ACHAB Rivista di Antropologia 2006 numero VII Università degli Studi di Milano -Bicocca AChAB - Rivista di Antropologia Numero VII - febbraio 2006 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano Bicocca Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. * Immagine in copertina di Paolo Borghi: altare commemorativo in onore di Gauchito Antonio Gil, santo popolare (Trelew, Patagonia Argentina, dicembre 2005). Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: [email protected] In questo numero... 3 Intervista a Michael Herzfeld a cura della Redazione 9 Transazioni della politica e declinazioni di "nazione" Mafia siciliana e yakusa giapponese tra società tradizionale e stato moderno di Rossana Di Silvio 21 Sarajevo e il passato che non passa La memoria, il paesaggio e l'identità come fermo-immagine di Claudio Todisco 29 Identità mobili tra emigrazione, immigrazione, accoglienza di Paolo Benini 36 I fenomeni migratori Metodo e prospettiva critica di Abdelmalek Sayad di Paolo Borghi Dossier Università e Sapere 42 Premessa 43 Un seminario… è come un vocabolario fatto di parole senza definizioni di Paola Di Cori 47 Che cos'è un seminario? di Michel de Certeau 51 “Un’utopia?” di Franca Balsamo 53 Facoltà in conflitto di Matteo Bonazzi 55 Riflessioni sulle riforme universitarie (1989-2005) di Stefano Boni 1 56 "Il risveglio delle metafore" di Davide Borrelli 57 Il seminario: spazio di confine tra il "centro" di produzione del sapere e l' "erranza" intellettuale di Barbara Caputo 59 Quei discorsi 'inconcludenti' di Elena Gagliasso Luoni 61 A proposito di giocatori di Alberto Giasanti 62 L'Università, l'istituzione e i suoi margini di Michele Parodi 64 Costruire insieme la conoscenza per formarsi di Clotilde Pontecorvo 66 Transiti e Contraddizioni Riprendere il seminario di Michel de Certeau perché l'università non si metta in sosta di Chiara Rabbiosi 68 Totò, il Jazz e la Scienza: un Metalogo di Francesco Ronzon Altrevoci 71 Bomalang-ombe, Tanzania di Edoardo Occa 2 Intervista a Michael Herzfeld * I - Vorremmo iniziare con una nota biografica e chiederle quindi come si è sviluppato il suo percorso di antropologo. H - Ogni persona ha qualcosa nel suo passato che la spinge a porsi determinate domande. Io, ad esempio, essendo nato e cresciuto in Inghilterra, ma non sentendomi mai veramente inglese, perché di origine straniera, sono sempre stato molto interessato alle situazioni che si sviluppavano a scuola tra amici, molti dei quali figli di profughi come me o studenti stranieri. Molti ragazzi si consideravano inglesi senza sentirsi obbligati a rifletterci e questa cosa, che per loro sembrava naturale, mi spingeva a riflettere e a pormi certe domande. Fin da giovane ero molto interessato a questo tipo di questioni e, inoltre, il fatto di aver viaggiato molto insieme ai miei genitori ha suscitato in me l'interesse rispetto alle differenze culturali, insegnandomi ad apprezzare le piccole cose come, per esempio, essere aperti a nuovi tipi di cucina. Per cui penso che fossi in qualche maniera già orientato all'antropologia molti anni prima di diventare un antropologo. Ho incominciato al liceo con gli studi classici di cultura greca antica e latina, ma un viaggio in Grecia mi ha convinto di essere ben più interessato alla cultura dei greci contemporanei. Ho imparato il greco moderno da solo (come del resto avevo già fatto con l'italiano un paio d'anni prima), e questo fatto mi è servito da base forte quando, deluso dall'archeologia come si insegnava all'epoca, ho incominciato a rivolgermi da solo allo studio della cultura greca moderna. Un primo salto a Creta nel 1967 per registrare con due coetanei delle canzoni rurali è stato forse il definitivo punto di svolta che mi ha portato verso l'antropologia sociale, la quale già faceva parte dei miei studi di primo anno all'università di Cambridge. Così, l'anno dopo la laurea, ho iniziato a studiare il folklore greco all'Università di Atene. Questo argomento, legatissimo alle esigenze politiche del nazionalismo greco (sviluppato al diapason sotto i colonelli), mi è servito anche per un Master all'Università di Birmingham, dove ho studiato con la professoressa Margaret B. Alexiou. In seguito, questo percorso un po' complesso mi ha portato ad Oxford, dove, dopo un primo anno e mezzo passato sotto la tutela dei professori Ravindra K. Jain (indiano d'origine ed un'eccellente insegnante), e il famoso sinologo Maurice Freedman, ho finalmente cominciato a lavorare presso il "decano" degli specialisti della Grecia moderna J. K. Campbell. Quest'ultimo, che per me è stato il punto d'attrazione principale ad Oxford e che a mio parere è lo studioso che ha creato il modello ideale per trasferire lo sguardo etnografico di Evans-Pritchard dall'Africa ad una società emarginata in Europa, è stato uno delle presenze più importanti nella mia vita. Se da un lato, la sua prospettiva mi è servita da modello in tanti aspetti del mio percorso intellettuale, egli è anche sempre stato aperto alle modifiche che proposi, modifiche a volte inevitabili nello sviluppo della forma e del contenuto degli scritti etnografici. È stato un vero amico: tollerante, critico, generoso. I - Il metodo comparativo è un elemento centrale dei suoi lavori etnografici, vorrebbe approfondire questo aspetto? H - Per molti anni sono stato dell'opinione che difficilmente un antropologo potesse fare ricerca in diversi paesi, in primo luogo per la difficoltà di poter padroneggiare due, tre, o più lingue differenti. Ma non solo, vi è inoltre la difficoltà di tenere in considerazione una bibliografia sempre più ampia e di acquisire quel tipo di intimità con la gente, che per me è il presupposto di un etnografia degna di questo nome. Questa combinazione di fattori permette, in un certo senso, di evitare un pericolo abbastanza comune, quello della superficialità. Ma alle volte, impedisce all'antropologo di aprirsi a nuove esperienze e dunque lo costringe ad evitare l'esperienza diretta della comparazione vissuta. Quello che ho scoperto negli ultimi anni è che il rischio di superficialità non è superiore a quello della chiusura intellettuale, per cui ho iniziato ad espormi a nuove esperienze di terreno e, per buona fortuna, sono riuscito a trovare certi punti interessanti di comparazione in questo senso. Il percorso comunque non è mai stato ovvio o facile, e, infatti, credo che un antropologo debba essere sempre aperto all'imprevedibilità del proprio mestiere, che è davvero una delle sue caratteristiche più eclatanti. La mia esperienza personale fornisce un esempio chiaro. Uno dei motivi per cui sono diventato antropologo era il mio interesse per la Grecia e per molti anni ho pensato di continuare a lavorare esclusivamente su quel campo, affrontando diverse questioni. Tuttavia, essendomi formato in una scuola molto comparativa, quella di Oxford, avevo avuto la possibilità di leggere molte etnografie di altre culture (ho studiato ad esempio l'etnografia indiana con Jain), e, ad un certo punto, ho voluto provare a cambiare terreno di ricerca, sempre in una prospettiva comparativa. In qualche maniera, il salto più facile era quello di venire in Italia, innanzitutto perché conoscevo già la lingua italiana, ed inoltre, perché così sarei stato in grado di paragonare due grandi paesi dell'antica Europa (e specificamente quelli che si vantavano di essere i paesi di cultura detta "classica"). Ero già interessato agli effetti dell'ideologia neoclassica in Grecia, grazie a quell'esperienza all'Università di Atene che ho appena menzionata, e volevo studiare come era vissuto, in Italia, il legame con il passato classico per osservare quali erano gli effetti sulla vita quotidiana e comparare tali aspetti alla realtà greca. Ho scoperto, non direi inaspettatamente, che tali effetti erano in realtà molto diversi nei due paesi, in parte, perché il nazionalismo in *L’intervista, a cura della redazione, è stata condotta in italiano nel luglio 2005. Il dialogo col prof. Herzfeld è continuato anche nei mesi seguenti 3 Grecia e in Italia ha sempre giocato un ruolo diverso. La Grecia è un paese molto unito dove, per esempio, l'idea che si possa parlare un dialetto nella capitale appare come una cosa strana, mentre a Roma si parla "romanesco", che rimanda ad un senso di identità locale, regionale che a volte sembra più forte di quello nazionale. Quindi, ero interessato a rintracciare l'origine e gli effetti sociali di questa differenza tra le due popolazioni e questo rappresentava per me il primo "salto". Essendo stato addestrato ad un comparativismo molto strutturale, per cui cercavo sempre gli aspetti formali che consentivano di paragonare un gruppo ristretto di casi (come ad esempio tre paesi rurali greci dove le "regole" dell'eredità seguivano principi strutturalmente comuni), cominciavo a vedere che il metodo comparativo poteva divenire anche uno strumento per riflettere sul nostro coinvolgimento come rappresentanti di una certa cultura, o di un gruppo di culture, nell'ambito di quella studiata, per poi analizzare le reazioni culturali provocate da tale coinvolgimento diretto. Quando ero studente non si parlava ancora di riflessività come si fa ora, il comparativismo era da considerarsi, più o meno, un modello scientifico in senso stretto. In passato molti ritenevano che il comparativismo fosse assolutamente e per definizione incompatibile con la riflessività. Il comparativismo era il prodotto della scuola strutturale-funzionalista, mentre la riflessività rimandava alle elaborazioni teoriche post-moderne; io le ho sempre considerate due facce della stessa medaglia. Quando paragoniamo una cultura ad un'altra dobbiamo considerare che in tale comparazione entrano in gioco anche certi presupposti che risalgono alla nostra formazione culturale; c'è sempre, in maniera più o meno esplicita, una base di comparazione che risale alla propria esperienza. Fare etnografia in Italia era quindi anche un modo per utilizzare il metodo comparativo secondo una prospettiva diversa, in un certo senso più aperta. Devo dire che all'inizio avevo abbastanza paura di lavorare in Italia. Come ho già detto, conoscevo già la lingua italiana, ma fino a quel momento l'avevo sempre associata ad esperienze personali quali l'amicizia, il turismo, e l'opera (sono un verdiano pazzo!), ma non al lavoro sul campo, che fino ad allora avevo sempre associato alla Grecia. Una volta giunto alla conclusione che lavorare su più campi fosse non solo possibile ma molto stimolante, divenne realizzabile anche l'idea di andare ancora più "lontano", sia geograficamente che culturalmente. Nel 1997 mi trovavo ad un convegno ad Hong Kong e decisi di visitare un vecchio amico in Thailandia, anche lui un professore, un politologo. Una volta là, ho cominciato a parlare con vari colleghi ed ho iniziato ad elaborare l'idea di poter fare ricerca anche in quel paese. Sapevo che nella mia università vi era un corso di lingua thailandese e al mio ritorno negli U.S.A. iniziai a studiarla. L'esperienza thailandese è stata un'avventura intellettuale e personale molto interessante e preziosa. tipo di comparazione in un certo senso "convenzionale", confrontando, per esempio, differenze tra sistemi di parentela, trasmissioni di nomi e trasmissioni di beni tra vari paesi rurali in Grecia, come ho già accennato. In un secondo momento, spostando l'attenzione su questioni di ideologia, e sull'identità greca, mi sono reso conto delle implicazioni legate all'influenza occidentale ed ho cominciato a cercare di comprendere gli effetti di quel rapporto ineguale tra la Grecia e i suoi cosiddetti "protettori occidentali". Ho anche comparato la prospettiva di un antropologo rispetto a quella di uno scrittore di romanzi come il cretese Andreas Nenedakis, - figlio di un commerciante i cui parenti erano pastori di un paese di montagna; lui era cresciuto a Rethemnos, dove ho fatto delle ricerche etnografiche estese, e poi vissuto in altre città che conobbi anch'io - di cui ho pubblicato una "biografia etnografica" nel 1997, proprio per mettere in discussione comparativa il rapporto tra i due tipi di scrittura. Queste prime mosse mi hanno portato ad essere forse più sensibile ai problemi di una Thailandia che mentre si vanta di essere sempre stata indipendente e di non essere mai stata colonizzata, nella realtà storica ha sempre subito il controllo dei vari poteri occidentali sia a livello culturale che a livello economico e politico. Infatti la Thailandia non è mai stata invasa militarmente, ma ha dovuto, per esempio, cedere molti territori ai britannici e ai francesi. L'aspetto che forse mi interessava di più era il fatto che, come anche in Grecia, l'esigenza di dover creare un senso di identità nazionale avesse seguito linee molto precise; l'idea di stato nazionale ha un passato ben preciso, una storiografia nota. Penso che sia la Grecia che la Thailandia siano esempi di paesi costretti ad accettare un determinato modello di stato nazionale, che ho chiamato "crypto-coloniale". Naturalmente, come antropologo, sono sempre stato interessato a vedere quali fossero gli effetti di questa situazione nella vita quotidiana. Lasciamo ai politologi ed agli storici gli aspetti formali e strutturali di questo tipo di dipendenza; noi analizziamo gli effetti sulla vita quotidiana per poi vedere come potrebbero avere nuove conseguenze, di seguito, sul percorso della cultura e della politica nazionale. I - L'attenzione verso i piccoli gesti, le parole, le microinterazioni della quotidianità, che riteniamo uno degli aspetti più interessanti del suo lavoro, può comportare il rischio di perdersi nella frammentarietà delle realtà sociali. Qual è la sua opinione in merito? H - Mah, senta, penso che gli altri scienziati sociali (politologi, sociologi, ecc.) facciano sondaggi e indagini a livello molto generale. Questi ci forniscono anche dati e modelli che possiamo confrontare con i nostri, ma il grande vantaggio dell'antropologia è la sua capacità di entrare nell'intimità della vita quotidiana. E non vi si entra se non si riesce prima a dominare la lingua e a capire le piccole sfumature che sono i segni di un'appartenenza parzialmente realizzata anche dall'antropologo. Detto ciò, sono consapevole dell'insofferenza di molti nel leggere i nostri libri, perché spesso ritenuti troppo dettagliati; non hanno la pazienza di applicarsi ad una lettura attenta di questi dettagli. Anche questo I - Esiste, a suo avviso, un limite alla comparazione? H - Penso che la comparazione risalga sempre ad interessi preesistenti. Io per esempio ero interessato alla Grecia per diverse ragioni ed ho cominciato a fare ricerca. Inizialmente facevo un 4 fatto può servire da punto di provocazione, per chiedere perché la gente accetti di essere talmente conforme e passiva. Le nostre indagini potrebbero aiutare a rompere quest'egemonia della cosiddetta "semplicità", che, al fondo, è tutt'altro che semplice poiché rinchiude l'immaginazione pubblica in forme determinate e determinanti. Io personalmente preferisco i dettagli di vita quotidiana a quei listini di cifre infinite e non penso che siano meno "scientifici". Per la maggior parte le nostre testimonianze non sono statistiche, non sono sondaggi di grandi proporzioni. La loro profondità risale al fatto che conosciamo la gente in tutti i piccoli gesti, come dice lei giustamente. Per cui, secondo me, un'etnografia priva di questo tipo di informazioni non vale la pena di essere letta, perché il lettore non ha altri appigli per poter cogliere il senso di appartenenza degli individui alla comunità. Il lettore ha bisogno di essere rassicurato che l'antropologo sappia certe cose. Questi dettagli sono l'unica garanzia che l'antropologo può dargli, ma a prescindere dall'importanza di convincere il lettore, c'è anche un aspetto scientifico da considerare. Io, come ben sa, ho parlato molto spesso di quella che definisco "intimità culturale"; quando cominciamo ad indagare su una cultura diversa dalla nostra c'è sempre qualcuno che non vuole che entriamo nei "luoghi segreti" di quella cultura, o che ci accetta solo se siamo in grado di dimostrare una certa competenza culturale. E quella competenza, secondo me, risiede esattamente nei dettagli. società. E non è che il ritratto ufficiale è meno reale di quello scoperto dall'antropologo. E le dico un altra cosa. Sono due realtà che entrano sempre in tensione tra di loro e il compito dell'antropologo è di dimostrare il ruolo della rappresentazione ufficiale nella vita quotidiana e in quale maniera e per quali motivi viene contrastata, respinta oppure sostituita da un'immagine radicalmente diversa a questo livello vissuto. I - In "Intimità culturale" lei usa il concetto di disemia1… H - Per certi versi ho preferito mettere da parte il concetto di disemia. A me non piacciono i modelli formali. In Grecia il modello della disemia era utile perché la presenza di dualità formali era riconosciuta dai greci stessi e io volevo solo ribadire il fatto che questa coesistenza di due sistemi simbolici di appartenenza non era solo linguistica, ma faceva parte di un sistema molto più totalizzante, che si rivelava in diversi ambiti di quella stessa cultura. I - Oltre all'aspetto dell'ideologia dominante e dell'intimità culturale, l'etnografo dovrebbe secondo lei indagare anche la dimensione individuale? H - Guardi, non sono uno psicologo e non sono intenzionato a diventarlo. Rispetto questo ambito scientifico, ma ciò che realmente mi interessa è vedere come la cultura si fa e si rifà tramite la vita quotidiana e non penso che un antropologo sia in grado di entrare nel pensiero individuale. Ovviamente, il comportamento degli individui non è assolutamente coerente ed è interessante vedere in che misura una persona può porsi in certe condizioni della sua cultura. Per questo motivo, mentre respingo i modelli deterministici - non sono interessato per esempio a dimostrare che una certa società segue rigorosamente un sistema di parentela nella quale non ci sono mai eccezioni, perché non penso che oggi ci siano molte società di questo genere (non sono nemmeno convinto che ce ne fossero nel passato, ma questa è ovviamente una questione empirica alla quale ogni risposta dovrebbe essere sempre provvisoria, visto che le testimonianze storiche non sono sempre molto ampie) - penso che comunque, entrare nel pensiero di una persona è forse un'ambizione troppo grande per noi. Io, per esempio, ho scritto su soggetti individuali, penso sopratutto alla biografia etnografica che ho scritto sullo scrittore cretese già menzionato. In quel lavoro però non parlo della sua "mentalità", infatti, come tanti altri antropologi, io respingo l'uso di questa parola: "mentalità". Perché penso che non serva. E invece penso che quello che l'antropologo può e deve fare sia di indagare sul modo in cui i modelli individuali vengono descritti nella società. Non cerco di entrare nella mente di una persona, che inoltre potrebbe anche essere una persona non troppo rappresentativa della sua società, ma sono interessato a vedere la reazione degli altri al suo comportamento, che mi consente di comprendere anche il livello di tolleranza nei confronti delle eccezioni. In questo senso, ad esempio, le risposte critiche al lavoro di uno scrittore ci danno la possibilità di parlare non solo di rappresentazioni collettive nel senso durkheimiano ma anche delle variazioni tramite le quali si svolgono le trasformazioni I - Secondo lei il lavoro dell'etnografo può contribuire alla costruzione di una storia comune? H - Penso di si. Perché secondo me, l'etnografia è sempre il frutto di un negoziato tra l'etnografo e il popolo che studia e quindi fa parte di una conversazione continua. Devo dire che non sosterrei mai che un mio libro etnografico possa essere la "parola finale" su una società. È in qualche maniera una fotografia di quella società che deve rendere molto chiari i presupposti che mi hanno portato a concepirla in una certa maniera, per esempio i miei interessi precedenti, le circostanze del mio arrivo nel paese o nella zona, i miei atteggiamenti politici, ecc. Un antropologo non è mai neutro e secondo me pretendere una neutralità inesistente sarebbe tutt'altro che scientifico. E qui il problema è che molti osservatori di altre scienze sociali ci rimproverano per il fatto che, in generale, non facciamo ricerche statisticamente molto raffinate. Ci sono ovviamente eccezioni. Quello che comunque noi tentiamo di contrapporre al peso delle prove statistiche è questa intimità realizzata tramite un lunghissimo soggiorno e tramite contatti molto intimi con la gente che studiamo. Secondo me, è possibile fare etnografia in un periodo breve. Non sono assolutamente convinto che un antropologo abbia bisogno sempre di fare quell'anno rituale che in qualche maniera è diventato tradizionale. Però oggi è un po' di moda, anche in altre scienze, dichiarare che uno studioso sta facendo etnografia, ma quando vediamo il loro lavoro scopriamo che molto spesso è svolto in maniera molto superficiale. Per me il criterio più importante della qualità di uno studio etnografico o del tempo percorso per completare l'indagine è proprio questa capacità di testimoniare un intimità che porta il lettore oltre il ritratto convenzionale di quella 5 culturali e per reazione alle quali si può individuare ugualmente le tendenze conservatrici. Ma questo non è diverso, sostanzialmente, dal metodo per cui osserviamo, in un piccolo paese rurale, il comportamento individuale e le reazioni che provoca per poi arrivare allo stesso senso flessibile della cultura locale. L'importante, secondo me, non è di mantenere l'enfasi tradizionale dell'antropologia sui posti isolati ed esotici. Al contrario, per certi versi, quell'approccio non serve più, perché staccato da gran parte della realtà del mondo in cui viviamo. Dobbiamo piuttosto provare a trasferire tutto quello che consente metodologicamente all'antropologo di entrare nella vita intima dei nuovi contesti di vita sociale, perché, altrimenti, finiamo per lasciare tutto il campo ad un livello di generalizzazione che non svela nulla dell'esperienza vissuta. E loro secondo me erano molto felici di questa risposta perché avevo dimostrato di non essere un ipocrita, uno che prometteva senza poter capire ciò che diceva. E, in breve tempo, sono arrivato al punto di volerli aiutare. Oggi, ad esempio, ho spedito una lettera alle autorità di Bangkok perché c'è una nuova minaccia da parte delle autorità e mi sento obbligato a dare una risposta, una risposta che vuole aiutare tutte e due le parti a risolvere il problema3. Penso che sia anche nell'interesse delle autorità lasciare questa comunità sul posto. Io, per carità, non voglio prendere una posizione ostile nei confronti delle autorità, al contrario. Penso, comunque, che un osservatore straniero possa offrire una prospettiva che, magari, aiuta a capire meglio qual è il problema. Secondo me è nell'interesse dello Stato e del Comune lasciare la gente sul posto, perché questa comunità, che si è molto compattata durante gli ultimi anni in cui ha lottato per il diritto a rimanere, ha anche un senso molto forte di obbligo civile, per esempio, nei confronti del problema della droga che, come lei sa, in Thailandia è molto serio. Infatti, all'interno della comunità il problema è stato più o meno risolto. Nel caso che vengano allontanati, il Comune dovrà affrontare un problema molto serio, visto che il posto si trova tra le vecchie mura della città e un canale, un luogo ideale per gli spacciatori. Secondo me, dovrebbero invece sfruttare la volontà degli abitanti di proteggere la loro comunità per proteggere anche gli interessi del Comune. Queste cose, per varie ragioni, sono molto complesse. Io vorrei sentire anche le ragioni delle autorità. Ovviamente, da cittadino straniero, non ho il diritto di prendere alcuna iniziativa personale oltre un certo livello. Penso comunque di poter offrire una prospettiva aperta e costruttiva per quanto riguarda il rapporto tra questa comunità e le istituzioni. Secondo certi burocrati, il cui atteggiamento risale a considerazioni sia ideologiche che personali, non si tratta di una vera comunità nel senso tradizionale del termine, sia perché non è nata intorno ad una sola professione, come accade in certi luoghi in Thailandia, sia perché la gente, negli ultimi quarant'anni, per lo più, è venuta da varie parti del paese. Quindi, per certi elementi all'interno del comune, questa gente non costituisce una comunità vera. Io, invece, provo a far capire che è una comunità nel senso antropologico e, cioè, che c'è la volontà di un'esistenza comune; c'è l'esperienza di una lotta condivisa per il diritto per la casa; c'è anche un desiderio di rappresentare, nel loro essere uniti, tutta la loro diversità diversità che, infatti, è molto caratteristica della Thailandia come paese. Ci sono per esempio due case di musulmani in questa comunità, ci sono persone di origine cinese, ci sono persone le cui origini risalgono al Nord-Est del paese. Questo lo dico non per contrastare l'idea che sia una vera comunità, ma al contrario, per dire che loro hanno costruito un senso comune e un luogo comune dove abitano, che amano e che vogliono proteggere. Questo potrebbe essere veramente un punto forte anche nell'interesse della città. Per cui spero che ci ascolteranno. Non so, non so dire in questo momento4. Ecco un esempio del tipo di impegno di cui mi stava chiedendo, delle ragioni e del perché uno fa delle scelte. Per me la scelta non era la violenza, non era un modo di manifestare contrario a tutto quello che è legale. Io rispetto le I - L'antropologo si trova spesso a dover prendere posizioni che lo costringono ad uscire dalla torre d'avorio nella quale, secondo alcuni, ha la tentazione di rifugiarsi. Quale è secondo lei il confine tra ricerca e impegno politico? In che misura l'advocacy è compatibile con l'antropologia? H - La ringrazio per la domanda perché mi offre l'occasione di dichiarare quanto più chiaramente possibile che, per me, l'antropologia è sempre un impegno politico. Politico non nel senso di "partitico" ma nel senso di un impegno ad analizzare in modo critico quello che chiamiamo il "potere". E, visto che l'antropologo, così come le persone che studia, ha una propria storia, un proprio percorso che, nel tempo, lo ha portato, in un certo momento storico, ad incontrare uno specifico problema, sarebbe secondo me un'ipocrisia non riconoscere il desiderio di prendere una posizione chiara. Ora, ci saranno anche delle situazioni in cui non sappiamo come reagire o in cui abbiamo dei dubbi. Ci sono anche situazioni, però, in cui sentiamo il bisogno di riconoscere l'importanza della reciprocità. Noi dobbiamo tutto ai nostri informatori, i quali, se vuole, sono più amici che informatori. Io ho tanti amici nei posti in cui ho fatto ricerca. Per cui, quando uno di loro si trova nei guai ritengo che il mio compito sia anche di aiutarlo quanto più possibile. Secondo me ognuno deve fare le proprie scelte. Le posso fare un esempio. Quando ho cominciato a lavorare a Bangkok sulla comunità di cui ho parlato all'Università di Milano-Bicocca2 , onestamente, non ero intenzionato a farmi coinvolgere concretamente nei loro problemi. Ad un certo punto, però, durante un primo incontro, una signora mi chiese se potevo aiutare la sua comunità. E io ho risposto quanto più onestamente possibile: "Non voglio darvi una risposta adesso perché è la prima giornata. In generale, sono convinto che la gente abbia il diritto di rimanere nelle proprie case. Sono contrario agli sfratti se non esistono motivi assolutamente convincenti che li impongono. Pur non essendo un politico non voglio promettervi un impegno che in questo momento non so se sarò in grado di mantenere. Però se voi mi aiutate a raccogliere i dati di cui ho bisogno, per capire meglio il caso, e se trovo che sono d'accordo con voi, poi vi aiuto molto volentieri. Tenuto conto delle mie possibilità limitate, in relazione anche al fatto che sono un cittadino straniero". 