Economia dei contratti finanziari
Anno accademico 2014-2015
Lezione 3
Costi di transazione o rent-seeking theory
I limiti evidenziati per l’approccio dell’azzardo morale al tema dei confini dell’impresa
spingono a cercare “altrove” la nostra teoria dell’impresa. Una delle interpretazioni della
natura dell’impresa che ha avuto maggiore successo in passato e che è stata al centro di
numerosi lavori empirici è la teoria dei costi di transazione o, seguendo Gibbons (2005), rentseeking theory. I lavori che hanno sviluppato le linee guida di questo approccio sono
Williamson (1985) e Klein, Crawford e Alchian (1978). Prima di procedere oltre, si deve
osservare che l’approccio dei costi di transazione ha per ora limitato la propria azione al tema
dei confini dell’impresa e non ha trovato applicazione in relazione alla determinazione della
struttura finanziaria dell’impresa. La ragione per la quale noi ce ne occupiamo – sia pure
brevemente – è la sua importanza nella teoria dell’impresa.
L’approccio dei costi di transazione vede nell’impresa (ovvero nell’instaurare rapporti di
autorità) la risposta all’inefficienza della negoziazione ex-post volta all’appropriazione di
quasi rendite1. Da qui la definizione alternativa di rent-seeking theory. Illustriamo le linee di
sviluppo di questo approccio mediante una semplice esemplificazione. Ipotizziamo
un’economia in cui operano n agenti economici: un acquirente (buyer) e n-1 potenziali
fornitori (seller). Il buyer trae utilità dal possesso di un bene, la cui produzione richiede la
predisposizione di specifici macchinari che non offrono usi alternativi. E’ questo ad esempio
il caso di una casa automobilistica che impegnata nella produzione di un nuovo modello e
seleziona tra i potenziali fornitori l’impresa che deve provvedere alla fornitura di uno
specifico pezzo (e.g. le luci). Tutti gli n-1 potenziali fornitori sono in grado di fornire alle
medesime condizioni il bene secondo le specifiche richieste dal buyer. Possiamo quindi
ipotizzare che il buyer scelga uno tra i potenziali fornitori e che la concorrenza tra questi
garantisca zero profitto per gli stessi. La condizione di concorrenza che prevale nella fase di
selezione del fornitore cessa di esistere nel momento in cui le parti hanno siglato l’accordo e il
seller predispone le macchine per la produzione del bene richiesto dal buyer: le macchine del
seller sono adatte a produrre solo il bene secondo le specifiche richieste dal buyer e quindi
una volta che l’impianto è pronto il seller non ha alternativa che accettare ogni mutamento
nelle condizioni allo scambio richiesto dal buyer; il buyer a sua volta dipende dal seller per
una rapida fornitura delle parti e quindi a sua volta deve accettare le condizioni allo scambio
Secondo la definizione di Klein, Crawford e Alchian (1979, p. 298) ”….the quasi rent value of an asset is the
value in its next best use…” .
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poste dal seller. Detto altrimenti, lo scambio ha generato una quasi rendita e le parti possono
adottare comportamenti volti all’appropriazione di tale quasi rendita. Ad esempio, il buyer
può chiedere una riduzione verso il basso del prezzo concordato per lo scambio; il seller a sua
volta può chiedere al buyer un incremento del prezzo del bene. Per usare il linguaggio di
Williamson, siamo in presenza di potenziale hold-up del buyer da parte del seller e viceversa.
