miniature dalla serbia

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MINIATURE DALLA SERBIA
Danka Perovic
La miniatura, come forma artistica, nasce in Serbia nel XII secolo. Le prime miniature che si
trovano negli evangeli furono fatte sotto le influenze provenienti dal Sud-Italia dove si incrociavano
lo stile romanico e bizantino. Nel XIV secolo nacque l'intreccio denominato "il tipo balcanico". Gli
artisti che lo svilupparono inizialmente erano Greci e poi pittori e calligrafi Serbi. Le due miniature
qui presentate, furono disegnate una nel 1520, e l’altra sempre nel XVI secolo, ma non abbiamo
l'anno preciso e, purtroppo, neppure i nomi dei maestri. Sempre in questo periodo l’artista
"Giovanni di Kratovo" (oggi repubblica di Macedonia) inserisce dei motivi floreali nell’originale
modello costituito dall’arte islamica. Le forme caratteristiche per gli intrecci sono la quadrata, la
croce, il cuore, cerchi e diagonali con intrecci.
Codice DUSAN
Codice VENIJAMIN
Il primo disegno deriva dal codice di Tzar Dusan, il primo codice Serbo scritto nel 1349
(http://it.wikipedia.org/wiki/Du%C5%A1anov_Zakonik). Si trova su una delle venti copie di codice
di Dusan, deominato il "codice di Prizren" perché fu trovato a Prizren, città del sud Serbia (in
Kosovo). La copia è del 1520. Per avere ulteriori approfondimenti su questo tema si segnala:
http://ilsileno.it/2012/08/05/influenze-del-romanico-pugliese-negli-scriptoria-serbi-il-codice-del-pri
ncipe-miroslav/
ANATOMIA DI UN DELITTO
Marco Lazzarato
“L’ornamento è delitto”, affermava Adolf Loos nei suoi deliri proto-nazisti d’inizio ‘900,
teorizzando così quello stile “minimalista” espressione del fanatismo luterano, che, a seguito di
varie vicissitudini, s’impose poi come lo stile della modernità novecentesca. Noi, oggi, assuefati al
dogma delle “bianche muraglie” vissuto come verità rivelata, osserviamo gli antichi ornati con un
misto di sbigottimento e morbosa curiosità. Ci impressiona l’efferatezza del crimine perpetrato
contro la superficie “bianca e liscia”, ma, nel contempo, siamo morbosamente attratti dalla diabolica
abilità criminale del suo autore. Ignari di cosa si nasconda sotto la pelle e i muscoli di tali
invenzioni, perché condizionati dal personalismo della moderna cultura individualista, che nega
l’esistenza di strutture compositive regolari e rigorose, leggiamo queste realizzazioni come puri
aggregati segnici, catalogabili solo come estemporanee calligrafie, eseguite di getto da un ornatista
virtuoso si, ma evidentemente psicopatico.
Il nostro proponimento è di analizzare in questa sede due efferati delitti, perpetrati nel campo della
miniatura dei codici, proprio quel settore cioè che l’austera morale editoriale derivata dalla luterana
stampa a caratteri mobili, considerava più “degenerato”.
Per un maestro ornatista intervenire su un qualsiasi manufatto impone sempre un compromesso fra
la propria volontà e le possibilità date dai costi, dai materiali e dalla funzione dello stesso. Suo
vincolo ineludibile, infatti, è la necessità di governare in modo inequivocabile la filiera di
maestranze (tagliapietre, posatori oppure ebanisti, intagliatori eccetera) che poi dovranno
realizzarne il disegno. Questo impone al maestro ornatista disegni chiari e regolari, nei quali la
griglia costruttiva diventi sicuro binario su cui far scorrere tutta la successiva procedura costruttiva.
La miniatura, invece, comportando solamente l’uso di penna e inchiostro, si piega docilmente alla
volontà dell’ornatista, consentendogli di dare libero sfogo alle sue invenzioni avendo come unico
limite il proprio virtuosismo.