6 leggi di un paese, però, allo stesso tempo, il rispetto non vuol dire accettare tutto quello che ti dicono persone il cui impegno è, precisamente, quello di proteggere tutto ciò che si trova all'interno dello stato nazionale e che deve essere sempre nascosto agli occhi degli stranieri, tutto ciò che costituisce l'intimità culturale nel senso che ho già accennato. Anzi, quando mi trovo nelle comunità o nei diversi paesi dove ho fatto delle ricerche, se non sono d'accordo, il rispetto reciproco implica che io lo dica. E questo si trasferisce anche nel livello dell'azione politica. Se non sono d'accordo con la politica del Comune, sapendo pure che l'attuale governatore di Bangkok è una persona molto in gamba e molto simpatica, preferisco esprimere il mio parere nella speranza che, magari, possa essere utile anche per lui. impegnato non dovrebbe fare l'antropologo. Perché è un'ingerenza nella vita della gente che studiamo. Per lo più ci tollerano e alle volte si divertono anche con noi, però se non prendiamo sul serio l'aspetto politico, l'aspetto dell'impegno, l'obbligo morale di una reciprocità il più completa possibile, penso che il lavoro dell'antropologo sia solo tempo perso. E forse anche una pratica invadente. Invece, uno che è impegnato, uno che rispetta la gente che studia e usa le sue conoscenze per riflettere sui problemi del mondo attuale, per tante cose va a contribuire alla loro soluzione, senza che ciò ci inganni sul fatto che una soluzione definitiva sia veramente attingibile. L'antropologia è sempre stata in prima linea contro il razzismo, contro l'intolleranza culturale e secondo me questo impegno rimane centrale. Penso che il fatto di aver lavorato, in passato, per lo più in Occidente, e di lavorare adesso in un paese orientale che ha subito una grande influenza da quei paesi, mi da una prospettiva dalla quale posso anche criticare quello che si chiama "Occidente". E per me, anche questo è importante. Sono molto grato ai colleghi italiani, agli studenti a cui ho insegnato in Italia, perché c'è sempre stato uno scambio di idee per me ricchissimo che mi ha consentito di ripensare anche tutto quello che davo per epistemologicamente scontato. Quindi, in fin dei conti, l'antropologo può riflettere antropologicamente anche sull'antropologia stessa. Questi incontri non sono importanti nel definire delle prospettive puramente didattiche, ma per riflettere sulle motivazioni soggiacenti al nostro impegno. Se siamo seri nel dire che l'antropologia è un impegno politico e morale dobbiamo sempre cercare di sapere quali sono i motivi per cui siamo impegnati, provare anche a convincere i nostri interlocutori, in qualsiasi paese lavoriamo, ad entrare con noi in uno scambio del genere. Io non vedo una differenza tra intellettuale e gente comune in questo senso. E posso dire anche che ho imparato forse più teoria dai pastori poco istruiti che ho studiato a Creta che da certi professori famosi di antropologia. E non dico questo per esprimere un qualche disprezzo verso i miei colleghi, al contrario, penso che forse il compito più importante dell'antropologo sia di riconoscere tutto quello che abbiamo in comune con gli altri esseri umani. La capacità di analizzare, di ragionare e di riflettere: queste capacità sono cose che condividiamo con i nostri interlocutori. Per cui dobbiamo provare ad aiutarli quando ce lo chiedono, solo quando ce lo chiedono, senza interferire ad ogni costo con i loro progetti. Questo è importante. I - L'antropologo non può essere quella figura di intellettuale che scardina la rigida separazione tra "persone comuni" e mondo accademico? H - Penso di si. Noi siamo coinvolti nella vita delle società che studiamo. Non le studiamo ad una grande distanza, però, dobbiamo mantenere una distanza intellettuale. Certo non abitiamo sempre in una "torre di avorio". Siamo lì, siamo coinvolti. Poi, in antropologia, nel mondo anglosassone almeno, c'è la tradizione di scrivere sempre in prima persona - cosa che agli storici, per esempio, appare ancora oggi abbastanza strano. Ma è un fatto che rivela chiaramente l'impegno personale di ogni antropologo. D'altro canto, devo dire, c'è molta teoria anche in antropologia, gran parte della quale si esprime in una terminologia piuttosto difficile da capire. Il nostro compito è di spiegare perché dovrebbero interessarsi all'antropologia. E questo non è sempre facile. Il fatto che noi studiamo il senso comune di ogni società vuol dire che noi studiamo le cose che loro danno per scontate e la cui importanza non sembra quindi sempre ovvia. E per questo motivo spesso è difficile spiegare ad un non antropologo perché la nostra ricerca potrebbe avere un interesse al di là della descrizione di tutto quello che è ovvio. Infatti, quello che analizziamo è ciò che l'antropologa italiana Silvana Miceli chiama "l'ovvietà". In un mio libro ho scritto che l'antropologia, in qualche maniera, può definirsi come lo studio comparativo del senso comune. Quindi il nostro vantaggio intellettuale è anche il nostro svantaggio nel senso pratico della politica del significato. I - In conclusione, vuole aggiungere qualcosa? H - Senta, sono molto contento di avere avuto questa occasione, di parlare su cose che per me sono assolutamente centrali. Per me la cosa più importante è che l'antropologia è una passione, è un impegno. Secondo me uno che non si sente appassionato e I - Grazie professor Herzfeld. H - Grazie a voi e buon lavoro... 7 Principali pubblicazioni di Michael Herzfeld: Ours Once More: Folklore, Ideology, and the Making of Modern Greece, Austin: University of Texas Press, 1982. The Poetics of Manhood: Contest and Identity in a Cretan Mountain Village, Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1985. Anthropology Through the Looking-Glass: Critical Ethnography in the Margins of Europe, Cambridge: Cambridge University Press, 1987. A Place in History: Monumental and Social Time in a Cretan Town, Princeton: Princeton University Press, 1991. The Social Production of Indifference: Exploring the Symbolic Roots of Western Bureaucracy, Oxford: Berg,.1992. (Paperback reprint, The University of Chicago Press, 1993). Cultural Intimacy: Social Poetics in the Nation-State, New York: Routledge,.1997. (trad it. Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, L'ancora del mediterraneo, Napoli, 2002. Portrait of a Greek Imagination: An Ethnographic Biography of Andreas Nenedakis, Chicago: The University of Chicago Press, 1997. Anthropology: Theoretical Practice in Culture and Society, Oxford: Blackwell; Paris: UNESCO, 2001. The Body Impolitic: Artisans and Artifice in the Global Hierarchy of Value, Chicago: University of Chicago Press, 2004. Pagina web http://www.fas.harvard.edu/~anthro/social_pages_herzfeld.html 8 Transazioni della politica e declinazioni di "nazione" Mafia siciliana e yakusa giapponese tra società tradizionale e stato moderno di Rossana Di Silvio "…Perché è necessario dire che non esiste né può esistere una mafia individuale; la mafia traduce un istinto sociale, è essa stessa organismo sociale. E la sua forza risiede tutta qua: che non c'è il mafioso come individuo, ma il mafioso, come dice il gergo, amico degli amici." Pietro Mignosi (1895 - 1937), 1925 Di mafia si è scritto molto e detto ancor di più e questo fiume di parole sembra, in alcune circostanze, aver oscurato l'oggettivazione del fenomeno stesso. L'immagine comune, sapientemente costruita nel tempo dal discorso mediatico - ma non solo - di un organismo tentacolare, una "Piovra", che avviluppa nelle sue spire malefiche il corpo "sano" della comunità civile e dello Stato, ha spesso ottenuto, per contro, l'effetto di confondere la visuale dell'oggetto, rendendolo sempre più un'"entità" dai contorni imprecisi. Tra i tanti aspetti trattati nella letteratura di settore, il binomio mafia-politica è certamente quello che ricorre più di frequente, ma anche qui i punti di vista sono talmente abbondanti e variegati da rendere estremamente difficoltoso individuare una specificità. Infatti l'intreccio tra mafia e politica si sovrappone e confonde con l'analisi sociologica dell'ambiente di vita, con l'economia, lo sviluppo e l'alta finanza, l'amministrazione giuridica e il governo istituzionale delle aree e dei paesi interessati, e per ognuno di questi settori è stato analizzato un presunto o documentato "inquinamento mafioso", riproponendo nel complesso, forse con un linguaggio più adatto ai tempi, la medesima immagine pervasiva di una mafia onnipresente ma, proprio per questo, sfuggente ed imprecisa. Non è stato facile, dunque, all'interno di una vasta mole di documentazioni e testi, identificare un "filo del discorso" che permettesse una riflessione più marcatamente antropologica sulla natura e sul significato della relazione tra mafia e politica. In questa ricerca del "bandolo", e dovendo per necessità di spazio e di finalità tralasciare moltissime argomentazioni sul tema, mi sono concentrata, come punto di partenza della riflessione, sul contenuto del testo di Jeremy Boissevan "Friends of friends" (1973). Il testo, seguendo l'inclinazione etnografica degli anni '70, maggiormente orientata verso contesti socio-politici complessi quale quello delle società mediterranee, approfondisce la logica del rapporto clientelare: una forma di relazione sociale e politica che, in molti contesti, si presenta come alternativa alla logica dello Stato razionale di Weber, una logica parallela e spesso in competizione con lo stesso Stato. In modo particolare ho trovato interessante, per la riflessione che intendevo avviare, l'accento posto sulle transazioni tra coalizioni che l'autore interpreta come risposta di base degli attori sociali alle spinte dialettiche e processuali che iscrivono la società in un continuo divenire. Seguendo l'idea di cercare un riscontro alle sue riflessioni, che potesse peraltro fornire un qualche abbozzo di risposta al quesito sulla relazione tra mafia e politica, mi sono trovata a dover quantomeno delimitare un preciso segmento storico, ma ho anche ritenuto interessante tentare una sorta di valutazione comparativa tra due realtà molto distanti geograficamente, storicamente e culturalmente, come l'Italia, ed in particolare la Sicilia postrisorgimentale e il Giappone a cavallo tra l'Era Tokugawa e la Restaurazione Meji. La collocazione storica, dunque, è tra la fine dell'800 e il primo '900 quando, in entrambi i Paesi, la prospettiva che si va delineando è il processo di costruzione della nazione. Tanto distanti per moltissimi aspetti, questi due Paesi sembrano condividere, nel periodo preso in esame, molti degli elementi che caratterizzano il percorso di trasformazione dei rispettivi assetti sociali tradizionali, una trasformazione tanto profonda quanto repentina. A partire da un medesimo contesto economico di tipo rurale e da un'organizzazione socio-politica di tipo "feudale", entrambi si troveranno a fronteggiare le pressioni della modernità incarnate dalle spinte egemoniche che provengono dall'esterno, i piemontesi e gli americani. In entrambi i casi queste spinte provocheranno cambiamenti sostanziali nei tradizionali assetti sociali e di potere, ed ogni organizzazione sociale cercherà al suo interno, nelle proprie risorse culturali, rituali e simboliche, il modo per avviarsi a questa trasformazione senza essere del tutto stravolta. Una di queste strategie è rappresentata da quel particolare "organismo sociale" chiamato mafia. Nel suo libro "Friends of friends", Jeremy Boissevan sottolinea 9 come il comportamento sociale quotidiano non possa essere spiegato esclusivamente in termini di rigido meccanismo dello scambio reciproco di diritti e obbligazioni moralmente sanzionati, come vorrebbe la teoria struttural-funzionalista ma che, viceversa, gran parte delle interazioni sociali vanno viste come transazioni dinamiche tra coalizioni temporanee. A tal proposito Boissevan afferma: "Molte interazioni sono transazioni, che non sono la stessa cosa degli scambi reciproci di diritti e doveri moralmente sanzionati di cui scrive lo struttural-funzionalismo. Le relazioni di ruolo appaiono in un continuo fluire, le aspettative di ogni attore variano a seconda della situazione e delle altre relazioni che ha in essere. (…) Gli individui in conflitto con altri non vincono tanto perché sono nel "giusto", (…) ma perché hanno accesso ad alleanze influenti che possono fare pressione sui rivali e sui loro alleati. (…) certe persone sembrano ricavare un enorme potere non dai loro ruoli formali ma grazie a una serie di contatti accuratamente coltivati e costantemente modificati. (…) le alleanze sono temporanee, non sono i gruppi "corporativi" duraturi la chiave della struttura sociale (…). Piuttosto, queste coalizioni temporanee sembrano giocare una parte straordinariamente importante non solo nelle attività politiche ed economiche, ma anche nel quadro delle relazioni sociali quotidiane." Possiamo riconoscere nelle azioni interattive degli attori sociali di cui parla Boissevan un sistema di azione politica. Secondo Smith (cit. da Balandier, 2000), che ha approfondito il concetto del politico nelle società segmentarie, la vita politica è un aspetto della vita sociale, non un semplice prodotto di strutture specifiche, e l'azione sociale diventa azione politica quando cerca di controllare o influenzare le decisioni collettive concernenti gli affari pubblici. I contenuti di queste decisioni variano a seconda dei contesti culturali e delle unità sociali di riferimento, ma i processi di cui sono il risultato si situano comunque nel quadro della competizione tra individui e tra gruppi, e dunque, tutte le unità sociali coinvolte nella competizione hanno carattere politico. In tutte le società, sostiene Boissevan, vi è una competizione per le risorse, le quali sono spesso sotto il controllo di poche persone influenti e di potere che formano l'establishment locale. Gli altri gruppi sociali, che non hanno accesso diretto alle risorse, sono costretti ad assoggettarsi al/ai gruppi dominanti per ricavarne benefici ed acquisire maggior potere sulla scena della competizione, che si presenta comunque asimmetrica e non paritaria. Infine, la maggioranza delle persone - i poveri, i malati, spesso i giovani - è esclusa dalla transazione competitiva ma rappresenta il bacino di reclutamento delle coalizioni tra loro in conflitto. In questo quadro, la diversità degli interessi perseguiti e di utilizzo delle risorse rende l'insieme delle interazioni estremamente fluido sia nel tempo che nello spazio. Ciò che emerge in modo chiaro dalla ricerca etnografica di Boissevan è come gli individui siano imprenditori sociali di sé stessi attraverso un determinato modo di strutturare ed influenzare le relazioni interpersonali, come le persone ovunque competano l'uno con l'altro e cerchino alleanze che li possano aiutare a raggiungere i propri obiettivi, come le persone siano ovunque coinvolte in senso politico, attraverso un sistema di amici-degliamici che fa di ognuno il membro di una rete di relazioni dinamiche che li collega - in modi diversi ma entro i significati sociali, culturali ed ecologici di appartenenza - a gruppi, coalizioni, classi ed istituzioni. All'interno di questo discorso il potere appare come una particolare categoria dei rapporti sociali. Per Weber il potere è la possibilità data ad un attore, all'interno di un certo rapporto sociale, di dirigerla secondo le proprie esigenze; allo stesso modo, per Beattie (1985) rappresenta la possibilità di costringere gli altri all'interno di un certo sistema di rapporti tra individui e tra gruppi, mentre per Smith (cit. in Balandier, 2000) il potere è la capacità di agire con efficacia sulle persone e sulle cose, che si ottiene ricorrendo ad una gamma di mezzi, dalla persuasione alla coercizione. In ogni caso l'esercizio del potere implica necessariamente una legittimazione pubblica che si fonderà su un sistema di valori condivisi. Il potere, ci dice Balandier (2000), è riconosciuto in tutte le società umane, anche le più semplici e tra i suoi attributi fondamentali vi è quello di essere sempre al servizio di una struttura sociale che non potrebbe mantenersi con il solo intervento della "consuetudine" o della legge. Il potere va dunque visto come un "meccanismo di difesa" della struttura sociale dalle sue stesse debolezze, dal momento che esso promuove la conservazione dello status quo e, se necessario, gestisce quegli adattamenti che non sono in aperta contraddizione con i principi fondamentali della struttura stessa. In particolare il potere politico appare come un prodotto della competizione, più o meno evidente, tra gruppi, in cui ciascuno mira ad orientare le decisioni collettive in ragione dei propri interessi personali, tuttavia è anche un mezzo per contenere la competizione in modo tale che non assuma proporzioni distruttive per la struttura sociale. Dunque, secondo Balandier (2000), il potere politico è "inerente" ad ogni società, ed "(…) è il risultato della necessità, per ogni società, di lottare contro l'entropia che la minaccia di disordine". Per assolvere a questa necessità, ovvero la stabilità sociale, il potere non sempre ricorre alla coercizione, anzi più di frequente sono i rituali, le cerimonie, le procedure, ovvero un adeguato sistema simbolico, a diventare strumento di un'azione politica e che assicura un periodico od occasionale rinnovamento della società. Oltre alle necessità interne, continua Balandier, il potere appare anche la risultante di una necessità esterna dovuta, in particolare, al senso di minaccia proveniente dai rapporti con altre società considerate estranee e ostili. Per fronteggiare questa minaccia, non solo si tessono alleanze, ma si deve anche esaltare l'unità, la coesione e i tratti distintivi della società stessa. Sotto questa minaccia, che può essere reale o presunta, il potere si rafforza ancor di più: per suo tramite e per tramite dei simboli ad esso collegati, la società dispone di un mezzo per affermare la sua coesione interna ed esprimere la sua "personalità". 10 Il potere si presenta dunque con un doppio sistema di relazioni, l'uno orientato verso l'interno, l'altro verso l'esterno. Infine, conclude Balandier, una condizione essenziale del suo manifestarsi è che comunque il potere implica sempre e comunque una dissimmetria nei rapporti sociali: esso si rafforza con l'accentuarsi delle disuguaglianze, la cui presenza è condizione del suo manifestarsi e del loro mantenimento. seconda metà dell'800, in una Sicilia post-risorgimentale. E' un termine, oggi come ieri, polisemico, di cui - come dice Giovanni Falcone (1990) - si è persino abusato in termini descrittivi nell'indicare contesti, fenomeni, intenzioni del tutto disomogenei per latitudine e campi d'azione. In Sicilia, soprattutto negli anni '50-'60 del novecento, il termine è stato abbondantemente utilizzato, spesso in riferimento a personaggi particolari, concorrenti o avversari politici, oppure riferito ad esponenti diversi dell'autorità pubblica. Ma già a partire da fine '800, ogni operazione di rinnovamento o di semplice opposizione condotta nell'isola fu veicolata dallo slogan della lotta alla mafia, il quale divenne presto una resistente metafora delle competizioni politiche nella regione, sia da parte del sistema di governo che dell'opposizione, sino ad indicare l'immagine di un mezzogiorno parassitario e corrotto. In definitiva "la lotta politica ha piegato ai propri fini uno strumento concettuale già di per sé molto impreciso" (Lupo, 1996) e l'abuso della parola ha in un certo qual modo ucciso i fatti: se tutto è mafia, niente è mafia (Falcone, 1990). Quando in Sicilia si comincia a parlare di mafiosi il termine è, se possibile, ancora più impreciso, e nei documenti dell'epoca viene solitamente attribuito sia all'area rurale che a quella urbana. La mafia appare di fatto una realtà composita in cui s'incontrano soggetti provenienti da varie classi sociali, dalle più infime alle più alte, che opera in base a scelte razionali la cui direzione strategica è nelle mani dei soggetti della classe dominante. La mafia siciliana Allievo di Boissevan, che ne curò il dottorato, Anton Block presenta una ricerca etnografica (1986) in un piccolo villaggio della Sicilia degli anni '60, i cui risultati sono raggiunti attraverso l'osservazione partecipante e l'analisi qualitativa delle interazioni e delle interpretazioni degli attori sociali, nonché da diverse fonti documentarie. L'autore prende le mosse dagli importanti cambiamenti nei rapporti di potere tra i diversi gruppi sociali, osservati nel corso del processo che ha condotto alla formazione dello Stato nazionale ed analizza il modello dinamico processuale, ovvero i modelli di trasformazione e di sviluppo nel tempo della struttura sociale del villaggio e della mafia nel periodo compreso tra il 1860 e il 1960, a partire cioè dal momento in cui la Sicilia venne ricompresa entro i confini nazionali del neo Stato italiano. Block si concentra in modo particolare sulle condizioni che permisero ad alcuni individui collocati in specifiche posizioni dell'organizzazione sociale, successivamente denominati mafiosi, di inserirsi nei vuoti politici lasciati dallo Stato e dalle istituzioni e nei vuoti economici createsi tra proprietari del latifondo e contadini. L'impostazione e i risultati della ricerca mettono in evidenza come questa operazione di "imprenditoria sociale" avessero consentito ai mafiosi di proporsi e comportarsi come una sorta di mediatori del potere, come intermediari politici, sotto il cui controllo erano posti tutti i canali di comunicazione del villaggio, interni ma soprattutto con l'esterno, e come, attestandosi su questa posizione, essi incrementassero il prestigio e il potere personali. "Essi si trovano nei punti chiave o di giuntura delle relazioni che collegano il sistema sociale con l'insieme più vasto. La loro funzione essenziale è quella di (mettere in contatto) gli individui che nell'ambito comunitario vogliono consolidare e migliorare le loro opportunità (…)" (E. Wolf, 1956 cit. in Block, 1986). "…Essi acquistano potere grazie alla straordinaria facilità con cui accedono alle informazioni e a potenti personalità che stanno all'esterno (…)" (C. Tilly, 1967). Una questione di costume. Leopoldo Franchetti (1993) nella sua notissima indagine datata 1876, evidenziava come nella percezione del siciliano medio l'autorità pubblica fosse inesistente, tanto da ritenere che bisognasse cercare al di fuori i mezzi per difendere i propri diritti: "(…) poichè l'opinion pubblica è informata a questo sistema sociale extra-legale, la massa delle popolazioni ammette, riconosce e giustifica l'esistenza di quelle forze che altrove sarebbero giudicate illegittime (…)". Non solo, "(…) questi malfattori, pur sempre pronti a servire altrui, lavorano per conto proprio (…)" e "(…) l'organizzazione della violenza, diventata per tal modo più democratica, è adesso accessibile a molti piccoli interessi (…) quasi ad ogni ceto e ad ogni classe (…) e si può quasi dire di essa che è addirittura un'istituzione sociale che, oltre ad essere istrumento al servizio di forze esistenti ab antiquo, essa è diventata, per le condizioni speciali portate dal nuovo ordine di cose, una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale a sé stante (…)". Franchetti parla esplicitamente di "facinorosi della classe media", da considerarsi una "classe Una questione di termini. La parola "mafia" compare nella 11 indipendente" che, a seguito dell'abolizione del sistema feudale e della democratizzazione dell'uso della violenza si era venuta a trovare nella nuova condizione di assurgere addirittura ad "istituzione sociale". fanno riferimento ad una società meridionale semi-feudale, tutta agraria e latifondista, economicamente e socialmente immobile, percorsa dal solo fremito di rinnovamento dato dal movimento dei contadini, dove sembra logico pensare che la mafia valga ad assicurare la subordinazione dei contadini alla classe dirigente. Una questione socio-economica. Lo scenario che Block ci In realtà, a cavallo tra l'800 e il '900, i mafiosi più rappresentativi prospetta nella sua ricerca è proprio quello di una evoluzione, una del modello tradizionale non sono solo ciechi strumenti del potere transizione storica, sociale e di poteri, a partire dalla realtà del agrario, ma sono già organizzatori di cooperative, mediano i latifondo feudale siciliano. trasferimenti di terre dai grandi proprietari ai contadini: non La terra, nell'economia agricola della Sicilia dell'epoca, era intesa appaiono guardiani, ma "becchini" del feudo. Allora, si domanda come bene fondamentale, mezzo di produzione e di conseguenza Lupo come mai il contesto universalmente richiamato è quello del principale risorsa politica e fonte di potere. Il prevalere del latifondo quando si può facilmente osservare, all'origine, la capitalismo della rendita, ovvero la trasformazione in senso compatibilità tra mafia e frantumazione del possesso fondiario, tra commerciale e di profitto delle originarie pretese feudali sul mafia e grado elevato di integrazione con i ricchi mercanti reddito prodotto da contadini ed artigiani, scoraggiava gli nazionali ed internazionali nella Sicilia mineraria dello zolfo e investimenti a lungo termine, ma le numerose riforme agrarie, nelle aree costiere del palermitano e del trapanese, settori di avviate dai Borboni e proseguite fino agli anni '50 del novecento, grande dinamismo economico? Sembra, afferma Lupo, che gli avevano lasciato il latifondo sostanzialmente inalterato (Santino, studiosi siano affascinati dall'esotismo dei contesti rurali e 2004). I proprietari, spesso residenti in città anche molto lontane, primitivi, dimenticando la capitale dell'isola e la sua campagna reclutavano tra i contadini figure "che sapevano farsi rispettare", urbanizzata: la Conca d'Oro palermitana, vero centro di residenza per amministrare le terre, della mafia, quella leggendaria proteggerle dai briganti, punire i del primato criminale (Cutrera, ladri e gli sfaccendati e riscuotere 1900). i profitti. Questi arruolati In questa area palermocentrica a divennero così "imprenditori cavallo tra città e campagna, ma contadini": gestivano le tenute anche nelle borgate e nei paesi del padrone ma manipolavano periferici, si riscontrerà infatti anche persone, nella fattispecie i una sconcertante continuità dei contadini, e risorse alla ricerca gruppi, dei luoghi, delle del profitto personale, esperienze e dei settori sottoponendo i riottosi con l'uso d'intervento mafiosi (Lupo, della violenza. 