Religioni a scuola Un approccio pedagogico in chiave simbolica di Giorgio Maghini (pedagogista, coordinatore pedagogico nella scuola dell’infanzia, Comune di Ferrara) Religioni a scuola: complessità e confusione Sto scrivendo questo articolo all’inizio di agosto 2011, ed è solo di pochi giorni1 fa la notizia che in un campo estivo parrocchiale dove era stata programmata la proiezione di un film sulla Madonna, gli educatori hanno preferito rinunciare a tale attività per non turbare la sensibilità di alcuni ragazzi musulmani iscritti. Fatte salve le evidentemente buone intenzioni degli educatori, si tratta di un chiaro esempio di risposta confusa a un problema complesso: allo scopo di prevenire una possibile situazione di disagio, una istituzione educativa autocensura una proposta che rientra chiaramente nelle proprie finalità istituzionali. Non è un meccanismo diverso quello che talvolta capita di osservare nelle scuole secondarie: per evitare di suscitare polemiche su fascismo e resistenza, il programma di storia tende a subire un brusco rallentamento dopo la fine della prima guerra mondiale per limitarsi a un veloce sguardo sull’Italia 1922 – 1945 e riprendere il ritmo normale con il referendum su Monarchia e Repubblica, la Costituente, la ricostruzione. Entrambi gli esempi sono interessantissimi in un’ottica di riflessione pedagogica, in quanto un atteggiamento evitante o di negazione è sempre segno evidente dell’incontro con un passaggio irrisolto di un percorso sia individuale, sia istituzionale. Religioni a scuola Scritto in agosto, la pubblicazione di questo articolo è programmata per dicembre ed è facile prevedere che in quel periodo ricompariranno, sui giornali, articoli che - usando spesso la tecnica del “controcampo”, affiancando cioè due pareri di segno opposto ravviveranno le discussioni sulla opportunità di allestire il presepe nelle scuole, sulla liceità di parlare di angeli (figure abbastanza trasversali, tutto sommato), su se e con quali denominazioni vada menzionato quel bambino che nasce il giorno di Natale. Aldilà di certe stereotipie mediatiche e dei fatti più clamorosi che arrivano alla cronaca, però, il tema dell’educazione religiosa nelle scuole è serio, ed è esperienza frequente, per chi lavora nella scuola dell’infanzia, dover fare i conti con problemi di ordine “religioso” portati dai bambini di 3/5 anni o dai loro genitori. I primi pongono questioni di ordine escatologico (“La mia mamma dice che il nonno è andato in cielo…”), interculturale (“Perché Ahmed non mangia il prosciutto?”, “Perché Patrizia esce quando noi facciamo religione?”), politico (“Ieri in televisione hanno detto che c’è la guerra tra ebrei e musulmani”), cosmologico (“Tanto tempo fa era tutto buio, c’erano 1 La notizia è riportata, ad esempio, da La Stampa del 31 luglio 2011, a pag. 18, in un articolo intitolato Vietato il documentario su Fatima “In platea ragazzini musulmani”. solo delle palle di fuoco: due palle di fuoco si sono scontrate e all’improvviso sono nate le stelle”)2… I secondi chiedono che l’esperienza scolastica dei loro figli non contrasti con le loro convinzioni religiose, e perciò vorrebbero che i loro figli non svolgessero la funzione di “cameriere” (che invece è così ambita) in quanto non è lecito toccare un piatto che contiene carne di maiale, che rimanessero a casa da scuola il giorno in cui si festeggiano i compleanni, in quanto le feste sono moralmente inaccettabili, che i bambini e le bambine avessero bagni separati, che i menu fossero “interculturali”… Le risposte: approccio “negativo”, “privato” e “sinottico” Le questioni religiose, dunque, entrano nella scuola come “problema”: chiedendo e stimolando, cioè, una riorganizzazione della scuola stessa per poterle affrontare e trarne opportunità di educazione per i bambini. Ad oggi, la mia esperienza di insegnante e di coordinatore pedagogico mi fa dire che le “risposte” della scuola alla problematica religiosa (lasciando a parte l’Insegnamento disciplinare della religione cattolica che ha un proprio status giuridico e metodologico e che, come si vedrà più avanti, è “parallelo” e non “alternativo” alla proposta che intendo illustrare) si basano su tre approcci di fondo: “negativo”, “privato” e “sinottico”. Grossolanamente, il primo consiste nell’affermazione che “a scuola non si parla di religione/religioni” così da non dar adito nemmeno alla più lontana possibilità di discriminazione; il secondo parte dal principio che “la religione è un fatto privato”, per cui ogniqualvolta un tema religioso entra nella scuola, lo si rimanda al giudizio e alla competenza della famiglia cosi che, su questa base, i problemi non vengono negati, si rispetta la diversità di ognuno e si ribadisce il fatto che, a scuola, ogni convinzione