UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE Dipartimento di Lettere e Filosofia CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA FILOSOFIA DEL GIOCO L'estetica del calcio e il ruolo del portiere Relatore Prof. Sergio Givone Candidato Francesco Farioli Correlatore Prof. Gianluca Garelli A.A. 2011-2012 INDICE INTRODUZIONE CAPITOLO I CHE COS’È IL GIOCO? 1.1. Origini, mistero e bellezza del gioco 1.2. Il calcio storico fiorentino e le sue origini 1.2.1. L’origine del gioco odierno 1.3. La serietà del gioco come fenomeno culturale 1.4. Il linguaggio del gioco del calcio: Pasolini CAPITOLO II ESISTE UN’ESTETICA DEL CALCIO? 2.1. Un filosofia del calcio: Welte 2.2. Luoghi e tempi della partita 2.3. Ripensare il calcio, tra gioco e esistenza: Franco Toscani 2.4. Mourinho e Guardiola: filosofie a confronto 2.5. Calcio, musica e cadenza d’inganno: il Barcellona e Pirlo CAPITOLO III EVOLUZIONE CONCETTUALE DEL RUOLO DEL PORTIERE 3.1 Yashin a Valdes: stesso ruolo, due modi diversi di interpretarlo 3.2. Il para-dosso dell’uno e il tempo: Buffon 3.3. Un modello di vita estetica: il portiere 3.4. Estetica, pedagogia e psicologia in campo 3.4.1. Preparatore-psicoterapeuta - portiere-paziente 3.5. La bellezza del gesto vs il caos civile 3.6. L’essenza del ruolo in due gesti tecnici Conclusioni Postfazione Bibliografia Articoli consultati Conferenze Filmografia Ringraziamenti “Non dimenticheremo mai questo giorno: le emozioni, le sensazioni, le immagini resteranno con noi per il resto della vita. Vivere con brutti ricordi è una tragedia; vivere con dei bei ricordi ci dà la forza per continuare la lotta. Siate voi stessi, non perdete l'identità come squadra, giocate come diavoli e vincete!” Jose’ Mourinho. INTRODUZIONE Questa tesi nasce con l’obiettivo di far avvicinare due mondi apparentemente opposti: gioco e filosofia. Il seguente lavoro ritrova la sua ragion d’essere in una celebre frase del filosofo francese Jean-Paul Sartre: “il calcio è una metafora della vita”1 Suddetta frase venne poi ripresa e rivisitata dal Prof. Sergio Givone, il quale sostenne invece che “la vita è una metafora del calcio”2 Da questo dibattito, e rifacendosi alle origini e al mistero che avvolge il mondo del gioco, andremo a ricercare risposte e soluzioni nel campo dell’estetica. In questi anni ho trovato molto utile lo studio della filosofia applicata al gioco (soprattutto al calcio e al ruolo del portiere), ritenendo che la capacità di ragionare e l'estrema sensibilità d'animo siano un valore aggiunto, sia in campo che fuori. Partendo dalle riflessioni di Johan Huizinga e di Eugen Fink sul gioco, la stesura delle seguenti pagine ha la pretesa di fornire una diversa, e più elevata, visione del mondo del gioco, cercando di far valutare il lavoro di molti professionisti da un diverso punto di vista e verso una nuova prospettiva. Lo spettacolo dei novanta minuti diventerà un flash chiarificatore, che a sua volta verrà sezionato in porzioni di tempo ancor più ristrette, in un lavoro minuzioso entro cui la bellezza del gesto tecnico diventerà ancora di salvezza sociale. Il lavoro dei grandi guru del calcio moderno, Mourinho e Guardiola, si intreccerà con le riflessioni di Pasolini e Welte. Buffon andrà a spasso nel tempo alla ricerca di se stesso nel campo dell’estetica. Le massime di Dostoevskij come linea guida di una tattica di approccio sistematico alla realtà. 1 SARTRE J.P., La critica della ragione dialettica. Teoria degli insiemi pratici. Il Saggiatore, Milano 1963. 2 GIVONE S., citazione contenuta in www.pasolini.net/saggistica_ppp-e-calcioAM.html, visualizzato il 3/10/2012 6 Può la cultura andare di pari passo con il gioco? Può la programmazione del Barcellona essere una metafora socio-culturale da cui prendere esempio? Può essere il ruolo del portiere un modello di rifermento per la società civile? Può la bellezza (del gioco) salvare il mondo? A queste domande, ed ad altre che verranno fuori nel corso del dibattito, proverò a trovare risposta. ...nella speranza di trasmettervi un briciolo della stessa passione che vive in me: per la filosofia, per il calcio e per la filosofia del calcio. Francesco Farioli 7 CAPITOLO I CHE COS’E‘ IL GIOCO? 1.1.ORIGINI, MISTERO E BELLEZZA DEL GIOCO Serietà e leggerezza. Realtà e finzione. Regola e libertà. In questi binomi antitetici si situa l’esperienza umana del giocare, che è dunque alle prese con una dicotomia interna lacerante, sempre superata, tuttavia, nell’azione. La complessità del fenomeno ludico è manifesta nella difficoltà di definirne i confini e gli aspetti caratterizzanti, ma offre anche la possibilità di riconsiderare alcune antitesi concettuali radicali per il pensiero filosofico e di osservarle in qualche modo risolte in azione. Il movimento plasmante, vivace, innovativo e insieme totalmente regolato e ripetuto del gioco rende da sempre, almeno poeticamente, un’immagine pregnante del mondo e del divenire della vita. L’avvicinamento tra mondo e gioco può, a colpo d’occhio, apparire come una provocazione, come un desiderio di sottrarre il mondo alla serietà dei suoi destini per sminuirlo a dinamiche semplici e controllabili o per tradurlo in commedia. “A me non sembra una ragione per trascurare la categoria del gioco come fattore a sé in tutto ciò che accade nel mondo. Da molto tempo sono sempre più saldamente convinto che la civiltà umana sorga e si sviluppi nel gioco, come gioco.” 3 Johan Huizinga definisce con queste parole, nella prima pagina dell’introduzioneprefazione a Homo Ludens, la sua idea riguardo alla categoria di gioco. Il legame tra serietà e gioco sopravvive fin dagli albori della storia della filosofia, fin da quando un pensatore della caratura di Eraclito si sentì fortemente interconnesso alla sfera ludica da diverse tematiche. Successivamente sarà Platone a fornire ancora interessanti indicazioni in merito alla specificità del fenomeno del gioco, osservazioni che non a caso fanno da sfondo a larga parte delle considerazioni di Fink ne Il gioco come simbolo del mondo. Questa riflessione sul gioco subirà, però, 33 HUIZINGA J., Homo ludens, Einaudi, Torino 1979. 8 un singolare fenomeno di oblio da parte della filosofia. Per un lungo periodo l’attenzione per il gioco passa lentamente in secondo piano e dovremo attendere il ‘700 e la rivalutazione operata da Schiller per ritrovare il gioco nuovamente al centro degli interessi dei filosofi puri. Occorre ripartire da Schiller, poiché nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, si incontra un’affermazione diretta e immediata, quasi aforistica, che riconduce il gioco in primo piano nell’esistenza umana: “E che cosa invero significa un semplice gioco, dal momento che sappiamo che tra tutti gli stati dell’uomo per l’appunto il gioco ed unicamente il gioco è ciò che lo fa completo e nello stesso tempo sviluppa la sua duplice natura? [...] Ed invero, per riassumere finalmente, l’uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca.”4 Gioco ed essenza umana si ricongiungono, coincidono: ciò che in Kant resta un ideale, il libero gioco delle facoltà esercitato nell’esperienza estetica con l’accordo di libertà e necessità, diventa per Schiller oggetto di un’esperienza possibile concretizzatasi nell’attività ludica. Nel gioco si esaurisce completamente l’ideale della bella umanità, dell’anima bella cui la pedagogia schilleriana mira, dal momento che in esso si esplica l’impulso mediatore che unisce le due spinte primarie che si combattono nell’uomo, vita e forma: la materialità e la necessità di concretezza spingono l’uomo al mutamento, mentre la forma conduce all’immutabilità dell’ordine nella fitta rete dei concetti. Secondo Schiller, evitando la subordinazione dell’uno all’altro, si può raggiungere una sorta di tacito accordo, di equilibrio, consentito dal gioco, in cui ha luogo l’epifania del bello. L’arte, intesa come gioco, si propone dunque come pedagogicamente ineluttabile, dal momento che l’educazione alla bellezza è propedeutica alla cooperazione armonica dei due impulsi e, quindi, in quanto sganciamento dal dominio assoluto dell’uno o dell’altro, è educazione alla libertà. Il gioco mantiene stabile l’ago della bilancia, ma soprattutto è realizzazione della pienezza di verità e gioia. L’apparenza assume, 4 SCHILLER F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Callia o della bellezza., Armando Editore, Roma 1971. 9 nell’atto ludico, un ruolo prioritario sulla realtà, facendo compiacere l’uomo del suo agire, riscoprendo prospettive infinite e variopinte. Così facendo, favorisce la crescita continua della cultura e della civiltà, estendendo la realtà posseduta indefinitamente nel gioco dei possibili. Non deve essere certo svalutato il distacco del gioco dalla realtà, in una sorta di irreale realtà, in una presunta inferiorità ontologica, ma bensì deve essere valutato, e apprezzato, come una conoscenza aggiuntiva e come opportunità per nuove interconnessioni. “Tra il caos della vita e l’ordine della forma si muove allora, mediando e trascendendo entrambi, lo Spieltrieb (mania del gioco), che conferisce all’umanità la propria specificità e potenza creativa, consentendo la formazione di un soggetto integrale e armonico, che sappia vivere, come nella lontana classicità, ugualmente bene il proprio legame con la natura e con lo spirito. La conciliazione non si traduce in un annullamento reciproco, ma il senso del gioco consiste in un potenziamento dell’interezza a scapito dell’unilateralità. Il gioco è sospensione in cui non si consente alla fissità di essere catena e neppure al ribollire della vita di distruggere ciò che è stato, ma l’esistenza si rimette in gioco in un creativo aver a che fare sempre con se stessa, vale a dire con la propria provenienza e con un avvenire da progettare presentendolo nel presente di una nuova configurazione ludica e non dogmatica.”5 Le perplessità sull’operazione di sovrapposizione operata da Schiller tra umanità e ludicità, considerando l’apparente opposizione tra serietà del pensiero e la freschezza fanciullesca del gioco. Schiller intravede nel gioco l’opportunità di attribuire all’uomo una rappresentazione più articolata e maggiormente consapevole del suo reale agire nel mondo, sul mondo. L’uomo assume la consapevolezza delle sue due nature superando, attraverso il giocare sempre nuovi giochi, l’apparente antitesi conflittuale della dualità del mondo: caos e ordine. L’uomo “ludente”, nel gioco, forma se stesso assecondando la sua natura e coglie passo dopo passo le modalità per inserirsi e dominare lo spazio del mondo, in cui 5 GUFFANTI M., Il gioco come ipotesi ontologica, www.noein.net/esperienze/tesi_guffanti.pdf, consultata in internet 22/12/2012. 10 tenta di orientarsi continuamente, in una sorta di eterno ritorno. Il riferimento al gioco umano è dunque un rimando continuo ad un pensiero cosmologico: persino Eraclito sottolinea con vigore il legame tra gioco e il corso del mondo, tra gioco e tempo. “Il tempo è un bimbo che gioca con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno.”6 Questa immagine è densissima di significato: infatti al giocare si aggiunge l’immagine del bambino. In greco “bambino che gioca” suona pàis pàizon, in cui si rileva immediatamente la comune radice del termine bambino e dell’attività ludica. Ma, in questo legame viscerale, vive anche uno dei più grandi fraintendimenti della filosofia, che marchierà per molto tempo la considerazione attribuita al gioco in ambito filosofico. Infatti, in passato, sull’espressione pàis pàizon si è marciato molto per far passare il gioco come un’attività esclusivamente infantile, della quale si sono dette le più grandi ovvietà, in una discussione superficiale e marginale per l’esistenza e la speculazione. Qui si inserisce, con vigore e disappunto, la riflessione di Johan Huizinga, che rileva la cattiva sorte della filosofia del gioco al suo rimando terminologico all’infanzia. “L’evoluzione di tale idea nello spirito ellenico è impedita tuttavia dal fatto semantico che indicammo già prima: in greco, alla parola indicante gioco – paidià – si connette troppo, a causa della sua origine etimologica, il significato di gioco infantile, frivolezza. Paidià poteva difficilmente indicare le forme superiori del gioco, giacchè il pensiero di “bambino” vi si univa inseparabilmente. Quelle forme superiori trovarono perciò la loro espressione in termini di significato ristretto come agòn – gara, scholazein – passare il tempo libero, diagoge – letteralmente: modo di vivere, trascorrimento. Ecco perché alla mente greca sfuggì il riconoscimento che tutti questi concetti sono riuniti in un unico concetto comune.”7 6 7 ERACLITO, I frammenti e le testimonianze, traduzione C. Daino, Mondadori, Milano 1980. HUIZINGA J., Homo ludens, cit., Einauidi, Torino 1979. 11 Nella prospettiva generale, infatti, gioco e serietà si oppongono. Huizinga ha il grande merito di essere riuscito a disinnescare questa contrapposizione. La sua riflessione muove da qui e, ancor prima, dall’analisi dei classici concetti che vengono accostati all’idea di Homo: sapiens e faber. Uomo sapiente e uomo facente. E se la sapienza risiede su un piano di idealità e di razionalità maggiore rispetto al fare, senz’altro la capacità/possibilità di fare è ciò che ci riconduce con i piedi per terra. E sulla terra l’uomo, oltre a fare, ha, da sempre, giocato. Huizinga si chiede, con assoluta centralità, in quale misura la cultura stessa abbia carattere di gioco, e non quale posto occupi il gioco tra i fenomeni culturali. Il gioco antecede la cultura, in quanto il concetto di cultura, se pur non sufficiente, presuppone che vi sia un barlume di convivenza tra gli esseri umani, e gli animali, per giocare, non hanno aspettato che gli uomini gli insegnassero. L’animale gioca esattamente come l’uomo: basta notare come si burlano tra loro i cuccioli appena nati. Si incentivano vicendevolmente al gioco con tutta una loro ritualità e cerimoniosità. Fingono rabbia eppure conoscono i limiti del gioco. Il piacere che ne deriva, si nota con grande evidenza, è di massimo gradimento. Giocare è una funzione che contiene un senso. “Al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso nell’azione del giocare.”8 Ogni gioco significa qualcos’altro. Non è niente di spirituale e neppure di semplicemente istintivo. Allora perché e a che fine si gioca? Le risposte che sono state date da molti scrittori e filosofi sono quasi tutte valide, ma, al contempo, parziali. Poiché se ce ne fosse una definitiva, si dovrebbero escludere ed eliminare tutte le altre. Per capire il gioco nella sua interezza - e per mantenere la sua integrità - non bastano né la scienza sperimentale né la psicologia né la sociologia. Esse si dimenticano della “qualità profondamente estetica del gioco”9. Huizinga si pone ragionevolmente una serie di interrogativi per capire quale sia il gusto del gioco. La sua ricerca muove dall’immagine di un bambino strillante di gioia, di un giocatore perso dietro la sua passione e di una folla di spettatori delirante difronte 8 9 HUIZINGA J., op. cit., Einaudi, Torino 1979. HUIZINGA J., Homo ludens, cit., Einaudi, Torino 1979. 12 al momento della gara. Quell’intensità e quella vibrazione non potranno mai essere spiegate da nessuna analisi biologica. Lì dentro c’è un mistero. Una domanda tanto pregna di essenza da non essere ancora mai stata svelata e, visti gli innumerevoli tentativi, forse destinata a rimanere tale, per sempre. “La vita è giocare un gioco il cui scopo è scoprire le regole; regole che cambiano sempre e non si possono mai scoprire.”10 Provare a trovare la risposta comporta un rischio immenso. Risolvendo l’enigma si potrebbe perdere tutta la magia, tutto il suo naturale sapore: il giocare per giocare. Incondizionatamente. Qui parrebbe allora che il gioco meriti aggettivi provenienti da un mondo di necessaria superficialità. In realtà il gioco è una di quelle categorie, come detto prima, che non può fare a meno della serietà. Anche Fink ne Il gioco come simbolo del mondo e nella Oasi della Gioia prova a dare una sua interpretazione dei concetti illustrati sopra. Il gioco è, secondo Fink, un elemento fondamentale della nostra cultura: esso deve essere recuperato in un rinnovato pensiero (non metafisico) del mondo. Il punto di partenza della sua riflessione, ma potremmo dire anche di arrivo, è offerto dal riferimento alla felice intuizione di Eraclito, precedentemente citata. Il filosofo, in quella frase, non usa il termine kronos (tempo), ma aion (il corso del mondo, l’eterno); il motivo ispiratore del frammento è il rapporto d’identità tra l’eternità e la fanciullezza: l’eterno ha la freschezza della fanciullezza, in quanto, nel suo imperituro vivere, è un continuo trasformarsi e rinnovarsi; il suo dominio (signoria) possiede la gioiosità schietta e semplice della vita del fanciullo. L’immagine del bambino che gioca a dadi permette a Fink di cogliere nel fenomeno umano del gioco, un significato universale, una sua evidente trasparenza cosmica: così il gioco e il mondo sfruttano la loro vicendevole luce per emergere fuori con estrema chiarezza. Vi è naturalmente una differenza ontologica, direbbe Heidegger, tra il gioco come fenomeno umano, che si svolge tra enti intramondani quali l’uomo e le cose, e il gioco del mondo. Tuttavia, la peculiarità dell’uomo come essere nel mondo, ossia quell’ente che, nonostante sia catapultato nel mondo, si rapporta consapevolmente al mondo stesso e lo comprende, fa sì che il gioco umano possa essere assunto in quanto simbolo del 10 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1978. 13 gioco cosmico. Secondo il senso comune, il gioco è un’attività marginale dell’esistenza umana, che si contrappone al lavoro e alle attività serie della vita. Nella vita adulta, osserva Fink, i giochi sono spesso tecniche ripetitive di passatempo e tradiscono il fatto che spesso nascono dalla noia. Invece per il fanciullo il gioco sembra essere “un sano mezzo di esistenza”11. Attraverso il gioco, il bambino realizza la sua fondamentale apertura al mondo. “Così il gioco va oltre la vita quotidiana. Ma, soprattutto nel bambino, ha anche il carattere di esercitazione alla vita. Simboleggia la vita stessa e la anticipa, per così dire, in una maniera liberamente strutturata.”12 Il gioco è caratterizzato dalla totale gratuità, dalla libertà, da un senso di gioia pagana per il sensibile in cui viene sperimentato il piacere dell’apparenza. Esso, tuttavia, si presenta come “un’oasi della gioia” perché, proprio quando obbligo, lavoro, cura e responsabilità iniziano a impegnare le energie del giovane in crescita, il gioco rischia di perdere del tutto il suo significato originario e il suo carattere di azione spontanea, di slancio vitale. Proprio per questo, secondo Fink, è importante cercare di conservare quanto più possibile la spontaneità, l’estro, la fantasia e l’iniziativa di chi si appresta a giocare. Il gioco appartiene in modo essenziale alla costituzione ontologica dell’esistenza umana. Schiller afferma che “l’uomo c’è interamente lì dove gioca”13. Il gioco non è quindi simbolo del mondo nel senso che il mondo possa essere oggettivamente concepito come gioco; non è, come per Platone, “un’immagine mobile dell’eterno”; il gioco è simbolo del mondo nel senso che in esso si esprime il modo dell’uomo di rapportarsi al mondo e all’altro, perché ogni gioco, anche quello del fanciullo più solitario, “ha un orizzonte di coinvolgimento degli altri”, di apertura verso l’altro. Fink ritorna a Eraclito attraverso Nietzsche, ricordando un famoso passo tratto da La filosofia nell’epoca tragica dei greci: 11 FINk E., Il gioco come simbolo del mondo, Hopeful Monster Editore, Firenze 1991. RATZINGER J., Cercate le cose di lassù, Paoline, 1986, www.paoline.it/upload/immagini/ratzinger_avvenire consultato in internet 27/12/2012 13 SCHILLER F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo; Callia o della bellezza., cit., Armando Editore, Roma, 1971. 12 14 “Un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, che si svolgano in un’innocenza eternamente uguale, si ritrovano in questo mondo solo attraverso il gioco dell’artista e del fanciullo”14. Se l’essenza del mondo è pensata come gioco, ne consegue che l’uomo è l’unico ente in grado di corrispondere al tutto che agisce. Si capisce quindi perché alcuni grandi pensatori e poeti abbiano richiamato l’attenzione in modo così profondo sul potente significato del gioco. A questo punto è evidente che il linguaggio della filosofia non esplicativamente può essere finita, ma quello logico-scientifico della dimostrazione quello dialogico-poetico della comprensione interpretativamente infinita. Sempre, mentre l'essere gioca, il mondo si fa, e, sempre, mentre il mondo si fa, l'uomo è giocato. Prima però si trattava del gioco dell'esistere. Adesso si tratta del gioco del linguaggio. Il linguaggio è lo strumento attraverso il quale l’uomo può comunicare, comandare e, non per ultimo, imparare. Il linguaggio è ciò che distingue e definisce: sostanzialmente, nomina. Il linguaggio attira le cose nel dominio dello spirito. Nominare appunto: il linguaggio è ciò che consente quindi ai grandi scrittori, ai grandi poeti o filosofi, di dare i nomi alla vita e alla nostra esperienza. Sono grandi perché riescono, attraverso il linguaggio a nominare le cose: alcune molto semplici, altre molto complicate. Nominare è una cosa preziosa per tutti; si danno i nomi alle cose, per difendersi dalle cose. Se non sapessimo nominarle non sapremmo cosa sono. Basti pensare a Gadda, alla sua esattezza e la sua precisione nel nominare e dare vita alle cose. Nominare è, sostanzialmente, scelta. Scegliere è questione di gusto e, in quanto gusto, di bellezza. Nominare e giocare si incrociano lì, nel campo dell’estetica; nel valore profondo di bello. Ecco il perché dell’importanza del linguaggio. Il gioco è l'intima essenza dell'uomo solo in quanto l'uomo, il quale si mostra nel giocare, in effetti si trova soltanto ad essere in gioco, e in sostanza viene giocato. Qui risalta l'ambiguità di questo uso immaginoso del gioco. Di che cosa, attraverso il gioco dell'uomo, il gioco è immagine? Del mondo o dell'essere, cioè del tutto degli enti nella loro unità, o dell'unità che lascia agli enti di essere tali nel tutto ? Per chi ben consideri il mito del “divino fanciullo”, l'immagine del gioco non è negativamente ambigua, ma 14 NIETZSCHE F., Filosofia dell’epoca tragica nei Greci, Adelphi, Milano 1964. 