1996). Qui i gruppi mafiosi Ancora Franchetti sottolineava la daranno luogo ad un sistema di sostanziale differenza tra mafia e controllo del territorio che, a L’entroterra palermitano brigantaggio o delinquenza partire dalla fitta rete delle comune che, date le condizioni economiche e la confusione socio- guardanìe, arriveranno a filtrare i traffici leciti ed illeciti politica dell'epoca, erano molto diffuse. La mafia, sosteneva, non dell'intera zona. può che essere nelle mani di persone della classe media e La spiegazione del fenomeno fondata sull'arcaismo sociocomunque dotate di capacità non comuni, "(...) a quelle deve la economico, ovvero l'equazione mafia = latifondo, come peraltro sua organizzazione superiore, l'unità dei suoi concetti, la sul suo corrispettivo socio-culturale, ovvero comportamento costanza dei suoi modi d'agire, la profonda abilità colla quale sa mafioso = antropologia dei siciliani/meridionali (secondo i voltare a suo profitto perfino le leggi e l'organizzazione classici e diffusi stereotipi), non informa né sulla diffusione del governativa dirette contro il delitto, (…) la costanza con la quale fenomeno mafioso nel passato, né sulla sua pervasività in tempi osserva quelle regole di condotta che sono necessarie alla sua più recenti, peraltro proprio in coincidenza con la esistenza. (…) è il capo-mafia che dà alla mafia la sua apparenza modernizzazione del Paese. di forza ineluttabile e implacabile, regola la divisione del lavoro e delle funzioni, la disciplina tra gli operai di questa industria, Una questione politica. Forse, suggerisce ancora Lupo, disciplina indispensabile in questa come in ogni altra per ottenere bisognerebbe provare a distinguere il fenomeno dal suo contesto, abbondanza e costanza di guadagno." (Franchetti, 1993). Così, indagando il modo con cui l'organizzazione mafiosa si appropria rispetto ai "facinorosi di classe infima", il capo mafia svolge, dei codici culturali, li strumentalizza, li modifica, ne fa un nell'industria della violenza, la parte del capitalista, collante per la propria tenuta. Si pensi ad esempio al rifiuto del dell'impresario e del direttore (Santino, 2004). concetto dell'impersonalità della legge, al disprezzo per gli Tuttavia, Salvatore Lupo (1996) critica l'intera prospettiva di "sbirri" e per chi con essi collabora, tratti certamente molto diffusi contributi, compresi quelli di scuola socio-antropologica, che tra gli appartenenti ad ogni ceto nella Sicilia otto-novecentesca, 12 ma che dalla mafia vengono riutilizzati secondo proprie finalità. L'utilizzo di relazioni personali a fini particolaristici è tipico della Anche in tempi moderni e pur in contesti diversi, la mafia ha relazione tra patrono, che detiene un controllo più o meno lecito sempre fornito di sé una sola immagine: non delinquenza, ma su una determinata risorsa, e uno o più clienti che si rivolgono a rispetto della legge dell'onore, difesa di ogni diritto, protezione lui per ottenerne un utilizzo a proprio vantaggio, obbligandosi dei deboli, grandezza d'animo. Dunque è innanzitutto la mafia a verso il patrono a ricambiare, in vario modo, il favore ricevuto. Il descrivere sé stessa come costume e come comportamento, come rapporto clientelare sarebbe tipico di una situazione pre-moderna, espressione della società tradizionale, fornendo un mito, ed infatti denuncia, di per sé, l'assenza o la debolezza del capitale costruito, in contrapposizione (ma opportunisticamente sociale come bene pubblico. dialogante) ad un ordine statuale invadente ed alieno. Ogni Tuttavia, questa considerazione sembra contraddetta mafioso ci tiene a presentarsi nella veste del mediatore e del dall'esperienza giapponese e dallo sviluppo delle società asiatiche pacificatore di controversie, ostentando una "giustizia" rapida ed in genere, dove elementi anche sostanziali di familismo e esemplare. particolarismo hanno convissuto con una modernizzazione Un gruppo di potere, dunque, che esprime una propria ideologia accelerata. anche attraverso aspetti simbolici e rituali, e con la quale intende creare consenso all'esterno e compattezza all'interno; un gruppo, Tra governo e Stato. Pietro Mignosi (1925), poeta ed illustre seppur non centralizzato, che fa forza sul medesimo capitale letterato della Sicilia del primo '900, nel tratteggiare in modo sociale, quello della reputazione e della rete di acuto e quasi doloroso le condizioni più relazioni (Gambetta, 1992). profonde dell'essere e del sentire politico del Secondo Coleman (1990), "il capitale sociale siciliano di inizio novecento, afferma che è definito dalla sua funzione (…), il capitale l'aver individuato la mafia come organismo sociale è produttivo, e rende quindi possibile il tipicamente sociale, "(…) ha creato l'altro conseguimento di obiettivi che altrimenti non mito, della mafia come associazione a sarebbero raggiungibili (…), il capitale delinquere", un equivoco estremamente sociale non è completamente fungibile, ma lo pericoloso, a parere suo, dal momento che le è rispetto a determinate attività (…), il misure di contrasto e di risoluzione sono state capitale sociale è contenuto nella struttura affidate alla "(…) intelligenza, perizia e delle relazioni tra le persone". solerzia del funzionario (…)" senza che la Il mafioso fin dalle origini vende un "bene" mafia perdesse alcunchè della sua potenza. specifico, la protezione, in un contesto storico, Ma la mafia, sottolinea Mignosi, "(…) non è quello siciliano (o meridionale in genere) in né una forma animi, né un'associazione a cui difetta la fiducia (Gambetta, 1992). delinquere: essa è l'innuclearsi e Ma tanto nella Sicilia post-risorgimentale l'organizzarsi spontaneo di quello stato quanto in situazioni più recenti, la mafia refrattario della popolazione siciliana, Luciano Liggio "d'ordine" presuppone sempre un disordine da refrattario ad intendere le profonde ragioni organizzare e da tenere sotto controllo, anzi è proprio la mafia a dell'unità e della centralità dello Stato". Di questo Stato come creare l'insicurezza di cui usufruisce, sicché si può dire che la sua confluenza dei valori etici e giuridici, continua Mignosi, vi è tra unica funzione sia quella che essa stessa determina (Lupo, 1996). tutti i siciliani una nozione "oscura ed approssimativa", che non In una situazione di legalità debole, ovvero quando norme e riesce ad adeguarsi allo Stato in atto. Il borghese o il contadino politiche pubbliche sono ritenute già in partenza inefficaci, siciliano "(…) non intendono né possono intendere lo Stato se non distorte, eludibili, oppure rivolte a coalizioni ristrette, la creazione nell'appariscente e mutevole prassi di governo", un governo nella o il mantenimento del capitale sociale come bene pubblico non è sua "sovrana ed irrazionale mobilità continua", di cui il siciliano favorito mentre, viceversa, la carenza di bene pubblico favorisce ha un'atavica esperienza, un governo che sente non come il mantenimento di una legalità debole (La Spina, 2005). espressione di una logica razionale ma come volontà di una E' in questi casi che si rafforzano gli investimenti verso persona, che tuttavia non è la legge, in cui comunque non avrebbe l'accumulazione di capitale sociale di tipo particolaristico che dà fede perché non ha fiducia nelle persone. Il siciliano "(…) non luogo ad una struttura sociale dominata da sfiducia orizzontale e intende lo Stato perché sente il governo", sostiene Mignosi, e sfruttamento/dipendenza verticale (Putnam, 1996). "(…) di contro al doloroso scorrere delle dominazioni Lo stesso Block (1986) illustra la formazione e la dissoluzione governative in Sicilia (romani, barbari, greci, arabi, normanni, delle potenti famiglie mafiose come un continuo processo tedeschi, francesi, spagnoli, austriaci, borboni, italiani) si è conflittuale per l'accaparramento delle risorse (gabelle), da cui spontaneamente costituito un nucleo organizzativo di Statoemerge una rete caratteristica con forti accenti sulle relazioni tra morale. Non ha assunto mai forme chiare definitive, ma ha cognati, affini, amici, patroni e clienti, dove una particolare mantenuto sempre una efficienza reale ed un reale dominio. La amicizia, funzionale, strumentale ed asimmetrica, interseca le mafia è l'istinto dello Stato ed è, naturalmente, una oscura pratica divisioni tra classi e sfocia nel clientelismo del patronage. di governo (…)". Il governo esterno, "lu cuvernu", è per il mafioso 13 siciliano il massimo termine di arbitrio; ecco perché l'uomo d'onore, in cui Mignosi sembra ravvisare l'animale politico in senso aristotelico, "(…) così scrupoloso nell'adempimento di quelli che crede i suoi doveri, non piglia mai sul serio le funzioni dell'amministrazione e del controllo statale, ma ama eluderle, neutralizzarle, renderle, per quanto è possibile, inefficaci". E' per questo, continua Mignosi, che il mafioso va alla conquista delle cariche politiche e delle istituzioni, non perché crede nello Stato, che anzi sente pesare sulle spalle, quanto per neutralizzarne la potenza in modo da sentirsi più libero "(…) nell'esplicazione del suo mandato reale". In questo senso il mafioso è apolitico, ed "(...) è nella apoliticità della mafia che va ricercato il significato stesso della mafia". nel tempo, all'incirca nella seconda metà del '600, in piena Era Tokugawa, quando le principali e frequentate vie di comunicazione del Giappone avevano visto nascere numerose stazioni di posta in cui svolgevano la loro attività illegale, seppur incontrastata, i bakudo, giocatori d'azzardo che "ripulivano" i numerosi viaggiatori. Il termine sembra sia da attribuire ad un particolare gioco delle carte, la cui mano perdente era appunto detta ya-ku-sa. Il significato, come spesso accade, travalicò i confini specifici della sua origine fino ad indicare, per estensione, i biscazzieri stessi, o più in generale "cosa di poco valore, indegna, persone inutili alla società" (Flore, 2001). Nel tempo, la parola finì per indicare sia i bakudo che i tekiya, i venditori ambulati, anch'essi personaggi socialmente marginali, tendenzialmente girovaghi di territorio in territorio a seconda del calendario delle fiere, dediti al raggiro commerciale. La yakusa giapponese La yakusa o mafia giapponese entra in scena nel mondo occidentale alla fine degli anni '70 a seguito di un casuale resoconto di polizia al Dipartimento di Giustizia americano alle Hawaii. Prima di allora la situazione e la natura della criminalità organizzata in Giappone era del tutto sconosciuta e di scarso interesse per l'informazione mediatica dell'occidente. Tuttavia, nel corso degli anni '80 le informazioni si fanno più precise e risulta immediatamente evidente che il fenomeno criminale si presenta in termini complessi e del tutto nuovi. Ciò che sorprende gli occidentali sono soprattutto due elementi: la straordinaria politicizzazione della yakusa e la sua istituzionalizzazione nel corpo della società giapponese in generale, e nei suoi apparati politici in particolare. La storia moderna della yakusa è strettamente legata alla storia dell'estrema destra giapponese, un gruppo di attivisti fanatici dell'imperatore che fu la forza motrice dell'ascesa del fascismo nazionale e dell'espansionismo militare pre-bellico. Sebbene oggi questa componente sia meno potente di un tempo, il suo peso è ancora consistente e la coalizione composta da attivisti e yakusa, spesso indistinguibili tra loro, ha operato come forza paramilitare al servizio del partito liberal-democratico giapponese, che ha esercitato un dominio pressoché ininterrotto sulla politica nazionale del dopoguerra. L'attività politica della yakusa ha influenzato nel corso degli anni numerosi eventi critici del Paese, veicolata da un sistema clientelare profondamente radicato nella società giapponese. Da queste sintetiche notizie iniziali sembra che yakusa e mafia siciliana abbiano veramente ben poco in comune riguardo al ruolo sociale e all'azione politica giocati all'interno delle rispettive organizzazioni sociali, tuttavia ad un'analisi processuale, seppure circoscritta entro uno specifico spazio storico, si noterà come molti elementi riconducano alla medesima matrice delle transazioni tra coalizioni temporanee. Una questione di costume. La società giapponese è considerata una società "collettivista" ed al suo interno è di fondamentale importanza che ogni individuo occupi il posto appropriato, sia nel gruppo sociale che nell'istituzione cui è assegnato. Ciò serve ad identificare sé stessi, una frazione individuale, in rapporto all'altro e al gruppo inteso come "un tutto organico" (Lebra, 1976). Questa peculiarità è dovuta principalmente alla diffusione nel Paese dell'etica confuciana che, a partire dal VII sec., andò fondendosi e adattandosi alla cultura autoctona di tradizione scintoista. L'ideologia confuciana assunse un tale peso nella vita e nei rapporti quotidiani da permeare l'intera vita sociale e le istituzioni del Paese. Inoltre, con la sua adozione ufficiale da parte dei Tokugawa, furono fissate le basi di una organizzazione sociale in cui le relazioni personali erano ampliate e rafforzate, consolidando una struttura sociale di tipo familistico e dando luogo ad una rigida stratificazione sociale che perdurò per secoli (Goode, 1982). Di fatto, il significato del termine società, così come noi lo conosciamo, è rimasto oscuro in Giappone fino alla fine dell'800, quando, con la cosiddetta Restaurazione Meiji e la contaminazione occidentale, venne adattato allo scopo il termine "shakai" (Fukutake, 1989). Nella lingua giapponese, la posizione sociale individuale viene indicata dal suffisso "bun", che significa "parte", porzione", "frazione", e potrebbe essere tradotto dal punto di vista antropologico con il termine "status" e dal punto di vista sociologico con il termine "ruolo". Sugiyama Lebra (1976) distingue "status" e "ruolo" rispettivamente in termini di diritti e prerogative da una parte e obbligazioni e responsabilità dall'altra. In tal senso "status" si riferisce ad una posizione entro una struttura gerarchica, mentre "ruolo" implica una funzione ma non necessariamente una gerarchia. "Status" e "ruolo" possono essere interpretati secondo due prospettive: innanzitutto come concetti relazionali, dove uno status o un ruolo esistono solo in relazione ad un altro status o ruolo, oppure possono essere concettualizzati indipendentemente, Una questione di termini. Quando si parla delle organizzazioni criminali giapponesi, accade che il fenomeno venga identificato con l'utilizzo di termini diversi, tra cui il più conosciuto in occidente è "yakusa". La versione maggiormente accreditata circa l'etimologia del termine rimanda ad un periodo piuttosto lontano 14 ad esempio in relazione al sesso, all'età, all'occupazione, ecc. (Lebra, 1976). Nella società giapponese, generalmente identificata come una "società verticale", l'orientamento di status, o meglio la sensibilità all'ordine gerarchico (rango), caratterizza gran parte dei comportamenti degli individui tanto che, utilizzando i concetti delle teorie di Bateson (1971) sulla comunicazione interpersonale, possiamo dire che questa organizzazione sociale ha sviluppato al suo interno un carattere relazionale fortemente complementare piuttosto che un carattere simmetrico, tra pari. Ogni individuo viene educato sin da piccolo ai comportamenti e allo stile di vita appropriati allo "status" di appartenenza. Un comportamento, un atteggiamento o una performance ritenuta incongruente con lo status di appartenenza è fonte di grande vergogna. Ruth Benedict, nel suo famoso libro "La spada e il crisantemo", definì il Giappone la "cultura della vergogna". A questo proposito Lebra (1976) sostiene che la vergogna è strettamente correlata alla condizione di "status": da un lato perché i giapponesi tendono molto ad identificarsi con la propria posizione sociale e ad ostentarla, dall'altro perché i comportamenti incongruenti risultano maggiormente visibili nelle posizioni sociali più elevate. La società giapponese si presenta dunque con una struttura componenti sono vincolati da solidi legami di interdipendenza, secondo il tradizionale concetto feudale di "gruppo allargato". La "feudalizzazione dei rapporti familiari" (Goode, 1982) emerge in modo evidente nel rapporto oyabun/kobun, tradotto come rapporto genitore/figlio, ma che in realtà si riferisce al rapporto protettore/protetto o signore/vassallo: il protetto deve lealtà al suo protettore il quale, a sua volta, deve protezione e sostegno al suo protetto. Parenti e non parenti, ovvero l'intero gruppo di protetti sotto un protettore, costituiva tradizionalmente il dozoku, il gruppo familiare, all'interno del quale ogni membro doveva lealtà al capo della famiglia ceppo, che dispensava loro sostegno e protezione, e il suo potere e prestigio sociale si misurava dal numero di protetti o vassalli su cui poteva contare. Radicato soprattutto tra le casate del latifondo, la IE si configurò come un gruppo nella cui casa erano accolti un numero imprecisato di vassalli che in cambio della benevolenza ricevuta e del conseguente accesso allo "status" del gruppo familiare, assicuravano al capofamiglia una fedeltà incondizionata. La IE era un luogo organizzato secondo una rigida gerarchia, dove la rilevanza dei rapporti personali spesso mettevano in ombra gli stessi legami biologici, dal momento che tutti i membri erano tesi al raggiungimento del bene e dell'interesse del gruppo (dozoku) nel suo insieme. L'ideologia confuciana fu fatta propria già dai primi gruppi di bakudo e tekiya che, seguendo il modello della IE, assicuravano uno status sociale a coloro che ne erano privi, formando corporazioni compatte e gerarchicamente strutturate, governate da severe norme comportamentali e dominate da solidi rapporti e da una forte coscienza di gruppo. Nel tempo il concetto di IE fu tradotto nel modello della ikka. Una questione politica. Scorrendo la letteratura sulla comparsa e il radicamento della yakusa come organismo sociale, non sfugge la concomitanza con i periodi di grande trasformazione della società giapponese. Nel XVII sec. l'ascesa della dinastia Tokugawa diede inizio ad una serie di cambiamenti politico- sociali di cui risentirono soprattutto i samurai (dal verbo samurau: servire) che, fino ad allora, avevano occupato una posizione di prestigio. Infatti, fin dal VII sec. ed in particolare con l'ascesa della classe militare e del successivo periodo Sengoku, il periodo degli stati belligeranti, i samurai venivano reclutati con il compito di difendere e vigilare i possedimenti dei loro signori, dei quali diventavano vassalli in cambio di concessioni di terre. Questo legittimò sempre più il loro potere dando origine a vere e proprie casate di nobili-guerrieri, i bushi, con un preciso codice di condotta, il bushido, retto da principi di coraggio, rettitudine, onore e radicato senso di giustizia e autocontrollo. Quando il samurai era accolto al servizio dello shogun, il riconoscimento dello status di "familio" avveniva attraverso il rito del dono della spada. L'arma, preparata secondo particolari procedure tradizionali, era carica di simbolismi magici, religiosi e sociali: era considerata un potente deterrente contro gli spiriti Rara foto di una cerimonia yakuza verticale molto rigida e performativa, dalle caratteristiche più accentuate negli strati sociali di "rango" elevato, dove i concetti di vergogna, onore e "faccia" sono valori profondamente incorporati. In questa società è la famiglia, o meglio la casa, a fornire ad ogni individuo la posizione sociale appropriata, e colui che, per diversi motivi, ne fosse escluso, verrebbe automaticamente a trovarsi ai margini della società, coperto di vergogna, privato dell'onore e svuotato della sua identità personale. La IE, termine traducibile in "famiglia" ed identificato con una "casa", è il modello sociale tradizionale più diffuso e radicato del Paese, e definisce un gruppo corporativo che risponde ad una struttura gerarchica molto precisa, all'interno della quale i 15 maligni, in essa era contenuta l'anima e l'onore del valoroso dell'ordine, suscitarono l'apprezzamento dei Tokugawa. guerriero, identificava immediatamente lo status di appartenenza Caratterizzati anch'essi da forti valori tradizionali, finirono con e il ruolo sociale ricoperto dal possessore. l'"accogliere gran parte degli emarginati, dei samurai sbandati e La forzata pacificazione del paese condotta dai Tokugawa, se da dei disoccupati che popolavano la città" (Flore, 2001), dei quali una parte aveva parcellizzato gran parte delle terre nobiliari, il capogruppo si prendeva personalmente cura, suscitando la loro dall'altra aveva precipitato molti samurai, soprattutto coloro che incondizionata fedeltà. Il forte legame tra le parti fece sì che il non erano stati in grado di trasformarsi in burocrati di prestigio, gruppo assumesse sempre più le connotazioni di una IE, con il ad una esistenza di precario vassallaggio e di vagabondaggio. tipico rapporto oyabun-kobun tra capo e membri e di fratellanza, Nacquero così gruppi di hatamoto, gli uomini della bandiera, che secondo l'ordine gerarchico della primogenitura, tra i protetti. Va si ponevano al servizio dello shogun, verso il quale stabilivano un ricordato che nella società feudale del Giappone del '700, il legame indissolubile di fedele vassallaggio ricevendone in sistema oyabun-kobun costituiva spesso la base dei rapporti tra cambio un riconoscimento di status, e gruppi di ronin, samurai maestro e apprendista, tra signore e vassallo e lo stesso avvenne, senza padrone, che vagavano per il paese nella nascente malavita organizzata, tra in veste di mercenari o terrorizzando la capo e gregario. gente comune. Grazie all'appoggio governativo, i La successiva confisca delle armi e delle machiyakko estesero la loro influenza su spade, conseguenza della politica di territori sempre più vasti, non solo per la pacificazione dei Tokugawa tesa alla difesa contro i banditi, ma anche per il prevenzione di possibili azioni eversive, reclutamento di manodopera da non ebbe soltanto conseguenze dal punto assegnare temporaneamente allo shogun di vista sociale ma furono soprattutto di e, nell'immaginario collettivo, il tipo psicologico. Inoltre la presenza di machiyakko diventò l'eroe per una stratificazione sociale congelata, per eccellenza, la cui fama persiste ancor cui a nessun individuo era concesso oggi in numerose leggende del teatro cambiare la sua posizione sociale di kabuki che ne esaltano le qualità morali I sette Samurai (A. Kurosawa) appartenenza, privò gli hatamoto sia e le gesta eroiche. delle terre, anch'esse confiscate, che di qualunque possibilità di L'eredità degli hatamotoyakko e dei machiyakko fu raccolta in ricollocazione onorevole. particolare da due nuove coalizioni, dei tekiya e dei bakudo, entrambe strutturate gerarchicamente e regolate da rapporti Una questione socio-economica. Gli hatamoto di basso rango e fondati su lealtà e fedeltà incondizionata al capo "famiglia". i contadini, pressati da imposizioni fiscali sempre più alte, si I tekiya cominciarono ad unirsi in gruppi compatti e ben riversarono nei nuovi agglomerati urbani all'epoca in forte organizzati nel tentativo di aggirare i divieti imposti dai espansione, cui si aggiunsero i ronin ed altri sventurati senza Togukawa sull'esercizio del commercio. Il potere esclusivo era padrone. Tutti questi individui, costretti in un mondo in cui avere nelle mani dell'oyabun e si estendeva sulla zona territoriale di una posizione sociale riconosciuta era di vitale importanza, si influenza, la cui espansione inevitabilmente conduceva ad un raccolsero ai margini della società vivendo di espedienti e molti conflitto con il gruppo confinante. si dedicarono al brigantaggio e al saccheggio. In particolare i figli Attorno alla metà del '700, al fine di contenere sia i conflitti che i degli hatamoto, senza alcuna possibilità di riconquistare la disordini che li accompagnavano, il governo riconobbe agli posizione originaria, si ritrovarono in gruppi compatti e oyabun una sorta di legittimazione del loro operato territoriale. vagabondi, le ikka, dediti al brigantaggio o, in alcuni casi, Tale riconoscimento ufficiale consentiva loro l'attribuzione di un ponendosi a difesa di poveri contadini che li assoldava contro i nome di famiglia e il privilegio di portare la spada che, in quanto medesimi banditi. simbolo di status sociale, li collocava di poco al di sotto dei Akira Kurosawa, il grande cineasta nipponico, ne ha samurai. Allo oyabun fu affidato il controllo sui mercati e sulla mirabilmente tratteggiato le figure nel suo "I sette samurai". raccolta delle tasse, dalle quali tratteneva una percentuale come Questi samurai itineranti erano conosciuti in tutto il paese come compenso dell'impegno svolto; inoltre era chiamato a svolgere kabuki-mono, personaggi eccentrici con aspetto, abbigliamento e funzioni di vigilanza e di mantenimento dell'ordine nel proprio linguaggio caratteristici, che percorrevano le strade in piccoli territorio. gruppi in cerca di malcapitati da depredare, sentendosi tuttavia Col tempo i tekiya abbandonarono l'itineranza e diversificarono custodi dei valori tradizionali del rango di appartenenza. gli affari: commerci criminali celati dietro attività legali, I cittadini, stanchi delle loro angherie, si unirono in solidi gruppi protezione in cambio di denaro e detenzione di armi. di difesa. Di estrazione sociale completamente diversa, in Anche i bakudo accoglievano individui socialmente emarginati ed prevalenza impiegati, commercianti e artigiani, adottarono il erano organizzati in gruppi molto coesi, ma pur in presenza di nome di machiyakko, servitori della città, e le loro imprese competizione per il territorio presentavano un grado maggiore di "cavalleresche", ma soprattutto il loro contributo al mantenimento collaborazione o di mutuo soccorso rispetto ai tekiya. 