Si noti che tali comportamenti opportunistici non sono efficacemente prevenibili per vie
legali. I costi dell’esecuzione di un contratto possono essere elevati; nella maggior parte delle
circostanze l’elemento cruciale è la mancanza di tempo: lo scambio deve essere completato
rapidamente perché sia fruttuoso; infine, l’incompletezza contrattuale limita il ricorso alle vie
legali. Le parti che anticipano la possibilità di comportamenti opportunistici adottano delle
misure di auto-assicurazione. Nel nostro esempio la principale misura di auto-assicurazione
che le parti posso intraprendere è una forma di sotto-investimento. Il seller installa macchinari
che sono in grado di produrre secondo specifiche tecniche standard così che, a fronte di
comportamento opportunistico da parte del buyer, possa utilizzare con modesti costi di
risettaggio lo stesso macchinario per servire altri clienti. Ne segue che il bene prodotto dal
seller può essere utilizzato dal buyer solo dopo ulteriore lavorazione, riducendo così il valore
dello scambio tra buyer e seller. Il buyer da parte sua può installare capacità produttiva presso
i propri impianti in modo da avere un margine di manovra a fronte di un comportamento
opportunistico del seller: qualora tale comportamento si materializzasse, il buyer
risponderebbe producendo in proprio parte dei pezzi. Come tutte le assicurazioni, le misure
scelte da buyer e seller sono costose: proprio perché i pezzi devono essere adattati dal buyer e
perché questo ultimo installa impianti per la produzione in caso di opportunismo del seller, i
costi di produzione sono più alti rispetto a quelli che avremmo se le parti potessero essere
certe che nessuno avrà comportamenti opportunistici. Williamson suggerisce che i
comportamenti opportunistici possono essere eliminati mediante l’integrazione verticale: il
buyer acquista gli impianti del seller e ciò elimina la quasi rendita e l’incentivo a
comportamenti opportunistici, così annullando le distorsioni sugli investimenti ex-ante.
L’impresa è quindi la risposta ai costi associati alla gestione dello scambio via mercato.
I costi del mercato, i costi dell’impresa: Nell’approccio di Williamson, i costi di condurre lo
scambio attraverso il mercato sono tanto più elevati quanto più elevate sono le quasi rendite;
le quasi rendite a loro volta dipendono dal grado di sostituibilità ex-post di ciascuna parte
nello scambio: tanto meno le parti sono sostituibili, tanto più elevate sono le quasi rendite. La
nozione di sostituibilità delle parti è catturata da Williamson in termini di specializzazione
degli assets alla relazione: tanto meno numerosi e remunerativi sono gli usi degli assets al di
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fuori della relazione, tanto maggiori sono le quasi rendite generate dalla relazione stesso.
Williamson parla di ex-ante specific investments o di dedicated assets. Indichiamo con k il
grado di specificità degli assets. Il costo di usare il mercato per regolare lo scambio tra buyer
e seller è crescente in k. Sia tale costo M k  ; abbiamo quindi: M 0  0 , M k   0 e
M k   0 . Se il costo di usare il mercato è crescente in k, cosa limita la dimensione
dell’impresa? In assenza di costi associati al trasferimento della relazione dal mercato
all’impresa, questa ultima è una modalità di governance superiore al mercato per ogni valore
positivo di k e non inferiore al mercato per k  0 . L’impresa quindi dovrebbe sostituirsi al
mercato e continuare a crescere in dimensione, nel senso di racchiudere entro i propri confini
un numero crescente di relazioni. Per avere la coesistenza di mercato e impresa dobbiamo
introdurre un costo di gestione della relazione di scambio mediante l’impresa. Williamson
opta per i bureacratic costs of internal governance [Williamson (1985), p. 91]. Nella visione
di Williamson, l’impresa non è in grado di replicare al proprio interno gli incentivi che il
mercato offre e quindi trasferire relazioni dal mercato all’impresa equivale a ridurre
l’incentivo all’impegno2. L’impresa è quindi assimilabile ad una burocrazia, ovvero ad una
organizzazione dove gli agenti sono remunerati in base al rispetto delle procedure e non al
risultato conseguito. Quale è la relazione tra i bureacratic costs of internal governance e il
grado di sostituibilità delle parti, ovvero k? Per Williamson, tali costi sono connaturati
all’impresa e quindi presenti per k  0 . Siano essi  k    0  0 per ogni k  0 . Williamson
esclude che tali costi siano crescenti in k, perché come egli stesso osserva all’interno
dell’impresa “asset specificity is insubstantial” [Williamson (1985), p. 132]. Possiamo quindi
scrivere
il
vantaggio
di
costo
del
mercato
rispetto
all’impresa
come
segue:
Gk    0  M k  . Per k  0 , G0   0  0 : il mercato è superiore all’impresa. Al
crescere di k, i costi di gestione della relazione attraverso l’impresa non si modificano mentre
i costi di mercato crescono. Avremo quindi un valore di k per il quale Gk   0 . Sia tale
valore k : per k  k , il mercato è preferibile all’impresa; per k  k l’impresa è la modalità
organizzativa da preferire.