è legittima; il terzo ritorna sull’uguale dignità di tutte le opinioni religiose e mette in pratica tale principio parlando di religione solo in modo comparato; secondo questo approccio non si può, ad esempio, parlare di Ramadan se non in parallelo con la Quaresima, i misteri eleusini, lo Yom Kippur, e ogni forma di digiuno praticata nelle diverse tradizioni spirituali. Ognuno degli approcci sopra elencati coglie ed esprime elementi importanti della concezione di scuola: la sua fondamentale laicità, l’assoluta parità di ogni convinzione, il rispetto e la valorizzazione delle diversità. D’altro canto, tali approcci non sono esenti da evidenti carenze: la “negazione” comporta accettare il fatto che a scuola ci sono “argomenti tabù”, il che contrasta con la vocazione universalistica della pedagogia e ci riporta a tempi in cui a scuola “non si parlava di sesso” o “non si doveva dire che il tal bambino aveva i genitori separati”; lo stesso discorso vale per il rimando alla sfera del privato, senza tener conto del fatto che ambedue gli approcci ci porterebbero prima o poi a dire a un bambino che pone domande “religiose” che non possiamo parlare con lui. Il terzo approccio è quello che potrebbe garantire il massimo di rispetto delle diverse convinzioni coniugato col massimo di libertà di espressione delle domande dei bambini, ma comporta una certa macchinosità e tempi di preparazione molto lunghi. 2 Le frasi tra parentesi sono state pronunciate da bambini di scuole comunali di Ferrara, in contesti non strutturati, e riportate dalle insegnanti nel gruppo di lavoro. L’approccio simbolico: assunto di fondo Riassumendo: parlare di religione a scuola è necessario, sia per statuto della pedagogia, sia come forma di accoglienza dell’“atteggiamento filosofico innato” dei bambini, sia in rispettosa risposta agli stimoli che nascono dal confronto tra culture in questi anni di migrazioni. Farlo salvaguardando rispetto delle opinioni personali e laicità della scuola non è facile. Da un punto di vista metodologico può essere d’aiuto l’approccio “simbolico”3, che propone ai bambini non tanto di confrontarsi sulle diverse religioni e sulle loro diverse formulazioni dottrinali, morali, istituzionali quanto piuttosto di intraprendere cammini di conoscenza di ciò che unisce tutti gli esseri umani nella loro ricerca del trascendente. In chiave simbolica, oggetto del processo educativo non sono le diverse risposte che le tradizioni hanno dato alle domande sulla creazione del mondo, sulla relazione tra gli uomini, sulla presenza del male e del dolore, sulla morte, sul destino che attende l’uomo dopo la morte, sulla esistenza di creature spirituali… ma, invece, la riflessione sul fatto stesso che l’uomo si è sempre posto queste domande. Appare chiaro che, in quest’ottica, diventa possibile parlare a tutti i bambini, senza distinzioni di appartenenze, perché se diverse sono le risposte date nel tempo a tali domande, uguali e immutabili sono le domande stesse. In sintesi, Chieregatti scrive: “Educazione religiosa è anche insegnamento della religione, ma è innanzitutto iniziazione alla religiosità4» e continua: «Non significa cercare sempre soluzioni, ma innanzitutto porci degli interrogativi e forse permetterci di provare emozioni che possono entrare per vie diverse, che possono portarci verso orizzonti non ancora visti.»5 Vale anche la pena di annotare qui, sia pure di passaggio, due considerazioni che meriterebbero ben altro approfondimento. La prima: in chiave “simbolica” anche i cosiddetti “atei” hanno cittadinanza nella discussione sulla religiosità, in quanto anche la loro è una risposta alle grandi domande umane. La seconda: l’Insegnamento della Religione Cattolica, come si diceva più sopra, non entra in contrasto con questo approccio ma può, al contrario, affiancarlo realizzando pienamente la sua funzione di assicurare un approccio alla «cultura religiosa, tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano»6 3 Per un approfondimento sull’approccio “simbolico”, cfr. Arrigo Chieregatti (sacerdote della Diocesi di Bologna, professore a contratto presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, co-direttore di InterCulture, Edizione italiana della rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal) in particolare nel contributo Laicità e religioni, in: InterCulture, n. 15-16 del dicembre 2009/aprile 2010 pagg. 173 – 198. 4 A. Chieregatti, op. cit.. p. 175. 5 A. Chieregatti, op. cit.. p. 184. 