16 Così, verso la fine dell'Era Tokugawa, nella seconda metà dell'800, le strade del Giappone erano percorse da bande di yakusa al cui interno avevano trovato un ruolo ed uno status biscazzieri, venditori itineranti, gruppi di machiyakko, cui l'appartenenza "di famiglia" conferiva un'appropriata collocazione. Le attività tradizionali riguardavano il gioco d'azzardo, la frode commerciale e il reclutamento familistico di manodopera affidabile e a basso costo pronta per essere utilizzata nel processo di modernizzazione del paese che all'epoca muoveva i primi passi. I gruppi yakusa erano a quel punto perfettamente radicati nel tessuto sociale come portatori e difensori dei valori tradizionali, in una società che i più percepivano confusa e in profonda trasformazione. Tra governo e stato. I Tokugawa adottarono una serie di misure che portarono alla costruzione di un apparato regolato da rigide norme di comportamento che ne assicurarono la stabilità per più di due secoli. La riorganizzazione del territorio fu accompagnata da un complesso sistema di controlli volti a d arginare qualsiasi tendenza destabilizzante. Tuttavia il dilagante malessere popolare diede vita a frequenti ribellioni che non era possibile fronteggiare con l'esiguo esercito di cui il governo si era dotato a seguito della smilitarizzazione e della pacificazione del paese. Cominciò così a delinearsi la necessità di ricorrere ad una stretta collaborazione tra istituzioni e gruppi di fuorilegge, gli unici che avevano mantenuto l'arte delle armi. Come dicevamo, già alla metà del '700, ai gruppi tekiya era stato riconosciuto e legittimato l'esercizio della funzione esattoriale e di vigilanza e polizia nei rispettivi territori. Le disposizioni introdotte nel 1806 dal nuovo Codice Penale istituirono un gruppo itinerante di ufficiali di polizia governativa che strinsero accordi con i bakudo per avere informazioni sui ribelli ed appoggio sul territorio, in cambio di una non ingerenza nei traffici illeciti, opportunità di cui i gruppi approfittarono per rafforzarsi sia sul piano economico che politico. Tra il XVII e XIX sec. la società giapponese presentava molte condizioni favorevoli allo sviluppo di una coscienza nazionalista. La netta conformazione dei confini, la struttura sociale rigidamente ordinata e il secolare isolamento favorirono una forte ostilità nei confronti dell'"alterità". Inoltre la riscoperta della tradizione scintoista, con la divinizzazione della famiglia imperiale, fu una leva importante contro il potere Tokugawa, che i più ritenevano illegittimo. In particolare, nella seconda metà del XVII sec., il pensiero di Motoori Norinaga contribuì per primo a dare voce ad una ideologia nazionalista. Nel suo "Kokugaku", Scienza della Nazione, egli affermava che "la superiorità del cuore giapponese e la sua purezza poteva essere ritrovato solo estirpando le influenze straniere, confuciana e buddista, che lo contaminavano" (Borsa, 1998). Tra il 1740 e il 1800, il suo discepolo Aizawa Yasushi fornì le basi ideologiche per il rovesciamento del governo Tokugawa. Il kokutai (nazionalismo) pensato da Yasushi cambiava la direzione della devozione, non più diretta al signore feudale, concetto tipico dei samurai, ma all'imperatore, "genitore di tutti i sudditi" (Flore, 2001). I Tokugawa cercarono in tutti i modi di impedirne la diffusione, ma con scarso successo: l'ideologia rinnovatrice ebbe sempre maggiori seguaci, soprattutto negli strati più bassi della popolazione. La questione si aggravò, nella prima metà dell'800, con la richiesta da parte americana di aprire scali marittimi lungo le coste giapponesi. Il paese si divise tra modernisti governativi, che vedevano in questo contatto il definitivo decollo verso la modernizzazione, e tradizionalisti, sostenuti infine anche dall'imperatore, che volevano preservare il Giappone dalla contaminazione esterna. Ma le forti pressioni occidentali costrinsero all'apertura dei porti, nella autoconsapevolezza nipponica di una significativa inferiorità militare. Queste concessioni alimentarono, se possibile, ancor più l'ostilità verso il governo, dando vita ad una corrente popolare molto agguerrita che riteneva ineludibile il conflitto con la potenza straniera: un modo per trovare una soluzione alla secolare frustrazione derivata da una mobilità sociale inibita, ma anche un'occasione per defenestrare lo stesso governo. Riconoscendosi perfettamente negli ideali del kokutai, la yakusa diede un contributo decisivo alla disfatta dei Tokugawa: fu la stessa corte imperiale che, in assenza di un esercito preparato, chiese l'intervento di uomini capaci nelle armi per fronteggiare i ribelli e ricacciare chiunque fosse favorevole ad una politica di apertura. Nel 1867 il quindicesimo ed ultimo shogun Tokugawa si dimise dando luogo alla cosiddetta Restaurazione o, più precisamente, al Rinnovamento Meiji, che restituì alla corte imperiale il legittimo esercizio del potere e che fece "esplodere tutte le energie pratiche ed intellettuali del paese represse per secoli"(Kaplan-Dubro, 1986). Tuttavia, come sottolinea Fukutake (1989), la struttura feudale giapponese era ancora fondamentalmente integra ed il modello familiare samurai profondamente radicato, continuando a permeare l'intero corpo sociale. L'organizzazione sociale, infatti, non aveva ancora del tutto raggiunto quel punto di rottura con il passato che potesse portare naturalmente alla nascita di una società capitalistica moderna. Anzi, la modernizzazione giapponese fu una modernizzazione di difesa e la Restaurazione Meiji, di fatto condotta sotto il comando degli ultimi samurai, si palesò come il prodotto di un secolo di scollamento tra la storia giapponese e quella del resto del mondo, distorcendo l'essenza dello stesso percorso di modernizzazione. Infatti, nel tentativo di inserirsi in questa società in veloce trasformazione, molti bushi sfruttarono l'alto grado d'istruzione e le capacità organizzative, diventando funzionari statali o uomini d'affari, altri, i più conservatori, si armarono nel tentativo di riconquistare i privilegi perduti, tutti si schierarono al servizio dell'imperialismo, visto al momento come unico argine alla contaminazione straniera. I nuovi leader politici, profondamente consapevoli 17 dell'umiliazione di essere stati forzati ad aprire il paese, uomini di mano per i caporalati locali, avevano tutti una concentrarono i loro sforzi nel preservare l'indipendenza contro il occupazione "legale" di operai specializzati, spesso riuniti in pericolo del colonialismo e nel costruire una nazione tanto forte e "Sindacati". moderna da contrapporsi alle potenze straniere. Il loro obiettivo fu Se fuori dai confini, nelle aree occupate militarmente, gli uomini in definitiva di passare dal feudalesimo all'imperialismo di Toyama erano utilizzati come spie governative a sostegno delle (Fukutake, 1989). Si assistette allora ad una serie di iniziative mire imperialiste, in Giappone venivano utilizzati in molte contrastanti: da una parte interventi tesi a minare la rigida attività: dall'aizzare o reprimere il malcontento popolare , stratificazione sociale che impediva la modernizzazione del all'intimidazione di candidati ed elettori, alla punizione o paese, dall'altro la conservazione della struttura familistica eliminazione di lavoratori variamente dissidenti, in definitiva a tradizionale, che per alcuni versi fu anche rafforzata, all'interno sostegno della produzione industriale e dunque della prosperità della società moderna. del paese. Il più importante e significativo gruppo di nostalgici samurai, il La Società di Toyama e le sue alleate minori venivano chiamate "Kyoshisha" o Società dell'Oceano Tenebroso, fu quello fondato dalle stesse società industriali, soprattutto minerarie e da Mitsuru Toyama. La figura di Toyama è significativa per capire manifatturiere, non solo per soffocare gli scioperi e reprimere le il profondo radicamento tra yakusa e società giapponese, ed in rivendicazioni dei lavoratori che in quegli anni avevano formato i modo particolare la stretta connessione con l'azione politica ed primi sindacati, ma anche come "(…) braccio violento per istituzionale del tempo. promuovere o affossare le carriere dei politici" (Kaplan- Dubro, Tra il 1890 e il 1914 la produzione industriale del paese raddoppiò 1986). e triplicò il numero delle fabbriche. Anche sul piano politico, il Inizialmente i gruppi più tradizionalisti degli yakusa non avevano Paese cambiava in fretta: una vera e propria ideologia nacquero e maturarono il primo politica, né questa sembrava parlamento, i partiti politici ed suscitare in loro un interesse che una casta militare, autonoma e andasse al di là dell'opportunipotente, che di lì a breve sarebbe smo affaristico, e si tenevano ad entrata in azione in Cina e Corea. una certa distanza dalla società Mentre il paese si modernizzava, di Toyama. Ciononostante erano le yakusa estendevano la loro evidenti i molti punti in comune attività di pari passo con la tra le yakusa e le forze crescita dell'economia, in ultranazionalistiche, nonché la particolare organizzando la perfetta integrazione delle manovalanza avventizia per le rispettive ideologie di base: costruzioni nelle grandi città e accomunati dalla venerazione reclutando gli scaricatori dei per un passato romantico e porti, sui cui traffici vantavano dall'ostilità per lo straniero, il ampi poteri. Il gioco d'azzardo loro legame fu rafforzato, dal Tatuaggi di alcuni membri di una gang yakuza continuò ad essere il fulcro delle punto di vista strutturale, dal bande bakudo, ma molti capi avviarono aziende legittime di comune sistema organizzativo fondato sul rapporto oyabunfacciata e le bande tekiya ampliarono il loro territorio. Tutti kobun. continuarono ad occuparsi di politica stringendo legami con Questi modelli sociali finirono con il produrre una sostanziale funzionari importanti: la chiave di volta per continuare identità politica tra molti oyabun yakusa ed esponenti politici di indisturbati l'attività illecita. destra. Dal canto suo il governo aveva inizialmente utilizzato i servigi All'affermarsi di un forte movimento operaio all'inizio del secolo delle bande in modo occasionale, tuttavia con l'ascesa e alla diffusione prebellica del pensiero liberale, la yakusa rispose dell'ultranazionalismo e la svolta a destra del Paese i legami, da con la creazione di una federazione nazionale, il "Dai Nippon semplicemente opportunistici, si fecero più profondi e Kokusui-kai", la Società dell'Essenza Nazionale del Grande politicamente connotati. Giappone, nata dalla stretta collaborazione di azione e pensiero Toyama fu il primo a formare e a prevedere un nuovo organismo tra Toyama e l'allora Ministro degli Interni Tokunami. sociale patriottico da usare come forza paramilitare nel quadro Il programma della società utilizzava il discorso retorico della contesa politica. Con una studiata ed efficiente campagna di dell'onore, della dedizione all'imperatore, il rispetto dello "spirito assassinii, la Società di Toyama, esercitò la sua influenza di cavalleria" e degli antichi valori giapponesi, ma nella pratica soprattutto sugli ufficiali e sulla burocrazia governativa, fino ad essa serviva come massiccia forza d'urto contro gli scioperi e assumere un ruolo determinante nell'invasione dell'Asia Orientale l'avanzamento del processo di democratizzazione del paese. prima e degli Stati Uniti poi. I membri della Società, che Capeggiata dallo stesso Ministro Tokunami, che aveva in Toyama fungevano da guardie del corpo di esponenti del governo o da il suo principale consigliere, l'organizzazione era strutturata in 18 processo di centralizzazione del potere statual-nazionale e della riorganizzazione del territorio, costrinse i nuovi gruppi di potere a cercare alleanze locali orientandosi verso chi nella marginalità aveva acquisito, per posizione e ruolo, la possibilità di mediare tra il centro e la periferia, dando conto di quella dinamicità delle relazioni tra gruppi sociali di cui parla Boissevan (1973). In questa situazione di transizione, la mafia come organismo sociale, sembra colmare i vuoti di potere - politico, economico, culturale - che si creano nelle condizioni di "disordine", adottando una sorta di riconversione degli "eccessi". Infatti sia i samurai giapponesi che i gabellotti siciliani, sebbene appaiano nel nuovo contesto sociale e politico delle figure anacronistiche e marginali, riescono a mettere a frutto con successo il patrimonio di reputazione, anche simbolica, accumulata nel tempo. Collocandosi sul confine delle relazioni tra l'apparato statale e il neo cittadino, in una situazione in cui lo Stato non si è ancora "appropriato" della società, la mafia trae il suo potere dalla capacità e dalla possibilità di veicolare le informazioni tra il gruppo egemone e la gente comune, un'attività che, per la sua funzione, si connota apertamente come azione politica. La mafia si fa in tal senso strumento del potere, ma a sua volta attua essa stessa, certamente sul proprio territorio, una strumentalizzazione del potere di governo dello stato, un potere mafioso altresì legittimato, non solo dall'uso della coercizione più o meno avallato dallo Stato, ma soprattutto dalla capacità di appropriarsi dei codici della tradizione, di cui manipola a suo beneficio termini e significati, costruendo attraverso di essi il mito su cui fondare la propria immagine sociale. In tal senso la mafia si pone in concorrenza, nel caso della Sicilia, o affianca, nel caso del Giappone, il potere governativo nel processo di costruzione dei miti nazionali, presentandosi alla pubblica opinione come chi ha preservato e traghettato nel tempo i valori della tradizione. La presenza di una legalità debole, come nel caso della Sicilia, o la presenza di una forte struttura di patronage nel tessuto sociale e nelle istituzioni, come nel caso del Giappone, in definitiva la personalizzazione dei rapporti sociali e politici, hanno permesso alla mafia l'esercizio di poteri che normalmente sono assolti in via esclusiva dall'autorità centrale dello Stato, come ad esempio l'uso della violenza per fini personali e il controllo del territorio. Infatti, come ricorda Beattie (1985), "uno Stato centralizzato, se è abbastanza potente, non consentirà il ricorso alla violenza per motivi personali", ma è il governo che rivendica il monopolio della forza entro i suoi confini. Tuttavia molte società centralizzate sembrano coesistere con modelli che si richiamano ad un'organizzazione segmentata dove sono comuni le faide tra gruppi di potere concorrenti per l'accesso alle risorse oppure con modelli ereditati da una precedente struttura di tipo "feudale". La struttura clientelare, su cui regge ogni spazio ed azione politica mafiosa, che nel caso siciliano si manifesta nel rapporto friendsof-friends e nel caso nipponico nel rapporto oyabun-kobun, configura un network di relazioni che rappresenta in definitiva il vero capitale sociale della mafia. Ma perché questo capitale possa fruttare il meglio possibile è necessario che l'esistenza modo piuttosto simile alle "camicie nere" di mussoliniana memoria e godeva dell'appoggio oltre che del ministero, anche della polizia e di numerosi ufficiali di grado superiore. Non era impiegata solo contro gli scioperanti, dove era fianco a fianco della polizia, ma anche contro tutti gli individui considerati sommariamente sovversivi. Il kokusui-kai di Tokunami crebbe sino a diventare il braccio paramilitare del Seiyu-kai uno dei due partiti politici dominanti dell'epoca. Non molti anni più tardi, anche il partito avverso, il Minseito, ne seguì l'esempio organizzando un proprio esercito cui aderirono numerosissimi yakusa provenienti dalle fila degli operai edili, ed alcuni oyabun finirono con il candidarsi personalmente a cariche nazionali, riscuotendo un particolare successo. La politica espansionistica aveva dato vita ad un duraturo binomio tra yakusa e governo. Fornendo gran parte della manovalanza, soprattutto nel settore edile e portuale, la yakusa, e Toyama in particolare, contribuì in modo decisivo allo sviluppo e al consolidamento dell'imperialismo nipponico, senza tralasciare gli interessi economici personali che, in un'economia in pieno sviluppo, gli procurò un potere impressionante. Infine, la diffusione delle sue idee fornì la base ideologica su cui si costruirono le future organizzazioni dell'estrema destra, nelle quali molti gruppi yakusa poterono soddisfare il loro spirito patriottico e di potere. Conclusioni. Come abbiamo già ricordato, nel periodo storico preso in considerazione sia la Sicilia che il Giappone dovettero fronteggiare i profondi mutamenti sociali che accompagnarono il processo di nazionalizzazione dei rispettivi Paesi e la riorganizzazione del territorio, anche se, come afferma Beattie (1985), vi sono profonde differenze strutturali tra gli Stati nati a seguito dell'ingerenza egemonica e dal dominio di un gruppo territorialmente esterno su di un altro, socialmente e culturalmente diverso, e gli Stati nati da una propria evoluzione interna, seppur forzata dall'esterno. Nel primo caso, infatti, vengono spesso a configurarsi due società i cui rapporti istituzionali sono relativamente scarsi, mentre nel secondo caso prevalgono le spinte alla coesione attorno a determinati valori identitari riconosciuti e condivisi, che segnano nettamente il confine con l'Altro. In Sicilia il latifondo, in Giappone l'organizzazione feudale, avevano prodotto secoli di stratificazione sociale e di legittimazione del potere che si erano ormai cristallizzati, dando vita ad un assetto tradizionale profondamente radicato, incorporato nelle pratiche sociali dei singoli attori e dei gruppi. Ma, come afferma Balandier, "tutte le società sono, con gradi diversi, eterogenee, e la storia le carica di nuovi apporti senza eliminare quelli vecchi: la diversificazione delle funzioni moltiplica i gruppi che le assumono o impone a uno stesso gruppo di presentarsi sotto "aspetti" differenti a seconda delle situazioni" (Balandier, 2000). Così la necessità di governare il "disordine" sociale prodotto dalle spinte egemoniche straniere e l'avvio del 19 dell'organizzazione mafiosa, il suo linguaggio e i suoi simboli, siano in qualche modo divulgati; soprattutto ne deve circolare la reputazione all'interno del territorio controllato, ma anche oltre . In tal senso la questione della segretezza è strettamente correlata alla posizione dello Stato nei confronti dell'organizzazione: esso può mostrarsi apertamente avverso e dunque contrastarne l'esistenza e le azioni, oppure può in qualche modo riconoscere, se non legittimare, la sua presenza nel tessuto sociale. La mafia, dunque, non si configura tanto come fenomeno tradizionale, quanto come modello di comportamento derivante da una combinazione del tutto peculiare tra vecchio e nuovo. Essa si definisce in base ad alcuni obiettivi che consistono essenzialmente nel perseguimento di posizioni di monopolio sul mercato economico e sul piano politico. Per usare le parole di Boissevan (1973), i mafiosi sono "imprenditori sociali", nel senso di "manipolatori di norme allo scopo di collegare gruppi ed individui, consentire lo svolgimento di attività economiche e politiche, garantire il controllo sociale nell'interesse della classe dominante (…)" (La Spina, 2005) e in quanto tali si configurano in modo evidente nel ruolo di attori politici. Bibliografia Balandier, G. (2000), Antropologia politica, Armando, Roma. Bateson G. (1971), Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano. Beattie, J. (1985), Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Laterza, Roma. Block, A. (1986), La mafia di un villaggio siciliano, Einaudi, Torino. Boissevan, J. (1973), Friends of Friends, Basil Blackwell, Oxford. Borsa, G. (1998), Le origini del nazionalismo in Asia Orientale, Ed.Università di Pavia, cit. in Flore, M. (2001). Coleman, J. (1990), Foundation of Social Theory, Harvard University Press, cit. in La Spina, A. (2005). Cutrera, A. 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Tilly, Charles (1986), Prefazione, in Block, A. 2^ ed. 20 Sarajevo e il passato che non passa La memoria, il paesaggio e l'identità come fermo-immagine di Claudio Todisco Un paesaggio della mente - Quando, armato di macchina fotografica1, ho iniziato la mia ricerca in Bosnia-Erzegovina in seno all'approccio teorico della Critical Geopolitics, non ero mai stato a Sarajevo; tutto ciò che sapevo di inerente a questa città meravigliosa erano solo alcuni tra i peggiori aspetti della sua storia: l'attentato del 1914, spesso annoverato tra le cause principali dello scoppio della Grande Guerra e il conflitto degli anni Novanta, del quale ricordavo alcune immagini rimastemi impresse, tra quelle ampiamente diffuse dai telegiornali quando avevo tra i tredici e i sedici anni. In particolare rammentavo i corpi straziati delle vittime nella strage del mercato; per il resto una gran confusione. In realtà un certo grado di preconoscenze l'avevo acquisito durante il corso sui "luoghi e paesaggi simbolici" alla Facoltà di Sociologia, del quale quello di Sarajevo era stato un argomento approfondito. Tuttavia ritenevo di potermi considerare essenzialmente ancora vergine di fronte al consumo del paesaggio di questa città, cosa della quale ero lieto, poiché speravo che il mio intento conoscitivo potesse avvicinarsi il più possibile (entro i limiti dei quali ero conscio, certamente) all'essere incontaminato. Oggi so con certezza che mi sbagliavo. È stato un preciso episodio a farmi ravvedere presto su tale speranza: Giunto a Sarajevo ho cominciato a perlustrarne le varie zone in lungo e in largo cercando di prendere confidenza con i monumenti, i palazzi, le chiese più importanti, e ovviamente le moschee, ma oltre a ciò inizialmente mi sforzavo soprattutto di imparare le fermate del tram, i nomi delle vie. Il mio primo obiettivo in altre parole era sapermi orientare, avere un'idea superficiale ma totalizzante dell'area urbana. È stato facile, nonostante il mio scarso senso dell'orientamento. Se mi perdevo era sufficiente riaffacciarmi sul fiume Miljacka, la colonna vertebrale della città, e ripartire da lì. Niente a che vedere con Milano insomma. Ma quando mi sono sentito padrone di una discreta dimestichezza con i luoghi, gli incroci e i ponti principali, ho deciso che dovevo fare un passo ulteriore e che per farlo mi serviva una guida, nel vero senso della parola. Mi sono rivolto ad un tourist information point nel quale mi hanno dato delucidazioni e mi hanno riempito di opuscoli e volantini scritti in lingue diverse, un po' a stele di Rosetta per intendersi, quindi sotto cospicuo pagamento (preferendo non aggregarmi a una comitiva non potevo dividere la spesa con nessuno) mi è stata assegnata una guida. Sembrava preparata e sicura di sé, ma dopo breve mi ero già reso conto che non poteva spiegarmi niente che non sapessi già. Il fatto è che sebbene fossi partito quasi da un giorno all'altro, prima di lasciare l'Italia mi ero ampiamente documentato su riviste, guide turistiche, persino l'atlante e soprattutto internet, non tanto con qualsivoglia intenzione di tipo epistemologico, Claudio Todisco, La moschea wahabita di re Fahd, periferia Ovest di Sarajevo, agosto 2004 quanto per non trovarmi allo sbaraglio una volta sceso dall'aereo. Così ogni volta che la mia guida iniziava a descrivermi la storia di un edificio o lo stile col quale era stato costruito oppure una leggenda o un racconto pittoresco che lo riguardasse io la interrompevo e terminavo il discorso al suo posto, tanto che ad un certo punto ho notato il suo estremo imbarazzo mentre si scervellava per mostrarmi qualcosa che non potessi conoscere. Alla fine il giro si è dilungato fino sulle prime alture della città, occupando tutto il pomeriggio. Per fortuna la situazione si è trasformata in un gioco divertente, una specie di quiz nel quale lei mi sfidava e io prontamente rispondevo, ma non era esattamente ciò di cui avevo bisogno ai fini del mio interesse. Così vista la sua disponibilità mi sono risolto a dirle direttamente quali fossero i posti di cui avevo letto e che volevo vedere perché mi ci accompagnasse. In seguito mi sono rivolto ad accompagnatori 21 essenzializzati ed esasperati e fondano la propria legittimità nella continuità con il passato, anche quando lo fanno in modo del tutto nuovo. Va detto però che, prendendo l' 'oggi' come riferimento puntuale è molto difficile dire chi sia il vero detentore del potere. In prima istanza verrebbe da pronunciarsi a riguardo dei partiti nazionalisti e in particolare dell'SDA (Partito d'Azione Democratica) e certo non a torto, ma pensandoci bene a garanzia del sistema democratico in seno al quale quei partiti sono eletti si erge una forza militare straniera (oggi nella forma dell'EUFOR) che appoggia sicuramente e partecipa a rafforzare quel sistema democratico, ma che di fatto non ne è l'espressione. Poi va considerato l'interesse di alcuni paesi islamici che oltre a portare la propria solidarietà in Bosnia e a Sarajevo non disdegnano di fare del proselitismo. Per non parlare della spartizione del territorio tra Republika Srpska e Federazione croato-musulmana. È all'interno di questa situazione di passaggio (di questo si tratta) che va individuata una spiegazione dell'accentuata complessità delle rappresentazioni del paesaggio. Focalizzando l'attenzione su una città popolata prevalentemente da musulmani, è facile che ci si concentri esclusivamente sul tema dell'islamizzazione, quando in vero Sarajevo oltre che come città dei bošnjaki può essere considerata quale città dell'assedio, o come capitale della BosniaErzegovina (specie in vista dell'avvicinamento a Bruxelles), capitale della Federazione croato-musulmana, o ancora come città dell'arte e del multiculturalismo. E' bene inoltre ricordare che l'SDA collabora al governo del paese in un sistema istituzionale a rotazione periodica tra serbi, bošnjaki e croati (il che vale anche per la carica presidenziale) e dunque non esercita il monopolio del potere. Ciò concorre a rendere il panorama politico e sociale ancora più molteplice e variegato e il senso di transitorietà che ne deriva ha l'effetto per cui invece di essere forgiati nuovi simboli, in mancanza di punti di riferimento si propende a recuperarne di vecchi, salvo poi adattarli alle esigenze specifiche del presente. meno convenzionali, ma in fin dei conti anche con la prima guida non penso di aver buttato via i miei soldi, perché ho capito fino a che punto il paesaggio di Sarajevo fosse già un idea ben articolata nella mia testa. E tuttavia sapevo che non potevo averne colto la realtà in un pomeriggio; quello che possedevo era un 'paesaggio della mente', una rappresentazione. Nella guida Bradt di Tim Clancy del 2004 sulla Bosnia-Erzegovina per ogni sezione del libro (che è diviso per aree regionali) compare un paragrafo intitolato What to see, nel quale sono suggeriti i percorsi da seguire e i luoghi da visitare, quelli da non perdere. Ma chi decide che cosa è degno di essere visto e cosa invece no? E con quale criterio? To see or not to see? Con questa scherzosa storpiatura del celebre dubbio amletico, intendo evidenziare come spesso l'essere, nel senso di esistere, si riduca alla mera questione di essere visti. Se mi fossi ritenuto soddisfatto del mio primo 'giro turistico', ad esempio non avrei mai visto il gigantesco mercato a cielo aperto collocato nella zona periferica a ovest della città, verso l'aeroporto, dove nella totale illegalità (mi è stato suggerito di tenere d'occhio le tasche del mio zaino) viene venduto qualsiasi tipo di mercanzia immaginabile, dalle forcine per capelli ai cd pirata degli artisti più disparati (dai Bijelo Dugme a Eminem), ai mobili, i materassi, le automobili e chissà cos'altro. Solo per vedere quel posto non basta un giorno intero; una specie di Louvre del mercato nero. In sintesi Sarajevo non è semplicemente l'oggetto dato di un'osservazione discreta, bensì può essere molte cose diverse a seconda di come intendiamo guardarla. Oggi in questa città il potere per molti versi è appannaggio di un'élite che si identifica con la storia del popolo musulmano di Bosnia e con la recente formulazione di un'identità etnica dei bošnjaki2 . Quest'ultima presupponendo dei caratteri di omogeneità che non le sono propri3 e ricercando nel paesaggio concreto delle conferme che esso le concede nella misura in cui sono gli stessi cittadini a produrle concretamente e rappresentativamente. Così la moltiplicazione ad esempio dei luoghi di culto islamici e lo stanziamento di fondi per permetterne la ristrutturazione o conservazione (mentre ad opere pubbliche di forse più immediata urgenza viene lasciato poco spazio) non viene solo incontro alle reali esigenze demografiche (molti abitanti non musulmani hanno abbandonato la città o più semplicemente non vi sono tornati), ma testimonia la concentrazione del potere nelle mani dei partiti nazionalisti. Primo tra tutti quello che per dieci anni è stato capeggiato dalla figura carismatica di Alija Izetbegovic (morto recentemente), il quale in epoca iugoslava era più volte stato arrestato con l'accusa di estremismo islamico4 . Dopo l'opera di smemorizzazione del paesaggio avvenuta per il tramite della distruzione da parte del nemico (che di solito non era uno straniero, ma un concittadino, un vicino di casa, un'insider di quello stesso paesaggio), ora il paesaggio viene rimemorizzato sopra le macerie, privilegiando alcuni aspetti identitari radicati in un passato etnico costruito politicamente, ma fortemente influenzati dagli interessi del presente. È il bisogno di proclamare la propria esistenza, stringendosi attorno a quei tratti identitari la cui stessa sopravvivenza era stata minacciata. Questi tratti oggi sono Rompere la cornice - Il 2005 è stato per molti versi l'anno della memoria. Il 27 gennaio (anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dei sovietici) per la prima volta dopo sessant'anni, su iniziativa del segretario generale Kofi Annan, l'Assemblea generale dell'ONU ha ricordato la Shoah con una sessione straordinaria; il 10 febbraio (in seguito all'approvazione di una legge che istituisce un 'Giorno del ricordo') è stata celebrata in Italia la commemorazione delle vittime delle foibe del 1947. Il presidente Berlusconi ha esortato pubblicamente a "non dimenticare"5 ; il 6 e il 9 agosto abbiamo ricordato la tragedia delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, anch'essa avvenuta sessant'anni fa; dall'11 al 19 luglio è stato il decimo anniversario della strage dei musulmani di Srebrenica. In tutti questi casi diversi tra loro, ma tutti aventi a che fare con la commemorazione di crimini atroci, la memoria è sicuramente stata il tema centrale. Allo stesso modo il 15 dicembre scorso è caduta la decima ricorrenza degli accordi tenuti negli Stati Uniti a Dayton, Ohio, nel 1995 e conclusisi con la firma della pace (la cosiddetta 'pace fredda') da parte dei contendenti del conflitto ex iugoslavo. Questa data viene convenzionalmente fatta coincidere 22 emergere paradossalmente quasi un desiderio di normalità, così le ossa possono essere riordinate assieme ai tappeti. Un ritorno alla quotidianità dopo la sofferenza, rispolverando il