15 positivamente ambivalente. Il gioco giocante allude all'essere, il gioco giocato al mondo. Peraltro, la stessa ambivalenza del gioco come immagine ha nell'uomo la sua immagine. L'uomo, in quanto ente generico del mondo, raffigura il gioco giocato, ma in quanto è l'ente, il cui essere più proprio sta nella tensione verso la comprensione dell'essere, raffigura l'inquietante prossimità al gioco giocante. E'evidente, alla fine, che il concetto speculativo del gioco, collocando nel gioco il nesso dell'e-sistenza con l'essere, non parla più veramente dell'uomo, ma dell'Uno, provvidenza o caso, legge razionale o sequenza gratuita, in ogni modo necessita del mondo come necessità dell'uomo. Questa non può essere necessitata da altro, e dunque è necessità contingente, assoluto gioco. Il significato più proprio del gioco, come risulta dall'analisi fenomenologica, è la simbolicità, cioè quel rapporto tra cose, nell'esperienza umana, in forza del quale è possibile che l'una finga l'altra, sostituendosi idealmente ad essa come rappresentazione e rappresentanza. Se il gioco, nella sua essenza è simbolicità, non meno intriso di valenze simboliche è il mondo. Appunto perché la simbolicità del gioco partecipa alla potente simbolicità del mondo, il gioco è simbolo del mondo. Il gioco si presenta quindi come un fenomeno notorio, che ognuno conosce dall’interno; ognuno è stato già, almeno una volta, giocatore. E si presenta, dicevamo, come attività necessariamente libera. Fin qui, il significato del gioco sembrerebbe anche qualcosa di scontato e di ovvio. E le regole? Può esistere un gioco senza le proprie regole, e senza che i giocatori si sottomettano ad esse? La libertà è dunque, enigmaticamente, presente insieme alla sottomissione alla regola. Il gioco è gratuito o, come già diceva Aristotele, si gioca sempre “in via di ricreazione”, come distensione, pausa e passatempo? Un gioco si gioca solo se è piacevole: se la lietezza e lo slancio del gioco si spengono, l’azione ludica si esaurisce. “Il gioco produce il ‘divenire leggero della vita’, genera una temporanea, solo terrena liberazione, anzi quasi redenzione dai pesi dell’esistenza. Ci strappa ad uno stato di fatto, alla prigionia in una situazione opprimente ed angusta, procura una felicità fantastica nel farci volare tra possibilità fuori del tormento di una scelta reale”. 15 15 FINK E., Il gioco come simbolo del mondo, cit., Hopeful Monster Editore, Milano 1980. 16 Eppure, il piacere del gioco è un piacere strano, difficilmente comprensibile. Basta a volte guardare chi gioca, o anche guardarci mentre giochiamo, per scorgere nel piacere del gioco anche l’estremo opposto della libertà, fino al rapimento e all’abbandono di sé. Spesso giochiamo da soli. Ma giocare è sempre gioco in comune, giocare assieme; anche quando si è da soli. L’apertura all’altro, anche nelle vesti di un avversario tutto interno a noi, è parte costitutiva del gioco. E i giocattoli? Si sa che, solo volendolo, qualsiasi cosa può diventare giocattolo. E guadagnare anche quell’anima, come diceva Baudelaire, “diabolica” propria di ogni giocattolo. Un giocattolo, infatti, vive sempre di due dimensioni di realtà; la sua essenza consiste nel suo carattere magico. In quanto magico, il gioco, potrebbe tornare ad essere accusato di non serietà. Di per sé il gioco non ha alcun valore morale, né virtù, né peccato. Possiamo sostenere che il gioco sia non-serietà, ma, essendo ogni gioco anzitutto e soprattutto un atto libero, possiamo, altrettanto, sostenere che sia assolutamente serio. L’antitesi gioco-serietà continua ad essere un’antitesi priva di stabilità. L’inferiorità del gioco ha i suoi limiti nella superiorità della serietà. Il gioco si converte in serietà e la serietà in gioco. Il gioco però sa innalzarsi verso picchi di bellezza (e santità) che la serietà non può raggiungere. Così la bellezza del corpo umano in movimento trova nel gioco la sua massima espressione. “Nelle sue forme più evolute il gioco è intessuto di ritmo e d’armonia, le doti più nobili della facoltà percettiva estetica che siano date all’uomo. I vincoli tra gioco e bellezza sono molteplici e saldi.”16 Il gioco rompe, con la sua portata estetica, i vincoli con il vivere ordinario e si introduce come “un’azione provvisoria che ha fine in sé”, svolta per amore del soddisfacimento del suo svolgimento, fine a se stesso, in sé. Il gioco apparirebbe così come un diversivo, un divario; in realtà esso è accompagnamento e completamento dell’unità della vita. “Adorna la vita e la completa, e, come tale, è indispensabile. E’ indispensabile 16 all’individuo, in quanto funzione biologica, ed è HUIZINGA J., Homo ludens, cit., Einaudi, Torino 1979. 17 indispensabile alla collettività per il senso che contiene, per il significato, per il valore espressivo, per i legami spirituali e sociali che crea, in quanto funzione culturale.” Il gioco è una funzione sacra, in quanto appartiene alla sfera della festa e del culto. Mantiene un carattere disinteressato in quanto i fini a cui serve stanno anch’essi fuori dall’ambito di interessi materiali o di bisogni personali. Il gioco, come azione sacra, può garantire la salute del gruppo. Il gioco si svolge entro limiti di tempo e di spazio, isolandosi così dalla vita quotidiana, avendo la propria essenza nella sua limitazione. “Il gioco comincia e a un certo punto è finito. Mentre ha luogo c’è un movimento, un andare su e giù, un’alternativa, c’è il turno, c’è l’intrigo e il distrigo. [...] Il gioco si fissa subito come forma di cultura. Giocato una volta, permane nel ricordo come una creazione o un tesoro dello spirito, è tramandato, e può essere ripetuto in qualunque momento, sia subito, come è per i giochi infantili, per il tric-trac, per una gara, sia anche dopo un lungo intervallo. 17 La possibilità di ripresa è una delle caratteristiche fondamentali. Così se il suo limite nel tempo può essere eluso con la ripresa, il ritornello e il cambio di turno, il limite nello spazio è tanto vincolante da essere delimitato in anticipo, spontaneamente o di proposito, sia materialmente, sia nel pensiero. “Entro gli spazi destinati al gioco, domina un ordine proprio e assoluto. Ed ecco qui un nuovo e più positivo segno del gioco: esso crea un ordine, è ordine. Realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporale, limitata. L’ordine imposto al gioco è assoluto.”18 Proprio per questo pare evidente come il terreno di gioco del gioco sia, in buona parte, l’estetica. Il gioco tende ad essere bello. Chiarificatori di questo concetto sono, senza dubbio, i termini con i quali cerchiamo di descrivere/commentare/ raccontare il gioco: equilibrio, tensione, oscillamento, cambio di turno, contrasto, 17 18 HUIZINGA J., Homo ludens, cit., Einaudi, Torino 1979. Huizinga J., op.cit., Einaudi, Torino 1979. 18 variazione, intreccio e soluzione. Il gioco vincola e libera. Attira interesse. Affascina. Incanta. Possiede al suo interno ritmo e armonia. Armonia da raggiungere con la distensione, aspirazione a distendersi, e la risoluzione di ogni incertezza. Il gioco ha la sua intrinseca tensione nella buona o cattiva riuscita. La “riuscita” spesso è frutto di uno sforzo: vigore fisico, perseveranza, ingegno, coraggio, resistenza, forza d’animo e morale. Così tensione e ordine introducono e mantengono nel gioco le regole. Non si accetta scetticismo sulle regole. Laddove la regola sia infranta o trasgredita, il mondo crolla. Il gioco muore, finisce, si estingue. Non esiste. Nel gioco si accetta più facilmente il ruolo del baro che quella del guastafeste. Il guastafeste minaccia la comunità giocante; sottraendosi al gioco, tirandosene fuori, svela la fragilità e il mistero del mondo del gioco, di cui parlavamo prima. Il guastafeste deve essere eliminato. Stabilite le regole, è obbligatorio capire cosa possa essere il gioco: può essere una rappresentazione di una lotta per qualcosa, oppure una gara tra chi meglio rappresenta qualcosa. La rappresentazione è quindi un’esibizione che mira all’ammirazione per la cosa insolita ed eccezionale. Come abbiamo detto il gioco si svolge all’interno di un tempo finito, ma il suo effetto continua anche dopo la fine del rito. Si propaga sul mondo e sul gruppo con effetti benefici quali sicurezza, ordine e benessere, finché il gioco non torna a riproporsi. Un esempio evidente di quanto il gioco sia rappresentazione e sospensione dal vivere quotidiano, in un intreccio entro cui, spesso, si sospende la realtà per rappresentarla o, per il suo opposto, ignorarla, viene a noi dal calcio storico fiorentino: il 17 febbraio 1530 la piazza di Santa Croce a Firenze divenne teatro di una delle più importanti sfide lanciate dalla Repubblica fiorentina all’imperatore Carlo V, quando la popolazione assediata da molti mesi dalle truppe imperiali, si cimentò in una partita di Calcio, dando l’impressione di non considerare l’esercito dell’Impero degno di attenzione. Ma cos’è la rappresentazione? Come si manifesta? Giocare è un’azione sacra entro cui bimbo e poeta vanno a braccetto, insieme con il selvaggio e il primitivo. La sensibilità estetica è assoluta, in quanto giocare è, per molti versi, ostentazione di forza e di vigore fisico. Si inizia a combattere in un processo prettamente estetico. E l’estetica è ciò che continua a vivere nel movimento dei giocanti. A sostenere questa idea ci sono due importanti studiosi contemporanei, Savorelli-Salvi, che nel loro testo Tutti i colori del Calcio 19 svolgono un’analisi proprio sul mutamento del combattimento e dei colori che lo contraddistinguono. Secondo i due autori, quello che conta non è il gioco in sé ma ciò che attraverso il gioco andiamo a rappresentare e, nel corso della storia, hanno rappresentato decine di migliaia di uomini. “A’ la guerre comme a’ la guerre!”19 In guerra come in guerra. E come dunque? Colorati, coloratissimi. Da che mondo era mondo, l’uomo è andato in combattimento agghindato come ad una festa (perché, ricordiamo, il gioco è combattimento, ma anche festa e culto), dipinto in faccia e sul corpo, sfoggiando piume multicolarate, pennacchi, turbanti, cappe e casacche sgargianti. Da che mondo era mondo, perché questo costume rimasto quasi inalterato dalle guerre tribali fino a quelle napoleoniche e oltre, è cessato quasi all’improvviso, nel periodo a cavallo tra la guerra franco-prussiana (1870) e la prima guerra mondiale. E, con il cambio di colori, cambia il modo di combattere: non più viso a viso, ma attraverso una serie di subdoli agguati. Il combattente passa da essere Pavone ad essere Camaleonte. Dal blu e il rosso delle divise francesi, dal biancorosso degli inglesi, dalle camicie rosse di Garibaldi siamo passati ai color terra, sasso, sottobosco e addirittura grigio-cemento per la guerriglia urbana. “Il colore era rito, ostentazione fisica di coraggio, spirito di corpo: il colore mi dice che non sono solo, che c’è con me un’anima collettiva a sostenermi nello scontro, come un unico corpo in un solo vestito. Ma oltre a questo, il colore mi identifica ed è assolutamente funzionale. Nella mischia, nella polvere, quando ho perso l’orientamento, quando il sangue mi cola negli occhi, devo d’un tratto trovare i “miei”, attaccare o ritirarmi, capire i segnali; e lo faccio riconoscendo lo stendardo di un reparto o la livrea del mio clan o del mio reggimento. Utilizzando perciò un codice cromatico di identificazione.”20 19 Citazione in SALVI S. - SAVORELLI A., Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione., Le Lettere, Firenze 2009. 20 SALVI S. - SAVORELLI A., Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione., Le Lettere, Firenze 2009. 20 Lo sport, storicamente parlando, è un passatempo, uno svago che presuppone un dispendioso impegno fisico, praticato in origine da gentleman annoiati e smaniosi di misurarsi tra di loro. Come gioco, lo sport ha un aspetto ludico preminente; quale competizione rivela un aspetto spasmodicamente agonistico; in quanto praticato in pubblico è uno spettacolo. Uno spettacolo di successo in quanto risponde ad esigenze robuste, non si sa bene se indotte o meno, dell’umanità intera. La sua diffusione inarrestabile, dall’alto verso il basso, nella società, lo ha progressivamente dotato, di valori psicologici, sociali, estetici, economici, giuridici e perfino etico-politici. Tornando ai colori e al loro utilizzo, essi seguono un iter storico ciclico. La storia sembra vendicarsi, come se la pulsione cromatica fosse irresistibile, i colori tornano nell’abbigliamento casual mentre il grigio torna ad essere ad appannaggio dei manager, dei politici e dei lobbisti, come segno distintivo e come esibizione di status. La guerra era dunque da sempre, fino all’età moderna e quasi a ridosso di quella contemporanea, legata al colore. Tra i tanti codici cromatici di identificazione in guerra attestati dai reperti antropologici e da un’iconografia plurisecolare, l’Occidente ne aveva sperimentato uno decisivo per la storia della simbologia in generale, per la storia della percezione del colore in particolare e anche per lo sport e il calcio moderni. Si tratta di araldica, un linguaggio non verbale nato nel basso medioevo, ma sopravvissuto fino ad oggi in varie forme. L’origine dell’araldica non è collegata, come talora si crede, all’orgoglio di casta aristocratico, ma ad un fatto bellico, cioè alla trasformazione della tecnica di combattimento avvenute nella cavalleria nel XII secolo: e principalmente all’introduzione dell’elmo chiuso, che impedendo il riconoscimento del combattente, rese necessaria la sua identificazione a distanza attraverso figure e colori dipinti sullo scudo, sulla gualdrappa del cavallo e sul pennone della lancia. Dagli usi della cavalleria medievale nacque un codice figurato che si fissò rapidamente in tutta Europa. Questo sistema di identificazione, limitato inizialmente alla nobiltà, diventò presto di uso assai comune: mercanti, artigiani, dame, ecclesiastici, funzionari, comunità e corporazioni assunsero questo sistema dei segni. Esso era strettamente legato alla mentalità della società medievale (largamente analfabeta, che prediligeva l’utilizzo delle immagini alla scrittura), al punto che i contemporanei credettero che l’araldica fosse sempre esistita, 21 attribuendo uno stemma ai santi, agli eroi letterati, ai personaggi dell’antichità e della Bibbia, ai Re Magi, a Cristo e a Dio stesso. Col tramonto della cavalleria e l’introduzione delle armi da fuoco, lo scudo diventò inutile, ma i segni dipinti sopra di esso sopravvissero per marchiare oggetti, arredi, documenti, edifici e dozzine di altre cose; dunque come segno di identificazione non più legato soltanto al mondo militare. Questi usi sono rimasti più di quanto si creda all’interno della nostra vita quotidiana e ha finito per influenzare interi settori della comunicazione visiva: basti pensare ai moderni sistemi di segnaletica stradale e marittima, ai marchi commerciali e pubblicitari, alle bandiere e ad altri simboli di appartenenza sociale, politica, religiosa, nazionale e, dulcis in fundo, sportiva. Visibilità, semplicità, ereditarietà sono tre dei motivi a cui si deve l’affermazione del sistema araldico. E questo sistema è in realtà un linguaggio coerente, nel quale sono riconoscibili con chiarezza le strutture di qualunque altro linguaggio parlato o scritto: e cioè un lessico, una sintassi, un insieme di significati e di regole da rispettare. Il giocare ha quindi tutto un suo linguaggio, parlato e visivo. Lo sviluppo dell’araldica era stato segnato alle sue origini non solo dalle tecniche di combattimento, ma anche dal gioco. Se i segni sugli scudi erano nati sul campo di battaglia, la loro clamorosa espansione sembra dovuta anche alla voga dei tornei, cioè all’occasione mondana e ludica che, assieme alla caccia, costituiva il passatempo preferito dell’aristocrazia medievale. Sui tornei si basavano le fortune militari e politiche dei cavalieri. E’ lì, e non solo in battaglia, che si diventava cavalieri, si ottenevano denari e si andava a caccia di avventure amorose. Quindi: “le donne, i cavalieri, le arme e gli amori”.21 I tornei erano frequenti, veri e propri campionati; i campioni diventavano personaggi pubblici, oggetti di culto e di tifo. Le analogie con il calcio di oggi sono vistose. L’araldica non era un optional. L’esibizione degli scudi prevedeva un programma preciso: l’araldo descriveva al pubblico i colori e lo stemma dei partecipanti, vantava le ascendenze del cavaliere, portava le dame a visitare un padiglione dove erano allineati gli elmi luccicanti, sormontati dai cimieri di cuoio dipinto, recanti immagini capricciose. Le dame, a loro volta, concedevano sciarpe e 21 Dal sito www.calciostoricofiorentino.it, consultato in data 03/01/2013. 22 fazzoletti colorati ai loro favoriti. Sui colori e le figure dei campioni, i poeti di corte ricamavano versi, li si dipingevano sui muri delle taverne, diventavano insomma icone e marchi. Il torneo può essere considerato “una guerra in tempo di pace”: non solo una guerra simulata, ma una guerra sublimata, una sua metafora senza morti, una scarica regolamentata dell’aggressività, un’esibizione della destrezza, della forza fisica e della competitività che rispondeva alla rivalità intrinseca del mondo signorile. C’è da fare un distinguo tra torneo e giostra però: il primo è una disfida tra squadre, che si disputa in un recinto chiuso ma di vaste proporzioni; la seconda è un confronto individuale tra due contendenti, che avviene in un campo di dimensioni ristrette. In un certo senso i giochi di squadra sono gli eredi del torneo: molti sport individuali lo sono invece della giostra. Nemmeno il più pacifico mondo urbano e le classi inferiori furono immuni dalla mania del gioco cavalleresco. Le città e le signorie organizzarono tornei prestigiosi e affiancarono a questa pratica una serie di giochi di massa e di piazza destinati ad un pubblico più vasto e di provenienza borghese o plebea. Palii a cavallo, battagliole a piedi, cacce ai tori a piedi e a cavallo, e infine quintane e giochi con la palla, tra i quali uno chiamato abusivamente in Italia “giuoco del calcio”: tutti organizzati su base nobiliare o su base territoriale. Che anche il gioco di piazza fosse un’altra forma della guerra lo affermarono non solo i modi violenti, ma le occasioni in cui questo si accoppiava con un evento bellico. Gli assedianti di una città correvano un palio per minare la sicurezza degli assediati: questi viceversa, per far capire che avevano viveri ed armi a sufficienza. 23 1.2. IL CALCIO STORICO FIORENTINO "...e di vero valor tante e sì altere prove in finta battaglia indi mostrarse, che sembran finte al paragon le vere."22 C’è un gioco antico, un gioco senza regole, dove i compagni sono fratelli di sangue, e gli avversari nemici giurati. Quattro squadre, quattro colori, giocano per le proprie donne, vincono per il proprio quartiere. Molti uomini, un solo desiderio: vincere la paura, scoprire se stessi, fra pugni, carezze e fuochi d’artificio... 23 Il gioco del Calcio Fiorentino ha origini antiche. Le prime notizie di un’attività ludica esercitata con una palla si hanno nei poemi omerici. I Greci praticavano un gioco chiamato “Sferomachia”, che con il susseguirsi degli anni fu adottato dai legionari Romani trasformandolo in metodo d’allenamento per guerrieri, l'Harpastum, letteralmente “strappare a forza”. Veniva giocato probabilmente con un pallone 22 23 Dal sito www.calciostoricofiorentino.it, consultato in data 03/01/2013. Dal sito www.calciostoricofiorentino.it, consultato in data 03/01/2013. 24 ripieno di stracci o di pelle, da due squadre di ugual numero di giocatori su terreni sabbiosi, il cui solo obiettivo era quello di portare la palla oltre il campo dell’avversario, con qualsiasi mezzo. La competizione era una lotta serrata, tra continui corpo a corpo e testa a testa per il possesso della palla. Ebbe un grande successo tra i legionari che lo diffusero nelle varie zone dell’Impero Romano. Non si esclude che questo possa essere avvenuto anche nel 59 a.C. durante la fondazione di Fiorenza da parte di legionari a riposo e le loro famiglie. È certo che nella seconda metà del Quattrocento il calcio si era talmente diffuso tra i giovani fiorentini, che questi lo praticavano frequentemente in ogni strada o piazza della città. Era talmente popolare che nel gennaio del 1490, trovandosi l’Arno completamente ghiacciato, fu su di esso delimitato un campo e giocate alcune partite. Una successiva riorganizzazione del gioco, durante il dominio della dinastia medicea, portò i fiorentini a cimentarsi in vere e proprie sfide. Le squadre vantavano nelle loro compagini nomi altisonanti di nobili, illustri personaggi della vita pubblica cittadina e delle casate più importanti di Firenze. Le partite venivano organizzate solitamente nel periodo del Carnevale. 25 1.2.1. L’ORIGINE DEL GIOCO ODIERNO Il gioco del Calcio fiorentino è oggi una sfida tra i quattro quartieri della città. La ripresa avvenuta nel 1930 ha decretato la storicità della manifestazione. Le partite si svolgono con i costumi del XVI secolo a ricordo e rievocazione di un momento particolare della storia fiorentina. Il 17 febbraio 1530 la piazza di Santa Croce a Firenze divenne teatro di una delle più importanti sfide lanciate dalla Repubblica fiorentina all’imperatore Carlo V, quando la popolazione assediata da molti mesi dalle truppe imperiali, si cimentò in una partita di Calcio, dando l’impressione di non considerare l’esercito dell’Impero degno di attenzione. Ogni anno è quindi organizzato un torneo che coinvolge i quattro quartieri storici della città: i "Bianchi" di Santo Spirito, gli "Azzurri" di Santa Croce, i "Rossi" di Santa Maria Novella e i "Verdi" di San Giovanni. Essi diventano i protagonisti di dure ed esaltanti sfide. Il premio in palio, una vitella bianca di razza Chianina. Il Torneo di San Giovanni del Calcio Storico Fiorentino si svolge, di norma, nel mese di giugno di ogni anno, la cui finale viene disputata nel pomeriggio del 24 di giugno, giorno del patrono della città. Anche tutta la parata del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina, composta per l’occasione da 530 figuranti, vestiti di rigorosi costumi militari di epoca rinascimentale, fa riferimento allo stesso periodo storico, rievocando le gesta e le Armi della Repubblica, quando Firenze era governata dal popolo. E’ una vera e propria tradizione, molto radicata nel tessuto sociale cittadino. Si deve a Firenze e al suo antico Calcio l’origine di alcuni sport che a oggi 26 sono tra i più famosi nel mondo. Il Calcio, il Football, il Rugby, traggono origine o spunto da questo storico e primordiale “giocare con la palla”. 27 1.3. LA SERIETÀ DEL GIOCO COME FENOMENO CULTURALE Il gioco divide nello scontro, ma unisce come fenomeno culturale. Joahn Huizinga e Eugen Fink sostengono questa idea e ne sono i padri storici. Oggi, dello stesso parere, è anche Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori Calcio, il quale in un’intervista rilasciatami recentemente durante un incontro nel tempio calcistico di Coverciano, ha sottolineato come la funzione essenziale del gioco sia proprio “lo stare insieme come momento di formazione pedagogica, psicologica, sociale ed, infine, culturale.” 