Lo sguardo che danza* di Alessandro Pontremoli relazione presentata al Convegno “Istituzioni e Università: un passo a due per il pubblico della danza” Siena, Accademia dei Rozzi, 23 maggio 2007. Più volte ho cercato di immaginare la situazione paradossale di un ipotetico osservatore, proveniente da un extra mondo, del tutto ignaro di cosa sia quello che la varie culture umane nelle loro peculiari esperienze cercano di classificare come danza, di fronte ad uno spettacolo nel quale alcuni uomini (“alieni” ovviamente dal punto di vista del nostro ipotetico osservatore) si dimenano nello spazio-tempo in una imprevedibile quanto assurda e del tutto gratuita concatenazione di gesti, azioni, espressioni del corpo, non riconducibili se non parzialmente, ai loro omologhi quotidiani, generalmente carichi, invece, del buon senso nella loro immediata funzionalità pratica. Gratuità e inutilità, per il nostro ignaro osservatore, fanno di quei corpi agitati nelle membra degli scarti di senso, che suscitano immediatamente la domanda circa la natura del loro comportamento: hanno perso il senno? Sono posseduti da una volontà altra? Oppure, da una prospettiva più razionale: stanno comunicando con una lingua di cui ci sfugge il codice? Al di là del banale apologo, quello che mi preme sottolineare è la cruciale centralità dello sguardo nella relazione che si stabilisce fra chi si pone nella situazione di osservare e chi si colloca volontariamente entro la prospettiva di quello sguardo, per essere guardato mentre vive l’esperienza di una corporeità danzante, incarnazione di una «fungenza interiore» portatrice di senso sul mondo e in grado di dare senso al suo agire danzante. È una strana contraddizione il fatto che oggi sia maggiore il numero di persone che si iscrive a corsi in cui si insegnano le prassi delle discipline dello spettacolo (canto, recitazione, danza, ballo da sala ecc.) rispetto ai frequentatori dei teatri. Si tratta di fruitori dell’esperienza, piuttosto che di osservatori, di soggetti stanchi della posizione voyeristica cui le amministrazioni pubbliche e lo stato, con le irrisorie risorse disperse e spesso sperperate per ritorni di visibilità personalistici, tentano di relegarli. Da un lato il sistema dei finanziamenti perpetua un modello di spettacolo borghese “global” e internazionalizzante, ma elitario sia dal punto di vista della fruizione sia dal punto di vista della produzione di codici riservati alla comprensione di pochi, dall’altro il paese reale moltiplica le occasioni di comunicazione e di scambio e frequenta le classi di danza popolare, di liscio, di jazz * Il presente articolo è pubblicato nel contesto del progetto di ricerca internazionale Coreografiar la historia europea: definición de un marco teórico para el análisis de las construcciones del cuerpo en Europa a través de la danza (MECHUM2005-07427) in collaborazione con l’Università di Oviedo (Spagna). www.turindamsreview.unito.it 1 dance e di tango, o va alla ricerca dell’universo festivo e rituale “local” entro le manifestazioni di rievocazione storica, luoghi dove sia possibile essere protagonisti di una corporeità sentita come spontanea e giocata entro ambiti di condivisione comunitaria. Per non parlare, poi, del dilagante fenomeno del teatro e della danza sociali e di comunità, che richiederebbero più tempo per un approfondito discorso a parte. Che il teatro, nel più ampio senso che il termine può assumere nella nostra tradizione occidentale, debba essere ricondotto alla sua matrice rituale è oggi un fatto assodato e ampiamente condiviso, ma che il teatro e a maggior ragione la danza debbano essere considerati riti tout court con una efficacia trasformativa incommensurabile è un’evidenza che solo alcuni modelli teatrali sono in grado di restituirci. Se il teatro dei luoghi deputati, infatti, mostra la stanchezza propria di procedure paramediatiche, snaturate rispetto alla loro matrice originaria; se gran parte di quel teatro, che nonostante la veneranda età si autodefinisce ancora “di ricerca”, sta varcando la soglia della consolidata legittimazione degli Stabili e dei finanziamenti nazionali; se i teatri privati inseguono sempre più il miraggio di una impossibile equiparazione dei loro prodotti con le mitologie massmediali; una danza della resistenza, vecchia o nuova poco importa, da alcuni anni sta profondendo le proprie esili ma tenaci forze per gridare nel deserto di una stagnante prospettiva culturale. E non parlo solo delle compagnie di danza giovani e degli artisti che con la tenacia della solitudine lavorano in condizioni indescrivibili, ma anche della sopravvivenza delle compagnie consolidate e delle istituzioni su cui pesa il compito gravoso del mantenimento efficiente di una tradizione nazionale. È arrivato il momento di riconoscere