6 Accordo tra la santa sede e la repubblica italiana che apporta modificazioni al concordato lateranense, 18.02.1984, art. 9 comma 2. Da un punto di vista metodologico: le caratteristiche di un progetto educativo alla religiosità. Se assumiamo che l’educazione alla religiosità in chiave simbolica può far parte del ventaglio di proposte della scuola, nella certezza di non escludere nessun bambino e in autonomia / complementarietà rispetto all’IRC7, occorre allora farla diventare progettualità educativa nella scuola dell’infanzia. È un processo articolato, che in questi anni sto discutendo con le scuole d’infanzia da me coordinate e che, metodologicamente, si può riassumere così: Temi L’esperienza dice che almeno due8 sono i temi verso i quali i bambini mostrano interesse spontaneo: chi ha fatto l’universo, dove si va quando si muore. La domanda può avere un’origine “esterna” (un discorso dei grandi, la televisione…) oppure “interna”, provenire cioè da una riflessione del bambino stesso a seguito di un’esperienza forte (l’osservazione delle stelle, di un bosco o del mare, la perdita di una persona, la visita ad un luogo sacro…). Obiettivi Accompagnare la riflessione dei bambini, presentando loro la dimensione simbolicoreligiosa e connettendola ad altre branche del sapere umano. Metodologia È un tipo di riflessione che va svolta in gruppo, secondo una metodologia cooperativa, in modo che tutti possano dare il loro contributo e le considerazioni che via via vengono raccolte costruiscano un sapere condiviso e cocostruito. È in questa fase che i bambini fanno esperienza del fatto che esiste una domanda comune a tutti gli uomini e modi virtualmente infiniti di rispondere ad essa. Terminata la fase di condivisione, si rimanda ad un altro momento di gruppo, nel quale le insegnanti proporranno ai bambini o ulteriori narrazioni a tema o collegamenti a argomenti scientifici o artistici. Tempi I tempi sono, ovviamente, variabili e legati all’interesse dei bambini. Il progetto, d’altra parte, si presta a essere ripetuto più volte e attivato ogniqualvolta le circostanze lo rendano utile. Una piccola esperienza La scuola dell’infanzia “La Mongolfiera” si trova nell’immediata periferia di Ferrara, in un contesto ancora agricolo, e da anni cura, grazie alla fondamentale collaborazione di genitori e nonni volontari, un meraviglioso orto didattico. 7 Appare evidente che anche lo statuto epistemologico e metodologico dell’IRC verrebbe interrogato da un approccio “simbolico” all’educazione religiosa e che le due proposte potrebbero fecondarsi positivamente. 8 In realtà gli interessi dei bambini sono tanti almeno quante le domande che sanno porre: Com’è fatto Dio? Perché ci sono tante religioni? Perché c’è chi dice che Dio non esiste? Che cosa sono il paradiso e l’inferno?… i due ambiti che qui si propongono sono unicamente un punto di partenza. Ho proposto al gruppo di lavoro un percorso di educazione alla religiosità a partire dallo stupore che i bambini provano davanti alla natura che vive e si rinnova. Il percorso è articolato così: • accogliere le manifestazioni di stupore dei bambini di fronte alla vita vegetale e animale e discuterne in gruppo, fino alla domanda: ma da dove viene la forza della natura? Raccogliere le opinioni dei bambini. Rimandare ad una “sorpresa”. • la “sorpresa” consiste in una drammatizzazione (organizzata dalle insegnanti o, meglio, dalle insegnanti assieme a qualche genitore interessato) del mito di Proserpina. • in un secondo incontro di gruppo, ai bambini viene chiesto di disegnare la storia di Proserpina e nuovamente vengono raccolti i loro commenti. In questo incontro, inoltre, le insegnanti propongono ai bambini diversi miti sulla creazione presi da culture diverse. • Da questo punto in poi, il percorso può articolarsi in più direzioni: si possono osservare somiglianze e differenze tra i miti della creazione nelle diverse tradizioni, si può proporre l’osservazione scientifica dei cicli naturali e stagionali, introdurre il tema della misurazione del tempo, coinvolgere l’insegnante di religione perché introduca il tema del Dio creatore secondo la Bibbia, chiedere ad un esperto di letteratura per l’infanzia di presentare libri per bambini inerenti il tema… L’esperienza de “La Mongolfiera” è ancora in corso ed sarebbe comunque troppo limitata per trarne conclusioni. Ciò che conta è entrare, come scuola, nel grande processo di incontri (anche faticosi) che caratterizza il nostro tempo: «l’irrompere delle culture e delle religioni degli “altri” nel nostro vissuto quotidiano complica ma anche arricchisce il contesto sociale in cui viviamo. Indifferibile diventa allora una processo di comprensione del valore che l’esperienza del sacro assume nella vita di innumerevoli uomini e donne, a partire dai soggetti più giovani, che tale convivenza sono destinati a portare a compimento.»9 Questo il compito dei bambini che oggi noi accogliamo nelle nostre scuole. A noi di aiutarli. 9 O. Starnerra, A. Ferrario, Resilienza e senso del sacro, in: Mondialità, n. 3 / marzo 2011, p. 15.