa tradizione, la sociologia della conoscenza francese (per il senso contingente) e quella tedesca (per il senso finale). La prima rappresentata dalla Scuola sociologica francese e dai suoi eredi (quindi Émile Durkheim, Marcel Mauss, Robert Hertz, Marcel Granet, e poi Claude Lévi-Strauss, Pierre Bourdieu, Mary Douglas), la seconda dalla corrente storicistica tedesca (quindi Karl Marx, Max Scheler, Karl Mannheim, Max Weber). Come suggerisce Robert Merton (1972), la differenza principale tra i due approcci è bene espressa dalle espressioni che nelle due tradizioni vengono usate per indicare la sociologia della conoscenza: in tedesco Wissensoziologie, in francese Sociologie de la connaisance. Il verbo wissen non è l’equivalente di connaître, ma di savoir: mentre connaître implica «la diretta familiarità con i fenomeni che è espressa nelle rappresentazioni descrittive», wissen e savoir implicano «formulazioni più astratte che non “assomigliano” tutte a ciò che è stato sperimentato direttamente. Quindi la sociologia della conoscenza tedesca è la sociologia delle «formulazioni astratte», quella francese è la sociologia delle «rappresentazioni descrittive». In altri termini, l’approccio tedesco studia la conoscenza nella forma di sistemi complessi di idee quali teorie della storia, filosofie, dottrine politiche, ideologie. L’approccio francese studia invece la conoscenza nella forma delle unità fondamentali delle quali sono formate le unità complesse studiate dalla sociologia tedesca, vale a dire le categorie del pensiero e i sistemi di classificazione. In altri termini, il polo tedesco è più vicino alla conoscenza scientifica o almeno formalizzata, quello francese alla conoscenza ordinaria. Una delle ragioni di questa differenziazione dell’oggetto di studio risiede, come è noto, nelle differenti radici filosofiche in contrapposizione alle quali le due sociologie della conoscenza sorgono: quella tedesca nasce, con Marx, come una reazione all’idealismo di Hegel (autonomia dell’Idea da ogni esperienza sociale vs. ogni sistema di pensiero è legato a una esperienza sociale concreta); quella francese nasce come una reazione a Kant (origine innata delle categorie fondamentali del pensiero vs. le categorie fondamentali della conoscenza sono correlate alle divisioni della società). 5 Che è esattamente anche il modo in cui, prima di misurarmi con la ricerca empirica, io stessa ho iniziato il mio «mestiere di sociologa». Vale a dire approfittando della riluttanza di un «grande», nel mio caso Pierre Bourdieu, a indulgere nell’autobiografismo intellettuale, per produrre una «lettura» dell’evoluzione della sua teoria sociale (Ravaioli 2002). 6 Quando parlo di «sociologia culturale in senso proprio» mi riferisco in particolare a quella che, soprattutto sulla scorta delle teorizzazioni di Jeffrey Alexander, è diventanta oggi una delle suddivisioni più accettate del campo di studio sociologico della cultura. Vale a dire la distinzione tra un filone di sociologia della cultura e un filone di sociologia culturale. L’oggetto di studio del primo sono quelle istituzioni alle quali all’interno della società è specificamente ed espressamente riservato il compito della produzione simbolica (la religione, il diritto, la sfera dell’arte, dell’industria culturale di massa, dei mass media, della scienza, ecc.). Laddove il secondo, in una concezione assai più generale, o «forte», dell’oggetto, si occupa dei processi di costruzione e di uso di significati condivisi (che approcci teorici diversi hanno di volta in volta identificato nelle strutture e categorie fondamentali del pensiero, in valori e 37 norme, in sistemi complessi di idee quali le ideologie, o in una intera Weltanschauung) che hanno luogo all’interno di una struttura di relazioni sociali e possono manifestarsi – e quindi essere studiati – in qualsiasi tipo di «fatto sociale» (quali pratiche, eventi, istituzioni, artefatti). In altri termini, l’oggetto della sociologia culturale non è limitato alla cultura intesa come l’insieme dei prodotti delle sfere istituzionali specificamente riservate alla produzione simbolica ma comprende l’intera dimensione simbolica della vita sociale. La presente ricerca rientra evidentemente in questo secondo approccio allo studio sociologico della cultura. 