instant book - Aracne editrice

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instant book
collana diretta da Simonetta Lux
coordinata da Domenico Scudero
Partiture
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Arte e formazione
Supplemento al periodico
l u x f l u x proto-type arte contemporanea
w w w. l u x f l u x . n e t
Simonetta Lux
direttore
[email protected]
Pietro Barcellona
direttore responsabile
Domenico Scudero
Coordinamento
editoriale
Patrizia Mania
Caporedattore
Lucrezia Cippitelli Elisabetta Cristallini Fabrizio Lemme
Augusto Pieroni Domenico Scudero
redazione
[email protected]
MLAC
www.mlac.it
supervisione del progetto
Ines Paolucci Daniele Statera
[email protected]
progetto grafico
malc
www.malc.it
impaginazione
ARACNE EDITRICE S.R.L.
editore
Via R. Garofalo, 133 a-b
00173 Roma
www.aracneeditrice.it
per conto di
L.H.O.O.K Via Reggio Emilia, 52
00198 Roma - Tel. 0649910365
Registrazione presso il Tribunale di Roma
n. 632 del 21/11/02
Supplemento al n. 16-17-18
isbn 88-548-0875-X
I edizione: novembre 2006
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Daniela Tortora
Mauro Bortolotti
la creazione musicale
nei territori di confine fra le arti
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Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Università di Roma “La Sapienza”
Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Università di Roma “La Sapienza”
Archivio storico della musica contemporanea/MLAC
Corso di laurea in Scienze storico-artistiche della Facoltà di Scienze Umanistiche,
Università di Roma “La Sapienza”
Associazione per la musica contemporanea “Nuova Consonanza”
Assessorato alla Cultura del Comune di Narni
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Indice
- Luca Bortolotti,
Ispirazione e traspirazione
- Daniela Tortora,
Laudatio (“O poeta è um fingidor”)
5
9
Parte Prima - Saggi
- Paolo Emilio Carapezza,
I bei colloqui
18
- Daniela Tortora,
Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti
21
- Paolo Rotili,
Gesto e narrazione nella musica per archi
58
- Francesco Rimoli,
46
Suoni nelle parole, parole nei suoni. Mauro Bortolotti e il testo in musica
- Alessandro Mastropietro,
E tu?: un (non-)teatro musicale ‘novissimo’
nel contesto romano degli anni Sessanta
- Daniela Tortora,
Intorno a John Berryman: LetturAzione
80
96
- Salvatore Enrico Failla,
113
Esoterismo di timpani e fiati per Giordano Bruno da Mauro Bortolotti
Parte Seconda - Testimonianze
- Guido Baggiani,
Mauro Bortolotti fra i margini indefiniti dei due secoli
- Mario Bertoncini,
A Mauro
- Bruno Cagli,
Per troppo amore terreno: Tornando a casa ubriaco,
Nei boulevards dove il poeta porta
126
134
135
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- Antonio Capaccio
In ascolto
136
- Patrizia Cerroni,
Bortolotti/Cerroni, due amici onesti e coraggiosi
151
- Simonetta Lux,
C'est ici que l'on prend le bateau (o: la dis-cronica)
153
- Cristina Cimagalli,
Mauro Bortolotti maestro e allievo, un’intervista
155
- Aldo Clementi
162
- Massimo Coen,
a Mauro Bortolotti
163
- Alfredo Giuliani,
Caro Mauro
167
- Daniele Lombardi,
Caro Mauro
170
- Luca Lombardi,
W i poeti! Per Mauro Bortolotti
173
- Ennio Morricone
176
- Piero Mottola,
Per Mauro Bortolotti: memoria ed esperienza
di un’opera a quattro mani incompiuta
177
- Maria Chiara Pavone,
Non solo musica: un incontro speciale
185
- Elio Pecora,
A Mauro nel suo ottantesimo anno
190
- Achille Perilli,
Ricordi lontani di un’amicizia
191
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Pagina 7