L’approccio di Williamson ci mette di fronte a una teoria che predice il prevalere dell’impresa
sul mercato in quanto in grado di prevenire comportamenti opportunistici ex-post, ma che per
definire i limiti dell’impresa deve ricorrere al deus ex machina dei costi burocratici. E’ una
situazione soddisfacente? In realtà, no. Come scrive Gibbons (2005, p. 220) “What is
Si noti: non all’investimento ex-ante, perché questo è ridotto proprio dalla collocazione della transazione nel
mercato.
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unacceptable in an unified theory of the firm, however, is to allow any particular source to
have an influence on (say) the costs of integration, but to simply assume that this source has
no influence on the benefits.” .
Osserviamo inoltre che la presenza di investimento ex-ante non è condizione necessaria per
avere una teoria dell’impresa basata sui costi di transazione. Viceversa, le inefficienze della
negoziazione ex-post sono il vero motore della teoria. A solo scopo esemplificativo, si
consideri un’economia in cui operano come in precedenza un buyer e n-1 potenziali fornitori
(seller). Il buyer trae utilità dal possesso di un bene, la cui produzione può essere effettuata da
ogni seller per una somma pari a 20 (per ulteriore chiarezza: non sono richiesti specifici
macchinari per la produzione del bene). La valutazione che il buyer dà di un’unità del bene
dipende dal realizzarsi di una variabile stocastica, così che con probabilità ½ il buyer valuta
un’unità del bene 30 e con probabilità ½ valuta un’unità del bene 24. Il seller non osserva la
realizzazione della valutazione del buyer. Le parti si incontrano nel mercato e negoziano il
prezzo al quale cambiare il bene. Per semplicità e senza perdita eccessiva di generalità,
supponiamo che sia il seller a proporre un prezzo per lo scambio e che il buyer possa solo
accettare o rifiutare3. Poiché il seller non osserva la realizzazione della valutazione del buyer,
è nell’interesse del buyer dichiarare di avere una valutazione bassa per il bene (24); ed è
nell’interesse del seller non credergli! Se si rifiuta di accettare un prezzo inferiore a 30, ha un
payoff atteso pari a 5. Infatti lo scambio avviene con probabilità ½ e con surplus pari a 104.
Ogni prezzo 24  p  30 lascia il payoff del seller inalterato rispetto a p  30 e quindi se il
seller considera un altro prezzo è p  24 . Tale prezzo gli garantisce un surplus pari a 4 e
quindi il seller insiste su p  30 . Quindi se la valutazione del buyer è bassa, le parti non
scambiano e abbiamo una perdita di efficienza perché anche in questo caso il beneficio per il
buyer dal possesso del bene eccede il costo del seller di fornire il bene stesso. L’integrazione
verticale mette fine a queste forme di negoziazione inefficiente: in questo caso il seller è un
“dipendente” del buyer il quale gli corrisponde una remunerazione pari al costo dello sforzo.
Le predizioni del modello e l’evidenza empirica: A prima vista l’evidenza empirica a
favore della teoria dei costi di transazione sembra numerosa e robusta. La maggior parte degli
studi sono cross-section o modelli logit e probit dove la variabile dipendente è la decisione di
integrazione verticale e la variabile indipendente una qualche misura della specificità degli
L’esito del processo negoziale è generalmente dipendente dal protocollo negoziale scelto (una sola offerta
prendere o lasciare; offerte alternate da seller e buyer ecc); la presenza di asimmetria informativa determina
inefficienza nello scambio per la maggior parte dei protocolli negoziali.
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Il buyer acconsente alla richiesta del seller solo quando ha una valutazione pari a 30. Poiché il costo di
produzione è pari a 20, in caso di scambio il seller realizza un surplus pari a 10.