7 Limitandosi alle monografie sull’intero modo di vita dei ceti popolari, tracce di questo approccio si trovano fin quasi dalla preistoria delle scienze sociali, con Les ouvriers européens. Études sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières de l’Europe (1855) di Frédéric Le Play a fare da ideale capostipite. Nella scuola durkheimiana, nel 1913 Maurice Halbwachs dedica agli stili di consumo delle famiglie operaie la sua tesi di abilitazione dal titolo La classe ouvrière et les niveaux de vie. Recherches sur la hiérarchie des besoins dans les sociétés industrielles contemporaines. Degli anni Cinquanta del Novecento è la pubblicazione quasi contemporanea in Francia e in Inghilterra di altri tre classici di questo filone: Family and Kinship in East London (1954) di Michael Young e Peter Willmott, La vie quotidienne des familles ouvrières (1956) di Paul-Henry Chombart de Lauwe, e The Uses of Literacy. Aspects of Working-Class life (1957) di Richard Hoggart. Gli anni Sessanta vedono il fiorire di questo genere di letteratura, con la pubblicazione delle ricerche dell’antropologo statunitense Oscar Lewis sul modo di vita e la cultura del sottoproletariato centroamericano, oltre che, tra gli altri, di WorkingClass Suburb: A study of Auto Workers in Suburbia (1960) di Bennett Berger negli Stati Uniti, e di Working-Class Community (1968) di Brian Jackson in Inghilterra. Degli anni Settanta si può ricordare la pubblicazione di The World of the Urban Working Class (1973) di Marc Fried, e del decennio successivo quella di Le travail à-côté. Etude d’ethnographie ouvrière (1989) di Florence Weber. Del 1990 è l’etnografia ormai classica del francese Olivier Schwartz su Le monde privé des ouvriers, e del 1999 un’altra etnografia francese, Retour sur la condition ouvrière. Enquête aux usines Peugeot de SochauxMotbéliard di Stéphane Beaud e Michel Pialoux. Infine, è del decennio successivo A Phenomenology of Working Class Experience (2000) di Simon Charlesworth. Per una storia delle monografie inglesi sulla working class, si può vedere utilmente Johnson 1979 pp. 41-71. 8 La strada delle comparazioni interculturali su aspetti specifici dello stile di vita è stata complessivamente meno battuta, o almeno i contributi sono più frammentati e quelli di rilievo sono identificabili con maggiore difficoltà. La cura e l’educazione familiare dei bambini seguita dai consumi culturali appaiono comunque le due sfere di vita sulle quali si è più concentrata l’attenzione dei ricercatori. 9 In realtà questa possibilità non sembra essere stata finora presa seriamente nel campo degli studi sulle culture di ceto, dove moltissimi aspetti anche rilevanti dell’esistenza restano quasi o del tutto inesplorati. Si pensi per esempio all’ambito di ricerca del rapporto tra appartenenza di ceto e esperienza della salute e della malattia, un tema che sembra essere quasi completamente lasciato all’interesse e ai metodi degli studiosi di epidemiologia (mentre per esempio è da tempo esplorato nell’ambito delle analisi multiculturali «classiche» dal filone dell’etnoscienza dell’antropologia culturale). Una felice eccezione alla tendenza a concentrare tradizionalmente gli studi sulle culture di ceto solo su pochi aspetti dell’esistenza è per esempio una ricerca recente che Nadine Halitim ha condotto in un quartiere popolare di Lyon sui modi di appropriazione dello spazio attraverso le decorazioni domestiche (La vie des objets. Décor domestique et vie quotidienne dans des familles populaires d’un quartier de Lyon, la Duchère, 1986-1993, 1996). 10 È per esempio l’accomodamento di questa madre che, in disaccordo con i principi della disciplina scolastica (e, prima ancora, con la concezione di bambino sulla quale essa poggia), racconta così una punizione che suo figlio ha portato a casa dalla scuola: Dunque, la... fine dell’anno... scolastico appena passato [in terza elementare], ha dovuto scrivere mille volte una frase. Mille volte?! Mille volte. A casa o a scuola? A casa. A casa... saltando la ricreazione a scuola... mille volte. Con voi lo ha scritto? E come è andata? 38 Funzionava che lui era in camera, e noi «Scrivi! Avanti! Scrivi!», e lui numerava, tutto, ogni riga, e poi partiva e scriveva tutto. Ma ogni tanto diceva «mi sono stufato»? Sì, ma doveva andare avanti. Eh, ma appunto, lui diceva «mi sono stufato»? Euh! Eccome! E voi cosa dicevate? «No, devi andare avanti». Anche perché la maestra ha detto... «datemi fiducia»... [sottovoce] Non è servito a niente. Noi glielo abbiam fatto fare anche perché la maestra è molto permalosa: se non glielo fai fare... Bisogna andar con le pinze. Con certe maestre bisogna stare... Gli ho detto «Se lei te le ha date, è perché era stanca, l’hai combinata grossa... » (la madre di Tony, caso 17) 11 Una delle formulazioni più chiare della necessità di tenere distinte queste tre dimensioni nelle analisi culturali è quella offerta da Ann Swidler (1986). Swidler utilizza l’esempio dell’analisi culturalista delle cause della riproduzione della povertà. Come per i teorici della cultura della povertà, anche per Swidler le cause della riproduzione della povertà sono di natura culturale più che meramente strutturale. Tuttavia, a differenza di questi ultimi, ella ritiene che, nell’analizzare l’influenza della cultura sull’azione, si debba distinguere nettamente la nozione di preferenze, aspirazioni, valori da quella di abilità e competenze, e cercare l’influenza della cultura esclusivamente dal lato di queste ultime. In altri