passato assieme al presente. Il ricorso alle immagini fotografiche è particolarmente adatto per un discorso sulla memoria, perché, come suggerisce Susan Sontag (2003), sebbene oggi i film esercitino una sorta di predominio, quando si ricorda le fotografie sono più incisive, in quanto la memoria spesso ricorre al fermo-immagine. Tale caratteristica del resto è probabilmente quella che più la accomuna alla produzione delle identità e dei paesaggi che le rappresentano. Anderson (1991), parlandoci del nazionalismo cita Gellner quando afferma che esso "inventa le nazioni dove esse non esistono" (Gellner, 1964 p. 169). Tiene a precisare però che Gellner così finisce per assimilare il concetto di invenzione a quello di falsità e non a quello di immaginazione e creazione. In proposito Ugo Fabietti sosterrebbe che: con la fine dell'assedio di Sarajevo (seppure alcuni scontri armati si protrassero anche l'anno successivo). Dunque è stato il momento di 'ricordare Sarajevo'. Ma non si è trattato solo di un proposito episodico suggerito da una data significativa. Ancora prima che la guerra di Bosnia fosse terminata siamo stati, come europei, americani, occidentali, ripetutamente esortati, scongiurati dall'urlo "Non dimenticate Se l'immaginazione consiste […] nel rappresentarsi realtà che non sono esperite nella pratica quotidiana, essa consente tuttavia di pensarsi in congiunzione ad altri soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. Politiche, espressioni collettive, in altre parole "identità", nascono da questo contesto o si rafforzano in esso come entità nuove, come "comunità immaginate" (Fabietti 1999, pp.264-265). Fig. 1: Roger Richards Cioè egli dà maggiore rilevanza all'accezione positiva del termine 'finzione'. Gellner non può fare altrettanto; la sua idiosincrasia per il relativismo lo induce a considerare gli oggetti che si presentano alla sua analisi semplicemente come veri o falsi ("finti" in senso negativo, moderno). E il tipo di verità che egli predilige è giocoforza univoco, cartesiano. Ora poiché il paesaggio, come si è visto, può incorporare la rappresentazione di un'identità, con Cosgrove è il caso di dire che: Sarajevo!". Sì è trattato di un vero e proprio slogan, lanciato durante la guerra nella speranza di un intervento delle forze internazionali e riprodotto con continuità anche dopo Dayton, fino ad oggi. Prima non dovevamo dimenticarci di salvarla e adesso ci viene chiesto di ricordare l'orrore a cui è stata sottoposta. Ad esempio in figura 1 e 2 il messaggio è chiaro grazie al preciso potere esplicativo della parola. Le immagini della donna che corre, viene da pensare sotto le posizioni dei cecchini, del Cristo scalfito dai proiettili (copertina di un libro fotografico di Roger Richards) e delle torri di Momo i Uzeir6 bersagliate dall'artiglieria nemica, sono esempi degli orrori che per l'appunto siamo implorati di ricordare. Mentre le figure 3 e 4 estendono l'attenzione alla sofferenza patita nel resto della Bosnia. In particolare la prima raffigura un murale dipinto in una via di Sarajevo. Il dolore dei cittadini della capitale così viene stretto a quello delle 'madri di Srebrenica'. La seconda è parte di un lavoro fotografico di Zijah Gafic (famoso, giovanissimo, già pluripremiato fotografo che ha avuto la fortuna/sfortuna di essere bosniaco al momento giusto) intitolato "In cerca di identità". Tratta il tema della 'riesumazione dei morti' per l'identificazione delle persone scomparse in Bosnia. Gafic gioca sul concetto oscillante tra identità personale e identità collettiva e per farlo ci sottopone le immagini crude e scioccanti degli scheletri umani disseppelliti per l'operazione di riconoscimento attraverso il dna, confrontato con quello dei parenti delle vittime. In basso a destra vediamo riportato alla luce ciò che resta dei corpi e alle loro spalle un tappeto steso, probabilmente lavato o appena sbattuto. Da questa figura sembra Il paesaggio è un concetto ideologico. Esso rappresenta un modo in cui certe classi di persone hanno significato se stesse e il loro mndo attraverso la loro relazione immaginata con la natura (Cosgrove 1990, p.35). Per Keith e Pile (1993) Fig. 2: Cefal, Resistenze l'identità è sempre parziale e dipendente da un insieme di relazioni che "non consentono di dare vita ad un sistema chiuso", eppure spesso è rappresentata come perfettamente coerente, chiusa e completamente scibile. Al 23 contrario essi ribadiscono come la sua costruzione sia legata al soggetto e al contesto storico di riferimento. Un contesto in cui avvengono lotte politiche, sociali, economiche e che dunque è estremamente mutevole. E in modo analogo Farinelli scrive: stabilità e immobilità. I luoghi cioè in cui sono avvenute battaglie fondamentali per una particolare identità, in cui gli eroi del passato si sono distinti per le loro gesta e dove gli antenati sono stati seppelliti, agiscono come tracce di memoria. L'identità di un gruppo si forma così attraverso quella selezione di ricordi che Sebbene inconsapevolmente, l'investigazione si limita a "portare vengono scelti come validi per il fine di enfatizzare i caratteri nei a stabilità il mutevole", quali il gruppo stesso si senza però "lasciare che il differenzia dagli altri. movimento sia movimenQuesta identità appare to", come invece Heidegger inalterabile nei suoi tratti al contrario prescriveva fondanti e legittima l'ordine (Farinelli 1991, p.10). del presente poggiando sul passato, ossia, in un circolo ermeneutico, il passato È quanto auspica Cosgrove (1990) per il paesaggio: plasma il presente, che a sua rompere la cornice del volta sceglie cosa ricordare quadro e inserirlo nel del passato in vista di un processo storico7 . Altrimenfuturo. Ciò comporta spesso ti è come se un agnostico, un utilizzo politico, più o incontrando un cattolico meno consapevole, della praticante, gli intimasse, se memoria con lo scopo di Dio davvero esiste, di garantire la conservazione Fig. 3: Claudio Todisco - Don't forget Srebrenica, agosto 2004 giurarlo su ciò che ha di più di uno status quo (o anche caro; e l'altro rispondesse: "E va bene, se ci tieni… lo giurerò su di sostituirlo con uno nuovo). Dio.", non fa una piega, ma è un vicolo cieco, una tautologia. In questo senso la memoria è prodotta in funzione degli interessi del presente, in dipendenza dei quali si preferisce ricordare alcune L'identità è sempre un processo incompleto […] questo processo cose, relegandone altre all'oblio. Spesso ne risultano viene fermato per rivelare un'identità che somiglia al fotofinish di rappresentazioni paesaggistiche atte a privilegiare i tratti culturali una corsa di cavalli al galoppo. Potrebbe trattarsi di una 'vera' riconosciuti come propri ed a smemorizzare quelli degli 'altri'. E rappresentazione di quel momento, ma per il fatto di aver poiché questi paesaggi, pur essendo delle costruzioni mentali, congelato, appunto, un momento, essa rinnega la presenza stessa influenzano direttamente la vita reale, spesso smemorizzare non del movimento. […] Perciò […] l'atto di rappresentare significa decostruire l'incessante processo di formazione dell'identità si basa su un testualmente, ma momento di chiusura arbitraria che è simultaneamente vero e distruggere fisicamente falso. (Keith e Pile, in Minca 2001, p.67). le tracce di questi cosiddetti 'altri'. Altre Sull'onda di simili affermazioni e in seguito a quanto sostenuto volte semplicemente sulla memoria e sul suo ricorso al fermo-immagine ci si può disseminare ovunque chiedere dunque se anch'essa non sia tanto una registrazione pura segni del proprio potere e semplice dei fatti del passato, quanto piuttosto il risultato di tentando di adombrare un'opera selettiva di rappresentazione. Per Fabietti e Matera quelli del potere altrui infatti (1999) la memoria è una costruzione culturale, elaborata attraverso la dimentiattraverso una selezione sociale del ricordo ed è strettamente canza8 . legata ai discorsi sull'identità. Questo concetto richiama la Se è vero che i ricordi 'memoria collettiva' di Maurice Halbwachs (1987) e non tanto appartengono ad una quello dei ricordi individuali. Questi ultimi per Sontag sono dimensione dell'inirriproducibili e muoiono assieme all'individuo, mentre la dividuo incommensuraFig. 4: Zijah Gafic - In cerca di identità memoria collettiva non è un ricordo, bensì un patto attraverso il bile con quella degli quale ci si accorda su che cosa è importante e su come sono andati altri, è anche vero che in società un vasto numero di ricordi i fatti. La memoria collettiva di Halbwachs è quella di un passato vengono fissati attraverso l'uso di supporti che ne permettono la condiviso, interpretato attraverso le esigenze degli attori sociali condivisione. La scrittura ad esempio. Sempre Fabietti (1999) cita del presente. Essa, come vale anche per il paesaggio, è mutevole Platone nel Fedro: e riprodotta in continuazione e, come per il paesaggio, gli elementi dello spazio e del tempo le forniscono un'immagine di Fidandosi della scrittura [gli uomini] si abitueranno a ricordare 24 dal di fuori mediante segni estranei, non dal di dentro e da se medesimi (Platone, "Fedro", in Fabietti 1999, p. 113). L'unica via di purificazione è superare il trauma nella misura in cui, di nuovo con Magris: Cioè la scrittura, che in Platone troviamo nell'accezione greca di 'farmaco della memoria', in tal senso è intesa sia come 'medicina', sia come 'veleno'9 , cioè essa è da un lato conservativa nei confronti della memoria e dall'altro produce uno scarto di significato. Un altro potente supporto della memoria è la fotografia. Forse anche a quest'ultima Platone avrebbe attribuito la stessa duplice proprietà, soprattutto nel caso in cui le avesse riconosciuto una dimensione artistica. La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno, dice Bloch, crede nella sua nostalgia di vedere nell'infanzia e che si trova invece nel futuro, alla fine del viaggio (Magris, ibid.). È quanto prescrive Todorov con la sua 'memoria esemplare', rievocare il passato, non per esserne schiavi in ogni momento del presente, ma per comprendere i torti che si sono subiti all'interno di una visione più generale, in cui il male che si è patito è un esempio di quali misfatti gli uomini possono spingersi a commettere. Ciò che più spesso accade tuttavia, è che le vittime di una violenza non vogliano condividere la propria specifica sofferenza come un generico esempio da riversare nel calderone dei mali del mondo. Il proprio dolore viene concepito come unico, incomparabile. Così a Parigi, quando alcuni manifesti hanno paragonato la pulizia etnica attuata dai serbi ai campi di concentramento nazisti e Miloševic a Hitler, si sono alzate molte proteste, rimarcando la differenza tra il genocidio sistematico di una popolazione in quanto considerata inferiore da un punto di vista razziale e l'epurazione etnica col fine di creare degli statinazione omogenei. In questo modo non si introducono le lezioni del passato in un discorso più articolato e ampio su come prevenire il male nel presente sulla base delle esperienze precedentemente vissute. Ecco perché gli abitanti di Sarajevo, quando il fotoreporter Paul Lowe allestì nel 1994 una mostra in cui, accanto agli scatti dell'assedio, espose alcune foto che aveva scattato precedentemente in Somalia, non solo rimasero delusi, ma addirittura si offesero (cfr. Sontag, 2003). Al di là di una probabile forma di razzismo latente, ciò che premeva loro era che il dolore dei cittadini di Sarajevo fosse rappresentato nella sua unicità. L'assedio della loro città non poteva essere ridotto alla categoria di mero esempio. Un simile atteggiamento nei confronti di un torto subito, non permettendo un distacco dalla materialità dell'evento, può suscitare reazioni vendicative nei confronti della popolazione serba nella sua indistinta totalità, prolungando la catena delle violenze. Karl Jaspers (interrogandosi sulle responsabilità del popolo tedesco durante la II guerra mondiale) si chiese se non fosse una colpa persino il fatto di essere ancora vivi. Ma egli non considerava i tedeschi un popolo malvagio, riteneva anzi che come loro altri potessero commettere errori del genere. Agli abitanti di Sarajevo probabilmente suggerirebbe dunque che, come i serbi, altri potrebbero commettere delle atrocità simili. O addirittura denunzierebbe l'omissione dei ricordi sulle nefandezze commesse analogamente dai croati e dagli stessi musulmani10 . Secondo Sontag rimanere impassibili di fronte alle fotografie delle tragedie della guerra a causa del bombardamento mediatico di queste immagini al quale siamo sottoposti, non significa necessariamente essere insensibili. Al contrario proprio esserne Sarajevo come esempio - Dunque, abbiamo detto, la memoria è costruita culturalmente, forma l'identità procurandole dei riferimenti spazio-temporali ed è fissata e condivisa per mezzo di alcuni supporti di fruizione collettiva. Dato però che come costruzione essa può assecondare determinati interessi, non è escluso che, come vuole Tzvetan Todorov (1995), di essa non venga fatto abuso. Nel 'Giorno del ricordo' delle foibe Claudio Magris, pur favorevole al recupero di quei fatti a lungo trascurati, così ammonisce circa l'uso che si fa della memoria: C'è tuttavia pure un ricordo negativo che pretende di legare irreparabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l'animo al ricordo bruciante di tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non ne hanno colpa alcuna, di vendicarli indiscriminatamente, perpetuando così la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie (Magris, Corriere della sera, 10 febbraio 2005, p.35). È la distinzione che Todorov fa tra 'memoria letterale' e 'memoria esemplare': La prima, in pratica, non permette al passato di passare, legandolo simbolicamente ad un luogo, un paesaggio, un evento. Il presente è impregnato di passato e il trauma per un male subito non viene superato. Oltretutto il ricordo di questo male, che non viene elaborato attraverso il percorso catartico del lutto, diventa il motivo di un legittimato rancore, che può ricercare uno sfogo ritenuto altrettanto legittimo nella vendetta. In un'intervista pubblicata su Repubblica il 24 gennaio 2005 (giorno di apertura della settimana della memoria della liberazione di Auschwitz) il premio Nobel Elie Wiesel (sopravvissuto all'Olocausto e autorità della cultura ebraica, invitato a parlare alla commemorazione dell'ONU) ad una domanda sull'oblio risponde: Ricordo che nei primi anni dopo la guerra i sopravvissuti non amavano parlare. […] Fu tentazione non di dimenticare, ma di rimuovere (Tarquini, La Repubblica, 24 gennaio 2005, p.13). È l'incomunicabilità del trauma che produce 'afasia', l'impotenza nel parlare. Cioè esso resta al livello di un'emozione e non essendo simbolizzato non può essere eliminato, ma solo rimosso. 25 stupiti significherebbe non avere nessun grado di coscienza della realtà, né aver ancora maturato un qualche tipo di riflessività. Quella stessa riflessività che Hannah Arendt auspica come capacità di pensare in grado di orientare le azioni umane, per esimersi dall'applicazione del male. Non il male della cattiveria e del sadismo, ma il 'male banale' di chi applica le leggi o le convenzioni senza porsi la questione di cosa stia davvero facendo e se sarà in grado di sopportarne il rimorso. Superare il trauma significa non indugiare sulla specifica violenza di un evento, ma comprenderne la pericolosità generica. Perciò, scrive Sontag, "Le foto strazianti […] non sono di grande aiuto, se il nostro compito è quello di capire". Le immagini in cui compare esplicitamente per iscritto la richiesta di non dimenticare sono interessanti perché intrattengono un rapporto singolare con la propria 'attualità'. Parlandoci del ricordo esse ci dicono adesso qualcosa che riguarda il passato. Per il fatto stesso che ci chiedono di ricordare, ammettono che il paesaggio da loro offerto è quello di alcuni anni fa. Tuttavia sono aggiornate nel senso che spiegano come mai oggi, dieci anni dopo la fine dell'assedio, vengano ancora prodotte immagini della devastazione. Invece vi è un altro tipo di immagini che, se da un lato sono comunque attuali perché appartengono ad una visione a noi contemporanea, dall'altro rappresentano un paesaggio congelato nel 1995 e lo fanno senza la preoccupazione di ammetterlo. Si tratta delle cartoline, fotografie, vignette etc. della 'Sarajevo u ratu' (Sarajevo in guerra), nelle quali ancora vediamo una città di macerie e palazzi sventrati dai colpi di mortaio (fig. 5), di persone che vivono senz'acqua, né viveri o medicine, né corrente elettrica, di cimiteri arrangiati negli stadi delle squadre di calcio locali (Fig. 6). Una persona che non fosse mai stata in Bosnia e ricevesse una cartolina del genere non è affatto detto che si chiederebbe se la situazione nel 2005 sia ancora quella raffigurata. Potrebbe tranquillamente acquisirla come una perfetta riproduzione del presente. La memoria fa parte del presente e ci racconta il tempo già trascorso in relazione agli interessi che oggi hanno il sopravvento, quindi il discorso sia testuale, sia eidetico sulla questione del ricordo è indicativo Fig. 6: Roger Richards esso stesso di un 'modo di vedere'. Le città della Bosnia-Erzego- vina sono disseminate di scritte che intimano di non dimenticare: Don't forget, non dimenticate Sarajevo, non dimenticate Srebrenica, è anche inciso in alcune pietre qua e là prima dell'imbocco del ponte di Mostar, da entrambi i lati. Il fatto che sia scritto in inglese è indice forse che i destinatari del messaggio siamo noi occidentali, tuttavia alcune immagini, in particolare ad esempio la crudezza di fotografie come quelle sottoposteci da Gafic come da tanti altri11 Fig. 5: Cartolina - Sarajevo u ratu sui corpi delle vittime, rischiano di concentrare l'attenzione degli abitanti di una realtà controversa come quella di Sarajevo (in cui l'ordine dopo dieci anni di 'pace' è ancora garantito da soldati stranieri) su un passato ancora ingombrante, anziché propositivo. Forse ha davvero ragione Sontag a dire che fare pace vuol dire dimenticare. Ma la potenza di quelle immagini continua a ripeterci: non dimenticate! Un'aura di severità appesantisce i luoghi ove è scolpito nella roccia questo monito, o semplicemente dipinto su un muro. Perché non dimenticare, in vista di quale intenzione futura? La forza di queste parole, la loro grevità mette in soggezione, sembra esprimere un giudizio paterno nei confronti del comportamento futuro di chi legge e non solo un desiderio di consapevolezza. C'è scritto 'Don't forget', ma si legge 'Don't forgive'. Dimenticare sarebbe folle forse, ma non perdonare potrebbe esserlo altrettanto. Se il risultato fosse una riproduzione delle divergenze, tanto più 'legittimata' dalla rivendicazione del passato e dalla 'riesumazione dei torti', allora non perdonare significherebbe proprio dimenticare, avere scordato a che cosa l'odio e il terrore, Kosevo soccer field, 1996 alimentati con dovizia, abbiano già portato. Il miglior auspicio, per fortuna sostenuto da una parte di musulmani di Bosnia, è quello di 'perdonare, ma non dimenticare'. Se del resto come ho detto la scelta dell'inglese per queste scritte indica che sono rivolte agli stranieri, la speranza è che in fondo esse siano spoglie di qualsiasi richiamo alla vendetta 26 state accanto12 Il komšiluk (buon vicinato) viene ancora rispolverato qua e là, persino con un bagliore di fierezza negli occhi, davanti ad uno straniero che parli di fratellanza, ma è evidente che ha perduto il suo antico vigore. La memoria somiglia ad una macchina fotografica: per qualcosa che cattura, c'è sempre qualcosa che si lascia sfuggire. E il paesaggio, sovente, offre un nascondiglio alla sua preda. indirizzato ai cittadini bosniaco-erzegovesi e che rivelino il tentativo di mettere in circolo la propria esperienza di dolore all'interno di un insieme globale di condivisione da parte dei popoli della Terra. Ricordare, dunque, ma non per suggerire rimproveri provenienti dal passato e lanciarli oltre un confine immaginato, che divide i due lati di una stessa città, di una stessa via, in cui i numeri civici in verde, opposti a quelli blu, sembrano dire: Cari vicini, ieri, oggi, domani voi ci state vicini, ma non ci Note 1 Avrei raccolto immagini per oltre seicento scatti nel corso di due differenti soggiorni, uno estivo ed uno invernale. La traduzione più frequente in italiano adotta il termine 'bosgnacchi', tuttavia, date le difficoltà nel descrivere una realtà controversa e ancora in cantiere come quella dei musulmani di Bosnia dopo la guerra, probabilmente adottare il vocabolo bosniaco preciso nel quale solo una parte di essi (sebbene diffusamente) si riconosce, evita di incorrere in rischi di fraintendimento circa l'effettiva appartenenza o meno a questo gruppo. 3 Basti pensare alla grande quantità di matrimoni misti durante il periodo iugoslavo. 4 Nonostante la nota avversione che il potere comunista nutriva nei confronti della religione, va detto che Izetbegovic, il quale durante il conflitto ebbe una sua buona parte di responsabilità, già in molte occasioni e in particolare nella sua 'Dichiarazione Islamica' (1970) prima della sua ascesa politica manifestò il desiderio, per altro consapevolmente utopico, di istituire uno stato islamico. Tuttavia bisogna ricordare che questi pur preoccupanti precedenti, non hanno successivamente mai trovato uno sfogo analogo all'interno dei programmi politici del suo partito, che anzi ha sovente promosso l'idea di una Bosnia-Erzegovina multietnica. 5 Cfr. Giulio Benedetti, Corriere della sera, 10 febbraio 2005, p.11. 6 Come vengono soprannominate le torri gemelle dell'UNIS, dal nome dei due protagonisti di un famoso testo umoristico. 7 In questo modo egli vuole fare riferimento al debito che il paesaggio, inteso come oggetto della scienza geografica, conserva nei confronti dell'arte e in particolare della pittura di paesaggio, che fiorì dapprima tra le opere dei fiamminghi e dei rinascimentali del Nord-Italia nel XV secolo, per poi diffondersi in Europa fino al XIX e all'avvento della fotografia. 8 È l'esempio della toponomastica: se nella Bibbia è scritto che "omne enim quod vocavit Adam animae viventis, ipsum est nomen eius" (Bibbia, Genesi, 2,19) cioè Dio, la Verità stessa, anziché occuparsene personalmente, ha lasciato che fosse un uomo, secondo la propria volontà e discrezione a dare un nome alle creature viventi, ebbene si potrebbe dire che, con il paesaggio, l'uomo abbia esteso il proprio potere di 'nominare' anche ai luoghi. 9 Dal gr. farmacon. La scrittura per Platone implicava la qualità negativa della riduzione di significato, tuttavia egli non rinunciò a conservare il proprio pensiero attraverso di essa, a differenza di Socrate, suo maestro, che non ha lasciato testi scritti e di cui molto sappiamo proprio grazie a Platone. 10 Come quando protestò per il fatto che a Norimberga tra i giudici vi fosse anche la Russia, che a suo avviso non riconosceva i diritti su cui il processo stesso era fondato, facendone nient'altro che un processo sui vinti da parte dei vincitori. 11 Come ad esempio Tarik Samarah, fotografo dei corpi di Srebrenica, sudanese che vive da anni a Sarajevo e collabora con giornali importanti, uno su tutti Dani. 12 La distinzione tra la parte di Sarajevo appartenente alla Federazione croato-musulmana e quella fetta che amministrativamente fa riferimento alla Republika Srpska è impercettibile a prima vista. Facendo attenzione è possibile notare tuttavia come in alcune vie, divise da un confine invisibile, i numeri civici siano colorati differentemente da un lato all'altro della strada per indicare la separazione. 2 27 Bibliografia Anderson, Benedict, Comunità immaginate, Manifesto Libri, Roma 1996 (ed. or. London-New York 1991). Arendt, Hannah, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1963. Benedetti, Giulio, Il giorno delle foibe. Ciampi: ricordi, non rancori, Corriere della sera, 10 febbraio 2005. Bibbia, Genesi, La Sacra Bibbia. testo latino della volgata, Editoriale Domus, Milano 1997. Clancy, Tim, Bosnia & Herzegovina, The Bradt Travel Guide, England 2004. Cosgrove, Danis, Realtà sociali e paesaggio simbolico, Unicopoli, Milano 1990. Fabietti, Ugo, Antropologia culturale: L'esperienza e l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1999. Fabietti, Ugo e Vincenzo Matera, Memorie e identità: Simboli e strategie del ricordo, Meltemi, Roma 1999. 