Due miniature Serbe del XVI sec. ci forniscono il pretesto per scavare in profondità su questa
tipologia di ornati, al fine di comprenderne meglio le strutture compositive.
Il “Maestro di DUSAN”, autore della prima miniatura, sarebbe stato definito da Loos un assassino
seriale, perchè uccide il biancore delle pagine ricorrendo ad una “modus operandi” ripetitivo e
regolare. Egli parte dalla comunissima griglia ortogonale di otto moduli e ne intreccia i segni.
Metodo classico, comune a tutti i miniaturisti d’Europa. La famiglia di ornati di cui si tratta è
l’”intreccio”, che spazia dalla semplice “treccia” a correre, per arrivare, attraverso complesse
composizioni centrali, al “nodo” vero e proprio. Una delle basi per la realizzazione di tali ornati è
appunto la griglia ortogonale (l’altra è il sistema a punti) nella quale si interviene tagliando i fili
posti su altezze diverse e collegandoli fra loro in modo da incrociarli. Il sistema è concettualmente
semplice (il filo sopra si collega a quello sotto e viceversa) ma richiede una grande maestria per
ottenere risultati esteticamente apprezzabili. L’operazione di “taglia-cuci” si attua solo sul pattern,
saranno poi le sue riflessioni speculari a generare l’intero motivo a intreccio. Il virtuosismo in
questo tipo di composizioni consiste nel trovare il punto di equilibrio in cui l’intreccio è totalmente
inventato dall’artista, ma l’ordine dato dalla griglia rimane ancora leggibile. Banali infatti sono gli
intrecci pedantemente eseguiti sulla griglia, astrusi sono invece quelli che la ignorano
completamente. Maestri di quest’arte furono i calligrafi irlandesi (citiamo l’Evangelario di
Lindisfarne come esempio), tant’è che questo tipo di realizzazioni oggi noi le chiamiamo
genericamente “arte celtica”. Curioso però è il fatto che, in realtà, analoghi modelli si trovino anche
nell’arte islamica (e la miniatura di DUSAN ne testimonia l’irradiazione attraverso i Balcani) al
punto che Jurgis Baltrusaitis nel suo ottimo saggio “Il medioevo fantastico” (Ed. Adelphi)
attribuisce proprio ad una importazione di modelli islamici la genesi di queste composizioni nel
nord Europa. Noi invece riteniamo il tutto riconducibile ad un comune matrice Romana, ma non
andiamo oltre nell’affrontare un tema complesso che meriterebbe una trattazione a sé.
Criminale diabolico e psicopatico, invece, sarebbe stato definito da Loos il “Maestro di
VENIJAMIN”. Qui siamo di fronte ad un intreccio pensato come tale e non ottenuto dal lavoro di
“taglia-cuci”. La griglia base viene sostituita da una complessa matrice “stellare” ottenuta con una
stella a sedici punte portata in riduzione per sei volte. In pratica, per essere chiari, si costruisce una
stella madre a otto punte incrociando a 45° due quadrati inscritti in una circonferenza. Seguendo le
sue linee mediane interne si procede per altre sei volte al disegno della successione rombo-quadrato
inscritti in ognuno dei due quadrati di partenza. Si ruota poi la stella madre in modo che gli apici
coincidano con le bisettrici della precedente (si costruisce in pratica la stella a sedici punte) e si
ripete l’operazione di riduzione rombo-quadrato per altre sei volte. Il risultato è una complessa
matrice che consente di organizzare sui punti della prima stella a otto punte gli intrecci primari e su
quelli dell’altra i secondari. Punto chiave del sistema, però è la partenza dell’intreccio dal centro.