- Attilio Pierelli,
Caro amico, maestro Mauro Bortolotti
193
- Giovanni Pizzo,
195
L’amico del suono. Rappresentazione scenico-musicale
in un’ouverture, tre movimenti e un’intervista in quattro domande
- Boris Porena,
Un augurio coetaneo (quasi) a Mauro Bortolotti
204
Parte Terza - Scritti di Mauro Bortolotti (1981-2003)
Testo cantato/ Testo parlato
208
Brevi note intorno alla salute dei teatri
210
Sulla scuola sperimentale di composizione e… d’altro
214
Paesaggi intravisti
218
A proposito di ‘modernità’ non sovvenzionata…
222
Musica e poesia
224
Tributo per il maestro
228
Parte Quarta - Archivio fotografico
232
Parte Quinta - Apparati
Biografia
248
Catalogo delle opere (1953-2006)
Indice cronologico delle opere
Indice alfabetico delle opere
253
271
274
Bibliografia
Discografia
Indice dei nomi
277
281
284
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Al caro Mauro
buonissimo lettore
di poesie e altro
(per non parlare della musica)
Alfredo Giuliani, 2003
Non cambia vita la poesia
Forma di bugia che include il vero
Arte del dire sghembo innominando
Ritmo del premonire
Alfredo Giuliani, 2004
Il sacrificio della patria nostra è consumato
Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, 1798
In peggio precipitano i tempi
Giacomo Leopardi, VI Canto, Bruto minore, 1821
L’arte vera è messa in concorrenza con i sottoprodotti culturali […]
la confusione è arrivata al colmo
Roberto Rossellini a Palmiro Togliatti, 1.III.1961
L’indagine sulla evitabilità ha carattere meramente eventuale, ponendosi solo se è accertata la
prevedibilità; per escludere l’evitabilità, si richiede che l’evento risulti inevitabile in ogni momento
a partire dal momento in cui lo si può considerare prevedibile. Il rimprovero consiste, appunto,
nel non aver evitato un evento prevedibile; per cui, se l’evento prevedibile non è mai stato
evitabile, l’evento non può essere addebitato all’agente.
Estratto dalla sentenza sul disastro del Vajont del 17.XII.1969, depositata al Tribunale
dell’Aquila il 20.IV.1970
a Simonetta B., in memoriam
Roma, 29.X.2006
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Ispirazione e traspirazione
Luca Bortolotti
Romantico per indole e per predilezioni artistiche, papà, non senza una
punta di civetteria, si compiaceva spesso di citare la famosa frase attribuita
(fra gli altri) a Hindemith, vigorosamente anti-romantica, secondo la quale
il “genio” sarebbe assai più frutto di (metaforica) traspirazione che di ispirazione. In questa citazione era da cogliere da parte sua una sorta di
intenzione programmatica, un progetto poietico e didattico imperniato
sulla fede nell’applicazione metodica e nel setaccio evolutivo che ne deriva, nonché nei sicuri benefici del magistero tecnico sulla qualità artistica.
Ma nella predilezione che papà aveva per quel dictum icastico era racchiusa, assieme a un’espressione di insofferenza ai luoghi comuni, anche un
bisogno di controllo e perfino di ribellione rispetto a certi “pericolosi”
dettami della propria natura.
In effetti, la sua attività creativa (ma direi più in generale la sua personalità,
assai meno trasparente di quel che potesse apparire) è stata sempre
attraversata da una sotterranea e nutriente conflittualità tra gli atteggiamenti di fondo e le concrete prassi operative, che corrispondeva, volendo
schematizzare in una formula, a una faticosa concordanza tra l’approccio
all’arte e quello alla vita, traducendosi in una costante controversia tra
rigore e approssimazione, tra severità e disincanto, tra profondità e leggerezza, tra ordine e caos.