realisticamente di essere stati lasciati soli. Persino i critici sono in crisi: privati di spazio espressivo, non sanno più chi sono i loro interlocutori. Vedendosi progressivamente erodere i luoghi della loro azione tradizionale, stemperano ormai i passati deliri di onnipotenza parlando unicamente a se stessi, agli artisti, agli addetti ai lavori, sulle poche riviste specializzate che cercano a fatica di sopperire ai vuoti creatisi nei quotidiani, vuoti riempiti sempre più prepotentemente dal cicaleccio mediatico autoalimentantesi. Ma è tutta colpa delle istituzioni? Che cosa rappresenta oggi il corpo che danza? Di chi o di che cosa è incarnazione? Statutariamente il corpo è sempre un medio dialettico fra dimensione personale irriducibile e socialità condivisa, e storicamente i fenomeni e gli eventi riguardanti la danza si sono disposti ora prevalentemente su un versante ora sull’altro, o equamente distribuiti su entrambi. A partire dal Rinascimento il complesso sistema del processo di civilizzazione proprio dell’età moderna è passato attraverso la trasformazione del corpo danzante come test di www.turindamsreview.unito.it 2 appartenenza sociale, strumento di controllo e luogo di potere per orientare pratiche, routine e comportamenti. Nel corso dell’Ottocento, il balletto accademico diviene il portato di una nuova concezione dei rapporti di genere, e, reciprocamente, la matrice di nuove concezioni dei corpi in relazione, dell’idea di maschile e femminile entro una cultura borghese che va alla ricerca delle proprie certezze attraverso la sublimazione dell’arte. Le modernità e le post-modernità novecentesche coreografavano disagi sociali, svolte epocali della storia, sconfitte politiche ed esistenziali, deflagrazioni e perdite, oppure si opponevano ad ogni possibile rappresentazione e ad ogni possibile interpretazione. Ma oggi, di quale corpo e di quale sguardo stiamo parlando? Quali processi culturali sono messi in danza dai corpi dei giovani e meno giovani esecutori dei nostri giorni? E a quale sguardo si rivolgono? A mio parere, lo scollamento fra gli sguardi, cui assistiamo oggi è solo l’estrema conseguenza di un avvio fortunato negli anni Ottanta di una nuova danza vitale quanto promettente, ma segnata fin dalle origini da una deriva estetizzante. Come mi era capitato di scrivere ormai nel lontano 1988: «il coreografo italiano crea […] non a partire da un corpo astratto dalle illimitate potenzialità, né avvertendo questo corpo come strumento docile dell’inconscio. Il suo movimento nasce da una realistica constatazione dei limiti e delle possibilità di un corpo situato e concreto. Se da un lato ciò rende originale la ricerca, dall’altro la lega strettamente al proprio autore rischiando di trasformarsi in un linguaggio concluso». Che cosa possono fare, dunque, le più recenti generazioni se nemmeno i loro più diretti antecedenti godono ancora in Italia di una completa legittimazione artistica? I nuovi giovanissimi danzatori si sono lanciati pieni di entusiasmo in un attivismo senza precedenti, che recentemente si è tradotto anche in prassi di azione politica. Ma sulla scena il pubblico di loro coetanei, quando, e se, va a vederli, non sempre incontra una progettualità forte, accompagnata da strumenti tecnici adeguati. Quest’ultima osservazione un po’ reazionaria potrebbe anche essere trascurata se i nuovi gruppi presentassero nella carne lo spessore della storicità di cui sono inevitabilmente portatori sani, ma non sempre soggetti consapevoli. In questo senso, grandi colpe ha avuto e ancora ha l’università con le sue sclerotiche roccaforti disciplinari. Gli insegnamenti di Storia della danza sono relativamente recenti e hanno lavorato spesso in un clima di abbandono da parte delle istituzioni di riferimento. Solo negli ultimi anni nuove materie come l’estetica della danza o l’analisi delle tecniche sono entrate a far parte dei corsi di laurea. È compito dell’università restituire agli sguardi in gioco il loro spessore storico, la consapevolezza progettuale e critica attraverso il potenziamento delle conoscenze e della visione. I www.turindamsreview.unito.it 3 nostri studenti arrivano nella maggior parte dei casi quasi del tutto a digiuno di spettacoli dal vivo. I modelli acquisiti sono quelli dello spettacolo della dipendenza cui la fruizione massmediologica e multimediale li ha abituati. In qualche caso hanno frequentato corsi di danza, ma vivono nell’illusione della totale neutralità delle tecniche e dei corpi che tali tecniche rappresentano o dalle quali sono rappresentati. Il percorso didattico che fa capo al mio insegnamento di ‘Storia della danza e del mimo’ al DAMS di Torino e che si vale, tra l’altro, delle risorse messe a disposizione dalla Regione Piemonte per il CRUD (centro Regionale Universitario