termini, per Swidler, nelle loro aspirazioni, i poveri condividono l’idea dominante dell’ascesa sociale e dei mezzi più adatti per raggiungerla, ma non intraprendono condotte di azione che sono in accordo con questi valori perché non hanno le necessarie competenze culturali. Le condotte di azione dei poveri che contribuiscono alla riproduzione del loro stato di povertà possono quindi essere definite come una forma di adattamento alle competenza culturali che essi traggono dalle loro condizioni di esistenza, che nulla a che fare con il desiderio che essi hanno ad agire in questo modo. 12 È così, per esempio, che nel suo celebre saggio del 1958 sul rapporto tra classe sociale e modi di socializzazione familiare Urie Bronfenbrenner spiegava le differenze rilevate tra gli stili educativi della prima infanzia delle famiglie di ceto medio e di ceto popolare, e loro evoluzioni nel tempo (sul quale cfr. più diffusamente sotto il paragrafo 2.2.1). L’obiettivo del saggio era quello di fare il punto sui risultati delle ricerche sull’educazione familiare condotte negli Stati Uniti nei tre decenni precedenti. Queste ricerche avevano infatti prodotto una serie di risultati apparentemente contradditori la cui interpretazione era per questo oggetto di un vivace dibattito tra gli studiosi. In particolare, le ricerche condotte fino a tutto il periodo della Seconda Guerra Mondiale (la più nota delle quali è l’«inchiesta di Chicago» di Davis e Havighurst del 1943) tendevano ad evidenziare una maggiore severità dello stile educativo del ceto medio rispetto a quello più del ceto popolare, mentre le ricerche condotte successivamente (la più nota delle quali è l’«inchiesta di Boston» di Maccoby e Gibbs del 1951-52) tendevano a ribaltare questa conclusione. Bronfenbrenner rende conto di questa contraddizione spiegandola con l’evoluzione dei saperi e delle norme mediche in materia di puericultura, e quindi anche di pratiche educative, e soprattutto ipotizzando che questi nuovi saperi si fossero diffusi nelle diverse classi con una rapidità ineguale (su questo punto, cfr. anche Boltanski 1969). I genitori di classe media avrebbero cioè adottato per primi le nuove tecniche legittime, più permissive, laddove nello stesso tempo i genitori dei ceti popolari, condividendo gli stessi valori educativi della classe media e proprio allo scopo di realizzarli, avrebbero avuto la tendenza ad adottare pratiche educative diffuse nella classe media nel periodo precedente. Scrive di questi ultimi Bronfenbrenner: «essi accettano i livelli di aspirazioni della classe media, ma non hanno ancora interiorizzato sufficientemente i meccanismi di riposta che rendono realizzabili questi livelli per loro e per i loro figli» (Bronfenbrenner 1958, tr. it. p. 46). 13 Come accade nei fenomeni di localismo, o di vera e propria «invenzione della tradizione», indotti dalla globalizzazione culturale. 14 Le considerazioni che seguono sulle due concezioni classiche della cultura popolare sono debitrici a quello che costituisce tuttora uno dei principali testi di riferimento teorico in questo ambito (e molto probabilmente anche uno dei pochissimi libri interamente dedicati all’argomento): Le Savant et le populaire di Claude Grignon e Jean-Claude Passeron (1989). 15 Nella storia della sociologia dell’educazione, una delle riflessioni più elaborate sul tema del rapporto tra i contenuti e le forme dell’insegnamento scolastico e la cultura di origine dei fruitori popolari della 39 scuola è certamente quella sviluppata nella cosiddetta branca della sociologia del curriculum nell’ambito del primo periodo della New Sociology of Education inglese (dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta) (cfr. per tutti Young (ed.) 1971). Negli sviluppi subiti dalla New Sociology of Education nel corso degli anni Ottanta, il posto occupato dalla sociologia del curriculum è diventato progressivamente minoritario (cfr. Forquin 1983 e Trottier 1987). E l’interesse per il rapporto tra i contenuti e le forme dell’insegnamento scolastico e le disuguaglianza scolastiche e sociali ha lasciato in gran parte l’ambito sociologico per continuare a esistere, come già prima della parentesi della New Sociology of Education, soprattutto nella riflessione pedagogica. In particolare, nelle varie pedagogie radicali stimolate dai fermenti ideologici degli anni Sessanta e Settanta prima, e oggi soprattutto nella corrente di riflessione sulla cosiddetta pedagogia critica vicina all’ambito dei Cultural Studies (della quale Henry Giroux è uno dei teorici principali). Per uno stato dell’arte aggiornato del dibattito sulla pedagogia critica nell’area dei Cultural Studies si può vedere utilmente il numero speciale su Popular Culture and Education che le ha dedicato nel 2003 l’Harvard Educational Review (LXXIII, 3). Cfr. anche Giroux 1983; Giroux e McLaren 1994; Darder, Baltodano e Torres 2002. 