24 Vi sono numerosi aneddoti che sostengono questa idea; analizzando la trasmutazione dei valori in un sport quale il calcio, ma anche in molti altri, in cui tramite l’ausilio della televisione e del concetto di “calcio 24 ore su 24” si è provato a sviscerare e risolvere il mistero creatore dell’evento sportivo e di tutto il processo culturale che vive all’interno di esso. Spesso però, secondo Ulivieri, il calcio diventa un modello di cosa non essere e, partendo dall’esempio negativo che abbiamo, è possibile tuttavia risalire ad una scala di valori mancanti e da reintrodurre. Tutto muove da una constatazione linguistica di certi linguaggi applicati in fase di formazione di giovani atleti. “Butta via la palla!” per paura di correre il rischio di prender goal è una delle frasi più frequenti e emblematiche che si possono udire in un campo di periferia durante una partita di giovani calciatori. La contraddizione è palese. Chiedere a un bambino di sbarazzarsi di quello che è lo strumento unico e imprescindibile per la riuscita del gioco è ovviamente quanto di più illogico, e per certi versi immorale, che un allenatore possa chiedere ad un suo giocatore. Dietro ad una frase del genere si spalanca una voragine culturale e, conseguentemente, la necessità di colmare quella lacuna diventa assolutamente urgente, per dovere estetico e, non per ultimo, per motivazioni morali. Rifacendosi al gioco, nei suoi concetti primitivi, è evidente come il giocare abbia la necessità intrinseca da parte dei giocatori di essere condotto. Solitamente si vince laddove vi è controllo del gioco. Il mistero del gioco e la sua non calcolabilità è ciò che non rende sempre vera 24 ULIVIERI R., Sport e Cultura, intervista dell’autore, Centro Tecnico Federale di Coverciano (FI), 2012. 28 la precedente affermazione e ci apre all’infinito campo della probabilità, che nello sport, ha una percentuale di incidenza assai rilevante. Anzi, vi sono correnti di pensiero giocante, nel quale la strategia è legata proprio a quello che potremmo definire, prendendoci qualche libertà linguistica, come un non-gioco, cioè un delegare ad altri il controllo, assumendo nel frattempo una strategia difensiva strutturata per poi ribaltare con violenza la carica di lavoro negativo (o “sporco” che si voglia definire) accumulata per andare ad offendere, ferire e colpire a morte l’avversario. Il catenaccio all’italiana di Trapattoni ne è stato uno degli esempi più vincenti. Oggi il gioco torna ad essere coraggioso, propositivo. Il gioco totale del Barcellona di Guardiola ne è un esempio. Il gioco è da sempre gioco di abilità (tecnica e non), di forza, d’intelligenza, d’azzardo e/o gioco di rappresentazione e di esecuzione. Il gioco è un’azione che rappresenta un’azione volontaria, libera e che impegna in maniera assoluta ed è fine a se stessa, con un senso di tensione e gioia, e anche dei loro opposti, sempre presenti. E’ un’affermazione di consapevolezza della volontà di essere diversi rispetto alla vita ordinaria. La sua trasversalità orizzontale è disarmante. Tutti i popoli giocano e lo fanno in maniera molto simile. La lingua però non è andata di pari passo con il gioco. Anzi, per certi versi, la velocità di diffusione del gioco è inversamente proporzionale alla velocità con cui si è sviluppato un linguaggio universale da attribuire e applicare al gioco. “La concezione di un’idea comune, universale, e logicamente omogenea del gioco si è formata molto tardi, come precedentemente premesso. Nella società ellenica l’agonistica aveva preso in breve tempo un posto così esteso ed era valutata con tale serietà, che la mente perdette coscienza del suo carattere ludico”.25 Quello che continua ad essere assolutamente certo è che si è sempre giocato. La sua essenza esiste e persiste a prescindere da qualsivoglia sovrastruttura successivamente applicata, perché si gioca per il gusto di giocare. Per il piacere di farlo. Per la sua portata estetica e per il piacevole mistero che aleggia nel giocare per giocare. 25 HUIZINGA J., Homo ludens, cit., Einaudi, Torino 1979. 29 “Chi potrebbe negare che con la nozione della gara, della sfida, del pericolo si è vicinissimi alla nozione del gioco? Gioco, pericolo, azzardo, impresa rischiosa sono tutte cose confinanti fra loro. [...] Questo ci riconduce al rapporto del gioco con la gara, e con la lotta in generale.” 26 Giocare è lottare. Lottare è giocare. Nella lotta e nel gioco il poeta-cantore ha sempre trovato fonte di ispirazione, per naturale tendenza dello spirito ad associare la musica e la parola poetica al gesto eroico. “L’atto di far della musica comporta quasi automaticamente tutti i caratteri distintivi del gioco: l’attività si svolge entro un limite di spazio definito, è suscettibile di ripresa, consta di ordine, di ritmo, d’alternazione, e sottrae ascoltatori ed esecutori alla sfera del quotidiano, suscitando una sensazione di gioia che anche nella musica malinconica mantiene il tono del godimento e dell’esaltazione.” 27 Gioco e musica si incontrano così nel movimento veloce e sapientemente ordinato delle mani che presuppone una abilità quasi innata, manifestata come predisposizione naturale. Gioco e musica si incontrano nell’entroterra dell’estetica, verso un indirizzo mirato al godimento. La cadenza d’inganno ne è un’assoluta dimostrazione. Il gioco assume a questo punto piena coscienza di sé, prendendo cioè piena autonomia rispetto a qualsiasi altra categoria, benché esse possano essergli più o meno vicine. E qui sorge e si erige, con assoluta chiarezza, l’idea della “serietà” del gioco. Il gioco è comunque superiore alla serietà, in quanto se la serietà cerca di escludere il gioco, il gioco include benissimo la serietà. Il gioco trova quindi nella serietà una caratteristica necessaria, ma comunque accessoria rispetto alla sua primitiva idea: un in più che fa sempre comodo avere dalla propria parte, soprattutto se gli si incolla addosso senza che si faccia niente per portarselo dietro. Anche Jorge Valdano, ex calciatore argentino, attualmente stimato dirigente, riferendosi al gioco diceva che 26 27 HUIZINGA J., Homo ludens, cit., Einaudi, Torino 1979. HUIZINGA J., op. cit., Einaudi, Torino 1979. 30 “il calcio è un gioco: dunque una cosa seria. E’ un gioco bellissimo che i mediocri vogliono imbruttire nel nome del pragmatismo ed è un gioco primitivo che i rivoluzionari vogliono violare attraverso metodi ad ogni costo scientifici.” 28 Il gioco altro non è che essenza dell’identità. Ce lo dice anche Elio Matassi sostenendo che “a partire da Platone e da Niccolò Cusano (De ludo globi, 1463) si sviluppa una significativa tradizione di pensiero che esalta il ‘gioco’, la dimensione giocosa come costitutivamente intrinseca all’essere umano. Per ricordare ancora Niccolò Cusano, già nel pensiero medioevale, il gioco della palla o del pallone veniva considerato simbolo dell’infinito e definito come ciò che esprime al massimo il movimento dell’anima. Anche nella modernità con La critica della facoltà di giudizio (1790) di Immanuel Kant – la stessa attività artistica viene contestualizzata nel paragrafo 43 sostanzialmente come “gioco” – e con Le lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) di Friedrich Schiller, in particolare la lettera XXVII, l’uomo, il soggetto umano ritrovano proprio nel gioco la loro compiuta identità.” 29 Nel ‘900 (come già ampiamente illustrato in precedenza) da Eugen Fink a Johann Huizinga a Roger Caillois, il gioco diventa un universale del comportamento umano, collocabile – come suggerisce acutamente il filosofo ed estetologo Alessandro Di Chiara – “tra sacro e profano”30. Da raffinato conoscitore di ‘classici’ quali Berdjaev, Martinetti, Pareyson e Caracciolo, Di Chiara individua nel gioco un fenomeno esistenziale fondamentale e, più in particolare, “il fine ontologico dell’antropologia che trova in se stesso l’origine dell’essere come apertura al divenire”. 31 28 VALDANO J., Il sogno di Futbolandia. Appunti di vita e di calcio., Mondadori, Milano 2004. MATASSI E., Gioco ed essenza dell’identità., articolo pubblicato su Il Fatto quotidiano, 24/09/2012. 30 DI CHIARA A., Paidà. Cenni per una filosofia dell’esistenza come gioco., Il Ramo, Rapallo 2012. 31 DI CHIARA A., op. cit., Il Ramo, Rapallo 2012. 29 31 Entro quest’ottica peculiare, l’esperienza calcistica non può essere riducibile a una dimensione etica applicabile alla vita o a una particolare fenomenologia laica del religioso, ma diventa un’esplicita partecipazione all’atto creativo. Questo orizzonte speculativo chiarisce come il calcio sia un gioco di squadra che, rispetto alla pallacanestro o al rugby, si esalta nella eccezionalità del gol. Infatti, la partita di calcio veramente perfetta dovrebbe concludersi 0-0. Il gol può essere concepito alla stregua dell’Evento nella filosofia heideggeriana. Complementare alla visione ontologico-speculativa di Di Chiara è quella autobiografica e letteraria dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano, del quale viene riproposta in una nuova edizione aggiornata Splendori e miserie del gioco del calcio (Sperling & Kupfer, Torino). Come non notare delle assonanze quando Galeano osserva a proposito del calcio: “il gioco del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo l’allegria della bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare”32. O quando, molto sottilmente, stabilisce un’analogia tra il gol e l’orgasmo: “il gol è l’orgasmo del calcio, il gol è sempre meno presente nella vita moderna”33. La stessa metafora erotica che Vladimir Jankélévitch utilizza per l’atto creativo della musica e che Martin Heidegger riconosce alla straordinarietà dell’Evento. Filosofia e letteratura finiscono quindi col coincidere sull’interpretazione del gioco del calcio. 34 E, se c'è qualcuno che ha amato il calcio con la stessa incantata foga di un bambino, questo è stato senz'altro Pier Paolo Pasolini. 32 GALEANO E., Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer, Milano 1997. GALEANO E, op. cit., Sperling & Kupfer, Milano 1997. 34 MATASSI E., Gioco ed essenza dell’identità., cit., articolo pubblicato su Il Fatto quotidiano, 24/09/2012. 33 32 1.4. IL LINGUAGGIO DEL GIOCO DEL CALCIO: PASOLINI “Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.” 35 In molte delle sue narrazioni, Pasolini ci racconta dei suoi pomeriggi interminabili passati a giocare a calcio, definiti come “i pomeriggi più belli”, e delle sue domeniche passate al comunale di Bologna. Trasuda emozione dalle sue parole. Racconta con un nodo alla gola l’estetismo dei passaggi tra Baviati e Sansone: “Niente di più bello! Che domeniche al Comunale!”. Per la sua passione calcistica illimitata Pasolini assimila in modo alquanto originale il calcio a un vero e proprio linguaggio, coi suoi poeti e prosatori, e definisce il football un sistema di segni, cioè un linguaggio, che ha tutte le caratteristiche fondamentali di quello scritto-parlato: «Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scrittoparlato. Infatti le parole del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scrittoparlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei fonemi: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I fonemi sono dunque le unità minime della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale podema (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei podemi formano le parole calcistiche: e l’insieme delle parole calcistiche forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche. I podemi sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le parole calcistiche sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei podemi (ossia, in pratica, dei 35 PASOLINI P.P., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999. 33 passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella partita, che è un vero e proprio discorso drammatico. I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.» 36 Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi). «Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio ben più convincente di questo accenno, sulla “lingua del calcio”. Penso, inoltre, che si potrebbe anche scrivere un bel saggio intitolato Propp applicato al calcio: perché, naturalmente, come ogni lingua, il calcio ha il suo momento puramente “strumentale” rigidamente e astrattamente regolato dal codice, e il suo momento “espressivo”. Ho detto infatti qui sopra come ogni lingua si articoli in varie sotto-lingue, in possesso ciascuna di un sottocodice. Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo.» 37 Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico. «Per spiegarmi, darò - anticipando le conclusioni - alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un prosatore realista; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un poeta realista. Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un poeta realista: è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul Corriere della Sera: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti. Si noti bene che tra la prosa e la poesia non vi è distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica. Tuttavia intendiamoci: 36 37 PASOLINI P.P., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999. PASOLINI P.P., op. cit., Mondadori, Milano 1999. 34 la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli elzeviri: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano. Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la cultura di quel Paese: la sua attualità storica. Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia.» 38 Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del goal. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico. Anche il dribbling è di per sé poetico. Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai, o molto raramente. Chi sono i migliori “dribblatori” del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani, ultimamente anche gli argentini. Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal. “Il catenaccio e la triangolazione (che Brera chiama geometria) è un calcio di prosa: esso è infatti basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato: cioè sull’esecuzione ragionata del codice. Il suo solo momento poetico è il contropiede, con l’annesso goal (che, come abbiamo visto, non può che essere poetico). Insomma, il momento poetico del calcio sembra essere (come sempre) il momento individualistico (dribbling e goal; o passaggio ispirato). Il calcio in prosa è quello del cosiddetto sistema (il calcio europeo): il suo schema è il seguente: catenaccio --> triangolazioni --> conclusioni 38 PASOLINI P.P., Saggio sulla letteratura e sull’arte, cit., Mondadori, Milano 1999. 35 Il goal in questo schema, è affidato alla conclusione, possibilmente di un poeta realistico come Riva, ma deve derivare da una organizzazione dei gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi "geometrici" eseguiti secondo le regole del codice (Rivera in questo è perfetto: a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po' estetizzante, e non realistica, come nei centrocampisti inglesi o tedeschi). Il calcio in poesia è quello del calcio latinoamericano. Il suo schema è il seguente: discese concentriche --> conclusioni Schema che per essere realizzato deve richiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome della prosa collettiva): e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque posizione. Se dribbling e goal sono i momenti individualistici poetici del calcio, ecco quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.”39 Il gioco del calcio è lo sport nazionale per eccellenza non solo in Italia; l’unico che unisce in un comune sentimento di entusiasmo e partecipazione tutte le fasce sociali e che riesce a tenere desta l’attenzione ben prima e ben dopo l’ora e mezza di durata della partita. Che sia il mezzo televisivo o la visione diretta a comunicare le immagini del gioco, l’eccitazione del pubblico si mantiene sempre a un livello 39 PASOLINI P.P., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., Mondadori, Milano 1999, in Belli Federico (a cura di) “Il gioco del calcio e il linguaggio: uno spunto da Pier Paolo Pasolini”, bellifederico.wordpress.com/2012/01/21/il-gioco-del-calcio-e-il-linguaggio, consultato in internet 19/01/2013. 36 molto alto e la tensione quasi mai si acquieta con la fine del gioco ma lo trascende e ha modo di scaricarsi nelle strade cittadine, coinvolgendo anche chi l’incontro agonistico non l’ha seguito. È un gioco che, proiettato oltre gli stadi ufficiali, si reinventa quotidianamente nelle migliaia di campi sportivi più o meno improvvisati, nelle scuole e nei cortili delle case, ovunque si ritrovino un gruppo di ragazzi intorno ad un pallone. Registrare questo fenomeno, con spirito di partecipazione, con la serena ottica dell’interesse culturale, con l’acuta indagine della curiosità è la sfida che hanno lanciato, nel tempo, giornalisti, fotografi, sociologi, filosofi, pittori, scultori e anche letterati. Pier Paolo Pasolini appartiene a quella categoria di intellettuali (Leopardi, Montale, Saba, Sartre, Eliot, Soriano, Galeano ecc.), che ha sempre manifestato nei confronti del gioco del calcio amore ed attenzione a tutti i suoi risvolti, sia in qualità di praticante che soprattutto di studioso delle sue dinamiche culturali e sociali. Per la sua passione calcistica illimitata Pasolini assimila in modo alquanto originale il calcio a un vero e proprio linguaggio, coi suoi poeti e prosatori, e definisce il football un sistema di segni, cioè un linguaggio, che ha tutte le caratteristiche fondamentali di quello scritto-parlato. Esiste quindi un’estetica del calcio? 37 CAPITOLO II ESISTE UN’ESTETICA DEL CALCIO? 2.1. UNA FILOSOFIA DEL CALCIO: WELTE Si cominciò con Manlio Scopigno, l’allenatore che portò allo scudetto nel 1970 il Cagliari di Riva e Bonimba: l’epiteto di filosofo non sappiamo se gli derivasse da un diploma o gli fosse dato honoris causa per le sue battute spiritose. Si fece onore coi piedi il brasiliano Socrates, cui si ispirò un film con Banfi, alias Oronzo Canà allenatore nel pallone del sudamericano Aristoteles. Nel saggio Filosofia del calcio, il discorso è serissimo. Oreste Tolone, specialista di antropologia filosofica, ha tradotto e raccolto due saggi di Bernhard Welte (1903-1983), maestro di studi filosofico-teologici all’università di Friburgo e pensatore di fama internazionale. Invitato in Argentina nel 1978, dove si svolgevano i mondiali di calcio, tenne delle lezioni sul tema, cui aggiunse nel 1982 (l’anno del trionfo in Spagna di Zoff e Paolo Rossi) un saggio sul gioco. La tesi, sviluppata con grande eleganza e sottigliezza, è sorprendente: il successo del calcio sarebbe legato alla sua capacità di immaginare in concreto un’immagine del mondo utopica, anzi escatologica. Un mondo di regole certe e condivise, un giudice-arbitro imparziale e incontestabile, una corale armonia con i compagni per il conseguimento del bene comune, una trasformazione dei nemici in avversari con cui disputare lealmente. Non solo: gli avversari, lungi dall’essere il male da vincere, sono l’alterità con cui occorre dialogare, necessaria presenza perché il gioco possa aver luogo. Non è una vera utopia, un’immagine anticipata di paradiso? La tesi è originale e assai suggestiva, ma non è l’unica avanzata da pensatori e letterati per capire la ragione del successo del gioco, sconfinato nel tempo e nello spazio. Ne dà conto Tolone nel saggio introduttivo che contestualizza il discorso di Welte e lo arricchisce – la metafora è d’obbligo – a tutto campo. Innanzitutto ricapitola la storia del gioco con la palla, già noto ai greci antichi, dove non ebbe però ospitalità nelle Olimpiadi (come in quelle moderne, dove fu introdotto a denti stretti e mal tollerato perché più palese era il non-dilettantismo degli atleti). Passò poi ai latini, che lo consideravano un esercizio 38 particolarmente utile ai legionari: occorre ricordare infatti che la palla (costituita volta per volta da tele rigonfie di paglia o di cenci, comprese vesciche di animali, o da una stessa vescica e dunque di forma per lo più ovale) era l’oggetto da portare oltre la linea nemica utilizzando tutti i mezzi fisici, come abbiamo visto in precedenza nel capitolo sul calcio fiorentino del Rinascimento, in cui, però, l’adozione del termine calcio fa capire che i piedi erano diventati strumento per colpire il pallone, oltre che gli stinchi della squadra rivale. Pare che proprio le legioni romane l’avessero introdotto in Inghilterra, dove lo sport nacque nella sua veste moderna nell’Ottocento, quando alcuni college si accordarono sulla proibizione di prendere la palla con le mani, distaccandosi così dallo stile diffuso in altri collegi, a partire da quello di Rugby che diede il nome allo sport della palla ovale. La «palla» divenuta sfera, avverte il curatore, è cuore del gioco nella lingua, che relega «calcio» allo scritto inamidato, ma usa «pallone» nel parlato quotidiano. Passando poi alle interpretazioni avanzate per spiegare il successo di questo sport, Tolone le raggruppa in alcune teorie principali. La prima è una chiave pedagogica. Il gioco sarebbe una simulazione della società, al cui ingresso i giovani si preparerebbero senza i rischi di errori gravi, come appunto accade nelle simulazioni. Imparerebbero la dinamica della alleanza, del rispetto delle regole, dell’impegno individuale e collettivo, a dosare generosità e calcolo, rischio e prudenza, a usare qualche astuzia consentita. Imparano insomma a sapersi muovere nel gruppo degli amici e degli avversari. Un’altra linea interpretativa lo vede come uno sfogo emotivo attraverso cui la società civile canalizza istinti primari sedimentati nei millenni. Il calcio surrogherebbe dunque l’istinto di caccia, individuale o di gruppo (buona mira, reparti coordinati), ovvero quello ad esso correlato della guerra. Tant’è che le arene romane ospitavano tanto le venationes di bestie feroci che i combattimenti dei gladiatori. La mira della freccia o il duello fisico verrebbero sostituiti dal proiettile inoffensivo e dall’abile dribbling. Connessa a questa chiave, è l’interpretazione etologica, alla Desmond Morris, che giustapporrebbe la passione degli uomini per l’agonismo e per la conquista del territorio (in forma di rettangolo verde) al disinteresse per quello sport mostrato generalmente dalle donne, eredi delle ataviche raccoglitrici di bacche e frutti nella savana, e oggi appassionate di shopping. Diversa invece la soluzione proposta da 39 uno scrittore come Wystan Hugh Auden. L’uomo si sentirebbe intrappolato dalla rete deterministica che frena la sua libertà e mortifica i suoi bisogni creativi. Si troverebbe allora di fronte a due strade, quella della trasgressione sistematica delle regole, secondo una deriva anarchica o propriamente criminale, o quella di crearsi delle regole tutte sue, svincolate da ogni utilità pratica che non sia la gratifica in sé che il gioco, come ogni attività ludica, riserva ai suoi adepti. Qualche anno fa il Prof. Dànilo Mainardi tenne la lezione che a Ca’ Foscari accompagna la consegna dei diplomi ai neo-dottori di ricerca. E, portando vari esempi dalla sua esperienza di zoologo, arrivò alla conclusione che chi dedica la propria vita allo studio riesce a prolungare lungo l’arco della vita quella emozione che i cuccioli provano nella magica stagione dell’infanzia. Sarebbe, in senso tecnico, una neotenia, un anomalo protrarsi di comportamenti immaturi che di solito appare patologica e che invece, sposata all’esperienza dell’uomo cresciuto, diventa una libera risorsa. Vi è, in questa chiave, una valutazione positiva, di tipo etico o spirituale, che fa capire come un campetto di calcio negli oratori di paese abbia forse tolto più di un ragazzo a vie sbagliate. È in questa direzione che Tolone conclude il suo saggio, con pagine che introducono assai bene i due scritti di Welte: con il quale condivide il merito di averci davvero fatto capire che c’è una filosofia del calcio. Dunque il calcio e il sapere sono coniugabili, contrariamente a quanto farebbero supporre i Maradona, i Cassano, gli Adriano e i Balotelli. 