L’immagine più pubblica di papà insisteva, così, su una certa ostentazione di
basso profilo genuinamente auto-ironico e garbatamente smagato, come
pure su un’attitudine alla sdrammatizzazione costantemente sorretta dal
suo caratteristico sense of humor. “Non mi piace la musica mia, figuriamoci
quella degli altri”, rispose una volta, senza nessuna supponenza e sin quasi
con candore, a un collega che gli chiedeva un giudizio dopo un concerto in
cui erano state eseguite molte opere nuove. Ma al lato opposto, e più privato, di tanta rilassatezza demitizzante si situavano il rovello incessante e la
lenta macerazione, l’ardua responsabilità e persino la sofferenza della creazione, la gioia silenziosa della soluzione giusta lungamente inseguita e faticosamente raggiunta, che accompagnavano ogni nuovo cimento, dilatandone i
tempi (soprattutto nella fase progettuale e del primo sviluppo), alimentan-
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LUCA BORTOLOTTI
do l’ansia della pagina bianca e, pressoché dopo ogni prima esecuzione,
innescando un processo sovente interminabile di revisione e riscrittura.
In questa dinamica tormentata, penso che papà recasse i segni incancellabili della sua formazione di giovane provinciale che da Narni aveva deciso
di fare il musicista, proveniente da una famiglia modesta che non aveva
alcun legame con l’arte. Fu così che egli s’iscrisse nell’immediato dopoguerra al conservatorio di Santa Cecilia, forte di un bagaglio psicologico in
cui coesistevano contraddittoriamente ma propulsivamente certezze e
insicurezze, e nella convinzione di avere intrapreso un cammino che vantava i crismi della scelta moralmente giusta.
Il sentimento dell’indispensabile emancipazione dalla “provincia”, in quanto
categoria culturale che implicava a ogni livello arretratezza, sordità nei
confronti del nuovo, immutabilità degli ordini costituiti, condusse mio
padre, come tanti altri musicisti e artisti della sua generazione, a percepire
l’opzione in favore dell’avanguardia, prima ancora che come un’opportunità estetica, poetica o politica, come un imperativo etico. Egli intese e
visse l’anelito alla ricerca dell’inesplorato, la curiosità e la fiducia nei confronti del nuovo, la fede nella naturalità dei processi di cambiamento e
progresso, in quanto valori assoluti, collocati nell’ordine del trascendentale:
una sorta di aspetto distintivo del genere umano al suo grado più nobile,
oltreché qualificativo della fisiologia e del senso ultimo dell’attività artistica
nel novero dell’agire umano. Di qui - da questo sentimento di dovere
categorico, che implica una discriminante ardua, liberamente intrapresa,
solitaria e non revocabile - discendeva tutto il resto, seppure in via necessariamente subordinata.
Che ciò, secondo il punto di vista che io posso esprimere oggi, implicasse
una larga sopravvalutazione dei compiti dell’arte e delle responsabilità dell’artista e dell’intellettuale, lungo una linea di pensiero che procedeva da
La missione del dotto di Fichte alle Lettere sull’educazione estetica di Schiller
sino al modello gramsciano e all’estetica di Adorno, risulta in questa sede
di ben poco interesse. Non starò dunque a insistere su quanto vi fosse di
mitografia storicistica, in chiave sia ideologica sia filosofica, in quest’atteggiamento, che presupponeva, va da sé, una determinata visione del mondo,
dell’uomo, della storia e dell’arte. Conseguentemente, eviterò anche di
diffondermi nell’analisi del totem del progresso e della sua funzione catartica, e su come esso si sia irraggiato nella società occidentale tra il XIX e il
XX secolo, orientandone in termini decisivi gli sviluppi nella politica e nella
cultura in tutti i suoi aspetti.
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ISPIRAZIONE
E TRASPIRAZIONE
Voglio ancora esimermi qui dal delicato esercizio del giudizio intorno alle
concretizzazioni di tale impostazione generale, ossia intorno alle opere in
cui essa si è effettivamente tradotta nel corso del Novecento, per quanto
mi sembri necessario dal punto di vista critico chiedersi in modo non partigiano se e in che misura musicisti del talento di Domenico Guaccero,
Franco Evangelisti, Aldo Clementi, Egisto Macchi, Fausto Razzi, Francesco
Pennisi, Guido Baggiani, oltreché Mauro Bortolotti, per limitarsi a pochi
esempi in area romana, abbiano eventualmente sacrificato parte delle loro
potenzialità creative sull’altare dell’avanguardia. Si tratta di un discorso
complicato, che intreccia in più punti e in più modi la storia del secolo
scorso, e che di sicuro non può essere affrontato armati di pregiudizi
manichei: lo spirito dell’avanguardia ha molto dato e molto tolto, imprimendo comunque il suo sigillo inconfondibile sull’opera di autori che proprio grazie ad esso hanno saputo trovare la propria strada, nella vita non
meno che nell’arte.