16 Come è noto, l’idea e la pratica della «chiusura» della scuola, della separazione materiale e simbolica dell’universo scolastico dalla vita e dalla cultura della comunità, è nata con i collegi dei gesuiti per le esigenze dell’educazione delle élites, e attraverso i secoli è giunta a coincidere con la «forma scolastica di socializzazione» (Vincent (ed.) 1994) tout court. 17 Il concetto di pedagogia popolare è stato storicamente legato soprattutto a quello dell’«apertura» della scuola alla vita e alla cultura della comunità di provenienza degli allievi. Tuttavia, non sono mancati i sostenitori dell’idea che una educazione efficace dei figli del popolo dovesse passare necessariamente per una scuola che fosse il più possibile «chiusa», o meglio chiaramente separata dalla vita e dalla cultura della comunità locale. Mi pare per esempio che una delle teorizzazioni e delle realizzazioni pratiche più chiare – ed efficaci – di questa seconda posizione si possa identificare nelle idee e nella prassi pedagogica di Lorenzo Milani. Un altro esempio di questa seconda posizione sono i programmi di «compensazione» sorti negli Stati Uniti degli anni Sessanta in seguito alla diffusione della teoria del deficit o dell’handicap socio-culturale, e rivolti a bambini socialmente svantaggiati di età prevalentemente prescolare (per una dettagliata e interessante illustrazione di uno di questi programmi di compensazione prescolari, cfr. Bereiter e Engelmann 1966). 18 Il concetto di «arbitrario culturale» è stato introdotto da Bourdieu in La Reproduction (Bourdieu e Passeron 1970) per indicare, in una prospettiva relativista, l’universo simbolico legittimo incarnato nelle istituzioni educative. Sebbene Bourdieu sia solitamente considerato uno dei rappresentati principali di una concezione legittimista della cultura popolare, la sua sociologia si caratterizza in realtà per una certa oscillazione tra la prospettiva legittimista e quella relativista (cfr. Grignon e Passeron 1989; Ravaioli 2002). Su questo punto, si veda sotto il paragrafo 1.2.1.2.1. 19 Il concetto venne introdotto dall’antropologo statunitense Oscar Lewis per la prima volta nel 1959 in Five Families: Mexican Case Studies in the Culture of Poverty. Lewis dedicò la maggior parte delle sue ricerche – tutte pubblicate nel corso degli anni Sessanta – al modo di vita dei sottoproletari centroamericani sia nei loro Paesi d’origine sia immigrati negli Stati Uniti. Nello stesso decennio questo concetto venne applicato all’analisi della povertà negli Stati Uniti, tra gli altri, da Michael Harrington nell’influente The Other America. Poverty in the United States (1962), Daniel P. Moynihan, autore di The Negro Family (1967), e dall’antropologo Edward Banfield in The Unheavenly City (1968). Per una storia del dibattito scientifico e politico sulla povertà negli Stati Uniti del Ventesimo secolo, si possono vedere utilmente O’Connor 2001 e Marcus 2005. 20 La teoria della cultura della povertà è solitamente associata soprattutto al nome di Oscar Lewis. Se è vero che Lewis fu effettivamente il primo a introdurre questo concetto, è altrettanto vero – ed è un fatto abitualmente trascurato – che il modo in cui il concetto di cultura della povertà è stato utilizzato in seguito da quanti lo hanno applicato alla povertà urbana degli Stati Uniti è stato poco fedele alle intenzioni teoriche (e politiche) di Lewis. In primo luogo spesso si dimentica che Lewis aveva un orientamento teorico e politico marxista, era un simpatizzante del Partito Comunista statunitense, e tra l’altro per questo, in quanto «sovversivo», insieme ad altri antropologi fu uno dei sorvegliati speciali dell’FBI durante gli anni della caccia alle streghe anticomunista maccartista (cfr. su questo il recente Price 2004). Soprattutto, nella sua teoria Lewis non trascurò completamente il ruolo delle cause strutturali della povertà, che identificò segnatamente nel normale funzionamento del capitalismo industriale. E ipotizzò inoltre che una delle possibili soluzioni al problema della povertà potesse venire dall’auto-organizzazione 40 dei poveri stessi. Ma questi ultimi due aspetti di chiaro sapore marxista della sua riflessione teorica vennero presto dimenticati, e «fu il lato class-blind del lavoro di Lewis che venne usato» da quanti vennero dopo di lui: «nel lavoro di Lewis fu il consenso implicato dalla cultura, piuttosto che il conflitto implicato dalla classe, che accese l’immaginazione di una generazione di scienziati sociali influenzati dal funzionalismo di Parsons e dal volontarismo di Harrington» (Marcus 2005, p. 45). 