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assets impiegati nella produzione. Tra le misure più usate per la specificità degli assets,
ricordiamo5:
i) specificità del capitale fisico: tale specificità è sovente misurata mediante misure soggettive
raccolte attraverso interviste alle imprese e al crescere della stessa dovrebbe aumentare la
probabilità di osservare integrazione verticale
ii) specificità del capitale umano: tale specificità è espressa mediante indicatori dell’intensità
di training richiesto agli agenti; al crescere dell’intensità del training dovrebbe aumentare la
probabilità di integrazione verticale
iii) dedicated assets: la presenza di specializzazione degli assets nella relazione è misurata
come la quota di fatturato del seller imputabile ad un solo cliente; al crescere di tale quota
dovrebbe aumentare la probabilità di integrazione verticale
iv) site specificity: la prossimità fisica tra seller e buyer rende più costose le transazioni con
partner geograficamente più distanti e quindi dovrebbe aumentare la probabilità di
integrazione verticale per prevenire hold-up.
Le predizioni in i)-iii) trovano conferma nell’evidenza empirica, mentre la site specificity non
presenta una relazione sistematica con la decisione di integrazione verticale.
Questo costituisce un primo campanello d’allarme! In effetti noi abbiamo molta evidenza
aneddotica che descrive situazioni per le quali le quasi rendite sono elevatissime e ciò
nonostante le relazioni sono gestite per via contrattuale6. L’evidenza aneddotica ci induce ad
una riflessione sulle strategie adottate per testare la teoria dei costi di transazione. Si deve
osservare infatti che i lavori empirici hanno stimato in prevalenza una relazione del tipo
G  a0  a1k   , dove il segno atteso per a1 è negativo. Questa formulazione è compatibile
con l’argomento di Williamson che i costi di transazione sono confinati al mercato. Ma un
coefficiente a1 negativo e significativo non è evidenza a sostegno dell’ipotesi dei costi di
transazione. Si noti infatti che l’interpretazione in senso di causalità della relazione
G  a0  a1k   poggia sull’ipotesi non testata che  k    0  0 , ovvero che i costi di
internal governance siano insensibile al grado di specificità degli assets. Ipotizziamo invece
 k  con  0   0  0 e  k   0 . In questo caso possiamo avere Gk   0 anche per
 k   0 e M k   0 : è possibile osservare integrazione verticale anche quando la
specificità non impatta sui costi di gestire la relazione attraverso il mercato, vale a dire
l’ipotesi dei costi di transazione non è valida. Come scrivono Masten, Meehan e Snyder
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Si veda Lafontaine e Slade (2007).
Si vedano su questi i numerosi lavori di Paul Joskow.
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(1991, p. 2), l’approccio econometrico più seguito “is unable to distinguish whether observed
patterns of organization resulted from hypothesized changes in market transaction costs or
from systemic, but as yet unexplored, variations in the costs incurred organizing production
internally.” In altre parole, l’evidenza empirica a sostegno della teoria dei costi di transazione
è meno robusta di quanto appaia a prima vista.
Soddisfatti? Siamo di nuovo nella condizione di affrontare il quesito: abbiamo una teoria
dell’impresa? Abbiamo discusso nelle precedenti sezioni i limiti della teoria dei costi di
transazione e non è il caso di dilungarsi oltre. Per le ragioni esposte sopra, la teoria dei costi di
transazione non può essere considerata una convincente teoria dell’impresa.
Riferimenti bibliografici
Gibbons, R. (2005), Four Formal(izable) theories of the firm?, Journal of Economic Behavior
& Organization, 200-45.
Klein, B., K. Murphy e A. Alchian (1978), Vertical Integration, Appropriable rents and the
Competitive Contracting Process, Journal of Law and Economics, 297-326.
Lafontaine, F. e M. Slade (2007), Vertical Integration and the Firm Boundaries: The
Evidence, Journal of Economic Literature, 629-85.
Masten, S., J. Meehan e E. Snyder (1991), The costs of organization, Journal of Law,
Economics & Organization, 125-47.
Williamson, O. (1985), The Economic Institutions of Capitalism, Free Press, New York.
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