40 2.2. LUOGHI E TEMPI DELLA PARTITA ”Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio.”40 Un tripudio di colori, ognuno con una divisa improvvisata: si passa dai jeans alle scarpette di Cristiano Ronaldo e Messi, dal bambino cicciottello che fa l'ultimo difensore per fare compagnia al portiere, alla bambina che gioca larga sulla fascia con le braccia sui fianchi. Urli, schemi improvvisati, tattiche sempre nuove, dribbling infiniti, calci, pedate e qualche imprecazione; metti due pali per parte, una palla in mezzo e il gioco è fatto. Un briciolo di passione e la poesia è fatta. Per sempre. Fino alla prossima partita. In questa scena, e nella conseguente riflessione che ne scaturisce, c’è tutta la storia del calcio. C’è questa partita tra amici e c’è la finale dei mondiali del 1982, c’è un popolare Catanzaro-Crotone così come uno chic Milan-Inter, c’è un sentitissimo derby Roma-Lazio come un anonimo JuventusFrosinone. In questa partita ci sono tutte le partite della storia, come in tutte le partite, c’è questa partita. Ogni partita è uguale a se stessa e alle altre, eppure è 40 BORGES J., in “E qualche volta riesce il miracolo. Gli incontri in panchina con Osvaldo Jaconi.”, Colombo Claudio, Corriere della Sera, 17/04/2011. 41 sempre nuova. L’uguaglianza non risiede nel risultato, bensì nelle emozioni e nel mistero. L'ispirazione arriva sempre da un'emozione che genera mistero. Dentro una qualsiasi partita di calcio troviamo sempre i soliti elementi che la rendono tale, sia essa disputata al Camp Nou di Barcellona, oppure nel campetto accanto al parcheggio di Pozzarello. E in ogni partita ritroviamo la semplicità evocata nella frase di Borges, passando per i collegamenti sociopolitici di Galeano, dai pensieri di Leopardi sul gioco della palla fino alla recente analisi di Pastorin. «Il calcio è passione, letteratura, medicina, vertigine, tenerezza» 41 Il calcio è tutto questo e, forse, molto altro ancora. La partita è un evento (inteso alla Heidegger) in cui si vede l’evento stesso nel suo accadere, nel suo mostrarsi e rendersi manifesto. La partita è una rottura con l’ordine del tempo e, ribadisco, un rilegarsi forzatamente nello spazio per creare spazio entro cui consentire all’evento di prender forma. A questa esigenza si legano una serie di rituali che sono comuni in ogni “luogo sacro”. Pensate al custode di quel campo di periferia che ogni domenica mattina segna il campo, delimita il palcoscenico. In quel momento, così come quella partita è la partita di tutte le partite, anche quel custode rappresenta tutti i custodi del mondo, così come un portiere davanti ad un calcio di rigore rappresenta, in quel momento di estrema solitudine, tutti i portieri del mondo. Spazio, ritualità e tempo. Pierre Laguille sostiene che l'astrazione spaziale deriva dalla sistematizzazione di un quadro da cui sono stati esclusi i rapporti vitali con la natura organica: che sia praticato in piscine, stadi o piste da neve, lo sport si svolge in un'enclave chiusa, meccanizzata, estranea alla natura. Il contatto diretto con l'elemento naturale non c'è più, per la gioia estetica di Hegel, che vedeva nel bello ideale42 (nel bello funzionale) un'idea da promuovere a discapito di un Kant ben più affascinato dal sublime43 naturale. Così la neve diventa buona e non più bella, il manto erboso diventa praticabile e non più florido. Il godimento degli elementi viene sostituito dal suo sfruttamento. La razionalità dello spazio sportivo viene 41 PASTORIN D., Tempi supplementari. Partite vinte, partite perse., Feltrinelli, Milano 2002. HEGEL G.W.F., Estetica, Einaudi, Torino 1997. 43 KANT I., Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1997. 42 42 costruita sulla sua in-naturalità o naturalità impregnata di spirito, quindi controllata e sottomessa. Se lo spazio trova nei limiti il suo valore sportivo, il tempo unisce a questa concezione una componente in più: quella di sovrapporre tempo al tempo, un tempo dentro al tempo. Il tempo scorre inesorabilmente dalla notte dei tempi; si è studiato nell'antichità un metodo per classificarlo, ridurlo entro confini, ma nella pratica sportiva quello che più conta è che il tempo crei un evento. Gironi di andata, ritorno, primo e secondo tempo e tempo di recupero, tempi supplementari e quant'altro sono costrutti umani per racchiudere fenomeni spettacolari in gabbie temporali chiamate partite. In certi sport il “perdere tempo” equivale a quello che nella vita possiamo indicare come “il tempo è denaro”. L'arbitro è il direttore di banca che può decidere indiscutibilmente quanto tempo recuperare. E' il tiranno abominevole che esercita dittatura senza possibilità di opposizione ma al contempo, citando Cacciari, è l'emblema del nostro non saper giudicare. Strana faccenda: "arbitro" e "arbitrio" son quasi la stessa parola, eppure saremmo propensi a pretendere che nulla di arbitrario venga a macchiare l’operato di un arbitro. Esigenza già assai ardua da soddisfare per un giudice, che arriva alla sentenza attraverso lunghe indagini, sedute e sedute di dibattimento, giorni di camere di consiglio, ecc. Figuriamoci per un povero arbitro costretto a decidere letteralmente su due piedi. E si vorrebbe non lo facesse un po' ad libitum? Praticamente tutte le sue decisioni avvengono all'insegna del "a me pare che". Perciò non sono sopportabili quegli arbitri che nel loro comportamento sul campo assumono la maschera della divinità inappellabile, della tetragona certezza. Questi arbitri rivelano il lato più oscuro della vocazione "tremenda" a giudicare il prossimo. Giudici e arbitri svolgono, ahimè, funzioni insostituibili nella città dell'uomo, sempre pronta a trasformarsi in città del diavolo - ma che le svolgano, per quanto possibile, con modesta coscienza dei propri limiti e del carattere infernale (come diceva Simone Weil) che sempre l' affliggere pene porta con sé. L'arbitro di calcio può valere come metafora della crescente quasiimpossibilità a "giudicare secondo giustizia" nella realtà attuale. Si dovrebbe decidere sulla responsabilità individuale, dice il diritto. Ma come 43 fare? Tutto è "in rete", tutto si tiene. Posso forse tutto altrettanto vedere? Seguo un'azione, ma, nello stesso momento, attori della stessa partita si cazzottano lontani dal mio sguardo. I comportamenti della squadra, o dell'organismo sociale, che dovrei "sorvegliare e punire" sono tutti tesi ad ingannarmi, ad occultare le loro intenzioni. Fa parte del gioco il farsi gioco di me. E questi attori, in lotta tra loro, strenui difensori del proprio interesse e noncuranti di ogni "bene comune", sono sempre più aggressivi, più rapidi, più "atleti". Come può starci dietro un distinto signore, per quanto bene allenato? Impari lotta, davvero. Il meno che possa capitargli è non vedere un pallone in gol - o andare sistematicamente nel pallone con i fuorigioco. E allora un modesto ragionamento. O si sostituisce l'arbitro con un' occulta Presenza che segue la partita da un Panopticon dotato di potenti mezzi audio-visivi, moviole, ecc., e proclama attraverso altoparlanti a giocatori e pubblico le sue decisioni (sostituendo, magari, il fischietto con una sirena da allarme aereo). Oppure si riduce drasticamente il peso delle decisioni che l'arbitro assume rivedendo il regolamento. “Già limitare il fuorigioco alla sola area di rigore semplificherebbe la vita, risultando fisicamente impossibile cogliere insieme l'istante di un lancio e la posizione di un giocatore trenta metri oltre. Si farebbero più gol - e più gol si possono fare, meno drammatico diventa beccare un rigore. Da bambini facevamo sei corner, oppure tre falli non eclatanti in area, un rigore. Sarebbe divertente. Ma giudici e arbitri hanno la cattiva abitudine di prendersi tremendamente sul serio. Mai, però, quanto le "società" che debbono, e gliene siamo grati, tentare comunque di far giungere a fine gara senza troppe vittime.”44 Guardando un campo da calcio, le figure che si distinguono sono 3: i 20 giocatori divisi in due gruppi da 10, un arbitro e 2 portieri, custodi di una zona sacra, una soglia, un limite invalicabile. Chi entra in campo deve dunque avere un suo ruolo ben definito, deve essere dotato di un certo abbigliamento, deve poter fare alcune cose ed astenersi dal dire e farne altre. L'esistenza e l'accettazione di queste regole 44 CACCIARI M., Così sono diventati i simboli della nostra incapacità di giudicare, la Repubblica, 28/02/2012. 44 evidenzia come lo spazio della partita non sia mai uno spazio neutro, ma appartenga sempre ad un noi ed un loro, ad una squadra piuttosto che ad un'altra. Il goal ne diventa il momento supremo e, contemporaneamente, il principio del suo disfacimento. Il Goal è al contempo la meta e l'origine del gioco, il suo fine e la sua fine; la dialettica dello sport trova nel gol il momento estremo della sua sintesi ma anche l’inizio della sua fine: fare goal significa occupare uno spazio tabù, lo spazio più inaccessibile, e dunque dover ogni volta ripartire da capo. E allora è giusto ripensare il calcio, ripensando il rapporto fra gioco ed esistenza, “dando tutto il suo ruolo rilevante al gioco, senza con ciò ridurre tutta l’esistenza al mero gioco. Fra gioco ed esistenza non vi è identificazione, vi è piuttosto osmosi, intreccio, chiasmo. Nel modo di giocare è implicito il rinvio a un certo modo di vivere e di concepire l’esistenza, nel modo di condurre la propria esistenza è coinvolto un certo modo di giocare e di intendere il gioco.“45 Anche Nietzsche in Frammenti Postumi analizza il gioco. “Così il giocare passa dal giuoco delle contraddizioni fino al piacere dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, benedicendo se stesso come ciò che ritorna in eterno, come un divenire che non conosce sazietà, disgusto, stanchezza: questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso del perpetuo distruggere se stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà, se un anello non ha buone volontà verso se stesso – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? Una luce anche per voi, i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impavidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza - e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!”46 45 TOSCANI F., GIOCO ED ESISTENZA. La festa, il calcio e “il sogno di una cosa”., 10/07/2006, www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1007, consultato il 10/01/2012. 46 NIETZSCHE F., Frammenti postumi, Adelphi, Milano, 2005. 45 E lo spettacolo si manifesta con sontuosa grandezza nel teatro dello stadio. Così capita che alla “scala del calcio”, come viene definito lo stadio di San Siro, si ricrei un microcosmo nel quale ritrovare un modello che può rappresentare a pieno la società. Ognuno con le proprie cariche: abbiamo gli arbitri a rappresentare la magistratura, i calciatori che diventano politici, rappresentando i desideri e le volontà dei tifosi, che, a sua volta, altro non sono che la società civile, con le tutte le classi sociali presenti: imprenditori, operai, manager, studenti e disoccupati. Seguire il modo di tifare e di relazionarsi con la tifoseria avversaria ci manifesta il modo di essere di ogni società. E se gli stadi oggi rimangono più vuoti che in passato è perché si è perso il gusto della partecipazione. L’astensionismo cresce in maniera indirettamente proporzionale alla partecipazione. Urne sempre più deserte e stadi sempre più vuoti. Allora “il calcio è una metafora della vita”, per citare Sartre, oppure, come lo correggeva Givone47 “la vita è una metafora del calcio”? Senz’altro l’interpretazione di Sartre è più legata ad un certo tipo di società, entro cui parlare di calcio poteva essere un buon esempio per rappresentare qualche avvenimento della vita. Nella società moderna, invece, il calcio ha prevalicato la vita reale, ponendola spesso in secondo piano. Un popolo in crisi, a cui viene dato calcio 24 su 24, in ogni salsa, sotto ogni forma. A tal riguardo, un ancora sconosciuto Joseph Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI, in una sua riflessione prima dei mondiali del 1986, diceva: “questa manifestazione sportiva tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco. Il pessimista dirà che è come nell’antica Roma. La parola d’ordine della massa era: panem et circenses, pane e circo. Il pane e il gioco sarebbero dunque i contenuti vitali di una società decadente che non ha altri obiettivi più elevati. Ma se anche si accettasse questa spiegazione, essa non sarebbe assolutamente sufficiente. Ci si dovrebbe chiedere ancora: in 47 GIVONE S., citazione contenuta in www.pasolini.net/saggistica_ppp-e-calcioAM.html, visualizzato il 3/10/2012. 46 cosa risiede il fascino di un gioco che assume la stessa importanza del pane?” 48 Anche la straordinaria voglia di calcio, come ogni eccesso, alla lunga, porta al disfacimento dell’origine. In Italia siamo famosi per essere un popolo di 60 milioni di allenatori, tutti con il giusto crisma per tutti i problemi di questa o quella squadra. E la voce narrante è quella di un addetto ai lavori, disincantato da questo sistema entro cui si gettano tutte le problematiche sociali nel calcio, perdendo di vista il suo ruolo originario: essere un evento fine a se stesso, per il piacere del suo compimento nel “desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata. Perché è questo che s’intende in ultima analisi con il gioco: un’azione completamente libera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le forze dell’uomo. In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello.” 49 48 49 RAZTINGER J., Cercate le cose di lassù, Paoline, Roma 1986. RATZINGER J., op. cit., Paoline, Roma 1986. 47 2.3. RIPENSARE IL CALCIO, TRA GIOCO E ESISTENZA: FRANCO TOSCANI Il sistema si ammala e non sempre è facile trovare una cura. Franco Toscani, nel 2006, a cavallo tra lo scandalo di calciopoli e della vittoria italiana al mondiale del 2006, diceva che «in un gioco dalle carte truccate scompare la gioia dell’attività ludica e non ci si diverte più; come ha rilevato Marco Travaglio, in quel gioco d’azzardo che è il calcio, “se manca la suspence, nessuno gioca più”50. Così dovrebbe essere, almeno, ma nel mondo umano e specialmente in Italia accade o può accadere che si giochi anche con le carte truccate o addirittura che l’unico gioco consentito sia proprio quello con le carte truccate. Nel passaggio/trasformazione dal calcio al “neocalcio”, dal fùtbol al calcio-business, questo gioco si è progressivamente pervertito e snaturato come gioco, è diventato sempre più un tassello importante dell’odierna società sirenico-spettacolare che trasforma ogni cosa ed ogni evento in merce e denaro; gli interessi e i conflitti di interesse economico-politici sono diventati prevalenti. Giustamente Guido Liguori e Antonio Smargiasse hanno sottolineato, in questo passaggio/trasformazione avvenuto dagli anni Ottanta sino all'inizio del XXI secolo, il ruolo decisivo dei massmedia e della televisione in particolare: “la televisione si fa protagonista della costruzione di una sua immagine del calcio, che sarà altra da quella offerta dal campo. Il distacco è insieme estetico e temporale. Gli spettatori che assistono alla partita nello stadio e i telespettatori che invece seguono la stessa partita dal piccolo schermo, hanno una percezione ben diversa del “medesimo” evento. (...) lo stadio prevede spettatori (che al più possono essere decine di migliaia), la televisione invece prevede telespettatori (misurabili per le partite più importanti in centinaia di milioni). Ma i telespettatori altro non sono che audience. La televisione commerciale ha nel suo stesso DNA la tendenza a dilatare, raddoppiare, triplicare, con i pre e i post, il tempo della partita; e anche il bisogno di diluire durante i giorni della settimana l'offerta di calcio, rendendo anacronistica ogni distinzione tra tempo del gioco e tempo del 50 TRAVAGLIO M., citato in TOSCANI F., GIOCO ED ESISTENZA. La festa, il calcio e il sogno di una cosa., La Voce di Fiore, 10/07/2006. 48 non gioco. Per la televisione, in definitiva, il calcio è un mezzo - anzi, è il mezzo più potente - per favorire la diffusione del mercato pubblicitario, per mettere in contatto milioni di persone (che diverranno miliardi nel mercato globale) con l’offerta di beni di consumo.”51 È del tutto ovvio, poi, sottolineare quanto lo strapotere targato Fininvest del neocalcio milanista degli anni Novanta abbia costituito la base anche del successo politico di Silvio Berlusconi e del berlusconismo nel decennio successivo. Qui il calcio è stato infatti non solo trasformato in business, ma si è fatto pure un uso ideologico e strumentale di esso, mutato persino in strumento di consenso politico. L’attuale trionfo della ratio strumentale-calcolante e la strumentalizzazione ideologico-politica del calcio corrispondono allo snaturamento e alla perversione più completi del gioco. Sviluppare queste considerazioni non significa però, per noi, aderire alle tesi sterili di un certo ideologismo di sinistra (pensiamo ad esempio alle posizioni sostenute da Gerhard Vinnai negli anni Settanta), secondo cui il calcio non sarebbe che una forma ingannevole di “risarcimento del corpo” rispetto ad altre attività ludico-erotiche ritenute più positive e sarebbe meramente funzionale all’organizzazione capitalistica del lavoro, utile soltanto a disinnescare le potenzialità rivoluzionarie delle masse. Tutti gli ideologismi e i moralismi, prigionieri di un’ottica riduzionistica, impediscono la visione dell’essenziale, della complessità dei fenomeni, della ricchezza e molteplicità della realtà. Sostenere che il calcio è nient’altro che oppio dei popoli e strumento di addomesticazione/manipolazione delle masse significa di fatto chiudersi alla reale comprensione del fenomeno, impedirsi di avanzare proposte concrete e di incidere nelle sue dinamiche interne.»52. E Toscani continua la sua riflessione riportando l’attenzione su “la questione dei costumi e il sogno della cosa”: «Occorre insistere sull’ambivalenza carica di tensione propria del calcio, per cui esso appare da un lato, davvero, come l’odierno oppio dei popoli, un fenomeno interno ai meccanismi della civiltà sirenico- 51 LIGUORI G. - SMARGIASSE A., Dal calcio al neocalcio. Geopolitica e prospettive del football in Italia., Manifestolibri, Roma 2003. 52 TOSCANI F., GIOCO ED ESISTENZA. La festa, il calcio e il “sogno di una cosa”., cit., La Voce di Fiore, 10/07/2006. 49 spettacolare e al sistema della mercificazione totale, della manipolazione massmediatica delle coscienze e della forma prevalente della globalizzazione; d'altro lato, come abbiamo già detto, esso mantiene ancora, almeno parzialmente, le sue caratteristiche reali di bellezza, grazia, armonia, meraviglia tecnica, freschezza atletica, vitalità corporea e genius ludi che lo rendono sempre affascinante. Oggi non c’è davvero, per noi, la possibilità di uscire da questa ambivalenza carica di tensione e di contraddizioni, che quindi siamo costretti a vivere sulla pelle, in prima persona, con tutte le conseguenze relative all'identità personale e alla forma della nostra soggettività scissa e lacerata. Noi umani siamo specialisti anche nel rovinare le cose belle ed è proprio ciò che è avvenuto e sta avvenendo con “Calciopoli”, sulle cui vicende dovremmo tutti seriamente riflettere per riaccostarci a un senso più genuino dello sport e per abbandonare certi vizi antropologici - come l’opportunismo, il cinismo, il servilismo, la dissimulazione (non sempre “onesta”, come voleva Torquato Accetto), il menefreghismo, il “tirare a campare”, il trasformismo - fin troppo radicati nella storia e nei costumi degli italiani. Vi riusciremo? C’è da dubitarne, perché abbiamo accumulato e non cessiamo di accumulare troppi veleni, scandali, vergogne e menzogne, troppo marciume nelle nostre vicende calcistiche ed extracalcistiche, troppi strappi e incrinature nel nostro tessuto politicoistituzionale, nella vita morale e civile del paese, troppo inquinamento, corruzione e inciviltà nella nostra società civile. Sono di un’attualità sconcertante le riflessioni acute svolte da Giacomo Leopardi nel 1824 nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, con cui il grande poeta-pensatore italiano si soffermava amaramente sull’estinzione o sull’indebolimento nel nostro paese delle credenze nei principi morali, sull’inutilità della virtù e sulla “utilità decisa” del vizio. Oggi va assolutamente ricordata la frase con cui l’allenatore Lippi intendeva arrogantemente liquidare le critiche mosse da Zeman al mondo calcistico italiano: “Non si può stare nel sistema e contemporaneamente criticarlo”.53 53 LIPPI M., citazione ripresa da una conferenza stampa citata in “Bravo, bravissimo, irascibile. Le sue vittorie come una parentesi” di GUALERZI VALERIO, la Repubblica, 12/06/2006. 50 Ora sappiamo che aveva ragione Zeman, ma siamo ancora ben lontani anche da un solo cenno di autocritica e di pentimento reale da parte dei protagonisti del sistema stesso, che cercherà sempre di superare le bufere momentanee per imporre la sua logica implacabile, che vede l’evento sportivo ormai essenzialmente all'interno di un gigantesco e globale processo di manipolazione, controllo e mercificazione di tutte le cose e di tutte le attività umane. In questa logica ferrea e folle al tempo stesso, non ne è letteralmente più nulla del gioco come tale, soprattutto del suo piacere; termini ed espressioni come etica, costume, coscienza civile, rispetto delle regole - oggi necessari come il pane - appaiono desueti, perché ciò che conta è solo vincere (non importa come), accumulare denaro, ingannare gli altri, fare i furbi e apparire come i più forti, aumentare a tutti i costi i profitti, produrre e consumare le risorse disponibili, considerare gli umani (tutti gli umani, dai giocatori agli spettatori) come materiale umano (Menschenmaterial) e il mondo stesso come un’unica e immensa risorsa da sfruttare. Questo è il nichilismo che distrugge alla radice il senso stesso dell'uomo e del suo rapporto con gli altri, le cose, il mondo e la verità. Il nichilismo e la rigidità dell'attuale sistema vincente non lasciano spazio ad alternative reali e praticabili. C’è quindi da disperare sulle possibilità di un rinnovamento radicale e di un nuovo cammino. E di fatto molti disperano e ritengono che non cambierà davvero nulla anche dopo “Calciopoli”.»54 Anche nella conversazione tra Cristiano Lucarelli e Sergio Givone, il filosofo fiorentino osserva che “il calcio cessa di essere un gioco nel momento in cui dietro le quinte qualcuno se ne serve, lo usa per altri fini, lo controlla, lo manipola, lo trucca. È chiaro che un gioco truccato non è più un gioco”. 55 È vero: un gioco truccato non è più un gioco, ma ci ritroviamo o rischiamo fortemente di ritrovarci nella situazione assurda e orribile di non concepire più alcuna alternativa ai giochi truccati e di accettare i giochi truccati come gli unici giochi per noi possibili. L'assuefazione a qualunque imbroglio, la mancanza di 54 TOSCANI F., GIOCO ED ESISTENZA. La festa, il calcio, e il “sogno di una cosa”., cit., la Voce di Fiore, 10/07/2006. 