Quel che è certo è che per papà, che aveva forgiato i suoi arnesi del
mestiere alla dura officina petrassiana, l’incontro con la dodecafonia e
soprattutto con Schoenberg, nell’Italia appena uscita dalle chiusure del
fascismo e dai disastri della guerra, abbia rappresentato lo scatto evolutivo
cardinale, in grado di delineare la propria traiettoria di cammino individuale. Com’è ben noto, l’altro scatto decisivo, ma essendosi già compiuta la
scelta di campo essenziale e dunque già percorsa la parte più dura del
cammino, si sarebbe verificato negli anni Sessanta nella cittadina tedesca di
Darmstadt, a contatto con coetanei di altri paesi europei che sembravano
essere più avanti di tutti e avere le idee molto più chiare sulla musica del
futuro (sebbene molti di loro non avessero mai sentito parlare di
Malipiero, Dallapiccola e Petrassi).
Sta di fatto che, metabolizzato ogni shock, al marchio di garanzia dell’avanguardia (etico, politico e da ultimo artistico) Mauro non ha mai pensato di
dovere, o potere, sottrarre la propria fiducia, soprattutto sotto il profilo
teorico, e magari - in particolare nel periodo estremo della sua parabola
creativa, la quale non ha mai conosciuto stasi né fasi di pura inerzia - razzolando un po’ diversamente da come predicava. La più parte della musica
scritta da papà negli ultimi dieci-quindici anni, in effetti, testimonia un
nuovo, e credo molto felice, interrogarsi sul rapporto con la tradizione, sui
fondamenti tecnici del comporre, sulla necessità di ritrovare la logica connessione tra le ragioni della poetica e quelle dell’espressione, di pensare lo
stile in quanto veicolo di una ricerca idiomatica e pur tuttavia accessibile
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LUCA BORTOLOTTI
intersoggettivamente. Questioni che peraltro, a ripensarci ora, mi sembra
che abbiano positivamente innervato i suoi brani migliori anche nei
momenti di maggiore sperimentalismo e adesione alle scelte estetiche
delle avanguardie post-dodecafoniche, donando loro il bene di un energia
creativa in costante movimento, di una ricerca interiore che quasi mai s’è
inchinata ai dogmi effimeri delle voghe artistiche, di quel soffio vitale che il
seme del dubbio e l’ansia della decisione sono in grado di donare alle
opere d’arte.
Ho amato molte composizioni di papà, anche di quelle più sperimentali, e
mi è sempre piaciuto vederlo chino, sino agli ultimi giorni, sui suoi mucchi
disordinati di carta da musica, a scrivere note sul pentagramma, schizzare
appunti semi-indecifrabili, congegnare soluzioni grafiche fuori dall’ordinario.
Ma nel mio sentimento privato la prima immagine di lui resterà sempre
quella in cui suona e canta al pianoforte - libero, felice, commosso l’Improvviso in La bemolle dell’op. 90 di Schubert, l’ultimo movimento della
Fantasia di Schumann, la Mazurka in do diesis minore op. 33 di Chopin e ancora la sera prima che un’emorragia cerebrale lo sottraesse alla vita l’Andante della sonata Pastorale di Ludwig van Beethoven.