21 Per i critici della teoria della cultura della povertà tali comportamenti non coerenti con i valori professati andavano spiegati, come abbiamo visto, principalmente con ostacoli di natura strutturale esterni all’individuo. Un’altra interpretazione di tale discrepanza che vale la pena di ricordare qui è quella, spesso citata, dello «stiramento dei valori» (the lower-class value stretch) elaborata da Hyman Rodman (1963) (sulla quale cfr. più diffusamente sotto il paragrafo 2.2.3.1). Rodman propone la tesi dello «stiramento dei valori» proprio come terza via per risolvere il dilemma se i membri dei ceti più bassi condividano o meno il sistema di valori dominante nella società. Questi individui, sostiene Rodman, condividono gli stessi orientamenti di valore del resto della società, ma le loro condizioni materiali di esistenza rendono per essi molto difficile poterli mettere in pratica ed agire in accordo con essi. Allora, per rendere i valori compatibili con (e realizzabili in) tali condizioni, i membri dei ceti più bassi tendono a «stirarli» verso il basso «in modo che anche livelli più bassi di successo diventino desiderabili» (Rodman 1963, p. 209). Rodman fa l’esempio di un uomo che «senza abbandonare i valori del matrimonio e della filiazione legittima, stira questi valori in modo che anche una unione non legale e figli legalmente illegittimi siano desiderabili» (ibidem). Una interpretazione ugualmente culturalista della discrepanza tra valori professati e logiche di azione che si osserva spesso alla base della scala sociale è quella offerta in tempi molto più recenti da Ann Swidler (1986) (sulla quale si veda sopra la nota 11 di questo capitolo). 22 Nell’ambito dei parsonsiani, tra i contributi più rilevanti alla questione del relativismo dei valori vanno certamente ricordati quelli di Clyde Kluckhohn e di sua moglie Florence Rockwood Kluckhohn. Cfr. in particolare Florence Kluckhohn e Fred Strodtbeck, Variations in Value Orientations (1961). 23 Si noti, incidentalmente, che sia in quest’ultima frase sia nella precedente, il secondo dei tre fattori menzionati non è affatto analiticamente equivalente agli altri due. 24 Una delle critiche più importanti che sono state mosse agli studiosi dei valori di classe è che i loro risultati sarebbero diversi se avessero utilizzato una misura relativa, anziché assoluta, dell’ambizione (cfr. in particolare Turner 1964; questa è anche la posizione di Boudon 1973). Se cioè l’ambizione fosse stata misurata con il numero di «gradini» nella scala della mobilità sociale che un individuo deve salire per raggiungere la meta che si prefigge, anziché con il prestigio sociale che nella società è attribuito a quella meta, l’ambizione di riuscita dei membri delle classi dominate sarebbero risultato pari se non superiore a quello dei membri delle classi più privilegiate. Nelle parole di Jean-Claude Combessie, la conclusione di questi studi «presuppone che il sociologo faccia astrazione proprio di quelle differenze sociali che pretende di cogliere a livello dei valori: egli misura l’ambizione sulla base del termine che essa si prefigge e non sulla base della distanza che separa questo termine dal livello sociale (culturale o professionale) della famiglia» (Combessie 1969, p. 17) 25 Una posizione autorevole e maggiormente articolata di quella di Murray nel dibattito attuale sulla sottoclasse è quella di William Wilson (1987, 1993), il quale ha sottolineato la stretta articolazione di fattori strutturali – tra i quali in particolare la segregazione abitativa – e culturali nella generazione delle sacche di povertà urbana persistente. 26 Questa espressione è discutibile perché stabilire in che cosa consista la marginalità sociale (se per esempio ai fini pratici dei rapporti con alcune istituzioni della società come le istituzioni educative essa coincida con l’alterità culturale) e dove essa cominci a «fare problema» sociale per il gruppo studiato (se per esempio i livelli di istruzione raggiunti dai figli dei normali «proletari» siano o meno un «problema sociale») è proprio l’interrogativo di fondo di una analisi culturalista della stratificazione sociale. 27 Attiva già negli anni Cinquanta, con i contributi classici di Ely Chinoy (1952) e Robert Dubin (1956). 28 Il terzo momento dell’analisi culturale, quello del campo della produzione culturale (o dell’economia della cultura), è invece tradizionalmente assente dall’approccio dei Cultural Studies. Questa mancanza 41 costituisce un bersaglio ricorrente di quanti criticano la prospettiva di analisi culturale dei Cultural Studies, e in particolare la sua dimensione più culturalista, per l’eccessivo volontarismo e libertà interpretativa che viene accordata ai fruitori culturali (cfr. per esempio McGuigan 1992; Garnham 1995 [2006]). 