55 GIVONE S. - LUCARELLI C., La banalità del Moggi e l’etica nel pallone., Micromega n.4, giugno 2006. 51 scrupoli morali e la rassegnazione supina al cattivo esistente sembrano giunti a tale punto estremo. Forse dobbiamo tutti tornare ad imparare dal calcio amatoriale, giovanile e superdilettantistico (che comunque non va idealizzato, perché pure in esso vi sono i germi e le potenzialità della degenerazione propria del calcio “maggiore”) il senso dell'avventura individuale e collettiva, il candore e la passione del gioco, la sua bellezza e purezza. Ecco perché nelle vicende di “Calciopoli” siamo tutti coinvolti e rischiamo di essere tutti perduti come persone: la posta in gioco non è infatti solo calcistica, ma etica e riguarda il nostro intero modo d’essere e di vivere. È tutto un mondo morale e civile, la sua sopravvivenza, il suo indebolimento o rafforzamento che è qui in questione. In queste vicende ne va non solo di un gioco, ma del senso o dell’insensatezza dell’intera esistenza e della convivenza civile. Ripensare il calcio vuol dire per noi, fra l’altro, ripensare il rapporto fra gioco ed esistenza, dando tutto il suo ruolo rilevante al gioco, senza con ciò ridurre tutta l’esistenza al mero gioco. Fra gioco ed esistenza non vi è identificazione, vi è piuttosto osmosi, intreccio, chiasmo. Nel modo di giocare è implicito il rinvio a un certo modo di vivere e di concepire l’esistenza, nel modo di condurre la propria esistenza è coinvolto un certo modo di giocare e di intendere il gioco. Se qualcuno ponesse il calcio al centro del mondo, illudendosi di cancellare o di dimenticare in virtù di esso i drammi e le contraddizioni in cui si dibatte l’umanità, commetterebbe un grave torto nei confronti del calcio stesso, che si vedrebbe attribuite indebitamente prerogative non in suo possesso. Nessun gioco può infatti cancellare o ridurre il peso del dolore ineliminabile dell’esistenza. Anche coloro che, moralisticamente e ideologicamente, si rifiutassero di abbandonarsi - sia pure per poco - al piacere dello sport fissando lo sguardo soltanto sulle tragedie dell’umanità, si vieterebbero di apprezzare e di sperimentare l’importante dimensione ludica della vita, con conseguenze inquietanti per il senso lugubre e serioso attribuito alla propria stessa vita, al rapporto con gli altri e alla prospettiva intera, anche futura, dei rapporti umani. «Il “sogno di una cosa” è allora qui per noi il calcio sottratto all’idiozia calcistica, alla volgarità degli italioti, alla corruzione e all'inquinamento che minacciano di soffocarlo, concepito in armonia con le altre attività, modalità e sfere dell’esistenza, ricondotto nuovamente alla sua fonte originaria, al suo essere gioco 52 carico di avventura, al piacere provato dai bambini che una volta giocavano senza limiti orari nei campetti di periferia, richiamati dal rimprovero della mamma esasperata, che dal balcone li esortava finalmente al ritorno a casa. Il “sogno di una cosa” ci consente di rievocare e di riaccostarci fruttuosamente ad un verso di Paul Valéry, (1920), che - oltre a garantirci una parziale e del tutto insoddisfacente consolazione - ci rammenta l'esigenza e insieme la difficoltà di rispondere, ogni giorno della nostra vita, alle domande di senso e che suona: “Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!”56.»57. 56 VALERY P., Il cimitero marino, Mondadori, Milano, 1995. TOSCANI F., GIOCO ED ESISTENZA. La festa, il calcio, e il “sogno di una cosa”., cit., la Voce di Fiore, 10/07/2006. 57 53 2.4. MOURINHO E GUARDIOLA: FILOSOFIE A CONFRONTO “Il calciatore deve creare bellezza e armonia ogni volta che scende in campo.”58 Per salvare il calcio servono uomini capaci di combattere il sistema da dentro, creando una nuova scala di valori entro cui confrontarsi e, possibilmente, affermarsi. “La bellezza salverà il mondo”59 e così, dalle ceneri di quest’Araba Fenice calcistica, nascono i Guardiola e i Mourinho. Filosofi, esteti e idealisti di un calcio nuovo, anche se interpretato in maniera diametralmente opposta. Così Mourinho diventa l’interprete moderno di Houdini (i segreti delle manette), con una capacità senza eguali di erigersi a uomo pulito e schietto in un calcio corrotto, pronto ad assumersi ogni responsabilità, calcistica e non, della sua squadra. L’uomo che va contro tutti, paladino di mille battaglie, contro tutti i giornalisti e contro un sistema che lo vedeva sempre vittima sacrificale. La sua grandezza “distruttrice” ha portato l’Inter sul tetto d’Italia e d’Europa, ma la sua vera forza è stata quella di essere il perno centrale, focalizzatore, dell’intera squadra. L’abbraccio di Materazzi, dopo la finale di Champions, faceva capire che chiunque sarebbe arrivato dopo di lui avrebbe 58 59 SAMSONOV S., Un fuoriclasse vero, Isbn Edizioni, Milano, 2009. DOSTOEVSKIJ F., L’idiota, Einaudi, Torino 2005. 54 trovato terra bruciata intorno. Mourinho aveva ottenuto il 100% dai suoi giocatori, dai tifosi e da tutto l’ambiente. Aveva spremuto tutte le risorse umane messegli a disposizione. L’ambiente interista, tutt’oggi, vive con la sindrome di “Romeo e Giulietta”. «La noia di Ranieri? Cos'è la noia di Ranieri? Ho studiato e conosco solo la nausea di Sartre, filosofo, premio Nobel, ma anche grande appassionato di calcio». 60 Forse la battuta di Josè Mourinho non è stata all'altezza delle sue migliori, ma la comparsa di Sartre nel gran teatrino del nostro calcio ha fatto un certo effetto. Il filosofo francese, in effetti, era stato persino qualcosa di più che un appassionato di calcio. Ci aveva giocato fin da ragazzino, per strada: il pallone - ricordava - era stata la sua palestra di democrazia. Di riferimenti al calcio e allo sport ha disseminato il suo lavoro, in particolare La Critica della Ragion Dialettica pubblicata nel 1960. Per Sartre la squadra di calcio è una riproduzione in vitro dell'organizzazione di gruppo. La metafora calcistica mette in evidenza i rapporti tra libertà e funzione individuale, la dinamica tra i legami positivi all'interno di un gruppo e l'antagonismo nei confronti degli avversari. «Tra una squadra di calcio e un gruppo di ribelli armati - si legge - ci sono molte cose in comune.61. Raoul Kirchmayer, professore di estetica all'università di Trieste, membro del Gruppo italiano di studi sartriani, curatore di diverse opere del filosofo francese e juventino pentito, illustra così la passione di Sartre per il calcio. «Dunque, nella Critica della Ragione Dialettica, Sartre pone la questione del funzionamento di un gruppo organizzato e cerca di descriverne le dinamiche interne, impiegando la metafora della squadra di calcio. Diciamo subito però che il suo è un esempio limitato, dal momento che lui stesso scrive: Nella realtà tutto è complicato dalla presenza dell'avversario. Sartre fa un 60 61 MOURINHO J., conferenza stampa, Milano 2010. SARTRE J.P., Critica della ragion dialettica. Teoria degli insiemi pratici., cit., Il Saggiatore, Milano 1963. 55 analisi in vitro tenendo conto solamente del funzionamento del grupposquadra, cioè delle interazioni reciproche tra gli individui, ovvero tra i giocatori della stessa squadra. A lui interessano i rapporti che si stabiliscono in un gruppo, nel momento in cui il gruppo si costituisce e funziona. Utilizzo questo verbo perché Sartre lo sottolinea»62. Così entra in gioco la libertà dei singoli chiedendosi come si possa essere liberi in un gruppo che prevede delle relazioni specifiche tra i suoi componenti, ovvero delle funzionalità. E qui arriviamo a Mourinho, che abbia letto oppure no La Critica, perché Sartre ci fa vedere come funziona un gruppo laddove l'individuo ha alienato la sua libertà a vantaggio degli altri. Più avanti Sartre intende contrapporre questo gruppo a quello che lui stesso chiama gruppo in fusione, che procede dentro una sorta di esplosione collettiva nella quale il fattore di alienazione, l'elemento di alterità che entra in gioco in ogni organizzazione viene sciolto all'interno di un evento storico. Sartre fa l'esempio della presa della Bastiglia: il gruppo in fusione non prevede più né alterità né alienazione. In questo miracolo rivoluzionario che avviene all'interno del gruppo in fusione è importante quello che Sartre chiama il terzo - che è l'elemento costitutivo del gruppo: partendo da una coppia infatti il gruppo si forma al momento in cui abbiamo la presenza di un terzo. Nel gruppo in fusione ciascuno è terzo per gli altri. Mentre evidentemente nel caso della squadra di calcio c'è un terzo che è esterno al gruppo, e definisce il gruppo in quanto tale. In questo caso potremmo tranquillamente intendere che si tratti dell'allenatore. Così Mourinho diventa il tramite per garantire sul campo la priorità del collettivo sul singolo, mantenendo però centrale l’importanza della creatività individuale messa così a servizio della squadra. Nel calcio di oggi siamo già all'interno di un processo che fa del gruppo un organismo in cui tutti i giocatori sono intercambiabili. Questo si era prospettato nell'idea di calcio totale olandese, che non a caso nasce in un periodo di trasformazione dei luoghi di lavoro e dell'impresa: i grandi cambiamenti degli anni '80 sono preannunciati anche da quest'idea funzionalistica. Come dire che nel calcio sta vincendo il modello Toyota. Così l’Eto’o della stagione 2009/2010 diviene senz’altro il miglior “operaio” dell’anno. Nel calcio di Mourinho ciascuno ha 62 KIRCHMAYER R., lezione tenuta presso Università degli Studi di Trieste, 2011. 56 la propria identità, ma al tempo stesso deve perdere quest'identità a vantaggio della squadra. Mourinho nelle sue dichiarazioni continua a ripetere: lavoro, lavoro, lavoro. Come se l'aspetto ludico fosse un effetto del lavoro, il che è pure vero, ma se lo poniamo alla fine della gerarchia ciò che conta maggiormente è la retorica del lavoro, del sacrificio, addirittura del sangue. Ma c'è anche un calcio-gioco, un calcio spettacolare, un calcio che si basa più sul gesto espressivo del singolo, ed è un calcio romantico, un patrimonio della cultura sudamericana ad esempio. La cosa preoccupante è che anche il Brasile negli ultimi vent'anni è andato verso un gioco all'europea, più funzionale e meno spettacolare. In questa storia d’amore italo-portoghese, a tutela della spettacolarità del calcio, si inserisce la rivale europea della squadra del triplete: il Barcellona. O forse sarebbe meglio dire che l’Inter del Mou si è inserita, per un breve tempo, nell’egemonia storica della squadra spagnola, guidata “dall’ultimo artigiano del calcio catalano”: Pep Guardiola. Quattro anni in cui, con le sue idee e la sua squadra, ha rinnovato totalmente il calcio mondiale, grazie anche al lungo lavoro che è stato fatto nella società blaugrana sin dai tempi di Cruijff. I suoi successi sono frutto di un lavoro accurato, maniacale e quotidiano. “[…] il lavoro di un artigiano nella più grande bottega calcistica mai esistita.” 63 E così ci sono momenti e situazioni che restano nella storia, per sempre, ma di cui non tutti, nell'attimo in cui accadono, sono riusciti a comprendere realmente la portata, l'impatto, che avrebbero poi avuto. Il primo giorno che Guardiola ha deciso di schierare insieme, da titolari, nel suo nuovo Barcellona, quei giocatori, forse neppure si è reso conto di ciò che stava andando a fare, a creare, a plasmare, ma oggi può dire, guardandosi alle spalle, di vedere sé stesso allenatore di quella che da tutti sarà ricordata come una delle più grandi squadre di ogni tempo, la più forte dell'era moderna. Un’egemonia di successi interrotta soltanto due volte: dall’impresa di quell’Inter italo-portoghese e dal Di Matteo salvatore in quel di Londra, sponda Chelsea. 63 ROSSETTI A., Guardiola, l’ultimo artigiano del calcio catalano., www.vavel.com/it/calciointernazionale/liga-spagnola/152352-guardiola-l-ultimo-artigiano-del-calcio-catalano.html, 2012. 57 2.5. CALCIO, MUSICA E CADENZA D’INGANNO: IL BARCELLONA E PIRLO I successi di questo Barcellona vanno però cercati nella programmazione degli anni precedenti; Guardiola è stato l’esecutore ultimo di un processo di cambiamento epocale, che risale al lontano 1988, quando sulla panchina si sedette da allenatore un certo Johan Cruijff. L'olandese volante è sempre stato un tipo estroso, uno che rifiutò il Real Madrid, minacciando il suo ritiro dal calcio pur di arrivare da calciatore nelle fila del Barcellona, uno che odia conformarsi e preferisce essere lui a dettare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, facendosi poi seguire di conseguenza. Arrivato, nel 1988, sulla panchina blaugrana, caccia praticamente mezza squadra, ricostruendo dalle fondamenta un team e cambiando totalmente la mentalità con cui si vive il calcio nella città spagnola: con lui arrivarono Bakero, Soler, Begiristain, Valverde e Goikoetxea, ma soprattutto con lui si iniziò a costruire la cantera catalana, quella struttura societaria che oggi permette alla società blaugrana di schierare in prima squadra almeno sei o sette talentuosi giocatori cresciuti nelle giovanili. Rimase otto anni sulla panchina del Barcellona e sotto la sua guida si costruì l'ossatura del club del decennio futuro attraverso giocatori come Koeman, Laudrup, Stoickov e, appunto, Josep Guardiola. Come un artigiano, Cruijff, lentamente e con precisione certosina, plasmò non solo una squadra, ma un'intera mentalità di lavoro, creando una formazione che vinse, in otto anni, quattro Lighe consecutive, una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe e la prima Coppa dei Campioni della storia blaugrana, gettando i semi di quello che sarebbe poi diventato il Barcellona di Pep, suo discendente nella grande storia degli artigiani del calcio in Catalogna. Cruijff, da calciatore, fu emblema della filosofia calcistica del "calcio totale" sviluppata da Rinus Michels, allenatore olandese che attraverso le esperienze nell'Ajax, nell'Olanda e nel Barcellona andò a creare questo nuovo stile di gioco, basato sulla totale libertà e completa mobilità lasciata ai giocatori grazie ad una potenza fisica ed una reattività muscolare di questi che permetteva loro di giocare novanta minuti a ritmi altissimi e spesso, per gli avversari, insostenibili. Johan prese l'insegnamento di Michels e lo sviluppò, cercando però un calcio più tecnico e meno fisico, ma i suoi otto anni alla guida del Barcellona furono una riedizione ammodernata del calcio totale olandese. Solo Guardiola, dodici anni 58 dopo, ma sulle fondamenta del lavoro di Cruijff, riuscì a realizzare la vera evoluzione del calcio totale: nasce la nuova filosofia del calcio, quella che internazionalmente viene riconosciuta come il "tiki-taka". Questo modo di dire, in Spagna, si usava già colloquialmente, ma fu reso noto a tutti grazie al telecronista spagnolo Montes che, in Tunisia-Spagna dei Mondiali del 2006 affermò: "Estamos tocando tiki-taka tiki-taka". In realtà, il tiki-taka, è un modo di giocare che gli spagnoli hanno sempre avuto nel sangue, un calcio avvolgente che si contrappone alla fisicità del calcio di altre Nazioni, come quello tedesco ed inglese, o al calcio di ripartenza tipicamente italiano, ma solo con Guardiola ed il suo Barcellona il tikitaka diventa una vera filosofia del calcio, un meccanismo di gioco perfetto che si sviluppa attraverso ragnatele di passaggi rasoterra svolti con grande calma così da imporre il proprio possesso all'avversario per la maggior parte della partita, diminuendo radicalmente le chance di questo di segnare. Quando nel 2008 Guardiola fu chiamato da Laporta a sostituire Rijkaard sulla panchina della prima squadra, non è che prese in mano una squadra da buttare, anzi, il Barca preGuardiola era già una grande squadra, ma Guardiola è un artigiano, ricerca la perfezione: iniziò a smussare gli angoli di una squadra già vincente, ma che lui voleva diventasse perfetta. Los Bajitos (i bassi) divennero titolari inamovibili e perfetti interpreti del tiki-taka. Chi sono? Sono quei giocatori tipicamente bassi di statura ma dal tocco di palla sopraffino di cui il Barcellona è pieno: Messi, Dani Alves, Xavi, Iniesta, Pedro, Thiago Alcantara, David Villa, Fabregas. Guardiola ha estremizzato il tiki-taka col suo Barcellona, rendendolo una filosofia calcistica all'estremo opposto rispetto a quella del gioco fisico, una filosofia associabile al talento, all'agilità, alla creatività, al tocco ed alla pazienza, che si sa, è la virtù dei forti. Due sono le citazioni che caratterizzano la sua idea di gioco: “Giochiamo senza centravanti, perché il nostro centravanti è lo spazio”64 “Se gli avversari sono chiusi noi giochiamo aperti, se gli avversari sono aperti, noi giochiamo dentro”65 64 GUARDIOLA P., intervista Gazzetta dello Sport, 02/01/2012. GUARDIOLA P., lezione tenuta presso Centro Tecnico Federale di Coverciano, in Guardiola e il calcio come filosofia, di ULIVERI R., Coverciano (FI) 2012, www.assoallenatori.it/aiac visualizzato il 21/01/2013. 65 59 Idee precise, che suonano forti e chiare. Privilegiare la tecnica: più qualità che quantità quindi. Chi ha la palla e non è attaccato dagli avversari deve mantenere il possesso, poi quando viene attaccato deve scaricare al compagno più vicino. “Se teniamo la palla noi, abbiamo il controllo della partita.“66 Il possesso-palla non è fine a se stesso, deve servire a creare superiorità numerica alle spalle della linea avversaria che sta difendendo. Guardiola risulta essere, a tutti gli effetti, un ottimo Chef che ha creato un ottimo piatto con ingredienti di prima qualità. Se essi non lo fossero stati anche il suo piatto non sarebbe rientrato nell'eccellenza, questo è chiaro, ma se gli ingredienti di prima qualità vengono dati in mano ad un cuoco di medio livello, non si potrà mai ottenere un piatto da stelle Michelin. Guardiola è stato il grande chef a cui sono capitati (o che è riuscito a procurarsi per meglio dire) ingredienti di qualità, e ciò nulla toglie al suo talento da allenatore. Avere a disposizione giocatori come Messi, Xavi, Iniesta, Villa, Thiago e Dani Alves aiuta moltissimo, ma a costruire, come abbiamo detto, una filosofia di gioco su questi talentuosi giocatori è stata la mano attenta e premurosa di Guardiola. Pep è cresciuto nella Masia, ovvero la struttura di formazione della cantera del Barcellona, in cui ha allenato il settore giovanile catalano, vivendo e respirando nei minimi dettagli l’ambiente Barcellona e, dunque, se oggi ci sono questi giocatori, alla fortuna dobbiamo abbinare anche un grande lavoro. Quasi 700 gol realizzati in quattro anni; meno di cento gol subiti; tre vittorie consecutive nella Liga, due Champions League vinte e due semifinali raggiunte, due Coppa del Re vinte, due Coppe del Mondo per Club, due Supercoppe Europee, tre Supercoppe di Spagna. 14 trofei in quattro anni. Sono questi i numeri ottenuti da una questa squadra ed il merito non può che essere anche di Guardiola. E nel calcio di questo genio-visionario, tutto prende forma in maniera diversa. Basti pensare alla rivalutazione del ruolo del portiere. Con il nuovo concetto di calcio, la solitudine romantica del portiere svanisce e il ruolo viene visto per la prima volta con un’accezione completamente diversa. Victor Valdes, portiere del Barcellona, non 66 GUARDIOLA P., lezione tenuta presso Centro Tecnico Federale di Coverciano, in Guardiola e il calcio come filosofia, di ULIVERI R., Coverciano (FI) 2012, www.assoallenatori.it/aiac visualizzato il 21/01/2013. 60 potrebbe mai giocare nella squadra più forte del mondo se essa non richiedesse al suo estremo difensore di fare tutto fuorché il portiere. Paradosso estremizzato a parte, è chiaro che gli si chieda di parare, ma la caratteristica che lo tiene ben ancorato tra i pali della porta dei pluri-campioni d’Europa è la sua straordinaria abilità nella gestione della palla con i piedi; Victor Valdes diventa il primo attaccante e non più soltanto l’ultimo baluardo. Questa evoluzione si nota anche nella lettura delle formazioni; via via, vediamo comparire un 1 davanti ad ogni modulo. Da 4-3-3 a 1-4-3-3, chiarendo, e sottolineando per la prima volta, con grande efficacia che esiste anche il portiere in questo calcio che lo riconduce in campo e lo rende più partecipe che in passato e, anzi, lo erige a modello di riferimento nella sua completezza. Guardiola però lo si può valutare sia come un grande Chef sia come un magnifico direttore d’orchestra, capace di creare un suono fluente, cadenzato ed efficace. Armonia del collettivo, in ogni suo effettivo, allo stato puro. Così Pep può accomodarsi al suo piano schierando un’orchestra da film, in cui Valdes è il timpano, Puyol la tromba che suona la carica nei momenti in cui serve la scossa, Mascherano e Dani Alves i due clarinetti cinguettanti, Piquè il trombone su cui si fonda l’intera difesa, Xavi e Iniesta i due flauti che dettano tempi, ritmi e velocità, Busquets il fagotto utile alla causa con il suo suono goffo ma intenso, Fabregas il sassofono solista, Sanchez lo xilofono jazzista e Messi l’arpa che, quando decide di far vibrare le proprie corde, dà forma, dolcezza e armonia al tutto; i movimenti secchi e decisi di un dribbling si addolciscono nel fluire del suo passo corto e, quand’è così, l’estesi suprema è vicina. A questa magnifica sinfonia forse è mancato solo un altro direttore d’orchestra, in campo questa volta: Andrea Pirlo sarebbe stato il Guardiola in campo. Pensando a Pirlo verrebbe voglia di scrivere un tema intitolato: “Pirlo e la subordinazione.” Veder giocare Pirlo è leggere una frase di Proust. Quei lunghi periodi, incastrati uno sull'altro, senza mai mettere un punto, fin quando non si è stupito, meravigliato. Fin quando non è il momento. L'ultimo passaggio. La finalizzazione. Veder giocare Pirlo è leggere un lungo periodo ipotetico: non sapremmo mai come sarebbe andata se, lì nel mezzo, non ci fosse stato lui. Senza di lui quel dubbio, forse, non ci sarebbe neppure stato. E ci sarebbe solo una banale giro palla sulle classiche e 61 scolastiche linee di passaggio che tutti vedono. Provare a leggere una traiettoria di un suo lancio è pressoché impossibile se non per il fortunato destinatario, che correndo dritto, si vedrà catapultare una missiva intestata a lui, con mittente: Andrea Pirlo. Nel trotterellare senza fretta di Pirlo, in mezzo ad un grande prato verde, e dietro ogni sua sterzata c'è sempre una virgola, un cambio di ritmo. E allora la squadra diventata il suo spartito, fa muovere tutti secondo le sue volontà e con i suoi tempi. La squadra diventa un tema in cui lui si diverte a correggere, con un tocco di matita, gli scarabocchi dei compagni più inesperti e meno saccenti. Perché giocare a calcio, in un certo modo, è come scrivere un libro; Pirlo risulta essere un ottimo scrittore, il virtuoso della sfera. Usa la palla come Pirandello usava la penna, sfrutta il campo come gli Impressionisti un paesaggio "en plein air", muove i compagni come Napoleone le sue truppe e, dai suoi piedi, fa partire tocchi che, nella loro brevità, si portano dietro un velo di poesia. Ve la immaginate una palla di Pirlo sopra la linea dei difensori avversari? Quando gli si stacca dal piede rimane avvolta nella seta e, nel suo tragitto, elargisce uno strato di zucchero a velo, addolcendo -offuscando consapevolmente- gli sguardi dei difensori e del pubblico avversario, consapevoli che quella palla ha un unico destino già scritto: essere spinta dentro! Ma così, dopo il lungo e meritato applauso, non rimane che sederci tutti soddisfatti, avversari compresi, per aver visto un'altra magia del campione. Un altro verso aggiunto a quella fantastica poesia che è stata ed è la sua talentuosa carriera. E Pep, da vero esteta del calcio moderno, avrebbe voluto avere un Pirlo là nel mezzo. Pep l’incontentabile, che nella bellezza estrema del suo gioco corale, non trova ancora la piena soddisfazione, il suo totale compiacimento. Così, in quella trama di passaggi, tesse la ragnatela perfetta per manifestare un trucco, un virtuosismo. Quel trucco chiamato, nella musica, cadenza d’inganno. Rinviare il piacere, come nella più sublime forma di perversione di ogni musicista, per autocompiacersi del proprio lavoro. I musicisti rinviano... e scatta la libidine. La cadenza e la cadenza di inganno sono molto comuni anche nel quotidiano. Ognuno di noi, nel parlare e nel raccontare storie, le usa, pur non essendo un grande narratore. La cadenza è paragonabile ad un animale che ha la sua dimora, se ne va un po’ in giro, imbocca il sentiero verso casa, e torna. Anche se non conosciamo la musica con la 62 mente, il nostro fisico conosce questo meccanismo. E questo tornare a casa lo chiamavano “cadenza” (cadi, cadis). Siamo lì, un pò in bilico, e cadiamo a casa. E l’inganno sta nel rinviare quella caduta: siamo lì molto vicini al ritorno, ma ritardiamo il rientro. E così il Barcellona fa nel suo gioco: partono da una casa-base (la propria area), verso la loro meta dichiarata (la porta avversaria), dando la sensazione di poter arrivare in brevissimo tempo all’obiettivo prefissato; questo però non basta al soddisfacimento del loro piacere e del piacere altrui, e così, quando sembrano vicini al momento supremo del goal, ci mettono dentro altri quattro-cinque passaggi, ricamati dentro un fazzoletto, facendo scattare lo stupore, l’ammirazione compiaciuta del proprio pubblico, ma anche di quello avversario e, spesso, degli avversari stessi. Così quella squadra di nanetti è riuscita a diventare oggetto del piacere estetico degli spettatori di tutto il mondo. Il mostro sacro del calcio moderno; il Davide, che più che uccidere Golia, si eleva a Golia, impossessandosi delle sue forme mastodontiche, senza perdere il proprio animo. Immagino in questi termini la sensazione che ogni squadra ha quando affronta il Barcellona. Pare di trovarsi difronte una corazzata di giganti, alti in media poco più di un metro e settanta. E in questa squadra tanto forte, ci si può prendere il lusso di giocare anche con un portiere che è tutto fuorché un portiere. 