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Cimitero musulmano di recente formazione dedicato alle vittime del conflitto balcanico Sarajevo, gennaio 2004 - foto di Fabio Vicini 28 Identità mobili tra emigrazione, immigrazione, accoglienza di Paolo Benini Il passaggio di persone da un posto all'altro del pianeta è probabilmente uno dei fenomeni più antichi della storia del genere umano. Il popolamento stesso del pianeta è avvenuto attraverso processi di nomadismo. La gran parte della storia umana è la storia di popolazioni non agricole, storia di cacciatori e raccoglitori e di grandi migrazioni. Alla luce delle problematiche attuali, le migrazioni sono diventate una questione "nazionale", vale a dire lette e governate secondo uno schema generale che identifica il processo come lo spostamento di persone da un paese di emigrazione a uno di immigrazione. Tema rilevante è diventato l'appartenenza a una nazione, linea di demarcazione fondamentale tra chi può considerasi cittadino di un paese a tutti gli effetti e chi risiede nello stesso, ma è vincolato da un permesso. In molti paesi, tra cui l'Italia, la presenza di stranieri ha aperto un processo di confronto-scontro con "stranieri" che, al di là delle risposte di discriminazione o accoglienza, svela aspetti importanti della nozione stessa d'identità individuale e collettiva. Menzionerò ora una seconda fonte di fragilità dell'identità: il confronto con l'altro avvertito come una minaccia. È un dato di fatto che l'altro, in quanto altro, viene percepito come un pericolo per la propria identità, per l'identità nostra, collettiva, come per l'identità mia, individuale. Possiamo stupircene, certo: dobbiamo ammettere, allora, che la nostra identità è fragile al punto da non poter sopportare, da non poter tollerare che altri abbiano dei modi diversi dai nostri di organizzare la propria vita, di comprendersi, d'iscrivere la loro propria identità nella trama del vivere insieme? È così. Sono appunto le umiliazioni, le ferite reali o immaginarie alla stima di sé, sotto i colpi dell'alterità mal tollerata, che conducono dall'accoglienza al rigetto, all'esclusione, il rapporto che il sé intrattiene con l'altro. (Ricoeur P., 2000b) dall'Albania. Nella seconda metà degli anni 90' la grande novità è costituita dai ricongiungimenti familiari. La popolazione femminile aumenta gradualmente; compare come soggetto "la famiglia immigrata". Sin dagli esordi del fenomeno migratorio, i Servizi e le istituzioni si ritrovano in una situazione "avanzata". Diversi bisogni come regolarizzare la propria permanenza, imparare la lingua, curarsi, avere una formazione, garantire la scolarizzazione ai figli, risolvere problemi socio-abitativi, etc., portano la maggior parte dei migranti a prendere contatto con un qualche tipo di Servizio o istituzione. Soprattutto il passaggio da un'immigrazione definita "da lavoro", cioè di soli lavoratori, a un'immigrazione di "popolamento", cioè di famiglie, ha reso meno "invisibile" la presenza dei migranti e ha notevolmente incrementato i contatti all'interno dei Servizi e delle Istituzioni. L'incremento oltre che quantitativo, è stato soprattutto qualitativo, nel senso che la presenza di gruppi familiari ha finito per svelare ciò che forse era prevedibile sin dall'arrivo dei primi migranti: se la funzione principale delle migrazioni è economica, cioè finalizzata alla ricerca di uno standard di vita garantito da un reddito, le persone che emigrano e immigrano non vivono di solo lavoro. Attualmente, una delle caratteristica del fenomeno migratorio in Emigrazione - immigrazione - accoglienza Nonostante la lunga tradizione dell'Italia in tema d'emigrazione (entro e fuori i confini nazionali), l'interesse o la preoccupazione per le diversità culturali non sarebbero stati neppure pensabili prima che, dagli anni '80, l'immigrazione da parte di persone d'altri paesi influenzasse la società italiana. Questo fenomeno relativamente recente, soprattutto rispetto ad altri paesi europei, ha avuto un'evoluzione propria, che è andata di pari passo all'evoluzione delle risposte d'accoglienza da parte di Servizi, istituzioni. Una presenza "visibile" di persone provenienti in gran parte dal nord e centro Africa, inizia negli anni '80. Sono in stragrande maggioranza uomini alla ricerca di un lavoro o impegnati nel piccolo commercio. Per tutto il decennio, le risposte collocano al centro il problema dell'"alfabetizzazione", vale a dire dell'apprendimento della lingua italiana, nell'ottica generale che pone la conoscenza della lingua come condizione di base per l'inserimento sociale (con particolare attenzione al mondo del lavoro). Nella prima metà degli anni '90 la questione che viene alla ribalta è quella della prima accoglienza. E' il periodo degli sbarchi in massa, la cui immagine forse più efficace è l'approdo, nei porti della Puglia, di navi stracolme di persone provenienti 29 Italia sembra essere la presenza e l'arrivo consistente di minori. Alcuni di loro sono affidati ad uno solo genitore, o a un parente (con una tutela giuridica quindi da definire). Nei Servizi, i bisogni degli adolescenti migranti hanno dato avvio a una riflessione sulle risposte riguardanti la fascia dell'età adolescenziale, a partire dalla necessità di gestire casi di disagio "nuovi", la cui difficoltà consiste, in generale, nel riconoscere e distinguere aspetti del disagio riconducibili alla dimensione culturale e aspetti più propriamente psicodiagnostici. La vulnerabilità psicologica (emotiva e cognitiva) degli adolescenti e, in generale, dei minori migranti è legata ai maggiori rischi, rispetto all'età adulta, di "scissioni" e conflitti tra il mondo culturale dei genitori e quindi della cultura di provenienza e il mondo esterno della scuola, dei pari, dei media, etc. Un'altra caratteristica attuale riguarda i flussi di immigrazione clandestina. In realtà è difficile chiarire se, negli ultimi anni, la novità sia effettivamente tale tipologia d'immigrazione o l'attenzione sociale e politica riservata a essa. Al centro delle risposte a tale fenomeno si colloca la questione della "sicurezza sociale", con accentuazioni e connotazioni diverse, che vanno dalla strenua difesa del proprio e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. L'immigrazione è un dato di fatto dei nostri tempi, è un fenomeno problematico, ma che porta con sé notevoli opportunità sul piano sociale economico e culturale, sia per i migranti sia per la società d'accoglienza. In termini di possibilità il patrimonio generato è consistente, anche se la convivenza genera diverse questioni, legate alla complessità sia dei fenomeni migratori, sia della società d'accoglienza. Le poste in gioco sono tante e non si limitano alla sfera delle relazioni sociali. Il fatto che nel mondo attualmente molte persone lascino un paese e si stabiliscano in un altro è anche un'importante questione politica, nel senso che mette in gioco la definizione di chi fa parte di un certo sistema sociale e chi ne è fuori, chi può entrare a farne parte e chi no (Dal Lago, 1998). Le trasformazioni accelerate del mondo contemporaneo e il problema scottante del disequilibrio d'opportunità e diritti richiedono sempre più una riflessione sulla questione dei rapporti con gli "altri". Una questione che, pur riguardando ovviamente l'intera dimensione dei rapporti sociali, è messa in risalto dalla migrazione, un aspetto della vita sociale contemporanea che genera rapporti con "altri", percepiti come "stranieri". E' del tutto ovvio che lo "straniero" susciti un minimo di diffidenza in chi si trova a abitare già un luogo e cioè nei cittadini del paese d'accoglienza, anche se questo può avvenire in ugual modo tra persone culturalmente affini, per esempio tra immigrati di lungo corso e neo-arrivati. Non è l'iniziale diffidenza che costituisce problema, bensì il rischio che essa subisca una "metamorfosi" verso forme di paura, chiusura, contrapposizione e discriminazione, o verso forme meno forti, ma comunque tendenti a suggerire il controllo e l'ordine sociale come unica possibilità di convivenza. Benché le ideologie basate sulla discriminazione sociale siano ormai considerate visioni culturalmente arretrate1, è lo stesso elevato il rischio di un loro ritorno sotto diverse spoglie. Un ritorno che può essere reso con l'idea di un irrigidimento dei confini tra uno "spazio domestico" e tutto ciò che, percepito come "altro", può minacciarlo (Escobar, 1997). La questione dell'"altro" è di una certa complessità. Un accenno alla ricerca antropologica (la scienza sociale che più di altre ha reso questa questione il suo principale oggetto intellettuale), può essere utile per chiarire questa molteplicità. Augé (1992) individua come carattere distintivo dell'antropologia, rispetto alle altre scienze sociali, l'interesse a trattare nello stesso tempo e in più sensi la questione dell'altro. «Essa tratta tutti gli altri: l'altro esotico, definito in rapporto a un "noi" che si suppone identico (noi Francesi, Europei, Occidentali); l'altro degli altri, cioè l'altro etnico o culturale che si definisce in rapporto a un insieme d'altri supposti identici, un "essi" il più delle volte riassunto con un nome di etnia; l'altro sociale, l'altro interno in riferimento al quale s'istituisce un sistema di differenze che comincia con la divisione dei sessi ma che definisce anche, in termini familiari, politici, economici, i posti rispettivi degli uni e degli altri, di modo che non è possibile parlare di una posizione nel sistema (maggiore, cadetto, minore fra due, principale, cliente, prigioniero…) senza riferirsi a un certo numero d'altri. L'altro intimo, infine, da non confondere con il precedente, che è presente nel cuore di tutti i sistemi di pensiero e la cui rappresentazione, universale, risponde al fatto che l'individualità assoluta è impensabile…. In alcuni sistemi studiati dall'etnologia, le rappresentazioni dell'alterità intima ne situano la necessità al centro stesso dell'individualità, impedendo così d'un sol tratto di dissociare la questione dell'identità collettiva da quella dell'identità individuale».(ivi, Pag. 22) Vorrei considerare la dimensione sociale e politica del rapporto con l'altro (un altro che è straniero e migrante), mentre in un precedente lavoro2 ho tentato un'analisi sulla dimensione "intima" del rapporto, quella relativa ai sistemi di significato sottostanti ai processi d'identità e relazione Fenomeno migratorio e immagini sociali Attualmente, il fenomeno delle migrazioni internazionali ha assunto una dimensione planetaria e riguarda numerosi paesi in qualità di luoghi di emigrazione, di immigrazione e di transito. L'O.I.M. (Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni) calcola che ci siano 185 milioni di migranti "volontari" o "forzati"; persone che assumono la residenza o che restano, per un periodo esteso nel tempo, in un altro paese. Gli scenari illustrati dall'O.I.M indicano l'Italia al quart'ultimo posto come paese di immigrazione tra i paesi dell'OCSE, ma con un trend di crescita tra i più alti. I migranti internazionali appartengono a due ampie categorie: volontari e forzati. La prima comprende le persone che si spostano all'estero per motivi di lavoro, di studio, per ricongiungimento familiare o per altre ragioni personali. La seconda è costituita da persone che lasciano il loro paese per 30 fuggire da persecuzioni, conflitti, repressioni, disastri naturali, degrado ecologico e da tutte le altre ragioni che costituiscono una minaccia per la loro vita, la loro libertà o il loro sostentamento. La suddivisione è concettuale e riguarda soprattutto i motivi della migrazione. Di fatto non esiste uno schema preciso di differenziazione, ma una moltitudine di situazioni che cambiano nel tempo. Per esempio, nel farsi dell'esperienza migratoria la distinzione tra volontari e forzati può sfumare o addirittura confondersi: un migrante volontario può vedere forzata la sua permanenza nel paese d'immigrazione per cambiamenti avvenuti nel suo paese, come un migrante forzato può trasformare una fuga obbligata in un volontario progetto di vita in un altro paese. Non solo le migrazioni hanno una diffusione mondiale, ma sono anche un fenomeno storico. Considerando gli ultimi due secoli, la storia italiana si presta come esempio. Dalla seconda metà dell'Ottocento ad oggi sono emigrati circa 28 milioni di italiani (Germania, Svizzera, Francia, Stati Uniti, Argentina, Libia, Tunisia sono alcune delle mete) e ancora oggi 4 milioni di essi vivono all'estero. Nonostante ciò, è solo dagli anni '80, con la trasformazione da paese di emigrazione a paese di immigrazione e di transito verso altri paesi europei, che il fenomeno migratorio si è progressivamente costituito come interessante oggetto di discorso. Di fatto, i discorsi insistono quasi esclusivamente su una sola delle due facce del fenomeno: l'immigrazione. L'altra faccia, costituita dall'emigrazione, rimane spesso nell'ombra anche se, nella struttura del fenomeno, è cronologicamente anteriore. E' facile riconoscere una sproporzione considerevole tra il linguaggio relativo ai due concetti complementari di immigrazione e emigrazione. Si parla prevalentemente di persone immigrate, di politiche sull'immigrazione, di servizi per immigrati etc., quasi a significare che l'interesse nei loro riguardi è motivato e si limita alla loro presenza sul nostro territorio nazionale e non si estende alle ragioni della loro emigrazione. A riguardo, Sayad (1999) esprime una diffidenza di fondo verso una certa sociologia, molto diffusa in ambito europeo, che sembra avere come principale finalità la conoscenza degli immigrati per poterli meglio gestire. Egli propende invece per una sociologia che s'interroghi sulla dimensione globale del fenomeno migratorio, che consideri le ragioni e i processi sottostanti alla scelta di certe persone di emigrare dal loro paese, in connessione ai meccanismi che rendono disponibili "posti" per loro in altri paesi. Se da un lato il meccanismo d'interesse che scaturisce dall'immigrazione più che dall'emigrazione appare ovvio, dall'altro cela una questione importante, che riguarda il paese d'accoglienza e i suoi abitanti più che i migranti: la loro presenza porta a costruire discorsi che sappiano tenere sotto controllo questa "singolarità". Analizzando l'emigrazione algerina verso la Francia, Sayad (1999) individua la problematica dell'ordine sociale e del suo mantenimento come traiettoria prevalentemente seguita dai discorsi politici e istituzionali sull'immigrazione, da parte della società francese. Nella parte del suo lavoro dedicata alla dimensione politica delle migrazioni, Sayad parla di un "pensiero di stato", cioè di una forma di pensiero che concepisce l'immigrazione secondo categorie fondamentalmente nazionali, atte a tenere sotto controllo la presenza di "corpi estranei" che possono turbare o mettere a rischio l'ordine sociale e politico. «Questo modo di pensare è contenuto interamente nella linea di demarcazione, invisibile o appena percettibile, ma dagli effetti considerevoli, che separa radicalmente i "nazionali" dai "non nazionali": cioè, da una parte, quelli che possiedono naturalmente o, come dicono i giuristi, che "hanno di stato" la nazionalità del paese (il loro paese), cioè dello stato di cui sono cittadini e del territorio su cui si esercita la sovranità di questo stato; e, dall'altra, quelli che non possiedono la nazionalità del paese in cui risiedono…Anche per tutte queste ragioni si può dire che pensare l'immigrazione significa pensare lo stato e che "lo stato pensa se stesso pensando l'immigrazione». (ivi, 1999, pag. 368) Ovviamente, non è possibile paragonare linearmente le due situazioni. Per ragioni storiche, politiche e culturali la questione della "nazionalità" in Francia si pone in modo diverso che in Italia. Ma potrebbe comunque essere che, anche nel nostro paese, discorsi prodotti a favore di una comprensione dei migranti, siano, in realtà, funzionali alla società d'immigrazione; in altre parole, possano rispondere alla necessità di gestire la presenza di persone utili alla struttura economico-produttiva, che però, nello stesso tempo, sembrano mettere in discussione l'ordine sociale. L'allarme suscitato nell'opinione pubblica dalla questione migratoria può essere visto come un riflesso di quest'ambiguità. Un allarme amplificato dall'opera dei media che, se da un lato pongono spesso l'accento sulla necessità della presenza degli immigrati per il mondo del lavoro, dall'altro evidenziano episodi di devianza e criminalità in cui essi sono coinvolti. La rappresentazione sociale suscitata considera il migrante come la personificazione di un bisogno economico, sempre però a rischio, reale o potenziale, di commettere reati. E' così che il senso comune prefigura i migranti come gruppo dannoso e colpevole prima ancora che facciano qualcosa (Dal Lago, 1999). In tempi recenti, la scia lasciata dagli atti terroristici a partire dall'abbattimento delle "Torri Gemelle" di New York ha reso acuta la tendenza a considerare la questione migratoria prevalentemente in termini di sicurezza, coltivando ancor più le premesse perché l'immagine dell'immigrato possa funzionare da "capro espiatorio" di tensioni sociali. Su un piano diverso, l'allarme suscitato dai processi migratori trova connessioni con l'idea di un "paradigma immunitario" quale forma centrale e regolativa dell'attuale biopolitica (Esposito R., 2002). Questo tipo di riflessione individua come strategie "immunitarie", per esempio, le campagne contro le malattie epidemiche, gli investimenti per i programmi informatici antivirus, il "controllo" dei flussi migratori. L'aspetto comune di queste strategie consiste nel proteggere il corpo (individuale, elettronico, sociale) dal rischio di un contatto che, nella fattispecie, potrebbe portare alla morte, bloccare il normale funzionamento o mettere in discussione un sistema di relazioni. 31 Un "corpo" che si preserva solo a condizione di difendersi dall'incognita del "contagio", cioè della messa in gioco di ciò che è custodito in un'identità certa. carattere di universalità dei "diritti civili", alla base del modello di convivenza democratica. Si può anche chiudere il discorso appellandosi a una sua legittimità, sulla base di un diverso status di cittadinanza, come dire che la questione dei diritti e delle possibilità si pone in modo diverso tra "noi" (cittadini del paese ospitante) e "loro" (immigrati). Un'operazione di questo tipo nasconde però, a mio parere, il rischio che questa diversificazione, alla lunga, possa compromettere l'esercizio stesso dei diritti da parte di tutti. Per quanto riguarda le "origini" di un'idea di alterità vissuta come possibile minaccia identitaria , mi affido ad alcune riflessioni. Il primo riferimento è agli studi filosofici di Ricoeur sull'identità e, soprattutto, sugli elementi che la rendono fragile e quindi da difendere. E' nota l'idea di Ricoeur (1990) secondo cui, nella cultura occidentale, i discorsi sull'identità sono ardui poiché quest'ultima è implicitamente collegata a due nozioni differenti. Una prima nozione d'identità che ha a che fare con ciò che non cambia. E' un modello d'identità che fa riferimento alla dimensione della persona immutabile nel tempo (Ricoeur cita, come esempio a riguardo, il codice genetico). Una seconda nozione d'identità che fa invece riferimento a ciò che ci permette di essere o sentirci quello che siamo nonostante tutti i cambiamenti (di desideri, inclinazioni, sentimenti, condizioni) che avvengono nella nostra esistenza. E' un idea d'identità che rende il tentativo di ricondurre la discontinuità del caso alla coerenza di una storia di vita. Questa dimensione dell'identità assomiglia a una promessa, nel senso della volontà di mantenere fede a un'idea di se stessi: manteniamo o cerchiamo di mantenere un'idea di chi siamo, nonostante tutti i cambiamenti, allo scopo di dare forma accettabile e vivibile alla nostra esistenza. Ricoeur denomina le due nozioni rispettivamente "identità idem" e "identità ipse".C'è quindi un rapporto con il tempo di invariabilità e un rapporto che ha a che fare con il divenire inesorabile a cui siamo esposti, un duplice rapporto che si traduce in quella che Ricoeur definisce "identità narrativa" , cioè la capacità, oscillando tra i due poli, di mantenere tracce del nostro passato, legarle a un'idea di futuro e ricomporre l'esperienza di vita mutevole di ognuno di noi nell'unità di senso di una storia. La connotazione "narrativa" dell'identità pone nel cuore della riflessione temi quali: la memoria, la storia, il senso, il racconto, che si ritrovano in tutta l'opera di Ricoeur, come in buona parte degli studi a carattere filosofico che hanno trattato il tema dell'identità (Arciero G., 2002), ma soprattutto abbina la questione dell'identità a quella del riconoscimento dell'altro. Nelle sue riflessioni sulla memoria (base dell'identità), Ricoeur (2000a) si muove costantemente tra il livello della memoria individuale e della memoria collettiva, argomentando un'indissolubile legame tra i due livelli. Così facendo riconosce un legame altrettanto stretto tra identità individuale e collettiva. Il tema della memoria e quindi dell'identità può essere posto in termini personali ma è arduo disconoscere come essa sia da sempre interrelata con la memoria e quindi l'identità degli altri. L'altro come minaccia Nei discorsi che tendono a evocare il pericolo rappresentato dalla presenza di stranieri l'altro non è negato, ma è definito esclusivamente in rapporto a se stessi collocati al centro. C'è l'idea di un interno e di un esterno, da cui scaturisce l'idea del cattivo e del nemico. E' utile sottolineare che questo "pensiero degli opposti" tende a creare il conflitto e tale conflitto alimenta e struttura un pensiero di questo tipo. Una spirale che porta a giustificare culturalmente la ricerca del dominio da parte del proprio gruppo, comunità, paese, adducendo a diversità incompatibili e a conflitti inevitabili I conflitti che riguardano il rapporto con stranieri sono forse inevitabili. Se da una parte (quella dei migranti) le difficoltà di inserimento e di concretizzazione di un'accettabile livello di vita sono all'ordine del giorno, dall'altra (quella degli "ospitanti") tale livello di vivibilità appare sempre meno scontato. In un tale contesto in cui, in generale, il benessere appare alla portata di tutti, ma spesso non risulta effettivamente raggiungibile, le singole persone, le famiglie, le comunità, non di rado entrano in conflitto, si chiudono e si contrappongono. La mia impressione però è che i conflitti con stranieri non abbiano un grado di inevitabilità maggiore di quello che si ritrova, per esempio, nei conflitti tra rivali politici, colleghi di lavoro, condomini, familiari, etc.. La differenza sta forse nel pregiudizio che, nel caso di rapporti con stranieri, i conflitti prima o poi ci saranno, date le diversità "culturali" in campo. Un'attesa che spesso funziona come aspettativa che si autoavvera. Analizzando i diversi conflitti "interculturali", partendo dai contesti specifici in cui essi si creano, più che da supposte diversità culturali, si scoprirebbe probabilmente che la maggior parte delle ragioni non sono molto diverse da quelle che contrappongono "non stranieri. In altre parole, è possibile che nel rapporto con "stranieri" i piccoli e grandi conflitti svelino significati che oltrepassano le ragioni specifiche del contendere, per slittare verso una dimensione che ha a che fare con la definizione di un "noi" (occidentali, comunitari, italiani, …) e di un "loro" (extracomunitari, islamici, africani….). Ci si potrebbe chiedere, a riguardo, se anche l'idea stessa di "multiculturalismo" non contenga in sé il rischio di questo slittamento: evocando la necessità di riconoscere le diverse culture, non si finisca invece per fissarle attraverso un pensiero che traccia nette differenze tra esse e crea quindi le premesse per una loro contrapposizione. L'interrogativo di fondo riguarda quindi la percezione dell'alterità come possibile minaccia della propria identità (individuale e collettiva): cosa genera e da cosa scaturisce tale percezione ? In generale, l'idea dell'altro come minaccia genera un pensiero che legittima un restringimento degli spazi sociali e di diritto. E' agevole riconoscere che qualsiasi differenziazione tra le parti (tra chi accoglie e chi migra) costituisce una contraddizione rispetto al 32 Le lenti proposte da Ricoeur rendono impossibile pensare all'identità come a un'entità sostanziale e immutevole, suggeriscono piuttosto un'idea d'identità che prende forma, in un movimento continuo, tra la dimensione costante di se stessi e il continuo fluire della propria esistenza, tra un'idea di sé e un'idea di collettività a cui si sente di appartenere. Questa complessa dinamica, che noi gestiamo facendo ricorso a costruzioni narrative, contiene implicitamente alcuni elementi forti di fragilità (Ricoeur, 2000b) Una prima fonte di fragilità consiste nel difficile rapporto con il tempo. E' agevole riconoscere che "mantenere una promessa", per restare fedeli a se stessi è spesso un'impresa difficile, che può spingere le persone ad ancorarsi a un'identità rigida immutabile, la stessa che si ritrova nei discorsi che sanciscono il suolo o l'appartenenza etnica come elemento cardine dell'identità. dell'identità comune. Un discorso che si pone al servizio di una "chiusura identitaria della comunità", che legittima l'idea di preservarla e difenderla da minacce esterne. L'ultima causa di fragilità a proposito d'identità è "l'eredità della violenza fondatrice" «Quelli che celebriamo a titolo di "avvenimenti fondatori", altro non sono - in ultima analisi - che atti violenti legittimati a cose fatte da uno Stato di diritto precario, e - al limite - dalla loro antichità». (Ricoeur, 2000b, par III) In questo caso l'idea cardine è che l'identità collettiva (di una comunità, un paese, una nazione) si basa su racconti di guerre, scontri, vittorie che, ovviamente, contemplano , tra i personaggi, amici e nemici. Ricoeur sostiene che, se al livello delle relazioni private ci sono ampi spazi di mediazione, al livello di Stati, lo schema amico-nemico ancora prevale. Questo equivale a dire che la memoria e quindi l'identità collettiva non rinuncia alla nozione di "nemico". Le guerre, ma soprattutto l'idea di legittimità all'omicidio del nemico che esse presuppongono, sono palesemente una testimonianza di questa oscura fragilità. Questi elementi di fragilità, contribuiscono a chiarire i motivi per cui lo "straniero" funziona, soprattutto a livello collettivo, come immagine del pericolo da cui difendersi. Il secondo riferimento è a studi antropologici. Il fuoco si sposta sul terreno delle "differenze". Analizzando la questione del senso sociale inteso come senso delle relazioni, Augé (1994) riconosce che esso si distribuisce su due assi. Sul primo (denominabile asse delle appartenenze o dell'identità) si definiscono le relazioni che un individuo ha all'interno delle collettività a cui partecipa, a cui sono legate diverse identità di classe (il termine è usato nel senso logico, cioè denomina l'appartenenza, per esempio, a un dato paese, a una comunità linguistica, a una famiglia…). Sul secondo (denominabile asse delle relazioni o dell'alterità) si definiscono le relazioni con altri individui al di fuori di queste collettività. Il primo asse mette in gioco principalmente le categorie di individuale/collettivo, mentre il secondo le categorie più astratte di medesimo/altro in chiave sia individuale, sia collettiva. Augé non considera l'alterità un elemento in gioco solo nelle relazioni riconducibili al secondo asse (è evidente, per esempio, che c'è dell'alterità anche tra persone della stessa famiglia), ma suggerisce che in esse l'alterità tende a essere rappresentata in chiave di "altro culturale" più che in chiave di "altro individuale". Questa prospettiva contribuisce a chiarire come mai nei rapporti con "stranieri" le diversità sono rappresentate prevalentemente in termini di "differenze culturali". Non si tratta di stabilire se queste differenze sono più o meno effettive e operanti, ma di riconoscere che esse tendono a oscurare rappresentazioni in chiave di "differenze individuali", generalmente in gioco nei rapporti interni alle proprie collettività. Un'ipotesi possibile è che indebolire la polarità medesimo/altro, riconoscendo all'altro "lontano" un'alterità simile a quella riconosciuta all'altro "vicino", costituisca una forte perturbazione per l'universo simbolico sottostante le relazioni di appartenenza e identità. «Dirò che la tentazione identitaria, la "follia identitaria", come dice Jacques Le Goff consiste nel ripiegarsi dell'identità-ipse sull'identità-idem, o se preferite, nello scivolamento, nella deriva dalla duttilità propria della capacità di restare fedeli a se stessi, mantenendo una promessa, alla rigidità inflessibile di un carattere, nel senso quasi tipografico del termine». (Ricoeur, 2000b, par. II) Penso che assumere, per esempio, l'appartenenza nazionale come elemento distintivo assoluto d'identità sveli questo elemento di fragilità. Una seconda fonte di fragilità è il difficile rapporto con l'altro, che genera difesa, rigetto, invidia, tutte reazioni, in un certo qual modo, comprensibili e paragonabili, sul piano biologico, alle difese immunitarie. Un aspetto assolutamente da considerare è, tuttavia, che il senso di minaccia rappresentato dall'altro arriva ad assumere un rilievo spropositato a livello collettivo. «Anche le collettività hanno un problema di difesa immunitaria, quasi biologica. È appunto a questo livello di grande dimensione che si lasciano leggere fenomeni che non hanno affatto equivalenti, sul piano personale, […] Si tratta di fenomeni di manipolazione che si possono attribuire a un fattore inquietante e multiforme che si frappone fra la rivendicazione identitaria e le espressioni pubbliche della memoria. Questo fenomeno ha un legame stretto con l'ideologia, il cui meccanismo resta volentieri dissimulato; a differenza dell'utopia, con la quale l'ideologia suole essere accoppiata, esso rimane inconfessabile; si maschera trasformandosi in denuncia contro gli avversari nella competizione fra le ideologie; è sempre l'altro che s'infogna nell'ideologia». (Ricoeur, 2000b, par II) Ciò che Ricoeur spiega è che l'ideologia e gli ideologi intervengono nel processo di identificazione di una collettività a livello narrativo, con strategie selettive di rievocazione o oblio che autorizzano alcuni elementi della storia e ne escludono altri, in funzione di un discorso chiuso, definito, che costruisce un insieme selezionato di elementi storici presentati come basi certe 33 E' implicito che in una visione rigida dell'alterità si tende a oggettivare una cultura nazionale o, su scala ingrandita, una cultura di un'area transnazionale, ma questo significa trascurare la complessità di reti sociali e posizioni individuali che non si lasciano mai completamente derivare dalla cultura definita. L'idea di una cultura unitaria e distinta, legata a una memoria di fondazione e a una delimitazione sociale del luogo rivendicato come proprio, appare una semplificazione che risponde all'esigenza di delineare una frontiera certa tra l'universo di identità (di posizioni riconosciute e relazioni interne istituite) e il