29 A proposito di questo incipit di Thompson John Storey scrive: Thompson lavora con la famosa affermazione di Marx sul modo in cui gli uomini e le donne fanno la storia: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione» (Marx 1852, tr. it. p. 46). Ciò che Thompson fa è enfatizzare la prima parte dell’affermazione di Marx (l’azione umana) contro quella che ritiene una enfasi eccessiva degli storici marxisti sulla seconda parte (le determinazioni strutturali). (Storey 2006, p. 39) 30 Questa concezione relazionale e processuale della cultura dei dominati mi pare per esempio bene espressa sempre nella Prefazione a The Making of the English Working Class, nella quale Thompson scrive: Per classe intendo un fenomeno storico, che unisce un certo numero di eventi disparati e apparentemente non connessi tra loro, sia nel materiale grezzo dell’esperienza sia nella coscienza. Sottolineo che è un fenomeno storico. Non concepisco la classe come una «struttura», e nemmeno come una «categoria», ma come qualcosa che di fatto accade (e si può dimostrare che sia accaduta) nei rapporti umani. Inoltre, la nozione di classe implica la nozione di rapporto storico. [...] E la classe accade quando alcuni uomini, come risultato di esperienze comuni (ereditate o condivise), percepiscono e articolano l’identità dei propri interessi tanto tra loro quanto contro altri uomini i cui interessi sono diversi dai loro (e di solito opposti ad essi). (Thompson 1963, p. 10-11) 31 Negli stessi termini Tony Bennett osserva: La sostituzione del concetto di dominio con quello di egemonia non è, come alcuni commentatori hanno suggerito, meramente terminologica; si porta dietro una concezione interamente differente dei mezzi attraverso i quali le lotte culturali e ideologiche sono condotte. Laddove, secondo la tesi dell’ideologia dominante, la cultura e l’ideologia borghese cercano di prendere il posto della cultura e dell’ideologia della classe operaia e diventare così direttamente operative nello strutturare l’esperienza della classe operaia, Gramsci sostiene che la borghesia può diventare una classe dirigente egemonica solo nella misura in cui l’ideologia borghese sia capace di ospitare, trovare uno spazio per le culture e i valori della classe antagonista. Una egemonia borghese è assicurata non attraverso la cancellazione della cultura della classe operaia, ma attraverso la sua articolazione alla cultura e all’ideologia borghese, in modo che, essendo associata a ed espressa nelle forme di quest’ultima, in questo processo le sue affiliazioni politiche vengono modificate. (Bennett, 1986 [2006], p. 95) 32 È questa, per esempio, la prospettiva analitica che è stata applicata a uno degli ambiti di ricerca più noti dei Cultural Studies degli anni Settanta, le subculture degli adolescenti inglesi di classe operaia comparse a partire dal dopoguerra (cfr. per tutti Hall e Jefferson (eds.) 1976; Hebdige 1979), e in particolare le subculture «spettacolari» (Hebdige), vale a dire quelle che si esprimevano principalmente negli stili estetici e nelle scelte di consumo. Le quali sono state lette appunto come manifestazioni di una resistenza sia alla cultura (e all’autorità) dominante sia alla cultura operaia (e all’autorità) della generazione precedente espressa simbolicamente attraverso lo stile e il rituale, e segnatamente «attraverso la ricollocazione e la ricontestualizzazione degli oggetti di consumo, il sovvertimento dei loro usi convenzionali e l’invenzione di usi nuovi» (Beezer 1992, 115). Ma la versione più radicale della concezione della cultura popolare come terreno – e prodotto – di una continua «lotta all’interno della 42 significazione» (Hebdige 1979, tr. it. p. 19), dell’interpretazione e dell’uso dei prodotti dell’industria di massa è certamente quella elaborata a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta nelle cosiddette teorie della resistenza, del consumo produttivo o del consumo antagonista. Una delle più note è la teoria del consumo popolare come insieme di «tattiche» di resistenza dei dominati contro la «strategia» di imposizione della cultura dominante elaborata da Michel de Certeau (cfr. in particolare De Certeau 1990). All’interno dell’area istituzionale dei Cultural Studies, questa posizione è legata alla riflessione più recente di Paul Willis (cfr. in particolare Willis 1990) e soprattutto alla riflessione di John Fiske (cfr. in particolare Fiske 1989a e 1989b). Quest’ultima si caratterizza in particolare per un ottimismo radicale sulla libertà di interpretazione e di uso dei beni di consumo del fruitore popolare, e quindi sulla sua capacità di «resistenza» attraverso questa fruizione «creativa». «Una versione puramente ermeneutica dei Cultural Studies» (Storey 2006, p. 157), in cui né il contesto e le condizioni di consumo né le caratteristiche del prodotto consumato offrono cioè alcuna «resistenza» alla libertà interpretativa del fruitore popolare, il quale nell’atto di consumo stesso è in grado quindi di operare una sorta di produzione di secondo livello. Per la sua radicalità, la posizione di Fiske non ha affatto trovato consensi unanimi nemmeno all’interno degli stessi Cultural Studies. Dove, anzi, «Fiske è generalmente considerato l’epitome di uno scivolamento acritico nel populismo culturale» (ibidem), e la sua posizione «indicativa del declino critico dei British Cultural Studies» (McGuigan 1992, p. 85). 