63 CAPITOLO III EVOLUZIONE CONCETTUALE DEL RUOLO DEL PORTIERE 3.1. YASHIN E VALDES: STESSO RUOLO, DUE MODI DIVERSI DI INTERPRETARLO Solo il colore della maglia rimane uguale. Lev Yashin, il ragno nero. Nero come il colore della sua divisa, simbolo mitologico nell’URSS degli anni ’60, che non ha mai abbandonato in tutta la sua carriera, iniziata tardi (25 anni) e durata per quasi venti anni. Sul ragno nero se ne raccontano tante, dalla leggenda del quadrifoglio nel cappello, ad un goccio di vodka per tonificare i muscoli prima di ogni incontro. Questi restano comunque aneddoti utili a creare quell'alone di mistero e magia attorno ad un fuoriclasse che ha mitizzato il ruolo del portiere. Di Yashin, resterà il ricordo di quell'uomo capace di volare, capace di ribaltare le leggi della fisica e di far arrabbiare chi gli giocava contro. “Saltare è l'esperienza che libera l'uomo e la donna dalla dannazione della forza di gravità; si tratta del comportamento più simile al volo tra quelli che l'essere umano può permettersi”67. L'impossibile per lui diventava possibile, ed infatti non ci meraviglia, che la massima onorificenza per un portiere, oggi sia il premio Yashin. Iniziò a parare bulloni nella fabbrica in cui lavorava, per poi passare all’Hockey su ghiaccio. Un infortunio del portiere della Dinamo Mosca lo consegnò, venticinquenne, al calcio. Tutta la sua storia, a tratti epica, si racconta in queste poche righe che Eduardo Galeano dedica, nel suo libro “Miserie e Splendori del calcio”, allo storico numero uno: “Lev Yashin chiudeva la porta senza lasciare neppure un piccolo spiraglio. Questo gigante dalle lunghe braccia di ragno, sempre vestito di nero, aveva uno stile spoglio, un’eleganza nuda che disdegnava la spettacolarità dei gesti eccessivi. Era solito parare tiri fulminanti alzando solo una mano, tenaglia che afferrava e triturava qualsiasi proiettile, mentre il corpo 67 MANTEGAZZA R., Con la maglia numero sette. Le potenzialità educative dello sport nell’adolescenza., Unicopli, Milano 1999. 64 restava immobile come una roccia. E senza muoversi, poteva anche deviare il pallone solo lanciandogli uno sguardo. Si ritirò dal calcio molte volte, sempre inseguito dalle acclamazioni di gratitudine, e varie volte tornò. Un altro come lui non c’era. In più di un quarto di secolo, il portiere russo parò più di cento rigori e salvò chissà quanti gol già fatti. Quando gli chiesero quale fosse il suo segreto, rispose che la formula consisteva nel fumare una sigaretta per calmarsi i nervi e buttare giù un bicchiere di roba forte per tonificarsi i muscoli.”68. Questo “omone” gigante racchiude i tratti di quel modello romantico di “viandante sul mare di nebbia”. E quel modello parrebbe venir meno, con la globalizzazione che colpisce i Victor Valdes dei giorni nostri. La diffidenza di molti addetti ai lavori, in un’ottica rivoluzionaria rispetto al passato, è il grande scoglio da superare, per liberare il portiere dai suoi storici vincoli elitari e ricondurlo in un nuovo piano partecipativo, in una sintesi di sostanziale superamento, nel quale il numero 1 ha solo che da guadagnare da questa completezza ritrovata, affermata e, finalmente, riconosciuta. 68 GALEANO E., Splendori e miserie del gioco del calcio., cit., Sperling & Kupfer, Milano 1997. 65 3.2. IL PARA-DOSSO DELL’UNO E IL TEMPO: BUFFON Il portiere moderno completo, rappresentato da Buffon, è in grado di adattarsi ad ogni circostanza, superando ogni paradosso (para-dosso). Il numero 1 risolve il paradosso nell’unità della totalità. Ecco perché il portiere è un UNO. Il numero 1. Niente di più, ma niente, niente di meno. Il portiere vive il tempo. E il suo gesto supremo si compie nell’esattezza tempo. Baricco, in una lezione al teatro Palladium, dice: “Da sempre la cosa più difficile è stare nel tempo. Passiamo la vita ad aspettare o rincorrere il tempo. Tutta la nostra vita è dettata da questo. Il dolore stesso della vita è questo. E’ evidente a tutti che se noi fossimo esattamente nel punto del tempo, staremmo bene. Ma al tempo stesso, il meraviglioso dell’umano è sviluppato esattamente da questo. Non accadrebbe niente se fossimo sempre puntuali.” 69 69 BARICCO A., Luigi XVI, re di Francia. Sul Tempo., conferenza a Teatro Palladium, Roma gennaio 2013. 66 E quando leggo questo pensiero mi viene sempre in mente quella parata che Buffon aspettava e rincorreva da una vita. In quel suo sfiorare la palla con la punta delle dita, proteso con tutto se stesso in una sfida contro il mondo e in opposizione alle leggi che lo regolano, ma, non per ultimo, anche contro il sinistro di Recoba, Buffon è esistito. Ha compiuto la bellezza, poiché è esistito nell’attimo. In quell’attimo. E’ stato puntuale con il tempo. Ha colmato ogni ritardo. Ha ritardato qualsiasi anticipo. Qualsiasi anticipo o ritardo sarebbe stato ugualmente fatale; avrebbe comunque congiurato per il disfacimento dell’uno, a favore del principio originario del gioco: il goal. Ma Buffon è stato nell’unico punto del tempo in cui doveva e poteva essere. Nella sua parata c’è l’amore di quegli amanti che vivono il tempo nel tempo, tanto da poter dire: "muoio nel suo stesso respiro".70 Quella parata, tanto ricercata, assomiglia all’amore di Florentino Ariza verso Fermina Daza71, c’è l’attesa di Penelope per il ritorno di Ulisse72 a Itaca e, in un certo modo, quella parata rende giustizia a tutti i Romeo73 del mondo. “La gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Quando aspetti o ricordi, non sei né triste né felice. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.”74. Aspettare il momento giusto diventa un lavoro quotidiano, logorante per certi tratti. Non rimane altro che aspettare quel momento cercando di essere pronti. Buffon si è fatto trovare pronto: attendeva quella palla da una vita, e, giorno dopo giorno, ha scalato il tempo, avvicinandosi al presente, e, andando a deviare quella palla in calcio d’angolo nel momento giusto, ha compiuto il suo destino, quello per cui è nato: parare. 70 BARICCO A., Questa storia, Feltrinelli, Milano 2007. MARQUEZ G.G., L’amore ai tempi del colera, Mondadori, Milano 2007. 72 OMERO, Odissea, Einaudi, Torino 2005. 73 SHAKESPEARE W., Romeo e Giulietta., Newton Compton, 2010. 74 BARICCO A., Questa storia, cit., Feltrinelli, Milano 2007. 71 67 «Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà d'un solo momento: quello in cui l'uomo sa per sempre chi è»75. 75 BORGES J.L., citazione tratta da Cercas J., Anatomia di un istante, Guanda, 2010. 68 3.3. UN MODELLO DI VITA ESTETICA: IL PORTIERE Il Portiere è un ruolo che fa della capacità di attesa il suo punto di forza. In quella piccola parte romantica che persiste e distingue questo ruolo da tutti gli altri, attendere diventa un’abitudine e, alla fine, il portiere impara a convivere con se stesso, con le sue paure e con la responsabilità del numero che porta sulla maglia. Avere quel numero sulle spalle si associa ad un modo di vivere e ad una ritualità comune che si ripresenta in ogni campo. E su quei palcoscenici vigono delle regole rigide, affinché siano tutelati i giocatori e, con loro, la libertà e la spettacolarità del gioco. “Così il gioco va oltre la vita quotidiana. Ma, soprattutto nel bambino, ha anche il carattere di esercitazione alla vita. Simboleggia la vita stessa e la anticipa, per così dire, in una maniera liberamente strutturata. A me sembra che il fascino del calcio stia essenzialmente nel fatto che esso collega questi due aspetti in una forma molto convincente. Costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà.”76 Tra i partecipanti, arbitro escluso, nessuno conosce l’importanza delle regole e l’accettazione totale di esse, meglio di un numero 1. Parlo con la presunzione di chi quella maglia l’ha indossata per tanti anni, certo non in platee da migliaia di spettatori, e che adesso, per professione, allena giovani (e meno giovani) ad indossarla. Racconterò della mia esperienza personale, perché per essere numeri 1, bisogna aver provato quella sensazione almeno una volta nella vita, anche una sola, marchiando per sempre il proprio modo di vivere; poiché nel momento in cui l’allenatore ti passa la maglia, è come se esso ti consegnasse le chiavi di casa dell’intera squadra. Bella responsabilità per un bambino che viene designato a tale ruolo intorno ai 6-8 anni. Capita così che di diventare portieri, per obbligo o per scelta. Lo si rimane, senza dubbio, per scelta. 76 RATZINGER J., Cercate le cose di lassù, cit., Paoline, Roma 1986. 69 “Gioco e continuo a giocare perché ho scelto di farlo. Anche se non e’ la tua vita ideale, puoi sempre sceglierla. Quale sia la tua vita, sceglierla cambia tutto.”77. Essere portiere condiziona anche la E dal giorno che l’incoscienza e l’inconsapevolezza lasciano spazio ai loro opposti, tutto cambia improvvisamente e ci si abitua a vivere questa nuova esperienza giorno per giorno, facendo maturare le paure di ieri nelle certezze del domani, facendo crescere dentro il petto un sentimento che condizionerà per sempre la vita di chi ha deciso di scegliere. Sono passati due anni da quando preferii sfilarmi la maglia da gioco per vestire i panni dell’allenatore. Tutt’oggi, a distanza di tempo, rivivo quel momento attraverso delle parole che appuntai la sera della mia decisione. Quei versi non sono stati smentiti, ed anzi, sono spunto di riflessione costante nei momenti difficili, quando tutto sembra girare storto... La solitudine dei numeri 1. Solo e con il peso sulle spalle di un numero che non è un numero ma è “il” numero. E’ inizio, è fine, è parte di un tutto senza la quale il tutto non sarebbe. E’ responsabilità, è passione, è amore per se stessi, unici e irripetibili; è contemplazione di vita ed è la vita stessa. E’ voglia di affrontare il mondo con sguardo fiero. E’ prepararsi alla battaglia 77 AGASSI A., Open. La mia storia., a cura di Moehringer J.R., Einaudi, Torino 2011. 70 orgogliosi di combatterla soli, sapendo che il rischio di perdere è molto più alto che quello di vincere. E’ sfidare la morte dal primo nostro primo respiro, sappiamo di morire ma viviamo, sappiamo di poter perdere ma giochiamo lo stesso. Giochiamo ad un gioco non convenzionale, giochiamo a dadi con le situazioni, spesso ci sforziamo di anticipare il futuro e, se non ne siamo capaci, aspettiamo in piedi il presente, afferrando il futuro attraverso un pallone. Siamo il numero che respira acchiappando sogni d’ogni tempo, facendo vibrare le corde di uomini e donne che vorrebbero essere noi nei nostri momenti di gloria e, un attimo dopo, se ne laverebbero le mani per un gol subito. Siamo uomini soli, perché restiamo in piedi anche se la palla è passata e il gol è stato segnato. Restiamo lì, siamo sempre lì. Se il dolore ci ha messo a terra ci rialziamo polverosi, ma con un’anima aurea che continua ad essere invidia 71 di tutti quelli che numeri 1 non potranno mai essere. Le partite passano, gli episodi restano; e con loro rimane lo sguardo di chi ti era vicino, numero 1 come te, pronto a sostenerti e a farti rialzare dopo una domenica storta. Siamo realmente soli allora? In apparenza si, ma sappiamo che sulle spalle portiamo un numero vissuto e sentito. Con quello addosso non saremo mai soli. Una volta sfilata la maglia da gioco non illudetevi che sia tutto finito. Il numero 1 resta tatuato sulla schiena, per sempre!78 Sembrerebbe uno sport da solisti, in realtà è un ruolo consapevole di far parte di uno sport di squadra, anche se ha un’etica tutta sua. Così lo sport che maggiormente si rifà a quel modus vivendi, è il rugby. Uno sport che vive sul paradosso di “andare avanti, guardando indietro”, così come il portiere vive sul paradosso di essere inizio e fine del gioco, di usare le mani per sottrarre la palla a chi invece cerca di farla girare con i piedi. Il portiere è il più prossimo alla sconfitta, sia quando la impedisce sia quando non riesce a evitarla. “Gramo il destino di chi vive sulla soglia.”79 78 FARIOLI F., La solitudine dei numeri 1, poesia inedita, Montecatini Terme 2011. BAGETTO L., “Il portiere non c’è”, in Linea Bianca, Numero Uno. Il portiere raccontato. Pensare il pallone., Limina, febbraio 2004. 79 72 Nel rugby il numero 1 è uno dei due piloni, che insieme al tallonatore compone la prima linea. Il ruolo delle prime linee è insostituibile per tecnica e fisicità. Chi non è un pilone non potrà mai capire un pilone, proprio come chi non è portiere non mai potrà capire un portiere! Il ruolo del pilone forse è il più difficile, lì si gioca una partita nella partita, seguendo logiche del pilone-pensiero. Oggi i piloni, proprio come i portieri, sono atleti completi, che si rendono utili sia nel gioco d’attacco che in quello di difesa. Il tallonatore (numero 2) è il leader psicologico, colui che detta i tempi... come un portiere gestisce la sua linea difensiva. Nel rugby poi esiste una seconda linea composta dagli atleti più alti (pensate un pò al portiere in una squadra che statura ha rispetto agli altri!); è un ruolo misconosciuto, ma è fondamentale e ce ne accorgiamo solo se non c’è, proprio come per il Portiere; l’equilibrio di tutto l’insieme rischierebbe di venire meno. Similitudini per numeri, per capi sommi, per senso di responsabilità e per concezione di rispetto; la vita di ogni sportivo però, si articola anche su un altro elemento chiave: la paura. Paura di deludere qualcuno, e se stessi, paura di non essere in grado di fare ciò per cui si è faticato tanto, paura di danneggiare l’operato dei compagni... certo è che nel rugby e nel calcio non si può avere paura del contatto fisico. Ma come conviviamo con questa perenne ansia da prestazione che vive nel cuore degli sportivi? Partiamo da un punto nevralgico: la paura cresce al crescere dell’individuo. Così come un bambino non ha paura ad esibirsi davanti ad una platea, più gli anni passano e maggiore diventa la paura di provarci. La paura è direttamente proporzionale alla consapevolezza di noi stessi, come esseri agenti e capaci di compiere azioni. Uno sportivo d’élite, o anche un semplice sportivo della domenica mattina, ha l’obbligo di sapere quello che sta facendo nei vari momenti dell’azione, nello svolgersi naturale della partita, non può concedersi il lusso di non pensare. L’allenatore in questo avrà un compito fondamentale, in quanto diretto interlocutore dello sportivo. Dovrà convogliare e rievocare in maniera positiva tutta la lunga serie di emozioni, pensieri, immagini e pressione psicologica verso una nuova serie di concetti: passando da “paura di sbagliare” a “desiderio di riuscire”, tramutando “la paura di deludere” in voglia di ricompensare qualcuno. Cambiando la prospettiva mentale, cambiano le sensazioni. L’allenatore, attraverso la sua leadership (capacità di alcuni di saper fornire ad altri un piano di lavoro, una direttiva, uno 73 stato emotivo, avendo una visione delle mete e delle risorse disponibili), ha quindi il compito e la possibilità di motivare i membri di un gruppo, singolarmente e in un contesto di pluralità, per poter raggiungere gli obiettivi prefissati. Per raggiungere quanto detto sopra è necessario giocare su alcuni punti fondamentali: consapevolezza di sé padronanza di sé motivazione empatia abilità sociali Devis Mangia ha sottolineato proprio questi concetti: “In una squadra di calcio è fondamentale l’equilibrio tattico, l’organizzazione di gioco e la condizione fisica; ma per far funzionare il tutto è necessario che vi siano all’interno del gruppo motivazioni, cultura del lavoro e disponibilità mentale. In altre parole è necessario che si crei EMPATIA, che si crei sinergia e che tutti si pensi allo stesso modo e verso un’unica direzione.”80 Con questo spirito si ritorna, per certi versi, ad un sapore primordiale che, mischiato alle nuove conoscenze tecniche e fisiche, porta dritti verso una strada di successi, laddove sudore, sangue e fatica sono elementi cardine da tramutare in pura energia vitale. Di questo lungo processo formativo, come in precedenza detto, ne è detentore la figura del trainer, dell’allenatore. Ne L’arte del cambiamento di Nardone e Watzlawick i due studiosi propongono un metodo psicologico che rappresenta un valido metodo applicabile alla pratica sportiva. Nei vari incontri formali, e ancor più in quelli informali, con colleghi di ogni categoria, dai dilettanti ai professionisti di prima fascia, quello di cui ci si lamenta più spesso è di una sempre minor predisposizione alle regole e alla cultura del lavoro. Il compito di un allenatore e, laddove presente, del suo staff di collaboratori, ancor prima di insegnare una nuova tattica o far affinare un gesto 80 MANGIA D., attuale allenatore Nazionale U21 (2012-13), estratto dalla relazione svoltasi a Coverciano (FI) presso Centro Tecnico Federale, corso master allenatori Uefa Pro, L’empatia nel calcio, giugno 2012. 74 tecnico, sarà quello di creare un modello di lavoro, un progetto da seguire; così come in ambito conoscitivo la mente si può immaginare come una libreria da riempire in maniera ordinata di nozioni e di esperienze, allo stesso modo possiamo supporre che la struttura mentale degli atleti dovrà essere impostata come un armadietto (per rimanere in ambito prettamente sportivo) e le acquisizioni tecnicotattiche saranno catalogate entro un settore ben preciso. L’ordine e il rigore che vengono chiesti sono la base non solo per la riuscita di quell’acrobazia calcistica o di quella diagonale provata e riprovata, ma anche elementi necessari per consentire allo sportivo di ricrearsi un modus operandi, che abbia una struttura piramidale e che veda alla sua (solida) base proprio un insieme di regole che ne formino le fondamenta per affinare le sue qualità prettamente sportive, che non sono altro che la punta dell’iceberg, la ciliegina sulla torta nel lungo processo formativo di un atleta d'élite. Perché mi permetto di considerare un giovane calciatore come un paziente affetto da una patologia psicologica? Perché mi permetto di riportare uno strumento psicologico utilizzato da professionisti dentro un rettangolo verde? Perché mi permetto di applicare un metodo ideale dentro un campo da calcio? La risposta a tutti questi perché è stata, è e sarà (almeno spero) una ragione di vita. Il rettangolo verde è il palcoscenico della vita, è una celebrazione di un processo ben più lungo racchiuso in 90 minuti. La vita come metafora del calcio o il calcio come metafora della vita, ancora una volta. Vita e calcio vanno a braccetto. Chi gioca a calcio, uscito dallo spogliatoio, torna ad essere una persona comune che tutti i giorni vive in società, che ha ricevuto lo stesso insegnamento di chi invece la domenica va a vederlo giocare ai lati di un campo o in tribuna, o di chi, al contrario, non ha interesse per il calcio o per lo sport in generale. Alla nascita siamo tutti omologati verso una stessa formazione scolastica: elementari, medie, superiori e forse università, per libertà di scelta finalmente. Lo sport in generale, il calcio per conoscenza diretta, è una palestra di vita. Vivere uno spogliatoio vuol dire prepararsi ad affrontare un parlamento di idee contrastanti e da far convogliare verso un fine comune. Il campo è un buon alleato entro cui confrontarsi, talvolta scontrarsi, ti costringe ad aprirti verso gli altri con rispetto, a misurare le capacità e rendersi utile per quel che è il nostro compito e per quel che si può dare alla causa comune. L’avversario è 75 un “altro” rispetto a noi con cui confrontarsi e con cui contendere un obiettivo. La preparazione al confronto ti riempie la settimana e diventa un concentrato di sensazioni, emozioni e pressioni. A rileggere queste righe sembra che il calcio sia lo sport più bello, pulito ed educativo del mondo; così facendo porgerei il fianco a critiche quanto più feroci e prettamente pratiche, sentendo cosa il calcio di oggi ci regali, tra scommesse, partite sistemate, infiltrazioni criminali e violenza. E‘ per questo che nei miei “perché” vi parlavo di patologia, di sistema malato e da curare. Una trasmutazione di valori oggi è quanto più di salutare possa esserci, anche perché, talvolta, ho il dubbio di aver vissuto in piccole isole felici, di essere un privilegiato ed una mosca bianca, che ha girovagato a largo dal sudiciume che ci sta avvolgendo su giornali e tv. E‘ arrivato il giorno in cui Zarathustra scende dal monte per parlare alla gente, insegnando un'etica del superamento di sé e che vuole liberarli dalle loro aspirazioni mediocri. «Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!»81 Dietro questo incipit si intravedono una marea di frasi ad effetto, di volontà manipolate e di incredibili menzogne, che portano a quei comportamenti malati che vediamo per le strade, in città e, non per ultimo, negli stadi. Nietzsche si addentra in una dissertazione metafisica, con attacchi alla religione e ai suoi profeti. Il ragionamento che segue è ben più concreto e limitato a sfere della vita quotidiana, senza volersi addentrare troppo nelle problematiche della religione e delle sue istituzioni. Parleremo di una sfera economica, sociale, culturale e politica. Se il campo di gioco offre oggi uno spettacolo che rappresenta degnamente l’indecenza che respiriamo durante tutti i giorni della settimana, è possibile secondo voi invertire la tendenza e ripartire da dei modelli positivi in campo per risalire al comune vivere? Far sì appunto che la vita non sia più una metafora del calcio ma che il calcio torni ad essere una metafora della vita... credendo in questo 81 NIETZSCHE F., Così parlò Zarathustra, Rizzoli, Milano 1985. 