mondo esterno, assimilato all'estraneità, che minaccia potenzialmente il proprio. Ci sono sicuramente altre riflessioni utili a districare il difficile tema dell'identità e della minaccia costituita dall'altro. Penso che gli studi citati siano però sufficienti per evidenziare il carattere di fragilità dei processi identitari. Paradossalmente, più tale fragilità si manifesta, più l'idea di un'identità forte s'impone, accompagnata dall'idea di difendere dalla minaccia esterna uno "spazio domestico", in cui sia agevole riconoscersi e riconoscere l'altro vicino. Penso che orientarsi verso lidi diversi da quello costituito da uno "spazio domestico" necessariamente da difendere, possa generare insicurezza e spaesamento, ma penso anche che tale rotta possa essere utile per crearsi contesti di maggiore vivibilità. Forse, azzardando un po', può essere utile anche per mantenersi liberi o disfarsi dai pensieri "silenziosi" che, nella storia dell'umanità, hanno sorretto pratiche ora considerate aberranti come il razzismo o la shoah. Non è la lontananza storica a metterci al riparo da queste e altre catastrofi, piuttosto l'interesse e il rispetto per ciò che "si fa presente" e appare "diverso", da sempre base per vantaggiosi cambiamenti. Uno sguardo storico rafforza l'idea che le "diversità", incontrandosi tra loro, alimentino processi evolutivi e creativi. Considerando, per esempio, la storia dei popoli europei (vedi Bocchi G. Ceruti M., 1994), nonostante i nazionalismi vecchi e nuovi, le istanze regionaliste e federaliste, la volontà dell'ultimo secolo di disegnare i confini nazionali su base etnica, si può riconoscere come le diversità (culturali, linguistiche, religiose, etc.), entrando in relazione, abbiano dato vita a unioni, divisioni, trasformazioni, intrecci che costituiscono la risorsa principale della vivacità stessa della civiltà europea. Una "cultura", un popolo che non attinge allo scambio reciproco può anche avere una certa egemonia per un periodo, ma è orientato verso la riproduzione di se stesso e quindi verso l'isolamento. in modo "incarnato", vale a dire trasferendosi là dove si pensa di poter trovare possibilità di vita migliore. In questo senso, la condizione di migrante è un'"anomalia", rispetto a un sistema economico e sociale che prevede lo spostamento piuttosto agevole di flussi finanziari e insediamenti produttivi in tutto il mondo, ma che non prevede con la stessa facilità lo spostamento di persone. Un sistema che cerca di governare (nel migliore dei casi) o contrastare la volontà di molte persone di migrare verso certi paesi, poiché la loro presenza in essi può costituire un problema. Analizzando la nozione di "luogo antropologico", cioè la "costruzione concreta e simbolica dello spazio" a cui, coloro che vi vivono, attribuiscono valore identitario, relazionale e storico, Augé (1992) ribalta i termini della questione. Se i migranti sono percepiti come potenziale minaccia non è dovuto tanto alla loro presenza, che susciterebbe la preoccupazione di difendere condizioni acquisite, valori territoriali e "identità", bensì soprattutto alla loro assenza dal luogo di origine. «Se gli immigrati allarmano tanto (spesso assai astrattamente) gli "indigeni" è forse innanzi tutto perché essi dimostrano la relatività delle certezze iscritte nel suolo. E' l'emigrato ciò che nel personaggio dell'immigrato li allarma e li affascina allo stesso tempo». (ivi, Pag. 109) Come dire che, se s'immagina un legame determinante tra luogo e identità culturale, allora la presenza di persone che hanno volontariamente rinunciato al loro luogo, appare una trasgressione minacciosa all'ordine simbolico dell'appartenenza. Volendo sintetizzare le due prospettive, si potrebbe dire che la presenza dei migranti, unita alla loro scelta di lasciare il posto di origine suscita timori poiché evoca, da una parte, la necessità di mettere in comune ciò che si è soliti considerare a propria esclusiva disposizione (le abitazioni, i posti di lavoro, i Servizi, gli spazi pubblici e sociali, i mezzi di trasporto, le strade, etc.); dall'altra, evoca la relatività di un senso di appartenenza che si esprime attraverso il linguaggio del luogo e delle radici. Se così fosse, il quadro dei rapporti sociali, in un contesto di migrazioni, assume connotati complessi, che vedono intrecciarsi una dimensione politica (la definizione di chi ha accesso a determinati luoghi e risorse e a quali condizioni) e una dimensione epistemologica rappresentata dall'incontro con persone "altre", nel duplice senso di persone culturalmente diverse e di persone disposte a vivere l'ignoto rappresentato dalla lontananza dal proprio luogo di origine. Il fenomeno migratorio appare, nello stesso tempo, uno scandalo (di una presenza che si rende visibile là dove non dovrebbe essere) e una testimonianza (di una possibilità di riscatto e di vita lontano dal proprio luogo). Indipendentemente dalle reazioni che suscita (senso di minaccia o curiosità) esso svolge un'importante "funzione specchio" (Palidda, 2002), può cioè rivelare contraddizioni, modelli organizzativi, riferimenti relazionali e aspetti culturali impliciti della società di "accoglienza". Il riconoscimento dell'utilità di questa funzione dipende dal Anomali viaggiatori La migrazione di milioni di persone dal proprio paese, con il conseguente loro inserimento nei diversi contesti (urbani, sociali, abitativi, di Servizio, …) di un altro paese, è una sorta di testimonianza delle disparità su scala mondiale e, contemporaneamente, di una possibilità di riscatto, che consiste nel farsi presente in un contesto sociale (quello d'immigrazione), allo scopo di poter condividere la creazione e l'utilizzo di risorse. Una testimonianza di una volontà di praticare la "globalizzazione" 34 pensiero che si vuole porre alla base dei rapporti tra paesi, culture, gruppi e persone. Una concezione etnocentrica delle relazioni esclude ovviamente l'utilità di autoconoscenza e di ricerca sugli impliciti che reggono le forme sociali di convivenza; mentre l'idea che per una società e per i suoi abitanti sia utile tenere aperta l'opportunità di modificarsi valorizza l'occasione offerta dall'incontro. Penso che l'incontro con persone "atipiche" per quanto riguarda il diritto di cittadinanza, la lingua, le abitudini di vita, i modi di esprimersi e posizionarsi nei contesti sociali, offra la possibilità e, in parte, "costringa" a riflettere anche su se stessi. L'incontro con questa "anomalia", sia che la si voglia controllare o annullare, sia che la si voglia conoscere e incontrare, mette fortemente in gioco la propria visione dell'altro e di se stessi e la visione sociale dei rapporti. Un coinvolgimento che, per chi vuole, crea le condizioni per una pratica riflessiva che riconosce l'identità e la relazione con l'altro come le due facce di un medesimo processo che mette a confronto ogni individualità e ogni collettività con l'immagine del mondo in cui vive. Note 1 Un recente dossier del "Correo de la UNESCO" (2001) illustra come il razzismo istituzionale, ultimo sostegno del mito dell'inferiorità congenita di alcune razze, è finito con l'apartheid. Attualmente il razzismo appare totalmente screditato, grazie a una serie di progressi compiuti dalla comunità internazionale, a partire dall'adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948. Nel contesto occidentale, sotto la pressione delle campagne antirazziste, il mito della superiorità razziale ha perso parte del suo potere, almeno quella forza che ha permesso di regolare rigidamente, in modo sbilanciato e per lungo tempo le relazioni tra gruppi, la forza che è stata, per esempio, necessaria per gestire la tratta dei neri o lo sterminio degli ebrei. 2 Vedi "Processi migratori e relazioni sociali. Uno sguardo su se stessi attraverso l'altro". Animazione sociale n.10 ottobre 2003. Bibliografia AA.VV. (2001) Racismo: un mal sin fronteras, in El Correo de la UNESCO settembre 2001. Arciero G. (2002) Studi e dialoghi sull'identità personale. Riflessioni sull'esperienza umana, Bollati Boringhieri, Torino. Augé M. (1992) Non-lieux, trad. dal Francese di Rolland D. Nonluoghi introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera 1993. Augé M. (1994) Le sens des autres. 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Sayad A. (1999) La double absence, tr. it. a cura di Palidda S. La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Cortina 2002. 35 I fenomeni migratori Metodo e prospettiva critica di Abdelmalek Sayad di Paolo Borghi agente estraneo de-politicizzato, a "malato immaginario"4. Alcuni etnografi direbbero che in fondo le migrazioni algerine in Francia (e i migranti algerini) di cui parla Sayad, sono il frutto di un suo approccio, di un suo punto di vista, di un testo in cui l'autore scrive ciò che ha interpretato di ciò che i suoi interlocutori gli hanno saputo e voluto dire. Sarebbe quindi una pura costruzione intellettuale, se volessimo portare fino ad un relativismo estremo l'approccio ermeneutico? Per capire la prospettiva di Sayad ci vengono in aiuto le sue stesse parole. Da un lato fa una critica esplicita ai discorsi ufficiali e dominanti della società interrogandosi sulla necessità di costruire una prospettiva scientifica: L'aspetto che richiama immediatamente l'attenzione nella lettura di “La doppia assenza”1 è la tensione etico-politica che pervade ogni pagina di quest'opera. Un'ostinata voglia di capire e di fare giustizia anche e prima di tutto rispetto a quelle scienze sociali che masticano, definiscono e consumano i propri oggetti di ricerca come fossero semplice carburante per la propria legittimazione, rispetto ad un certo tipo di scienza sociale in qualche modo organica e adattabile alle esigenze del potere e strumento indispensabile al suo esercizio. Dalla scelta di autoescludersi dai percorsi accademici, di non incasellarsi in qualcuna delle scuole di pensiero, allineate e non, scaturisce tutta l'originalità e la solitudine intellettuale dell'opera di Sayad. Efficace è il ritratto che ne fa Salvatore Palidda nell'introduzione all'edizione italiana: "[…] forse bisogna chiedersi perché si parla e in che modo si parla di questo soggetto, l'immigrato. Non è un paradosso affermare che l'immigrato, colui di cui si parla, è in realtà l'immigrato così com'è stato rappresentato e determinato, o come viene pensato e definito. Non esiste oggetto sociale più fortemente determinato dalla percezione che ne abbiamo, percezione che a sua volta determinata dalla definizione astratta a priori che ci siamo dati della popolazione degli immigrati come oggetto. Dato che il discorso sull'oggetto fa parte dell'oggetto di studio e richiede di essere considerato tale, bisogna rompere con la fenomenologia per trasformare in problema sociologico ciò che rappresentava solo un problema sociale, atto a provocare indignazione o scandalo ma non tale da originare uno studio scientifico"5. "La sua critica sia degli aspetti brutali sia di quelli paternalistici del colonialismo francese non si confonde mai con l'anticolonialismo sedicente marxista, né con quello dei terzomondisti allineati al "grande fratello" sovietico, né ancora con quello dei non-allineati poi finiti allo sbando o a destra. Lo spirito critico di Sayad assomiglia piuttosto a quello di Hannah Arendt: lui non poteva essere populista, non sarebbe mai stato l'"intellettuale organico" né dei Cabili, né dell'Algeria libera, tanto meno di un partito o di un'ideologia. Come un Foucault del colonialismo e delle migrazioni, tutta la sua opera si è sviluppata nella costante analisi critica dell'esercizio del potere e del modo in cui il potere stesso viene assorbito dai corpi e dalle menti, attraverso la sua interiorizzazione da parte dei dominanti"2. Dall'altro definisce le modalità di accesso alla sfera dei simboli e delle prospettive dei migranti attraverso un approccio etnografico: Di fronte alla complessità dell'approccio al fenomeno migratorio proposto da Sayad si può non essere d'accordo su alcuni aspetti del suo ragionamento, ma non si può fare a meno di riconoscerne la tenacia analitica che crea un persuasivo "effetto verità" difficile da confutare. Frutto delle ricerche di una vita, l'opera di Sayad travalica l'asfittico rigore metodologico che annulla l'elasticità indispensabile ad una profonda ed efficace analisi critica. Etnografia e sociologia si intrecciano: le lunghe interviste riportate nel testo sono "testimonianze esemplari"3 diventando così strumento per generalizzazioni autorevoli ed argomentate, i dati statistici sui flussi migratori, sulle rimesse degli immigrati, le condizioni storico-politiche che interagiscono con l'andamento dei progetti migratori invece contribuiscono a creare uno sguardo d'insieme sul fenomeno rendendone esplicita la complessità restituita a quei "corpi migranti" la cui esistenza viene ridotta dal sapere-potere dominante a semplice forza lavoro, a problema, ad "C'è qualcosa che può consentire e incoraggiare l'uso del discorso raccolto, raccolto senza dubbio in piena fiducia (cioè dimenticando la relazione da intervistato a intervistatore e, a tratti, la relazione simmetrica da intervistatore a intervistato. Questo 'oblio' è senza dubbio la condizione della fiducia ma anche in modo più certo, l'effetto dello stabilirsi della fiducia). Questo qualcosa è una specie di sollievo, perfino di gioia visibile benché effimera, che è seguita dal momento decisivo in cui le parole più dolorose, quelle più 'trattenute', sono state pronunciate. Come hanno confessato lo stesso intervistato e i suoi testimoni, è stato 'come un velo che si è sollevato'"6. La sociologia quindi, o meglio la socio-antropologia7 (prendendo a prestito la definizione di O. De Sardan), ha per Sayad una 36 funzione che travalica la scienza, ambito in cui egli stesso la colloca. Parlare di migranti e di emigrazione in un contesto in cui il discorso dominante riduce i migranti ad "immigrati", equivale ad una denuncia forte e greve di conseguenze oltre che a definire un nuovo ambito scientifico. Parlare di "emigrazione" equivale a una sorta di riscatto (postumo?) di una figura sociale che concentra su di sé gli effetti della violenza sociale che si manifesta nelle strutture oggettive entro cui si muovono l'individuo e le classi di individui con le loro soggettività. La scelta politica di parlare delle forme di esclusione, di riduzione e subordinazione dei migranti, delle "assenze" da loro vissute, determina la prospettiva adottata da Sayad e ad esse e alla sua autorevolezza fanno riferimento anche coloro che scelgono di studiare i migranti da altre prospettive. Ruba Salih8 ad esempio si concentra sulle problematiche legate alla gestione di una doppia identità del migrante che torna al paese d'origine, o Bruno Riccio che parla addirittura di una "doppia presenza" dei migranti9. Riuscire a valutare le conseguenze della prospettiva scelta da Sayad, nei suoi pregi e nei suoi limiti, è assai difficile o paradossalmente troppo facile. Quando si sceglie di non separare la dimensione politica da quella analitica si compie un gesto sovversivo che mette in discussione anche il ruolo della stessa "scienza" che parla degli altri, che li definisce. I detrattori di questa prospettiva si richiamano solitamente al rispetto della "scientificità" della ricerca, ma generalmente occultano dietro una pretesa obiettività le aspettative e le esigenze dei loro committenti che fanno politica ed utilizzano anche la "scienza" come strumento: invariabilmente prigioniero delle maglie della sua cultura d'origine. Una sociologia che invece si preoccupi di allargare il suo orizzonte d'indagine potrebbe far luce su molti aspetti per troppo tempo "dimenticati": "soltanto la ricostruzione integrale delle traiettorie degli emigrati può rivelare il sistema completo delle determinazioni che, avendo agito prima dell'emigrazione e avendo continuato ad agire in una forma modificata durante l'immigrazione, hanno condotto l'emigrato all'attuale punto conclusivo"11. In questa prospettiva quindi l'"immigrazione" diventa solo una fase di un percorso più ampio in cui si possono riconoscere variabili d'origine12 e variabili di conclusione13. Focalizzarsi sulle traiettorie dei migranti e sulle loro specificità significa eliminare quella che Sayad chiama "l'immagine stereotipata della noria"14, quell'immagine dell'immigrazione ridotta a flusso e riflusso di esseri umani sempre nuovi ed identici: contadini maschi che emigrano per un periodo limitato. Se quest'immagine corrisponde almeno in parte alla prima fase della migrazione algerina in Francia (fino al 1945 circa), la sua permanenza in forma di stereotipo risponde alle esigenze di più parti: al paese d'origine, al paese d'approdo, agli immigrati stessi, riproducendo l'idea di una emigrazione inoffensiva che non turba l'ordine: "Non l'ordine contadino della società d'origine, che per assicurare la propria salvaguardia e la propria riproduzione, è costretta a 'delegare' alcuni membri dell'emigrazione. Non l'ordine morale, politico e sociale del paese d'accoglienza, che può ricevere e utilizzare gli emigrati tanto facilmente e in numero tanto elevato da permettersi di trattarli come se non facessero altro che 'transitare'. Non l'ordine degli emigrati stessi che divisi tra due paesi, due universi sociali, due condizioni divergenti sotto ogni aspetto, si sforzano di mascherare e mascherarsi le contraddizioni della propria situazione, convincendosi del suo carattere 'provvisorio' quando essa ha una grande possibilità di diventare definitiva o di estendersi alla vita attiva"15. "[…] il modo più pernicioso di sovvertire l'immigrazione, assicurando il dominio più totale che può essere esercitato su di essa, è spoliticizzarla. Ora, il modo migliore di spoliticizzare un problema sociale è quello di tecnicizzarlo o di farlo rifluire totalmente nel campo della morale"10. Sarebbe troppo semplice quindi screditare la prospettiva di Sayad, tacciandola di eccessiva politicizzazione; è necessario accettare il suo sguardo, particolare e di parte, per poterlo leggere proficuamente ed eventualmente criticare. Tre sono le fasi dell'emigrazione algerina in Francia così come definite da Sayad. In questo percorso diacronico il migrante risulta diventare progressivamente espulso (o autoespulso) prima dalla società d'origine (fase di "decontadinizzazione" e di proletarizzazione) poi dalla stessa società francese, come risultato di una mancata assimilazione. Le tre "età" dell'emigrazione Una delle questioni di fondo su cui si concentra il discorso di Sayad riguarda la necessità di affrontare il fenomeno migratorio considerando anche le condizioni d'origine del migrante. Diversamente, la negazione di questa dimensione porta ad adottare un inevitabilmente sguardo etnocentrico. Il migrante algerino, oggetto, o meglio soggetto principe dell'opera di Sayad, viene ridotto dalla scienza sociale istituzionale ad "immigrante", cioè colui che acquisisce una sua (limitata) visibilità solo nel momento in cui arriva nella società di destinazione e viene "misurato", studiato, sezionato, classificato in base alle sue capacità di adattarsi alle norme e alle prassi di tale società. Risulta inevitabile che questo tipo di sguardo produca un sapere che gioca sulle manchevolezze e sulle incapacità dell'immigrato Prima fase: un'emigrazione "ordinata"16 Come si accennava poco sopra, la prima fase dell'emigrazione algerina scaturì dalla necessità di fornire alla società contadina, principale e quasi esclusivo contesto da cui ebbe inizio l'emigrazione, i mezzi per continuare a riprodursi. In questo ambito l'emigrazione assunse un significato ben preciso: scelta temporanea, limitata nel tempo, reversibile perché legata ai tempi 37 dettati dall'attività agricola, funzionale al perpetuarsi delle attività contadine e quindi della società contadina stessa. L'emigrante conservava quindi, agli occhi degli altri membri della società, un'immagine positiva in quanto soggetto deputato "socialmente" ad acquisire risorse indispensabili e proprio in virtù di questo compito fondamentale, veniva scelto fra gli uomini "di fiducia". Significativa a tale proposito è l'intervista ad un anziano riportata da Sayad: "Chi mandi al mercato per comperare e per vendere? Mandi qualcuno di cui ti fidi. Non ci mandi un bambino che può 'farsi prendere in giro', che si lascia sedurre fino all'inganno: lo fai accompagnare da qualcuno di cui sei certo. Non ci mandi neanche quello che rischia di abusare di te, perché ritornerà con le mani vuote […] La Francia è come il mercato, è un altro mercato, un grande mercato che dura più di una giornata…"17. In questa prima fase quindi frequenza e durata dell'emigrazione sono definiti dai ritmi e dalle esigenze della società d'origine e la reiterazione dell'emigrazione da parte dello stesso soggetto è comunque considerata come un atto unico: "Siamo come le pulci, non appena abbiamo riscaldato il nostro posto saltiamo via"18. L'individuo non compie una scelta egoistica, di rottura, anzi si trova nella situazione di poter contribuire alla sopravvivenza della sua comunità ed il periodo di lontananza è vissuto come una prova: il "contadino autentico" (bou-niya)19 deve dimostrare di riuscire a rimanere legato alla sua comunità, al thamourth20 (famiglia, gruppo agnatizio, villaggio, comunità nel suo insieme) continuando a pensare e ad agire come un vero contadino. Questa forma di resistenza, sostiene Sayad, si manifesta anche e soprattutto nella forte coesione della comunità dei migranti, proiettati verso il ritorno al proprio paese. L'esperienza dell'emigrazione-immigrazione è vissuta come l'elghorba21 (l'esilio) lontano dal kanoun22 (il focolare domestico) ed i suoi aspetti più problematici e contraddittori vengono giustificati collocandoli all'interno di un'attività provvisoria e "falsa" ma necessaria al sostentamento delle attività agricole, centrali per la comunità d'origine. Il ritorno del migrante quindi si configura come una "reintegrazione"23 che prevede nella sua ritualità la visita alla terra coltivata, al bestiame, alla comunità. Emigrare per poter acquistare bestiame o coltivare il terreno è una questione d'onore (nif24). Seconda fase: la decontadinizzazione Nel passaggio dalla prima alla seconda generazione di migranti si consuma, secondo Sayad, il processo di "decontadinizzazione": il progetto di migrazione cessa di essere inscritto in una strategia collettiva per diventare espressione dell'aspirazione ad un individualismo economico e sociale mutuato dalla società d'immigrazione: "Mentre il primo emigrato poteva continuare a pensare se stesso come contadino anche se non aveva la possibilità di comportarsi realmente da contadino, l'emigrato della 'generazione' successiva ha smesso di essere contadino nello spirito e nelle intenzioni, indipendentemente dall'emigrazione e spesso molto prima di essere emigrato"25. Un aspetto interessante che viene rilevato in corrispondenza di questo passaggio generazionale, collocabile intorno alla periodo successivo alla seconda guerra mondiale, è la progressiva diminuzione dell'età media della popolazione algerina immigrata in Francia, segno probabile di differenti progettualità insite nella migrazione. Gli anni '60 vedono una forte espansione della popolazione urbana nelle principali città algerine che diventano la prima tappa della migrazione verso la Francia. Contemporaneamente si diffonde una nuova forma di relazione tra i soggetti migranti e la loro comunità d'origine. Ora gli aiuti alla famiglia rimasta in Algeria si fanno più regolari (generalmente a cadenza mensile), le rimesse servono a "coprire bisogni identificabili e prevedibili"26 a differenza della fase precedente in cui il migrante raccoglieva l'intera somma di denaro da spedire in Algeria o addirittura lavorava per ripagare il debito contratto al suo arrivo in Francia, quella somma di denaro che veniva prontamente spedita alla famiglia e necessaria all'attività agricola. In questa fase il periodo di permanenza in Francia si allunga e soprattutto il rientro in Algeria viene calcolato in funzione dei ritmi dell'attività industriale. L'identità sociale del migrante si definisce sempre di più in funzione della sua condizione di immigrato-lavoratore anziché rispetto a quella di contadino-emigrato; anche in questo caso Sayad riporta delle interviste "esemplari" che raffigurano schiettamente l'immagine che gli emigranti hanno di loro stessi e sottolinea quanto complessa e carica di significazione possa essere la relazione fra chi è rimasto e chi se ne è andato, fra chi è rimasto e chi torna: "Se per caso l'emigrato 'in vacanza' accetta di partecipare ai lavori agricoli e ad altri atti di devozione contadina (vista alle terre, riti agrari), è a condizione che lo possa fare 'a modo suo', in quanto 'emigrato', cioè a suo piacimento (un po' per gioco e un po' per esibizione,) e secondo le 'abitudini francesi'"27. L'emigrato che ritorna per le vacanze è un "invitato a casa propria"28. Il testo di Sayad non si sofferma su ciò che potremmo chiamare "etnografia dei ritorni", tema toccato da Ruba Salih nel trattare le problematiche legate alla gestione di una doppia identità (quella della quotidianità nel paese di immigrazione e quella ostentata e attesa nel paese di provenienza) che le donne marocchine si trovano a gestire nel momento in cui tornano in Marocco per far visita ai familiari. Questi ed altri sono gli spazi dell'etnografia, spazi d'indagine che anche il testo di Sayad suggerisce. Terza fase: completamento della proletarizzazione E' questa la fase in cui si completa il distacco dalla comunità di origine iniziato già in precedenza con la decontadinizzazione e la 38 proletarizzazione dei migranti. Anche in questo frangente la rete degli emigrati costituisce un punto di riferimento indispensabile per risolvere le problematiche dei nuovi migranti e allo stesso tempo si configura come struttura di intermediazione con la società d'origine, mantenendo viva la necessità di alimentarne i legami e ricordando gli obblighi verso di essa: per i migranti di prima generazione ciò si traduce in un rinnovato ricordo e sacrificio in favore della terra e della comunità contadina, per quelli di seconda generazione in un più circoscritto obbligo verso la famiglia la cui struttura gerarchica risulta comunque cambiata rispetto al passato. Se nei decenni precedenti il linguaggio comune rimarcava gli obblighi dei figli verso i padri, ora nella retorica quotidiana vengono esplicitati anche gli obblighi dei genitori verso i figli, i primi diventano "assistiti", i secondi "protettori". La comunità dei migranti è per l'immigrato una sorta di "proiezione in Francia del 'grande paese' di cui è originario l'emigrato"29 mantenendo in vita quel senso di provvisorietà della condizione del migrante che occulta la più realistica condizione di migrante a vita. Lo stralcio di intervista riportata qui di seguito esprime efficacemente quale possa essere l'idea che l'emigrato ha di se stesso: tratti salienti, per altre migrazioni. Potrebbe essere interessante fare un confronto puntuale fra il modello proposto da Sayad ed i modelli di Böhning30 e di Castles e Miller31. Se il pregio di tali modelli è di costruire, attraverso un processo di astrazione, un percorso diacronico leggibile e coerente per un fenomeno così complesso e centrale, quale è quello della migrazione, lo stesso processo di astrazione lascia aperte molte questioni, in primo luogo la sua legittimità quando si dispiega in una forma totalizzante e onnicomprensiva. In un'ipotetica comparazione dei diversi modelli, si potrebbero rilevare molte incongruenze, anche limitandosi ad analizzarne i tratti salienti. L'esemplarità di cui parla Sayad a proposito della migrazione algerina in Francia va ricondotta non tanto ad una rappresentatività strumentale che legittimerebbe una sua applicazione a fenomeni migratori legati ad altri contesti sociali, politici ed economici, ma ad un'esemplarità rappresentativa della "condizione umana" del migrante. La forza di tale modello scaturisce sia dalla scelta coraggiosa di trattare il fenomeno migratorio come una questione anche politica, sia dando voce ai migranti stessi attraverso le interviste riportate nel testo che dedicando più attenzione alle condizioni sociali, economiche, politiche nella società d'origine. Molte sono le ragioni che spingono nella direzione di una socioetnografia delle migrazioni. "Migrazioni" al plurale perché il fenomeno è sempre più esteso, differenziato e rapido, socioetnografia perché all'analisi delle variabili macro sociali è necessario affiancare uno studio puntuale dei contesti locali in cui le comunità di migranti (se di comunità si può parlare) e la società che le accoglie (se è lecito parlare di un'unica società e soprattutto di "accoglienza") prendono forma. La dimensione etnografica della ricerca potrebbe inoltre essere indispensabile a scardinare alcune delle immagini modellizzanti della stessa ricerca sociologica. "L'emigrato è questo: è sempre avanti nel tempo: 'poi', 'in seguito' […] Uomini che hanno il diritto di essere a casa loro per un mese, è tutto qui, sono uomini un mese all'anno in vita loro, per tutto il tempo che resta non si sa quello che sono: un uomo non è questo, nella loro vita non c'è niente che sia degno di un uomo. […] Uomini ma uomini senza donne: le loro mogli sono senza mariti. Non sono vedove perché i mariti sono in vita. I loro figli sono senza padri, orfani mentre i padri sono in vita". Sayad insiste sull'eccezionalità dell'emigrazione algerina in Francia elevandola a modello significativo ed esplicativo, nei suoi 39 Note 1 Abdelmalek Sayad, “La doppia assenza”, Milano, Raffaello Cortina, 2002 Salvatore Palidda in “Introduzione all'edizione Italiana”, ibidem, pp. VII-VIII. 3 Vedi p.46, ibidem 4 Si veda in particolare il denso capitolo intitolato “La malattia, la sofferenza, il corpo”, ibidem, pp. 239-285 5 ibidem, p. 239 6 ibidem pp. 217-218 7 Faccio qui riferimento alla definizione di socio-antropologia che da J.P.O. De Sardan, definizione che credo si avvicini per molti aspetti alla prospettiva di Sayad, nonostante sia stata pensata nell'ambito dell'antropologia dello sviluppo e non per l'analisi dei fenomeni migratori: "J'entends par 'socio-anthropologie' l'étude empirique multidimensionelle de groupes sociaux contemporains et de leurs interactions , dans une perspective diachronique, et combinant l'analyse des pratiques et celle des représentations. La socio-anthropologie ainsi concue se distingue de la sociologie quantitativiste à base d'enquêtes lourdes par questionnaires comme de l'ethnologie patrimonialiste focalisée sur l'informateur privilégié […] La socio-anthropologie fusionne les traditions de la sociologie de terrain (École de Chicaco) et de l'anthropologie de terrain (ethnographie) pour tenter une analyse intensive et in situ des dynamiques de reproduction/transformation d'ensembles sociaux de nature diverses, prenant en compte les comportements des acteurs, comme les significations qu'ils accordent à leurs comportements". J.P.O De Sardan, Anthropologie et développement. Essai en socio-anthropologie du changement social, Paris, Karthala, 1995, p. 10. 