Qui Loos avrebbe lanciato tutti i suoi strali di fronte a tanta perversione. L’intreccio centrale, infatti,
scaturisce da due stelle di Betlemme costruite l’una sulla prima (contando la centro) e sulla terza
riduzione e l’altra sulla terza e sulla quinta, in modo che i limiti esterni della prima incrocino quelli
interni della seconda consentendo l’intreccio: veramente diabolico! A margine va osservato che la
stella di Betlemme, che oggi sopravvive come motivo tradizionale per patchwork, è figura assai
curiosa. Si ottiene dividendo in quattro quadrati minori il lato di un quadrato e congiungendo verso
l’interno le diagonali dei due centrali. Se però si costruisce un nuovo quadrato sulle due punte a 45°
si scopre che esse ne dividono il lato in tre parti uguali anziché in quattro. Risultato è che la stessa
costruzione genera due figure apparentemente diverse in base al lato di appoggio. Il maestro di
VENIJAMIN procede poi oltre, perché il tutto è poi finito in un spazio quadrato lasciando intendere
che gli ulteriori riempimenti sono poi organizzati sulla matrice quadrata (la MATRIX propriamente
detta) che però in questa sede non analizziamo.
Croce di Betlemme, disegno sopravvissuto come tradizionale motivo per patchwork.
Questa breve indagine forense sulle strutture interne di due splendidi esempi di miniatura a
intreccio, non ci deve portare però a conclusioni ottimistiche: una cosa infatti è capire come sono
state fatte, altra cosa è invece sapere come hanno fatto a farle. Quanto detto in precedenza dimostra
sicuramente un punto: non siamo di fronte a disegni eseguiti d’impeto direttamente sulla pagina,
come il mito romantico della calligrafia ci suggeriva, ma a complesse composizioni risolte altrove e
li riportate. Sui sistemi di riporto non dovrebbero esserci dubbi. Sicuramente lo “spolvero” (disegno
forato attraverso cui si fa passare della polvere di carbone) è il più probabile, ma anche il ricalco da
“tavolo luminoso” potrebbe essere plausibile. Vi è infatti una illustrazione di un diffuso libro di
modelli per ricamo del XVI Sec., ad opera di Zoan Andrea Vavassore, detto il Guadagnino, nella
quale l’autore mostra come si debbano trasporre i suoi modelli sulla stoffa, indicando, fra gli altri
metodi, l’uso di una candela posta sotto un telaio in cui è tesa la stoffa e l’appoggio dello stesso
telaio ad una finestra al medesimo scopo. Più difficile è invece capire come sia avvenuta la
progettazione. La costruzione della matrice su carta è cosa certa, ciò che non è chiaro è il successivo
processo di elaborazione del motivo, che certamente avrà implicato diversi tentativi. I ricettari
tradizionali ci descrivono sistemi per creare carta da “lucido”, usando una definizione moderna,
attraverso l’uso di oli siccativi, cere e solventi, siamo autorizzati perciò a pensare che tali sistemi
fossero in uso anche in epoche antiche, perché altro modo per costruire un disegno su matrice non ci
viene in mente. Terzo punto non chiaro è il dimensionamento del disegno finale per lo spolvero o il
ricalco. Presupponiamo che il lavoro di progettazione si possa svolgere solo su dimensioni maggiori
rispetto a quelle del disegno finale, spesso piccolissimo, e che quindi il pattern subisca un processo
di riporto (con punti fissi o con retino di riporto) verso le dimensioni definitive prima di essere
ribaltato. Come si diceva, però, presupporre è una cosa, verificare sul campo è un’altra.
L’intreccio è una famiglia basilare per l’ornatistica perché consente la fusione fra la mistica
perfezione delle griglie strutturali con l’arbitraria interpretazione da parte dell’artista. Questo ne fa
un motivo chiave sia sul versante religioso, basti citare tutta l’arte islamica o gli evangelari
medioevali, che su quello laico, pensiamo solo a cosa ha prodotto l’800 in questo campo. Il ‘900,
ossessionato dai propri miti meccanicisti, non è più stato in grado di disegnare questo motivo,
limitandosi saltuariamente a riprodurre fotograficamente modelli storici, rimarcando così il proprio
totale distacco rispetto ad una radice culturale essenziale nella storia dell’umanità. Recuperare oggi
la capacità di progettare un intreccio, anche solo sul piano laico del mero ornamento, è questione di
vitale importanza, non solo per il divenire della Decorazione.
Rovigo febbraio 2014
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2014 Marco Lazzarato
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