76 nuovo modello, affronteremo, attraverso il modello di “terapia breve” di Nardone e Watzlawick, un percorso per tentare di dimostrare come sia possibile. Per la scelta del soggetto da portare ad esempio non posso che rifarmi, secondo le parole di Nietzsche, ad un tipo di calciatore legato alla terra, che alla terra è fedele in quanto, la terra, è ciò che lo frena dopo ogni suo volo. E’ un calciatore che sfida la forza di gravità con i suoi balzi, ma al contempo la ama perché senza di essa perderebbe l’attracco sicuro dei suoi tacchetti. Parlo di quel calciatore che la terra la sente sul viso in un’uscita a terra, che con la terra ha sperimentato i primi dolori da impatto, quella stessa terra che è gratificazione di una parata. Anche in questo caso proveremo di giustificare la scelta, attraverso qualche aneddoto e qualche esperienza diretta. 77 3.4. ESTETICA, PEDAGOGIA E PSICOLOGIA IN CAMPO Piaget dimostra come, sulla base delle sue accurate osservazioni, il bambino si costruisca una sua realtà mediante azioni esplorative, invece di formarsi un’immagine del mondo mediante percezioni per poi agire di conseguenza. Enio Quintavalle, guru della preparazione dei portieri, ha sempre ribadito la differenza sostanziale che esiste nell’allenare i portieri maturi, che devono capire per fare, rispetto ai piccoli, che devono fare per capire. Niente di più pedagogico di questo parallelismo. Pedagogia certo, ma alzando l’età dei soggetti, il risultato non cambia. Ossia se riuscissimo a motivare qualcuno a intraprendere un’azione, di per se stessa sempre possibile, ma che quel qualcuno non ha compiuto nella sua realtà di second’ordine perché non trovava né senso né ragione di portarla a compimento, allora tramite la stessa realizzazione di questa azione egli esperirà qualcosa che mai nessuna spiegazione e interpretazione avrebbe potuto indurlo a vedere ed esperire. E con ciò siamo arrivati a Heinz von Foerster e al suo imperativo “Se vuoi vedere, impara ad agire.”82 La psicoterapia si occupa della ristrutturazione della visione del mondo del paziente (portiere), della costruzione di un’altra realtà clinica, di causare deliberatamente quegli eventi causali che Franz Alexander (1956) ha chiamato “esperienze emozionali correttive”. La psicoterapia costruttivista non si illude di far vedere il mondo per quello che realmente è, piuttosto, il costruttivismo è del tutto consapevole che la nuova visione del mondo è un’altra visione, una finzione, ma più utile e meno dolorosa. Paul Watzlawick narra di un episodio nel quale una sua paziente, al termine di un ciclo di nove sedute, gli ha detto: “il modo in cui vedevo la situazione era un problema. Ora la vedo in modo differente, e non costituisce più alcun problema.”83 Queste sono le parole, testualmente dall’autore, “della quintessenza di una terapia riuscita”. Un allenatore avrà il suo successo nel superamento di un ostacolo da parte di un portiere che, per esempio, ha difficoltà nell’approcciarsi alla situazione 82 83 FOERSTER H.V., Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1971. NARDONE G. - WATZLAWICK P., L’arte del cambiamento, TEA Pratica, Milano 2011. 78 dell’uscita alta, notoriamente considerata come il gesto tecnico più difficile del ruolo per una serie di elementi che vengono a fondersi. Prima ancora che della cura della tecnica e dei vari percorsi motori che lo porteranno a prendere la palla in mezzo ad una selva di teste e gambe volanti, quello che sarà alla base della riuscita del gesto sarà il suo status mentale, la sua predisposizione alla volontà di responsabilità, tramutando quel che era potenzialmente un pericolo in una possibilità. Heinz von Foerster (1973) usò una frase che, dopo la sua lettura, ho deciso di riutilizzare quotidianamente, sia come modo di vivere sia anche come imperativo etico: “Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte”.84 Una frase molto Kantiana, categorica, nella struttura e, allo stesso tempo, che risente, nel contenuto, di quella voglia di essere “condannati a essere liberi” tanto cara all’esistenzialismo e ad uno dei suoi padri fondatori, Sartre. Il lavoro da svolgere dovrà essere meticoloso, graduale e paziente. Gregory Bateson diceva che “Chi vuol far del bene, deve farlo nei piccoli particolari. Il bene generale è l’alibi dei politici e dei furfanti...”85 Per convincerci di ciò, non dobbiamo far altro che osservare la natura. I grandi cambiamenti sono sempre catastrofici. La neghentropia lavora pazientemente, silenziosamente e a piccoli passi. Tuttavia è la forza che sottintende l’evoluzione, l’auto-organizzazione, e la sempre più grande complessità dell’universo. Pluralità di opportunità, opportunità di scelta, scelta prioritaria. Ecco cosa avrà di fronte il nostro paziente-portiere (un gioco di parole che implica anche una predisposizione al sacrificio, che dovrà necessariamente avere l’atleta nel percorso d’allenamento)! Come accennato in precedenza sussiste una differenziazione tra realtà di primo ordine, che rimarrà necessariamente immutata, ed una realtà di secondo ordine che invece sarà diversa e tollerabile. Queste parole ci portano ad una frase di Epitteto: 84 85 FOERSTER H.v., Sistemi che osservano, cit., Astrolabio, Roma 1971. BATESON G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1978. 79 “Non sono le cose in sé che ci preoccupano, ma le opinioni che abbiamo di quelle cose.”86 Quanta verità c’è dietro questa frase? Come lavorare affinché vi sia una rivalutazione delle opinioni? 3.4.1. PREPARATORE-PSICOTERAPEUTA - PORTIERE-PAZIENTE In questo proverbiale titolo stracolmo di P non posso non pensare a quanta Passione c’è dietro ad ogni Pensiero che ruota intorno al magnifico ruolo del Portiere. L’approccio illustrato da Nardone e Watzlawick ci riporta con la mente ad ogni inizio preparazione (inizio della terapia sportiva) quando tra portiere e preparatore scatta quel contatto, quel primo incontro che segnerà una stagione. Da notare il parallelismo, la metafora, che i due autori utilizzano per descrivere il rapporto tra paziente e psicoterapeuta. “La relazione tra i due, in terapia strategica, non è una sorta di amicizia a pagamento (nel caso del portiere-preparatore amicizia forzata), né tanto meno è un rapporto di consolazione o di confessione, ma è una sorta di partita a scacchi tra il terapeuta ed il paziente. Come nel gioco degli scacchi 86 EPITTETO, citato in SCHOPENHAUER A., L’arte di essere felici, Adelphi, Milano 1997. 80 ci sono un sistema di regole del gioco, un processo di fasi evolutive ed una serie di consolidate strategie per specifiche situazioni al fine di portare a conclusione, con successo, la partita. Bisogna però ricordare la lunga serie di variabili che caratterizzano il gioco, in quanto le combinazioni di mosse e contromosse in una partita sono illimitate e dipendono dall’interazione tra i due giocatori, come tra paziente e terapeuta. E’ necessario ricordare che esiste un’importante dimensione per la quale l’analogia tra terapia (allenamento sportivo) e gioco di scacchi non è sostenibile, per la quale addirittura si entra in stridente imparagonabilità; questa è rappresentata dalla fondamentale caratteristica dei due tipi di “gioco”. Gli scacchi sono un gioco a somma uguale a 0, ossia un gioco che prevede obbligatoriamente un vincitore e un vinto, un +1 e un -1 appunto; mentre la terapia (anche quella sportiva che vige tra allenatore e allievo) è un gioco a somma diversa da 0, ossia un gioco nel quale non esistono vincitori e vinti, ma obbligatoriamente vincono o perdono entrambi.”87 In molti casi (ma non sempre) tra preparatore e portiere esiste una sorta di cordone ombelicale, un mix emozionale che fa giocare il preparatore attraverso le gesta del suo portiere e il portiere che gioca per il suo preparatore. In campo vediamo un giocatore, in realtà è come se ci fossero quattro mani a difendere la porta. Certo è che per raggiungere gli obiettivi comunemente ed esplicitamente prefissati si possono percorrere strade ben diverse; in questo gioco non convenzionale, machiavelliano per certi versi, il fine può giustificare in un certo qual modo i mezzi usati, purché il fine resti chiaro e condiviso. Anche le forme manipolative, ciniche e apparentemente ingannevoli assumono un profondo valore etico se riportate alla finalità predetta, purché il Portiere-Paziente si migliori e superi le sue problematiche. In Terapia Breve si è soliti suddividere in sei momenti l’intero ciclo: primo contatto e costruzione della relazione terapeutica; definizione del problema (conflitti o situazioni problematiche); accordo sugli obiettivi della terapia; 87 NARDONE G. - WATZLAWICK P., L’arte del cambiamento, cit., TEA Pratica, Milano 2011. 81 individuazione del sistema percettivo-reattivo che mantiene il problema; programmazione e strategie di cambiamento; conclusioni, con visualizzazione dei risultati ottenuti. Così è in psicoterapia, così è in un campo da calcio. Il primo approccio equivale a metà del lavoro, è un giudizio-pregiudizio che condizionerà il resto del percorso. Fiducia, contatto e suggestione positiva sono i tratti chiave per la continuazione del nostro operato. E‘ fondamentale osservare, imparare e parlare il linguaggio del nostro portiere. Si deve viaggiare sulla stessa linea d’onda, cioè creare una sorta di persuasione passiva. Avere uno stesso linguaggio ci consente di stabilire un clima di contatto interpersonale e che ci consente di manipolare e “dirottare” le sue azioni, aggirando la resistenza al cambiamento. Si deve infondere grande fiducia e motivazione, senza negare le sue convinzioni ad eseguire nel prosieguo dell’allenamento (terapia) azioni anche completamente contrarie alle sue attuali concezioni. Una volta preso contatto con il soggetto, dobbiamo definire il problema, che può essere di tre tipi: A) tra soggetto e se stesso B) tra il soggetto e gli altri C) tra il soggetto e l’ambiente sociale entro cui vive, la sua scala di valori e le norme. Il dialogo che si instaura tra Preparatore-Psicoterapeuta – Portiere-Paziente non è tempo perso, anzi. Tutto quel tempo che dedichiamo alla fase diagnostica sarà poi recuperato nella fase operativa, senza considerare quanto possa influenzare positivamente, nella nostra situazione, il fatto di far percepire che ci stiamo prendendo cura di lui. Scovate le problematiche che indicono il soggetto in difficoltà, sarà necessario trovare un accordo sugli obiettivi da raggiungere, riuscendo a focalizzare, da ambo le parti, i vari step da percorrere, creando un’ennesima suggestione positiva nel paziente. Come riportato nelle righe che precedono questa analisi, la gradualità è fondamentale così come la prassi sistematica, poiché dare l’idea di voler stravolgere un background di nozioni ed esperienze è quanto più di nocivo e di controproducente si possa fare, ottenendo solo irrigidimento sulle posizioni preesistenti e pregresse fino al totale abbandono 82 del metodo. Individuare il punto X, il blocco psico-motorio, è per noi assolutamente fondamentale e ci consentirà di lavorare sulle sue disposizioni emozionali e concezioni rispetto alla realtà, convinti del fatto che per cambiare è necessario che percepisca l’allenamento (terapia) come un intervento terapeutico che produce una concreta esperienza di cambiamento. Le modalità con cui progettare un allenamento sono molto soggettive e devono cucirsi intorno al soggetto con il quale ci troviamo ad operare. Le strategie di lavoro devono essere per lo più indirette o mascherate per produrre un cambiamento molto più grande di quello che l’atleta si trova a vivere. L’efficacia di una strategia dipende molto dalla cornice di suggestione all’interno della quale viene presenta allo sportivo in modo da indurlo ad una grande, a volte involontaria, collaborazione terapeutica, ossia ad una propensione al cambiamento. Per iniziare ad agire direttamente e a stimolare il paziente è da prendere in considerazione una metodologia molto interessante, spiegata da Newton Da Costa, che si basa sull’instaurazione del dubbio. Il Professore sostiene che per far cambiare opinione a chi abbiamo davanti è molto più proficuo inserire dei dubbi all’interno del suo schema mentale piuttosto che spiattellare verità logico razionali. Il dubbio è un tarlo che lavora autonomamente e cresce lentamente divorando lo spazio delle precedenti logiche. Il dubbio crea scetticismo e mobilità l’entropia del sistema, producendo una lenta ma devastante reazione a catena, che può condurre al cambiamento del sistema stesso. Per criticare bisogna essere per natura scettici, e prendere distanza. Né coi compagni né con gli altri, secondo un tipico gesto intellettuale da anni '70. Come il filosofo della Repubblica platonica, il portiere è il numero uno politico, ma con un più di snobismo: ha il senso della posizione, partecipa sì, ma con i guanti, senza sporcarsi le mani. Sta dentro ma osserva da fuori, in questo assumendo la parte dei giocatori e degli spettatori ad un tempo; ma senza identificarsi né con gli uni né con gli altri. Una sorta di mediatore tra le diverse istanze della scena. I giocatori sentono su di sé il suo sguardo partecipante, e soprattutto i difensori, quando capita che segnino un goal, lo vanno ad abbracciare come se fosse la proiezione del loro padre in tribuna. E tutti i compagni sentono nel portiere il salvatore del loro risultato, ma anche il giudice amichevole e direi quasi orgoglioso delle loro azioni. Il Portiere non accetterà una realtà da prendere per vera perché sarebbe di difficile digestione; il 83 dubbio, e la conseguente riflessione, consente di far “cucinare” piano piano il piatto che mangerà sicuramente con più gusto e convinzione. Di per sé la parte più difficoltosa è stata superata. Una volta che il Portiere-Paziente sarà arrivato ad una mentalità open-mind, il percorso terapeutico sarà in discesa, nonostante le tempistiche che andremo ad affrontare dal punto di vista tecnico-tattico e motorio richiedano una programmazione ben più lunga nel tempo e in grado di coprire un’intera stagione sportiva di circa dieci mesi. Certo è che senza tutto il nostro impegno nel creare un feeling ed un dialogo con il nostro atleta e con l’intero gruppo con cui ci troviamo a lavorare le nostre ore dedicate all’allenamento fisico saranno sicuramente piene di nozioni e di intensità, ma di poca efficacia. Viceversa, riuscendo a creare quell’empatia, che ci ha accompagnato in tutta la nostra analisi, riusciremo senz’altro ad ottenere il massimo dal potenziale umano che abbiamo a disposizione, per arrivare a fine stagione e tirare le somme di quanto fatto. A questo punto voltarsi indietro è necessario, in primis analizzando con il proprio atleta quanto fatto, facendo notare quanti gradini si sia messo dietro nell’arco di una stagione, in modo da fargli rivivere tutto il percorso terapeutico in modo che assuma consapevolezza di sé, autonomia personale e capacità di relazionarsi con maggiore criticità nei punti di osservazione della medesima situazione. L’obiettivo comune di ogni Preparatore-Psicoterapeuta sarà quello di evidenziare quanta costanza e tenacia l’atleta abbia messo in tutto questo percorso, gratificandolo poiché il nostro compito è quello di tirar fuori quello che lui aveva dentro senza “inserire” niente di nuovo: è rendere operativa una parte che finora era rimasta nascosta, è ricerca costante dell’ombra che potenzialmente è luce. Il PortierePaziente non dovrà legarsi visceralmente alla figura del Preparatore in quanto nell’arco della carriera ne cambierà diversi, ma da ognuno di essi dovrà riuscire a prenderne il meglio per poter creare un collage di nozioni, emozioni e ricordi da poter utilizzare come linee guida in campo e fuori. La “provocazione” del seguente elaborato sta proprio qui: nel lavorare sul campo attraverso nozioni tecniche per migliorarsi nell’attività sportiva, ma anche per poter essere uomini migliori. Fabien Barthez, famoso portiere della Francia campione del mondo nel ’98 e d’Europa nel 2000, ha aperto una scuola di portieri nel suo paese d’origine. 84 Intervistato sul perchè abbia deciso, dopo tanti anni di attività agonistica, di dedicarsi al lavoro con i più giovani ha così risposto: «La nostra filosofia è semplice: non siamo qui a produrre campioni in serie. Il talento, la possibilità di sfondare, sono aspetti marginali. La cosa più importante è cercare di produrre una buona struttura morale per questi ragazzi. Trasformarsi in buoni portieri è un percorso molto simile a quello che conduce a diventare degli uomini».88 Barthez nella sua scuola non richiede un curriculum sportivo di prim’ordine o una struttura fisica straordinaria su cui poter lavorare. L’unico vincolo che richiede è quello di essere volenterosi nello studiare filosofia, in quanto l’amore per il pensiero e per il pensare è quanto di più grande ci sia dato in natura e deve essere un punto cardine su cui basarsi nel presente e nell’avvenire, qualora non lo si sia già fatto in passato. Studiare per essere calciatori e uomini migliori (anche quando “il pallone pieno d’aria si sarà sgonfiato!” cit. Trapattoni). Un’utile considerazione la possiamo ritrovare in un estratto del film Niente Paura, nel quale Paolo Rossi, il comico, non il calciatore che ci ha aiutati a diventare campioni del mondo nell’82, il quale, nelle sue parole, sintetizza al meglio un’Italia che sembra ridotta a pezzi, anche a livello culturale: «io credo che ad un certo punto per come ci siamo ridotti, anche a livello culturale sia necessaria una sorta di rivoluzione. Sono anche a favore di una Polizia Culturale che ti ferma per strada e, oltre a chiederti i documenti, ti dice: “Mi parli di Leopardi!” oppure “Li ha letti i Promessi Sposi? Se si, fino a che punto?” “L’ha letta la Costituzione?” Se non la sai ti chiudo a studiare per un po’, così come per il cinema... Li facciamo entrare gratis per il film di Natale e quando sono dentro li leghiamo alle poltroncine e mettiamo tutti i film di Pasolini e li obblighiamo a guardarli.»89 88 BARTHEZ F., Diventi portiere se studi filosofia., di Riccardo Romani, tratto dal Corriere della Sera del 21 settembre 2008. Articolo pubblicato sul sito www.calciatori.com, consultato in data 20/05/2012. 89 Niente Paura, regia Piergiorgio Gay, (2010). 85 Perché in un Paese in cui “tutti vogliono viaggiare in prima, tutti quanti con il drink in mano” chiedendosi, ma senza troppo impegno, “fuori come va” è ora di tornare a guardare quel ‘fuori' non dimenticando il passato e la cultura che sta alla base di questa società. Soprattutto se si è giovani. Quale modelli proporre allora ad un pubblico giovane, sempre più attratto dalla sola immagine senza far prevalere né lo scoramento né, ancor peggio, l'indifferenza? Quale modello può essere enfatizzato e preso a riferimento? La risposta che mi do è sempre la stessa. Qualcuno che sia sotto la luce dei riflettori, che faccia passare un messaggio indiretto, che insinui il dubbio che qualcosa di diverso ci può essere, che trasmetta attraverso un gesto sportivo la speranza di poter cambiare anche se “non posso certo dire se sarà meglio, quando sarà diverso: ma posso dire: è necessario che cambi, se deve migliorare”90 Mai come oggi è necessario che qualcosa cambi e, se qualcosa deve cambiare, deve cambiare da dentro quella stessa scatola (la TV) che ha creato buona parte dei modelli negativi che abbiamo tra i piedi. Ancora sulla figura del Portiere faccio cadere questa responsabilità, in quella figura che ha al suo interno la triade Kierkegaardiana che convive: si hanno i tratti dell’esteta che vive l’attimo, i tratti del marito che rinnova la scelta e dell’uomo religioso che contempla, in questo caso, la fede in se stesso. E’ una sorta di Übermensch, per tornare a Nietzsche. L'oltreuomo abbandona le ipocrisie dei falsi moralisti e afferma se stesso, ponendo di fronte alla morale comune i propri valori. Egli identifica il ritorno al mondo del pensiero dionisiaco, guidato dalle passioni. Nietzsche è convinto dell'esistenza di un'unica vita terrena, legata a un corpo fisico e alle sue pulsioni. Di questo ne era convinto anche Erasmo da Rotterdam nel suo celebre Elogio della Follia in un suo celebre passo: “Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la 90 LICHTENBERG G.C., Libretto di consolazione, in Nardone-Watzlawick, cit., 86 saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia. La follia a volte è la vera saggezza... il cuore ha sempre ragione!”91 Nella fisicità estremizzata di oggi si deve rivalutare anche il corpo e la sua cura. Esso è quindi un elemento determinante, in quanto riesce ad essere lo strumento attraverso cui conosciamo il mondo e noi stessi, in un percorso esplorativo in continuo divenire. Mente e corpo, non si devono più pensare come elementi a se stanti, bensì, entrambi, ricoprono due ruoli assai vincolati tra loro; muoversi a discapito dell'uno o dell'altro porta a qualcosa di estremamente sterile e, nei contenuti e nella sua spendibilità empirica, vuoto. Il corpo non è più solo macchina, oggetto o cosa, bensì il corpo diventa storia di un vissuto, con una lunga serie di rappresentazioni storiche, sociali e politiche. Il corpo, inteso come struttura, è sede di una serie di capacità intrinseche del corpo stesso (sentire e pensare); è un elemento che ha la capacità di muoversi entro uno spazio e in un determinato tempo. Galimberti ci dice che il sé corporeo trae esperienza dal mondo e “abitando il mondo, contrae abitudini dal mondo stesso”.92 Il corpo dell'individuo rappresenta quindi il suo stile di vita, il suo vissuto. Il contesto esterno nel quale si situa il soggetto diventa allora il punto di riferimento a partire dal quale il corpo viene posto come strumento per agire, instaurare relazioni, affermare la propria posizione sociale. Ma poiché il contesto è regolato da norme reali o implicite, allora ne consegue che le esperienze, le pratiche, gli stati del corpo rivelano le modalità attraverso le quali il corpo può cadere sotto l'influenza di istituzioni di controllo nel campo medico, così come in quello sessuale o sportivo. L'idea di corpo come costrutto sociale richiama un'idea ben più ampia rispetto all'esperienza soggettiva del vissuto corporeo. Il corpo infatti ha valenza esistenziale. L'individuo costruisce il proprio vissuto corporeo sulla scorta delle esperienze interpersonali vissute e dei modelli culturali radicati nel proprio contesto di vita quotidiana, incorporati nella propria identità corporea e 91 92 ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio della Follia, Einaudi, Torino 2005. GALIMBERTI U., Il corpo, Feltrinelli, Milano 1993. 