Roma, 18.X.2008
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Laudatio (“O poeta è um fingidor”)
Daniela Tortora
Le suggestioni della parola hanno attraversato tutte le stagioni della vita di
Mauro Bortolotti. Parole come cristalli trasparenti che il tempo non è
riuscito a opacizzare e che intatte affiorano oggi, come ieri e l’altro ieri e
l’altro ieri ancora, grazie a una memoria prodigiosa (brutale, la definisce il
legittimo detentore). Chiunque abbia avuto occasione di intrecciare
qualche discorso con il maestro Mauro non potrà non serbarne un
ricordo particolare: le conversazioni, anche le più amene e disimpegnate,
hanno sempre incontrato le loro stazioni fatte di parole, sciorinature di
citazioni provenienti dai libri (tutti i libri dell’interminabile “biblioteca di
Babele”, direbbe Borges), dalle innumerevoli poesie, dagli infiniti versi, dalle
lettere, dai libretti per musica, finanche dalle riviste e dai quotidiani…
Parole pronunciate con attenzione, con devozione, non di rado con fare
incerto o interrogativo, quasi a scavare tra i sedimenti del tempo e forse
un tantino anche per mettere alla prova le conoscenze dell’interlocutore
di turno, e le sue biasimevoli lacune.
Era dunque un destino che ci trovassimo in questa circostanza a
intrecciare nuove collane di parole, a tentare con la parola detta (e con le
certamente innumerevoli ‘non dette’) di accostarci, sia pure con
disordinato candore fanciullesco, alle tante belle cose che il maestro
Mauro ha fatto, ha amato, ha vissuto nei suoi ottant’anni di musica. Ché
non ci si fraintenda: Bortolotti non è stato un maestro di parole
(malgrado il suo eloquio amabile rimanga tuttora estremamente
attraente), ma un maestro di musica, nel senso più autentico del termine.
Che vuol dire maestro di musica? Con fare eccessivamente disinvolto si dà
del maestro a tutti coloro che hanno conquistato diplomi e attestati nelle
nostre scuole di musica… e certamente Bortolotti i cosiddetti titoli li
possiede tutti (la sua formazione accademica, ineccepibile, rimane una
garanzia ‘petrassiana’ di antidilettantismo), tant’è che gli viene riconosciuta
una posizione di tutto rispetto negli annali della scuola di composizione
italiana (si pensi ai tanti, musicisti compositori direttori e, perché no,
musicologi, che si sono formati ai suoi insegnamenti e ne hanno tratto
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DANIELA TORTORA
uno sprone imperituro all’esercizio del proprio mestiere).1
Ci troviamo stavolta a parlare di una cosa non facile (e il rischio di
pronunciare delle ovvietà – ahimè, è sempre in agguato), che ha a che fare
con l’identità stessa del maestro Bortolotti e con il legame con l’arte che
la sua persona esibisce. L’impressione che con gli anni si è via via
tramutata in convincimento è che il maestro sia ‘fatto’ di musica, che la sua
sostanza riesca in qualche modo ad assomigliare, proprio nella sua volatile
impronunciabilità, ai numeri ai suoni agli astri che abitano la sua esperienza
quotidiana. Non è una semplice conoscenza delle cose musicali, quella cui
s’intende alludere, ma piuttosto un ‘fare’ musicale della propria esistenza; è
quel bisogno costante di richiamarsi ad altro da sé (e alla musica, nella
fattispecie) per spiegare il proprio mondo, le proprie idiosincrasie, le
proprie scelte. Non ha mai molto senso chiedere agli artisti di spiegare le
proprie opere (è esperienza comune, tra quanti si occupano di musica del
nostro tempo, che se ne cavi in genere assai poco); quel che è certo, è
che Bortolotti per dirti di sé ti dice (ti legge, ti suona e ascolta con te) i
Lieder di Schubert e di Schumann, i madrigali di Gesualdo, di Monteverdi,
la musica da camera di Mozart, Beethoven, Brahms, i preludi di Franck e le
sonate per organo di Hindemith, i concerti di Petrassi e, tra tutti, l’ottavo,
“il meraviglioso”…
Per un attento cultore della parola (quale il maestro ci appare da sempre)
non era facile trovare le parole giuste, le locuzioni azzeccate, le frasi
semplici vere non banali. Abbiamo cercato a lungo un titolo per questo
libro che potesse suggerire una qualche verità e contribuire ad accrescere
la vitalità [e la curiosità] del lettore (e qui ci soccorre il Leopardi citato
dall’amico fraterno di Mauro, Alfredo Giuliani):2 non c’è stato verso di
sottrarre i pensieri dall’insistente accostamento del musicista a
un’immagine di leggerezza, di levità, a qualcosa di aereo, di sfuggente, di
inafferrabile (I pesci di vento s’intitola, per l’appunto, una piccola
composizione degli anni Novanta nata su un verso estemporaneissimo,
1
2
Ci fa piacere ricordare i nomi di alcuni allievi di Mauro Bortolotti nei Conservatori di Frosinone (19781981) e di Roma (1981-1993): Antonio, Cristiano ed Eugenio Becherucci, Massimo Bianchini, Stefano
Bracci, Stefano Castelvecchi, Cristina Cimagalli, Enrico Cocco, Fabrizio De Rossi Re, Carlo Donadio, Patrizio
Esposito, Leonardo Gensini, Lucio Gregoretti, Alessandro Molinari, Federico Landini, Eduardo Natoli, Paolo
Pachini, Rossella Paolantoni, Franco Piperno, Giorgio Proietti, Marcello Puxeddu, Francesco Rimoli, Milica
Rogulja, Lucia Ronchetti, Paolo Rotili, Fausto Sebastiani, Alfredo Santoloci, Daniela Tortora, Andrea Totò,
Alessandro Triantafillou, Andrea Verrengia, Edoardo Volpi Kellermann, Giacomo Zumpano.