per la Danza ) “Bella Hutter” offre un pacchetto formativo (corso istituzionale, seminari, incontri, laboratori pratici, creazione dell’archivio video ecc.) che tende a fornire gli strumenti per la conoscenza storica della danza, garantendo anche gli elementi fondamentali per l’analisi e la fruizione dei fenomeni. Finalità, obiettivi e intenti formativo-pedagogici possono essere così schematizzati: a) si tratta, anzitutto, di rivitalizzare la facoltà dell’immaginario, componente essenziale per la comprensione dei percorsi rappresentativi e performativi, di educare alla memoria, intesa sia come spessore antropologico sia come capacità di riportare, di restituire, nell’immediato o nella distanza della riflessione, il vissuto di una esperienza traducendola nella nuova forma che essa può assumere oltre lo spettacolo: racconto, intervento critico, saggio scientifico. Imprescindibile per questo percorso è lo studio storiografico, ma altrettanto importante è visionare spettacoli dal vivo o in video, strutturare griglie di osservazione, sulla scorta della storica coreologia labaniana, rivista e corretta alla luce degli stimoli provenienti dalle nuove teorie della percezione proprie della fenomenologia della rappresentazione e dello spettacolo – per inciso, non è più procrastinabile una intersezione fra gli studi coreologicoteatrologici e le neuro-scienze, dopo la sensazionale scoperta dei neuroni specchio e del loro funzionamento particolare in presenza di azione e/o di mimesi. b) l’esercizio critico allena ed affina lo sguardo, senza del quale nessuna relazione fra corpi in presenza e in situazione di presentazione o rappresentazione (per citare un concetto fondamentale dell’antropologia teatrale) risulta comprensibile. Lo sguardo è quello di una soggettività riconoscente dell’altro che lo riconosce: solo questo processo, che possiamo definire affettivo, è quello che differenza l’esperienza dell’essere pubblico/spettatore da quella dell’anomalia voyeristica, di cui si diceva sopra. Si tratta, pertanto, di proporre sempre una o più visioni estetiche, oltre che una posizione storiografica. www.turindamsreview.unito.it 4 c) nella rosa delle cinque “penitenze” legate al vissuto ludico dei bambini della mia generazione, immediatamente dopo il “dire” veniva il “fare” – se vi ricordate le altre erano “baciare, lettera, testamento”. Il fare danza è oggi elemento quasi indispensabile per la crescita del pubblico: quelli che noi cerchiamo di formare all’università di Torino non sono solo spettatori consapevoli e informati – e questo già sarebbe un risultato positivo – abbiamo la pretesa di formare formatori di pubblico consapevole e informato. Chi forma i nuovi sguardi deve indicare il fare come una tappa imprescindibile. Si tratta di un fare metalinguistico, di uno sperimentare, di un mettere il proprio corpo alla prova della performance, senza pretese o illusioni. Si tratta di conoscere e pensare la danza con la danza, di leggere dal di dentro una esperienza che biologicamente (come dimostrano i neuronispecchio) già sappiamo leggere anche senza farla, ma proprio perché la facciamo si invera nel diventare carne. Mai come nella nostra epoca i meccanismi di funzionamento dello spettacolo sono stati così ben recepiti dalla società; mai come in questa società ruoli e rappresentazioni pervadono ogni momento della vita privata e pubblica dei soggetti; mai come oggi, credo, la performatività mediata e mediatica delle nuove tecnologie della comunicazione rivela di essere costruita su meccanismi fictional che del teatro sono derivazioni tradenti. Eppure, questo fascino della finzione e della presentazione mediata di sé è solo il riflesso di una matrice di cui si sono quasi irrimediabilmente perse le coordinate originarie. Mai un tempo così apparentemente tanto teatrale fu più lontano dal teatro. Il paradosso si spiega con una indispensabile distinzione, di cui oggi non si tiene più conto: teatro ed esperienza teatrale non coincidono. Per capire meglio come mai si tenda a dimenticare il secondo di questi due fattori a vantaggio dell’assolutizzazione del primo, è importante osservare come oggi la fonte della soggettività, quella esperienza corporea concreta e ineliminabile che ci costituisce, sia trascurata nella sua complessità e ridotta a mera casuale situazionalità dell’esistenza. Ma se è innegabile che situati siamo, è altrettanto innegabile che anche senza le numerose protesi tecno-biologiche che continuamente ci innestiamo, passiamo la nostra vita a cercare di capire perché ci siamo e dove stiamo andando. Un corpo che danza di fronte al nostro sguardo riconoscente è un corpo che, se anche non può darci risposte e certezze in tal senso, può senz’altro operare un potente risveglio del nostro desiderio. www.turindamsreview.unito.it 5