33 Ma confermate molto più tardi e in riferimento al contesto statunitense anche da David Hall (cfr. Hall 1993). 34 In realtà Bourdieu presta molta poca attenzione all’eventualità e alle forme di questo «inceppamento» nel meccanismo di interiorizzazione delle disposizioni. E anzi la sua mancanza di attenzione tanto teorica quanto empirica alle modalità e agli effetti della socializzazione individuale lo conduce a porre come un assunto con validità generale della sua teoria dell’azione il fatto che le disposizioni siano tanto forti (e quindi la loro interiorizzazione sia stata tanto «perfetta») da impedire qualsiasi riflessività dell’azione. La formulazione più seria di questa critica si deve certamente a Bernard Lahire, il quale ha dedicato una parte importanto della sua riflessione e del suo lavoro di ricerca proprio a esplorare e cercare di correggere questo limite della sociologia bourdieuiana dell’azione. Lahire ha più volte sottolineato come la teoria bourdieuiana dell’habitus sia «una teoria della riproduzione “piena”, ma una teoria della conoscenza e dei modi di socializzazione “vuota”» (Lahire 1999a, p. 131), la quale evoca retoricamente l’«interiorizzazione dell’esteriorità» o l’«incorporazione delle strutture oggettive» senza mai dare loro veramente corpo attraverso una descrizione etnografica (o storiografica) e l’analisi teorica. [...] A forza di insistere sul «ciò si riproduce», si è finito per trascurare il «che cosa si riproduce» e il «come, in quali modi, ciò si riproduce». (ibidem) Sulla base di questa critica, a partire dalla metà degli anni Novanta Lahire ha iniziato ad elaborare una revisione della teoria bourdieuiana dell’azione con il nome di sociologia psicologica. In termini estremamente sintetici, il programma di ricerca di Lahire è nato dalla constatazione che molti degli strumenti concettuali della sociologia bourdieuiana, nati per lo studio di unità di analisi di tipo aggregato quali i gruppi sociali, si rivelano poco adatti per studiare l’individuo socializzato in quanto tale. Non solo nella sociologia di Bourdieu si trova un interesse pressoché esclusivo per il sociale nella sua forma aggregata, ma vi si trova anche l’idea che i concetti e i metodi che sono adatti allo studio del sociale nella sua forma aggregata lo siano anche per cogliere quello che Lahire definisce il «sociale individualizzato». «L’epistemologia molto poco weberiana di Pierre Bourdieu», scrive Lahire, «fa sì che egli non sia molto sensibile alla questione delle variazioni di scala nella produzione delle conoscenze sociologiche» (Lahire 1999a, 123). Questo è vero soprattutto per il concetto di habitus, del cui meccanismo di funzionamento a livello individuale la sociologia bourdieuiana offre una comprensione ben ridotta sia per quanto riguarda la sua costituzione, il processo di socializzazione, sia per quanto riguarda le sue modalità di attualizzazione in situazioni concrete. Ed è vero per il concetto strettamente legato di trasmissione culturale. In particolare, se l’assunto bourdieuiano che le disposizioni che compongono l’habitus sono tutte, allo stesso grado e in qualsiasi tipo di contesto, generalizzabili e trasferibili da un dominio di pratiche a un altro non tiene conto della pluralità dei contesti sociali attraversati dall’individuo, l’assunto che tali disposizioni sono tra loro coerenti e omogenee e formano un sistema non tiene conto della pluralità interna dell’individuo, segnatamente della pluralità dei principi di socializzazione dei quali l’individuo è il prodotto. I differenti contesti sociali attraversati possono di volta in volta produrre nell’individuo l’attivazione di certe disposizioni e l’inibizione di altre, e questo a sua volta può accadere 43 perché ciascun individuo è portatore di un insieme di disposizioni non del tutto coerenti e omogenee tra loro che sono il prodotto di un processo di socializzazione complesso. La mancanza di attenzione tanto teorica quanto empirica alle modalità e agli effetti della socializzazione individuale conduce Bourdieu a porre come un assunto con validità generale non solo l’unicità dell’individuo, ma anche il fatto che le disposizioni siano tanto forti da impedire qualsiasi riflessività dell’azione. È questo il modello della logica dell’agire dell’amor fati, dell’adesione immediata e completa ai propri condizionamenti sociali incorporati e del piacere provato a praticare ciò che non si può comunque evitare. Ma questa maniera incantata di vivere i propri condizionamenti sociali come una necessità interna, un gusto personale, designa in realtà solo una delle modalità del rapporto che gli agenti possono intrattenere con le proprie disposizioni, che non è l’unica e nemmeno la più frequente, poiché da un lato richiede delle condizioni di socializzazione particolari – segnatamente, una