Cfr. ALFREDO GIULIANI in I novissimi. Poesie per gli anni ’60 […], Milano, Rusconi, 1961, p. XIII.
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LAUDATIO
(“O
POETA È UM FINGIDOR”)
dettato al telefono dall’amico Alfredo). Le riflessioni vagabonde di questi
mesi hanno ripercorso quasi inevitabilmente il Kundera dell’Insostenibile
leggerezza dell’essere, il romanzo di culto che negli anni Ottanta compariva
per la prima volta in traduzione italiana e conquistava così intere
generazioni di lettori, insegnando a noi tutti l’indicibile “pesantezza del
vivere”3 dell’anacronistica Tereza, di Tomás e del cane-figlio Karenin (La
leggerezza e la pesantezza è proprio il titolo del capitolo introduttivo, il
capitolo più concettuale di tutto il romanzo, con le tante citazioni da
Nietzsche, Parmenide, Gesù Cristo e perfino dal Beethoven dell’ultimo
movimento dell’ultimo quartetto, con i due motivi concepiti sulla
locuzione “Es muss sein”).Tuttavia ci ha soccorso maggiormente la
rilettura della prima delle postume Lezioni americane di Italo Calvino, la più
sorprendente e mirabile di tutte, la prima appunto, ove sono riposte cose
davvero simili all’opera del maestro: la lightness di Ovidio e di Lucrezio, ma
anche di Guido Cavalcanti, di Boccaccio e di Dante (con il felice sonetto
dedicato all’amico-maestro, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”), della
Emily Dickinson dell’”Ed io sono una rosa!”, di Shakespeare e della
polverina magica per gli amanti notturni del Sogno, di Cyrano de Bergerac,
di Kafka e dell’amatissimo Leopardi, “perché il [suo] miracolo […] è stato
di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce
lunare”.4 Ma per Calvino la leggerezza va a braccetto “con la precisione e
la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”5 e questo
invita a riflettere: la leggerezza che qui vogliamo raccontare assomiglia
veramente a quella cantata da Calvino? Al di là degli incantamenti, dei
ripensamenti, al di là delle esasperazioni del non-finito (o dell’in-definito),
dell’eterno andirivieni del tutto, si situa, crediamo, un sistema
imprescindibile nella poetica di Bortolotti, quell’esigenza precisa e
determinata proprio alla maniera di Calvino, che si traduce in una presa
diretta e costante sul reale, uno ‘stare in ascolto’ senza sosta al fine di
registrare con attenzione tutti i passi del nostro tempo e il divenire degli
abiti sociali e culturali del mondo a tutti noi circostante: grazie a questo
sofisticato apparecchio sismografico il comporre musica si fa volontà
(politica) di esserci ed esercizio costante di libertà.
La locuzione compare in ITALO CALVINO , Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano,
Garzanti, 1988, p. 9.
4
Ivi, p. 26.
5
Ivi, p. 17.
3
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