87 “visibilmente inscritti nel suo corpo, nelle sue posture e nelle sue credenze più intime”.93 Rivalutarci è quindi necessario, rifacendoci al celebre “mens sana in corpore sano” e finalmente riuscire a portare dei modelli di riferimento positivi ai giovani. Forse siamo ancora in tempo anche per i “meno” giovani, attraverso la figura del Portiere o di chiunque altro sia in grado di farsene carico. Noi Portieri siamo abituati a non vivere sotto i riflettori e siamo ben lieti di lasciare le luci della ribalta ad altri, tanto del Portiere “ce ne accorgiamo solo se non c’è...”94 93 GALIMBERTI U., Il corpo, cit., Feltrinelli, Milano 1993. BAGETTO L., “Il portiere non c’è”, in Linea Bianca, Numero Uno. Il portiere raccontato. Pensare il pallone., cit., Limina febbraio 2004. 94 88 3.5. LA BELLEZZA DEL GESTO VS CAOS CIVILE E’ naturale ed inevitabile, a questo punto della trattazione, tentare di risolvere la crisi del calcio, rappresentazione della crisi dei modelli e dei valori della società moderna. Se da un lato la filosofia ha come obiettivo quello di porsi delle domande sulla realtà, allo stesso tempo ha anche la volontà di darsi delle risposte. Così, nel caos civile che ci circonda, essa risulta essere un valido strumento di analisi risolutiva del palcoscenico dell’esistenza. L’attuale riflessione si sofferma su quattro possibili approcci sistematici del mondo e delle sue problematiche: la fede, la scienza, il gioco e l’arte. La fede trova nella preghiera la sua forza aggregativa: “Dèi, dèe, cosmiche Forze Potenze estreme scolte ai baluardi della patria non tradite il paese segnato dal ferro all'armata che parla straniero. Esaudite - come è santo e giusto – queste donne in preghiera, con le palme protese. ant. III Oh mie Potenze divine curvatevi su Tebe, salvatrici splendete di luce d'amore. Prendetevi a cuore il popolo devoto e se il cuore vi spinge, lo porrete in salvo. Fate mente, vi prego, ai riti solenni in cui si consuma l'amore di Tebe.” 95 Essa ha il grande merito di creare un’unione d’intenti e di rigenerare nell’uomo un senso di umiltà. Un’umiltà così profonda che rischia di sconfinare nell’impotenza e in una sorta di accettazione passiva della realtà stessa, tanto da delegare il proprio futuro a delle forze ultraterrene. La stessa umiltà la possiamo ritrovare anche nella scienza, il cui studio porta inevitabilmente ad un confronto con la totalità e la sconfinatezza dell’universo. Un’umiltà che ha la forza di formare il carattere, tanto 95 ESCHILO, Sette contro Tebe, La Vita Felice, 2003. 89 da dare, all’uomo di scienza, un’esperienza formativa verso un’assunzione di responsabilità. “[...] È stato detto che l'astronomia è un'esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c'è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l'uno dell'altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l'unica casa che abbiamo mai conosciuto."96 Così come l’astronomia è un’esperienza di umiltà che forma il carattere, anche il mondo del gioco allora risulta essere meno estraneo alla vita quotidiana di quanto si potesse pensare prima di questa lunga riflessione. Un esempio? Albert Camus: “Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”97 Il celebre scrittore francese nato in Algeria nel 1913, ha giocato a calcio, come portiere, nel Racing universitario algerino e, secondo alcune voci, anche nella nazionale algerina durante dei campionati mondiali. Camus, se non si fosse ammalato di tubercolosi, forse non avrebbe fatto lo scrittore-filosofo e avrebbe continuato a giocare. "Ho capito subito che la palla non arriva mai da dove te l'aspetti. Mi è servito più tardi nella vita, soprattutto a Parigi, dove non ci si può fidare di nessuno".98 Camus, ne Lo Straniero, attribuisce a Meursault, il protagonista, il vuoto, l'abulia e l'indifferenza, sentimenti che paiono molto forti, specie se attribuiti a una persona che conduce una vita assolutamente normale. La verità è che il suo vuoto emotivo e spirituale, il suo istintivo materialismo, l'essere concentrato solo su se stesso, generano un'indifferenza che porta a una mancanza di morale che oggi possiamo 96 SAGAN C., Pallido Puntino Azzurro, visualizzato in data 19/02/2013 www.youtube.com/watch?v=B1RyxDklt8Q 97 CAMUS A., citazione senza fonte in Scrivere con i piedi: quando il calcio incontra la letteratura. web.infinito.it/utenti/m/mviola/calcio.htm visualizzato in data 03/03/2012. 98 CAMUS A., in Palle di carta di CARLO MARTINELLI, Albert Camus, il portiere in rivolta., martinelli-trento.blogautore.repubblica.it/12/10/15/albert-camus-il-portiere-in-rivolta, visualizzato in data 14/02/2013. 90 spesso riconoscere attorno a noi. Un messaggio forte e quanto mai attuale che si ripropone proprio ne La peste. La peste diventa, ogni giorno di più, un romanzo di forza simbolica, ritratto, aperto a un futuro di speranza, di una società che deve imparare a reagire al morbo della paura, dell'indifferenza, della violenza e dell'egoismo, che la sta mortalmente infettando. In questo romanzo, Albert Camus affronta il grande problema dell'assurdo, cioè dell'impossibilità di trovare senso e giustificazione all'esistenza umana e al dolore che essa contiene. L'antichissima domanda sul significato del male (inconciliabile con la presenza di un Dio giusto e buono) viene riformulata in termini laici e si risolve nella constatazione lucida e senza speranza dell'ineluttabilità del male e della sua insensata gratuità. L'unica salvezza dalla disperazione può essere nella solidarietà fra gli uomini; l'unica rivolta possibile, il rifiuto di portare altro male nel mondo. La peste è metafora del male: dell'assurdità del dolore inflitto agli uomini, dell'insensatezza del loro esistere. L'azione è l’unico sollievo all'angoscia. Un’azione, quella dell’artista, dedita alla ricerca della bellezza e del piacere, che derivano dalla contemplazione di se stessi, sono gli obiettivi che ogni artista si pone per goderne e farne godere. Poco importa che questa bellezza passi attraverso un verso, nella ricerca di una nota, nel gesto di un atleta, nella parata di un portiere, nel sibilo di una voce, nella fermezza della punta di una ballerina o nella pennellata di un pittore. Fare arte vuol dire agire nell'oggi immaginandosi nel domani, in un eterno che piomba addosso inesorabile senza mai passare. Fare arte è camminare un passo avanti a se stessi, per sentirsi avvolti nell'abisso cosmico, nella vertigine dell'esistenza. E capita così di vivere in quell'esile equilibrio, a cavallo dell'oblio della coscienza. Fare arte è quindi necessario, ma non sufficiente; poiché tutte le forme d’arte sono soggette a contaminazioni negative. In particolar modo la scrittura, la cui lingua diventa l'organo più esposto al contagio, risente delle influenze, delle disattenzioni e delle disaffezioni frutto di un crescente imbarbarimento. «Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a 91 confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».99 Così lo sforzo (lo Streben di Fichte) di chi fa arte, qualunque essa sia, è innanzitutto uno sforzo contro se stesso: è uccidersi a piccole dosi per difendere una piccola parte di universo, farla propria, proteggerla, rivisitarla e renderla eterna. Certi monumenti, certi quadri, certi versi, certe canzoni e certi pensieri sono frutto di un'idea che va oltre ogni umano sentire. Per quanto ci si sforzi, non si può capire: solo ammirare. In quel divario, tra quella grandezza e la nostra pochezza, risiede la bellezza. E vive lo stupore del sublime. La meraviglia dell'immagine di un genio visionario, che ha sconfitto i suoi limiti in un bagliore di eterno, resta lì a farsi contemplare, accendendo il folgore incomprensibile di certe sensazioni. E non resta che avvolgere l'anima in sé stessa, certi di poter partorire, nella finitezza della nostra esistenza, un gesto che dia senso a tutto quello che un senso potrebbe non averlo mai. L'arte è il coraggio di scegliere. L'arte è il coraggio di affrontarsi per esprimersi. L'arte è il coraggio di vivere. “La bellezza è il campo di battaglia dove Dio e Satana si contendono l'uomo.”100 In questo abisso estremo, in questa esaltazione mistica di lotta contro un ordine del mondo risiede il coraggio di vivere. “Perché viviamo sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».101 Facciamo arte per tanti motivi. Facciamo per l'intima necessità di farlo. Tutti gli artisti scrivono per compiacersi, ribadendo quanto siano bravi, per infilzare qualcuno, ferendolo a morte o solo per fargli fermare il cuore per qualche istante, 99 GIVONE S., A proposito della peste. Destino, colpa e libertà., conferenza ad Assisi, commentando il testo “Metafisica della Peste. Colpa e destino.”, Einaudi, Torino 2012. 100 DOSTOEVSKIJ F., I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 2005. 101 GIVONE S., Metafisica della Peste. Colpa e destino., cit., Einaudi, Torino 2012. 92 emozionandolo. Cosa stiamo inseguendo allora? I dettagli. Che razza di bellezza c'è là dentro? Ogni forma d’arte è un tentativo di tenere il mondo in mano, almeno il nostro. E' un modo di riordinare la confusione che ci arroventa l'anima. Facendo arte abbracciamo noi stessi, perché ad una penna o ad pennello possiamo far fare il giro che vogliamo, e in quel cerchio farci rientrare tutto quello che desideriamo. Poi arriva l'ora di posare gli strumenti del mestiere e ci scozziamo con la realtà, e non possiamo che farci la guerra. Qualcosa di importante è sempre fuori dal cerchio che abbiamo descritto. E continuiamo a scrivere, perché scrivendo entriamo in contatto con l'assoluto, scegliendo quello che di più raro c'è nell'universo e, nell'uomo sensibile, di più caro. Forgiamo il tutto di un materiale affascinante, la lingua, le immagini, il suono delle parole, il respiro della storia, e li modelliamo con le mani, come a toccare i nostri sentimenti. Sono lì e non possiamo non toccarli. Non possiamo non sentirli. Esprimiamo in qualche modo il gusto di un maestro, che, in quel momento, siamo noi. In questo cambio di prospettiva, di lotta interiore, non ci resta che rifarsi al nostro corpo, al più grande strumento di relazione di cui siamo in possesso. Un corpo proiettato continuamente verso ciò che lo circonda, verso ciò che gli è estraneo. Ogni corpo congiura sempre verso un cominciamento, come ci insegna Maurice Merlau-Ponty: “Non c'è un punto zero, non c'è un inizio, non esiste l'origine. Le cose non si percepiscono dalle radici, ma da un punto qualsiasi situato nel mezzo. Tutto ciò che inizia è nel mezzo a qualcos'altro, il cominciamento muove dal mezzo. Ogni momento ha un passato alle spalle, tutto congiura per un inizio. Lo spettacolo non è davanti a me, lo spettacolo mi avvolge.”102 Una volta nel mondo, avvolti dallo spettacolo, ci chiediamo sempre, incessantemente: perché? E allora, citando ancora Givone, “perché? Perché siamo al mondo, se dobbiamo morire? Specie se la morte può arrivare nella forma di una catastrofica, immotivata e noncurante malattia che appare e scompare senza senso alcuno. Una malattia che 102 MERLEAU-PONTY, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989. 93 uccide, ma che può far di peggio, lasciando le sue vittime «solo» vive, nude e private di qualunque parvenza di civile umanità. Perché anche l'umanità può rivelarsi una maschera. Siamo qui per scontare una colpa? Magari solo quella di essere? È un'ipotesi amara, che però lascia spazio alla speranza, alla scintilla divina che scopre un senso possibile nel cuore stesso del nonsenso. Oppure non c'è alcun destino e nessuna colpa? La natura è una macchina demente, il cielo è vuoto, e il niente la vince sul quasi-niente.” Non esiste risposta assoluta, se non quella della fede, che comunque resta assoluta solo per chi crede e di fede è dotato. Eppure, in alcuni, resta lo spirito combattivo su piani diversi; il più difficile oggi è, senza dubbio, in quello del confronto. L’individuo nella sua finitezza può, con un’azione negativa, essere causa di distruzione e di disfacimento del mondo, essendo potenzialmente in possesso di un potere distruttivo maggiore del potere costruttivo di un’azione positiva. L’individuo, nella sua solitudine, non può uscire dalla crisi che lo affligge, causa l’impossibilità di raggiungere il bene collettivo. L’unico sentiero percorribile verso quel traguardo diventa allora quello del dialogo tra i vari modi che conosciamo di rapportarsi alla realtà. Kant diceva che “il bello è simbolo del bene morale”103 e Socrate sosteneva che “chi conosce il bene non può fare il male”104. Pertanto, per dominare il caos, è necessario ricreare un senso estetico nell’umanità, che permetta un’apertura e un confronto su un piano puramente logico, nel quale l’azione dell’individuo e la bellezza che ne consegue, diventano un momento di condivisione estetica, ed infine di salvezza, con lo scopo principale di concepire e riconoscere il bello per fare il bene. 103 KANT I., Critica del Giudizio, cit., Laterza, Bari 1997. SOCRATE, citazione contenuta nei testi di Platone, Simposio, Adelphi, Milano 1979 e in Platone, Apologia di Socrate, Bompiani, Milano 2000. 104 94 3.6. L’ESSENZA DEL RUOLO IN DUE GESTI TECNICI Se il calcio è metafora della vita e il portiere dell’uomo in alcuni gesti percepiamo quello sforzo umano per salvare e salvarsi. “L’attacco della palla” E' in un gesto di estremo sacrificio e di incondizionato amore che si può percepire l'essenza di un vero numero 1. Oltre il dolore, oltre la paura, oltre ogni pensiero negativo c'è l'imperativo categorico di difendere in ogni modo la propria porta. “Gramo il destino di chi vive sulla soglia.” Strano il destino di colui che difende la morte con la propria vita sul terreno dell'esistenza. La nostra pazzia è tutta lì: in questo apocalisse d'amore che si ripete in ogni movimento, in tutte le ore, di tutti i giorni, di tutta una vita. Con l'onore di quel numero sulle spalle. Con la voglia di andarsi a prendere il proprio futuro. Con l'ardore di chi attacca ogni spazio che la vita gli concede. Con la bramosia di essere ancora una volta il protagonista. "Fai della tua vita un'opera d'arte."105 105 D’ANNUNZIO G., Il piacere., Garzanti, Milano 2007. 95 "La vita è un'uscita alta" (lettera ai miei portieri) Vedi la traiettoria della palla, cerchi il tempo esatto, i passi giusti, per riuscire ad arrivare a prenderla lassù, nel punto più alto. Anni di lavoro e di fatica, da giocarsi tutti nel tempo dell'impatto, di quell'impatto, e nessun altro. In un "tac" che ti può cambiare la vita. Ma, dopo ogni apice, c'è sempre una caduta, una discesa naturale. E' il ciclo della vita. E quando, ormai vecchio, ti guarderai indietro, dovrai essere soddisfatto di quella presa alta, che altro non è che il ricordo di tutta la tua vita, in un solo istante. Sceglierai tu quale uscita sarà stata la più bella; ma dovrai andarne fiero. Quindi, lavora sodo, ragazzo mio... Perché la vita di qualsiasi uomo si misura e si valuta tutta lì, in quell'unico gesto di estremo coraggio. 96 CONCLUSIONI A seguito della riflessione compiuta nel presente elaborato sulla filosofia del gioco, l’estetica del calcio e il ruolo del portiere è possibile compiere delle riflessioni conclusive. Partendo dall’etimologia del termine gioco, solitamente legato ad un’attività infantile, arriviamo ad una rivalutazione pedagogica del gioco, avvalendosi del pensiero di Huizinga e di Fink, i quali, invece, lo descrivono e lo elevano ad attività totalmente seria, poiché nel gioco si vincono gli apparenti dualismi tra libertà e regole, serietà e leggerezza, realtà e finzione, senza che venga meno la qualità profondamente estetica del gioco, che si materializza nella bellezza dei gesti dei partecipanti. Data la vastità dei mondi che la parola gioco racchiude, per avvallare la mia tesi, mi sono addentrato nel mondo del calcio, prendendo spunto dalla mia attività lavorativa. Considerando che la vita è rappresentazione, ed anche il gioco lo è, il palcoscenico entro cui si svolge il teatro della vita è lo stadio. Come nel teatro shakespeariano del ‘600, lo stadio oggi altro non è che un luogo entro cui attori e spettatori sono parte integrante di quello spettacolo, che è una partita nella partita. In quel teatro coesistono la bellezza Hegeliana e la bellezza Kantiana: la prima idealizzata dal campo da gioco, che diventa bello in quanto praticabile, e la seconda sublimata dalla bellezza dei gesti che sfidano le leggi della natura. Nel teatro dello stadio il bello ideale e il sublime trovano la loro armonia e il loro equilibrio. In quei gesti, che hanno la loro ragion d’essere nell’esattezza del tempo, si alimenta lo stupore che pervade gli occhi di chi guarda e, contemporaneamente, ne mantengono il mistero del gioco. Quindi la sua essenza. Una parata di Buffon e un gol di Messi diventano uno strumento di rappresentazione finale di un processo ben più lungo e articolato. L’origine di quelle esecuzioni finali va però ricercato nel pensiero iniziale che muove l’azione finale. Mourinho e Guardiola sono due filosofiregisti che si confrontano sul campo con idee tra loro divergenti. Benché le modalità siano diverse, entrambi focalizzano la loro attenzione nella creazione di quel fine comune che è il bene della squadra. Convivere in una squadra ha come priorità assoluta l’accettazione di un sistema di regole. Regole che, come detto in precedenza, se da un lato limitano la libertà 97 individuale, dall’altro garantiscono la sopravvivenza dell’individuo all’interno del gruppo e del gruppo stesso. La vera libertà è nella scelta di auto-limitarsi. “Gioco e continuo a giocare perché ho scelto di farlo. Anche se non è la tua vita ideale, puoi sempre sceglierla. Quale sia la tua vita, sceglierla cambia tutto.” Tra tutte le scelte possibili all’interno di un contesto di squadra, il ruolo che meglio incarna la capacità di scelta è quello del portiere. Nel portiere coesistono i tre modelli di vita proposti da Kierkegaard. Poiché il godimento del portiere risiede nel cogliere la palla precisamente nell’istante del tempo, esso rincorre, per tutta la vita, quell’attimo. E, in questa rincorsa, matura una consapevolezza crescente che lo porta a ribadire la scelta ogni singolo giorno, ad ogni singolo allenamento, anche dopo il dolore dell’errore o di una sconfitta. Per convivere tra la gioia dell’istante e la noia della ripetizione della scelta, il portiere si supera in un percorso di fede in se stesso. Il lavoro sul campo, per diventare un buon portiere, diventa un percorso molto simile a quello che conduce ad essere dei buoni uomini. Tutti i portieri che tornano al campo, anche e soprattutto dopo una delusione, non sono altro che uomini che focalizzano e sfidano le proprie paure, assumendosi le responsabilità difronte alle situazioni che la vita gli pone nel loro cammino. “Allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza.” Per scegliere tale responsabilità, e capire cosa si deve sfidare, è assolutamente necessario conoscere il linguaggio, poiché il linguaggio è ciò che distingue, definisce, nomina, cioè attira le cose nel dominio dello spirito. Ci consente di dare i nomi alla vita, e alla nostra esperienza, perché, con esso e attraverso esso, si nominano le cose, alcune molto semplici, altre molto complicate. Nominare è una cosa preziosa per tutti; si danno i nomi alle cose, per difendersi dalle cose. Se non sapessimo nominarle, non sapremmo cosa sono. Se non sapessimo nominarle, non potremmo accettarle o, viceversa, sfidarle. Nominare è, sostanzialmente, scelta. Scegliere è questione di gusto, e in quanto gusto, di bellezza. Nominare e giocare si 98 incrociano lì, nel campo dell’estetica; nel valore profondo di bello. E quindi la bellezza (del gioco) può salvare il mondo? Il campo da gioco è, senza dubbio, una delle migliori palestre entro cui attuare, da un lato, l’accettazione delle regole e delle responsabilità e, dall’altro, esercitarsi alla contemplazione e alla pratica della bellezza, attraverso la bellezza del gioco. L’esercizio di questa attitudine ci porta là fuori, nella vita, a saper riconoscere ciò che è bello e giusto, da ciò che - invece rappresenta il male, e la sua banalizzazione. 99 POSTFAZIONE “L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane non ha ancora l'età per far filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già passata, I'età per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il vecchio devono far filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perché, pur restando giovane d'età, sia maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. E' bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo.”106 Perché non è davvero mai troppo presto né troppo tardi per filosofare e... giocare a calcio! 106 EPICURO, Lettera sulla felicità, Einaudi, Torino 2012. 100 BIBLIOGRAFIA Aa.Vv., La filosofia in gioco, in “Aut Aut”, n. 295, gennaio/febbraio 2000; Aa.Vv., Per una cultura educativa del corpo De Mennato P. (a cura di), Pensa MultiMedia, Lecce 2006; Abbagnano N., Dizionario di filosofia, 3a ed. (ampliata da G. Fornero), UTET, Torino 1998; Agassi A., Open. La mia storia a cura di di Moehringer J.R., Einaudi, Torino 2011; Bale J., Il calcio come fonte di topofilia. 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Ringrazio il Prof. Gianluca Garelli per la disponibilità mostrata all’inizio del mio lavoro e per i preziosi consigli iniziali. Ringrazio i miei nonni, luce costante in ogni mio giorno. Ringrazio i miei genitori: oltre le parole, oltre i pensieri, oltre ogni sentimento, sempre al mio fianco, in ogni mio sogno. Ringrazio i miei amici, vicini e lontani, per avermi lasciato, con il loro passaggio, una briciola della loro vita. Ringrazio tutti i miei allenatori, i miei allievi e tutte quelle persone che ho vissuto grazie all’esperienza sportiva, per essere stati un motore di questo mio nuovo percorso. Inizio di un percorso che è ancora indeterminato e in parte sconosciuto. Ho la sensazione di affacciarmi sul palcoscenico del mondo senza sapere dove e come sarò; per adesso mi limito a ringraziarvi per essermi stati accanto, per avermi sospinto fuori da qui e per aver delineato parte del mio avvenire. Orgoglioso di voi, ma anche orgoglioso di me. Questa laurea che sta per arrivare, me la voglio dedicare, per i km fatti rincorrendo un futuro incerto ma pieno di aspettative, per i pasti veloci consumati in macchina tra un impegno e l’altro, per la forza che ho ricevuto da certe delusioni e da grandi dolori, ma anche per la gioia dei traguardi raggiunti. Per la compostezza del mio animo e, soprattutto, per gli insegnamenti difesi con orgoglio e fierezza. A chi, con il sudore della propria fronte e la tenacia delle proprie mani, mi ha permesso di essere qui, per appendere lassù in alto quel foglio, che oggi vado a ritirare. A nome mio, in onore Vostro. Francesco Farioli. 108