socializzazione precoce, regolare, intensa, e priva di fenomeni di ingiunzione contraddittoria1 – e dall’altro delle condizioni per la messa in pratica delle disposizioni che siano socialmente gratificanti. Altre condizioni di socializzazione e di attualizzazione delle disposizioni possono fare sì che gli individui non abbiano un desiderio particolare di mettere in pratica le proprie disposizioni, o che addirittura desiderino liberarsene. Lahire invita quindi a distinguere, nell’analisi del rapporto che un agente intrattiene con le proprie disposizioni, tra competenze e appentenze, tra la capacità di fare qualcosa e il gusto o il desiderio di farla. Più in generale, egli afferma con forza che, sebbene la tensione tra azione riflessiva e azione non riflessiva, come quella tra unicità e pluralità dell’agente, sia una delle opposizioni maggiori lungo le quali si oppongono differenti teorie dell’azione e del soggetto agente (cfr. Lahire 1998 e 1996b), «un simile problema non può […] essere risolto sociologicamente nell’ordine strettamente teorico» (Lahire 1996b, p. 88), ma «il problema della natura e dell’organizzazione del patrimonio individuale di disposizioni deve essere posto nel lavoro empirico» (1998). 35 A proposito della imprescindibilità di questa prima dimensione della doppia lettura, Grigon e Passeron osservano molto giustamente: Il bilancio di una cultura popolare che si fondi sull’ipotesi della sua autonomia simbolica può senz’altro avvalersi della tendenza di ogni gruppo sociale a organizzare la propria esperienza in universo coerente, tendenza alla quale nessuna condizione sociale, fosse anche la più infelice o la più dipendente, può impedire completamente il lavoro di messa in ordine simbolico; anche dominata una cultura funziona ancora come una cultura. Si tratta di un effetto del diritto imprescindibile che accorda a ogni gruppo sociale la tesi weberiana secondo la quale ogni condizione sociale è nello stesso tempo il luogo e il principio di una organizzazione della percezione del mondo in un “cosmos di rapporti dotati di senso”. (Grigon e Passeron 1989, p. 21) E aggiungono anche che: Le pratiche e i tratti culturali delle classi popolari si trovano privati del senso che prendono dalla loro appartenenza a un sistema simbolico quando il sociologo dichiara esclusivo il senso che essi traggono dal loro riferimento a un ordine culturale legittimo: infrazione, errore, goffaggine, mancanza di codici, distanza, coscienza vergognosa o infelice di questa distanza o di queste mancanze. Come le cecità sociologiche del relativismo culturale applicato alle culture popolari incoraggiano il populismo, per il quale il senso delle pratiche popolari si realizza integralmente nella felicità monadica dell’autosufficienza simbolica, così la teoria della legittimità culturale rischia sempre, per il suo integralismo enunciativo, di condurre al legittimismo al quale, nella forma estrema del miserabilismo, non resta che conteggiare, con un’aria dispiaciuta, tutte le differenze come mancanze, tutte le alterità come altrettante inferiorità – sia che ciò venga fatto col tono della declamazione elitista o con quello del paternalismo. (ivi, pp. 36-37) 36 Un esempio di questa impostazione analitica relativo all’oggetto empirico della ricerca mi pare sia costituito dagli studi sui valori educativi di classe condotti da Melvin Kohn. Come vedremo meglio più avanti (cfr. sotto il paragrafo 2.2.1), le ricerche sui valori educativi di classe di Kohn si differenziano in modo essenziale dalle numerose ricerche classiche condotte sugli stessi temi dalla generazione di studiosi statunitensi precedente alla sua, tanto nel filone parsonsiano dei valori di classe quanto in quello 44 dell’educazione familiare. Laddove infatti questi lavori classici si limitavano tipicamente a confrontare il grado di adesione a singoli valori educativi dei genitori delle diverse classi sociali, Kohn rende più complessa questa impostazione analitica in due direzioni. Da un lato, si sforza di spiegare l’adesione ai valori educativi con le condizioni di esistenza della famiglia (nello specifico, con il grado di autonomia decisionale della posizione professionale del padre), anziché ritenerli semplicemente proprietà essenziali della cultura della classe considerata. Dall’altro – ed è questo ciò che più ci interessa qui – presta attenzione al senso differente che uno stesso valore può assumere per i membri delle diverse classi. E ritiene in particolare che questo senso specifico non possa essere colto se non prendendo in considerazione i rapporti che questo valore intrattiene con il gli altri tratti simbolici (e quindi anche con il complessivo sistema dei valori) della cultura di classe considerata. Per una discussione dei progressi compiuti dalla riflessione di Melvin Kohn nello studio dei valori educativi di classe nella sociologia americana, cfr. Combessie 1969. 45 46