8 Ruba Salih, “Shifting Meanings of "Home". Consumption and identity in Moroccan women's transnational practices between Italy and Morocco”. 9 Nell'ambito del ciclo di Seminari di Antropologia del Medio Oriente e del Mondo Musulmano (SAMOMU), Università di Milano Bicocca, aprile-maggio 2005 10 A. Sayad, op. cit. pp. 296-297 11 ibidem, p. 45 12 “Insieme di caratteristiche sociali, disposizioni e atteggiamenti socialmente determinati di cui gli emigrati erano già portatori prima dell'ingresso in Francia”, ibidem, p. 45 13 “differenze che separano gli immigrati nella stessa Francia”, ibidem, p. 46 14 Il termine noria in francese (ma anche in italiano e spagnolo) indica la macchina per portare verso l'alto acqua o materiali incoerenti (sabbia, cereali e sim.) costituita da una serie di secchie fissate a una catena senza fine che scorre tra due tamburi rotanti posti uno in alto e uno in basso. In spagnolo lo stesso termine significa anche “ruota panoramica”. L'immagine evocata, forse involontariamente, risulta pertanto efficace nell'indicare un'immigrazione fissata una volta per tutte in uno stereotipo/punto di vista che la rende rassicurante socialmente, controllabile emotivamente, identica a se stessa nel tempo, priva di spessore degno di essere indagato più a fondo, come una ruota panoramica che gira all'infinito su se stessa rimanendo fissa nella stesso punto. 15 ibidem, p. 47 16 Ovvero regolata e controllata dalla comunità d'origine, beneficiaria principale del lavoro dei migranti. Ibidem, p. 53 17 ibidem, pp. 49-50 18 ibidem, p. 51 19 ibidem, p. 51 20 ibidem, p. 51 21 ibidem, p. 52 22 ibidem, p. 52 23 ibidem, p. 53 24 ibidem, p. 53 25 ibidem, p. 57 26 ibidem, p. 61 27 ibidem, p. 71 28 ibidem, p. 71 29 ibidem, p. 81 30 Propone un modello suddiviso in quattro fasi: - la prima è caratterizzata da grandi tassi di mobilità e da un'elevata partecipazione al mercato del lavoro. I gruppi di migranti in arrivo sono di dimensioni ridotte, provengono dalle zone più industrializzate del paese d'origine e sono composti prevalentemente da maschi, giovani, celibi. La loro permanenza è di breve durata. - Nella seconda fase cresce l'età media mentre la distribuzione di genere resta costante. Si allarga il bacino di reclutamento dei nuovi 2 40 migranti e rimane alto il tasso di attività lavorativa, la durata del soggiorno tende ad aumentare. - La terza fase è caratterizzata dalla stabilizzazione della popolazione immigrata: aumenta la popolazione femminile, si sviluppano i ricongiungimenti familiari, diminuisce il tasso di attività lavorativa in funzione di un incremento della popolazione in età minorile. Diminuisce il tasso di qualificazione dei migranti in virtù di una maggior facilità a migrare grazie alle reti sociali di supporto e alla tradizione migratoria che si consolida. - L'immigrazione si consolida e si radica sul territorio. Si allunga la permanenza, aumentano i ricongiungimenti familiari, sorgono “istituzioni etniche” (scuole, negozi, associazioni, centri religiosi) e si sviluppa l'imprenditoria. W.R. Böhning, “Studies in international labour migration”, London, ILO-Mac-Millan, 1984. 31 Simile al modello di Böhning, dedica più attenzione all'azione delle reti sociali e alle di inclusione ed esclusione messe in atto dalla società di immigrazione. - Prima fase le migrazioni sono temporanee e caratterizzate da un forte orientamento verso il luogo d'origine. - Seconda fase: prolungamento del soggiorno e sviluppo delle reti sociali sulla base della parentela e sulla provenienza geografica. - Terza fase: incremento dei ricongiungimenti familiari e sviluppo di comunità etniche con proprie istituzioni (negozi, servizi, etc.) - Quarta fase: insediamento permanente, consolidamento dello status legale (eventualmente legato all'acquisizione della cittadinanza), permanenza della marginalizzazione socio-economica. S. Castles e M.J. Miller, “The age of Migration: International Population Movements in the modern World”, New York, Guilford Press, 1993. Bibliografia - AA.VV., Tra due rive, la nuova immigrazione a Milano, Milano, Franco Angeli, 1994 - Ambrosini, Maurizio, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005 - Dal Lago Alessandro, I nostri riti quotidiani, Genova, Costa & Nolan, 1995 - Delle Donne, Marcella (a cura di), Relazioni etniche, stereotipi e pregiudizi, Roma, 1998 - Salih Ruba, Shifting Meanings of "Home". Consumption and identity in Moroccan women's transnational practices between Italy and Morocco - Sayad, Abdelmalek, La doppia assenza, Milano, Raffaello Cortina, 2002 Emeka Okereke (1980 - ), fotografo nigeriano, è membro di Depth of Field, circolo artistico di giovani fotografi della capitale nigeriana. Attualmente vive e lavora a Lagos. Emeka Okereke, Sans Titre, Banlieue di Parigi. (http://tirage-photo.typepad.com/photonumerique_/2005/11/banlieues_des_m.html) 41 dossier Università e sapere Eppure, anche con gli occhi bendati, io ti parlerò. Sebbene tu sia luce, prorompi dalle tenebre, ma io sono tenebre che prorompono dalla luce, che prorompono da te! (H. Melville, Moby Dick) ’intenzione che ha sostenuto il disegno editoriale di Achab è sempre stata quella di costituire un forum liberato dai vincoli accademici e biografici, dagli steccati disciplinari: il tentativo di aprire uno spazio inedito per l'antropologia. Per questa ragione, ad esempio, abbiamo evitato di sottolineare la posizione accademica degli autori che hanno pubblicato i loro articoli, così come, l'anno scorso, abbiamo deciso di togliere la dicitura "studentesca" dal sottotitolo della rivista. Cancellare quel sottotitolo che indicava un'identità troppo essenzializzata ci era parso un modo per affermare la singolarità del nostro progetto. Prendendo ora a prestito la terminologia di Foucault, potremmo parlare di un tentativo, seppur in-esperto, di realizzare un'eterotopia: un contro-luogo, un'utopia che si realizza in un luogo reale e in cui questo stesso reale è rappresentato ma anche contestato e sovvertito. Del resto, una rivista i cui promotori fanno propria l'idea che l'antropologia sia un sapere critico, tanto della società cui appartiene quanto di se stessa, non poteva che essere un luogo altro, un'etero-topia, appunto. Ma se Achab è un contro-luogo, qual è il luogo a cui si oppone, da cui si staglia e che ne delimita, di riflesso, i contorni? Achab è forse pensabile come uno dei margini che fioriscono dalla superficie dell'istituzione che ne permette l'esistenza, dal luogo del contro-luogo-Achab: l'Università. Il rapporto non è semplicemente di complementarietà come le risposte non sono indissolubilmente legate ad una domanda o le possibili enunciazioni ai loro corrispettivi enunciati. Achab nasce dall'iniziativa di un gruppo di studenti universitari e non è dunque estranea al suo luogo. Come il caquetoir certiano, anche Achab è un luogo di chiacchiera; germinare di tentativi e di tensioni che cercano di tradurre un desiderio, e che creano eventi dialogici in cui convergono gli affetti e le emozioni di chi vi si sofferma. Si tratta di "stratagemmi", di "sabotaggi" con cui rifare o disfare i giochi istituiti da altri, "un'arte di mettere a segno dei colpi, un piacere nell'aggirare le regole" (de Certeau, L'invenzione del quotidiano). Destrezza che però, esercitandosi nei labirinti del potere, corre sempre il rischio di ricadere, come il boomerang, su coloro che la agiscono, conquistati dal fascino irresistibile di una volontà di potenza. Ogni impegno che si organizza e occupa uno spazio discorsivo, nel fare ciò manifesta anche un potere, grande o piccolo che sia, potere di includere o di escludere, potere che quindi inevitabilmente si carica degli interessi contingenti di chi può esercitarlo. Dedicare questo numero all'Università, accogliendo la proposta di Paola Di Cori di aprire un dibattito - a partire dal testo di Michel de Certaeu, Che cos'è un seminario? - significa infine riaffermare che il politico è parte dei discorsi di Achab, sottolineando così la sua inquietudine militante più radicale, e la riflessività che tale impegno comporta. L la Redazione 'idea di mettere in circolazione le pagine di Michel de Certeau su Che cos'è un seminario? aveva come scopo quello di suscitare qualche reazione invitando un certo numero di abitanti di quel mondo stralunato che è diventata l'università italiana, a collocarsi a una certa distanza dalla valanga di avvertenze, istruzioni e critiche più o meno condivisibili, che da anni si sono abbattute sulla riforma e sugli assai poco lusinghieri risultati ottenuti finora. Considero salutare, per quanto è possibile, provare una sana ripugnanza di fronte ai programmi insensati, alla modulistica invasiva e al diffondersi di nomenclature bancarie che costituiscono la quotidianità del lavoro accademico, per abbandonarsi - forse con un pizzico di ribellismo infantile - alla tentazione di resistere… giocando con idee e comportamenti 'impropri' rispetto a quegli altri; e ancor più importante mi sembra il compito di costruire degli spazi dove possa muoversi con qualche agio chi ha scelto nella vita un'occupazione intellettuale, chi prova il sollievo liberatorio di dire, scrivere, fare qualcosa che piace veramente (Non sarebbe poi questo lo scopo del nostro lavoro? Non è forse vero che in questa università siamo infelici perché capiamo di stare istupidendoci a lavorare da stupidi, circondati da immense distese di stupidità ministeriale, poiché L 42 capiamo di contribuire solo a riprodurre altri stupidi più giovani ?) La varietà di toni e di temi che caratterizzano gli articoli pubblicati qui di seguito è senz'altro un risultato incoraggiante, oltre a riflettere la straordinaria capacità di Certeau di ravvivare consuetudini e atmosfere letargiche, indicando direzioni di lavoro insospettate e forse ancora possibili, finanche in condizioni che francamente è difficile considerare con benevolenza. Vorrei quindi esprimere il mio profondo ringraziamento alla redazione di "Achab" che ha accolto l'invito e a tutte/i coloro che con tanta generosità hanno voluto contribuire al gioco di resistenza commentando esperienze o abbandonandosi a estemporanee riflessioni di svariata natura. E' di buon auspicio il fatto che accanto allo spirito critico e autocritico che caratterizza alcuni tra questi scritti, ve ne siano altri nei quali compare piacevolissimo il gusto divertito di chi finalmente si concede di sogghignare in libertà. Certeau è mancato nel gennaio 1986, e questa pubblicazione vuole anche essere un omaggio e un ricordo a vent'anni dalla morte. Ci piace immaginare che l'animatore di tanti memorabili seminari avrebbe gradito il tono alquanto informale della iniziativa. Paola Di Cori Introduzione Un seminario... è come un vocabolario fatto di parole senza definizioni1 di Paola Di Cori diversa6. Essendo nato nel 1925, Certeau ha 43 anni nel '68, e sebbene profondamente segnato dagli eventi del maggio, sarebbe un errore pensare che la sua formazione fino a quella data sia stata all'improvviso abbandonata o messa da parte, o che i lavori successivi non portino le tracce di un lunghissimo e impegnativo apprendistato religioso, teologico, filologico, storico. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1950, aveva preso i voti nel 1963; e pur usufruendo di un'amplissima libertà di movimenti e di scrittura, sarebbe rimasto legato all'istituzione gesuitica fino alla morte, avvenuta nel 1986. Ma intanto segue fin dall'inizio i seminari di Lacan e nel 1964 fa parte integrante, insieme ad altri sacerdoti cattolici, della fondazione dell'École freudienne. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta collabora alla rivista "Christus"; si laurea con una tesi su Pierre Favre, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola, e si concentra sulla storia dell'ordine cui appartiene. Pubblica il Mémorial di Fabre7; si dedica alla cura della Guida spirituale e della monumentale corrispondenza di Jean-Joseph Surin, un gesuita del XVII secolo, la cui opera si rivela uno strumento fondamentale per approfondire la mistica cristiana tra il XIV° e il XVII° secolo, di cui diventa uno dei massimi specialisti8. Sarà proprio attraverso lo studio appassionato degli scritti di Surin (mistico, folle melanconico per molti anni, autorità spirituale protagonista della lotta contro le 'diavolerie' di Loudun), oltre alle letture dei grandi mistici spagnoli, tedeschi e fiamminghi, che Certeau raffinerà le proprie conoscenze di retorica e semiotica. Di queste farà ampio uando Certeau accetta di intervenire in una rivista di studenti di antropologia parigini su cosa sia un seminario, e il suo contributo viene ripubblicato l'anno successivo come articolo su "Esprit", siamo nel 19772. Quasi un decennio è ormai trascorso dal maggio '68 che lui stesso aveva immediatamente definito come un momento in cui si era verificata la "presa di parola" così infatti si intitola il volumetto dove sono raccolte pagine scritte quasi di getto all'indomani di quel mese portentoso3. Per sottolineare il concetto con una forza ancora maggiore, il 2° capitolo ha un incipit divenuto molto famoso, dove viene stabilita una immediata corrispondenza con l'ormai lontana presa della Bastiglia4: la parola, inaccessibile come una prigione circondata da altissimi bastioni, è stata finalmente espugnata. Il libro riconsidera la portata degli eventi che avevano caratterizzato il maggio - l'occupazione delle università, le assemblee, gli scioperi in ogni settore della vita pubblica, gli scontri per le strade con la polizia, le sperimentazioni ardite in ogni campo della vita artistica, lavorativa, educativa e privata all'interno di una serie di rivoluzioni di tipo simbolico e linguistico. Certeau non si limita al commento politico e alla mera considerazione intorno a specifici fatti accaduti, ma è immediatamente attratto dalle profonde trasformazioni che ha potuto constatare nell'uso del linguaggio: sono cambiati i modi di usare le aule, le strade, le fabbriche e i teatri; ma sono cambiate soprattutto le parole e la loro utilizzazione5. Il linguaggio è ormai un'altra cosa da ciò che era prima che si producesse l'esplosione che ha travolto le vite di tutti; dopo il maggio, si parla in maniera Q 43 uso nell'analisi di glossolalie e di forme del linguaggio visionarie e 'anomali' - quello delle orsoline possedute dal diavolo, di San Juan de la Cruz, di malati mentali come il presidente Schreber, del patois parlato ai tempi della rivoluzione9. Il primo lavoro pubblicato fuori dal circuito gesuitico è lo studio dell'episodio di possessione che si verificò agli inizi del '600 nel convento di Loudun, già molto noto e reso popolare nel dopoguerra da un testo di Aldous Huxley del 1952, da due film (di Kawalerowicz e di Ken Russell, rispettivamente del 1961 e 1970), da un'opera di Penderecki del '6910; seguirono poi i saggi di metodologia della ricerca storica11; il volume iniziale della Fabula mistica12, la prima parte della grande ricerca su L'invenzione del quotidiano13, che tanta importanza avrebbe avuto nello sviluppo degli studi culturali nel mondo anglofono; e poi alcune notevoli raccolte, due delle quali furono pubblicate in inglese e in italiano - quest'ultima dopo la sua scomparsa14. Instancabile nel mostrare, con innumerevoli esempi messi a disposizione dalla sua sconfinata erudizione, la capacità della lingua di farsi veicolo potenziale di significati inusuali o ancora da scoprire, in tutti questi testi ad emergere è la straordinaria plasticità del linguaggio - di cui Certeau sottolinea la natura duttile, assorbente, porosa, sempre aperta ad accogliere nuove sfumature di senso. Leggeva di prima mano i testi degli amati mistici nelle lingue originali, e ne parlava diverse; nei suoi viaggi di insegnamento e di studio negli Stati Uniti, nell'America Latina, in Italia, era diventato sensibile alle tante sfumature e intonazioni dialettali dei paesi in cui soggiornava. Sono note le difficoltà che presenta la scrittura certiana; gli effetti talvolta perfino vertiginosi che suscita anche solo un breve commento (si pensi ai densi paragrafi dei saggi raccolti in Il parlare angelico15, alla Fabula mistica, o al testo abbagliante scritto in punto di morte intitolata Extase blanche16): la prosa di Certeau produce effetti di profondo disorientamento, quasi fosse un tentativo di comunicare in forma scritta quanto l'autore stesso ha provato di fronte alla lettura di Böhme, Silesius o Teresa d'Avila. L'analisi in dettaglio delle figure retoriche che per anni ha accompagnato la lettura dei carteggi di Surin, dei poemi di Juan de la Cruz, delle visioni di Hadewijch di Anversa ha contribuito a modellare uno stile prosastico assai particolare; la lingua dei mistici è stata assimilata da Certeau al punto che ha finito per entrare a far parte integrante di una forma mentis e di una scrittura che anziché al medioevo o all'età barocca appartengono al secolo XX°, e avrebbero segnato in maniera inconfondibile l'opera dello studioso per tutta la vita. Alcuni testi sembrano riguardare oggetti ed esperienze ampiamente conosciuti, o a prima vista assai comuni (fare storia, i viaggi in Brasile alla fine del '500, camminare in città); ma bastano poche righe per accorgersi che si tratta di tutt'altro. Fin dai primi paragrafi è necessario rileggere quasi subito quanto si è appena letto per paura di non averne compreso bene il significato. Eravamo convinti di andare in una certa direzione e invece ci siamo perduti; non siamo più dove credevamo di essere, e al posto di un panorama ritenuto familiare stiamo guardando un paesaggio sconosciuto, qualcosa che sembra stagliarsi davanti ai nostri occhi per la prima volta. E' ciò che accade anche con Che cos'è un seminario?. Dopo averle lette è difficile entrare in un'aula universitaria senza pensare a queste pagine che sceglievano una situazione in apparenza banale, comune a tanti studenti e insegnanti, e la dispiegavano davanti ai nostri occhi, come fosse un rotolo di fogli continui, sistemati l'uno sull'altro, che inavvertitamente avevamo scambiato per un piccolo libro; e invece ecco a un certo punto qualcuno sollevare la parte superiore del rotolo e cominciare a squadernarlo in tutta la sua estensione. Prima di leggere non avevamo pensato in quella maniera su quasi nessuno dei punti sollevati da Certeau; dopo la lettura, ci rendiamo subito conto che il nostro orizzonte si è allargato a dismisura e anche se prima non avevamo neanche percepito l'ampiezza dei problemi in gioco, ora questi ci sembrano riconoscibili, addirittura familiari; o per meglio dire, connotati da una 'perturbante' familiarità, come si conviene a chi ha una assidua frequentazione con i testi freudiani. I dettagli continuano tuttavia a sfuggirci e siamo costretti a rileggere più volte il testo perché non riusciamo a ricordarne i diversi passaggi; (e noi che credevamo di averlo finalmente assimilato e capito già dalla seconda lettura…). Ma il risultato è simile a quel che si prova con un racconto di Borges, il quale affascina anche per l'impossibilità di ricordare in forma ordinata le sequenze dell'argomentazione, che si allineano con implacabile e irreale precisione come su uno schermo dove a mano a mano che le leggiamo tendono a cancellarsi. Il fatto è che si tratta di una prosa dominata dal gioco delle opposizioni. I contrasti tra visibile e invisibile, tra luce e ombra, tra una cosa e il suo rovescio, si riversano sulla pagina attraverso un incessante susseguirsi di ossimori, metalepsi, chiasmi, paradossismi, antitesi, metafore. Le citazioni in questo senso si moltiplicano nella scrittura certiana: da Hadewijch di Anversa ("la presenza dell'assenza", il "lontano-vicino"; "ebbra di un vino che non ha bevuto"); da Juan de la Cruz ("la musica silenziosa", l'"insensatezza gloriosa", la "follia celestiale"); da Ruysbroeck (il "concerto silenzioso"); da Teresa d'Avila (il "felice naufragio"). Le parole che Certeau scrive per commentare tali espressioni subiscono un contagio, l'intera pagina ne rimane imbevuta. Tra l'enunciazione mistica e la lingua comune si verifica un incessante travaso e passaggio; immagini e formule derivate dall'esperienza estatica e religiosa irrompono nel mondo esterno a queste, impregnandolo di sé; e anche le coordinate spazio-temporali non rispettano più le gerarchie tradizionali. Si cammina senza meta per le strade di New York alla fine degli anni '70 come ci si abbandona a un errare smarrito per i corridoi di un convento spagnolo del '500. Le tante pagine sull'esperienza mistica sono scritte negli stessi mesi e anni di quelle dedicate al patois nel XVIII° secolo, a Jules Verne o a Freud. Si sta ragionando di storiografia, ma è come se le immagini dominanti fossero quelle utilizzate dai mistici, la cui peculiarità è sempre quella di esprimere di non sapere: "Entréme donde no supe,/y quédeme no sabiendo…Este saber no sabiendo", scrive Juan de la Cruz; no 44 sabe, no se que, aggiunge Teresa d'Avila. Nello scrivere di storia, del '68, o delle pratiche di lettura nella società contemporanea, si affrontano tutti questi temi e altri ancora, come con l'intenzione di comunicare lo stupore di chi si sta inoltrando per la prima volta in un terreno ignoto; guarda qualcosa che credeva di conoscere, e si rende conto di stare considerandola con altri occhi; la scrittura serve da guida al lettore nelle operazioni da fare, diverse da prima, e indica come procedere - quasi si stessero seguendo i passaggi degli Esercizi spirituali ignaziani, che Certeau descrive infatti nel modo seguente: certiana tra lavori che non riguardano l'esperienza mistica (quelli che hanno determinato la fortuna di Certeau fuori da ambiti propriamente religiosi) e quelli che invece la pongono al centro dell'attenzione. Questi saggi, che accompagnano la lunga elaborazione della Fabula mistica, pubblicata due anni dopo la prima parte dell'Invenzione del quotidiano, non solo sottolineano quanto fosse intensa e profonda da parte di Certeau la conoscenza, fino all'assimilazione, dell'universo mistico, ma consente di chiarire alcuni termini chiave per rintracciare l'esistenza di un sotto-testo presente nelle pagine sul seminario. In particolare là dove il saggio affronta le questioni di proprio e improprio, di ordinario e di eccezionale, di luogo e non-luogo - vale a dire le nozioni centrali del mondo mistico. Come osserva Certeau, anziché riguardare esperienze eccezionali o straordinarie, ciò che la mistica cerca di fare è di rovesciare la distinzione tra normale e anormale. Il mistico esiste in uno stato di perenne a-topia, vive 'perdendosi' incessantemente; non sente mai di trovarsi in un luogo specifico, perché il proprio corpo ne attraversa molti passando dall'uno all'altro in un processo continuo di spossessamento, nè riconosce dimore definitive. Riprendendo da India Song le parole di Marguerite Duras sulla mendicante che si avvia verso il Gange "dove ha trovato come perdersi", Certeau scrive che "la letteratura mistica offre percorsi a chi 'domanda un'indicazione per perdersi' (…) In essa si impara 'come non tornare indietro'."20 Sentirsi in un corpo posseduto, ragiona Certeau fedele agli insegnamenti lacaniani, vuol dire percepirsi sempre come altro, che cerca ciò che eccede e fa diventare altro: "Non c'è in nessun luogo adeguazione del Soggetto e del Reale: questo è in definitiva il principio (la "fede") sul quale si fonda il discorso (e cioè la nonidentità a sé) del "credente" mistico."21 Ma non è forse questo anche il principio che guida l'odierna consapevolezza sulla soggettività in epoca contemporanea? Non è forse vero che perdersi è diventata la condizione comune in un mondo di nonluoghi?22 Nei suoi scritti e nella sua attività instancabile di viaggiatore curioso, di studioso e docente, Certeau ci invita a un doppio movimento, cui in genere non siamo abituati. A cercare il normale nell'anomalo e l'eccezionalità in ciò che è comune; in poche parole: a dissolvere la divisione tra proprio e non proprio. Siamo infatti interpellati a guardarci intorno per vedere cosa c'è là dove in apparenza non sembrerebbe esserci nulla di insolito, di nuovo, di inconsueto. Ciò che si presenta come comune e ordinario ripete instancabilmente un saggio dietro l'altro fino alla messa a punto de L'invenzione del quotidiano - non lo è affatto. Non c'è passività, ottusa ricezione, docile acquiescenza, nei passanti che camminano per le strade, in coloro che guardano la televisione, in chi legge un romanzo popolare, cucina il pranzo di ogni giorno, sale e scende dall'autobus, va a scuola; c'è invece una intera 'poetica', nel senso (letterale, da poesis) di una pratica del fare. Nella cosiddetta 'gente comune' viene dispiegata intelligenza creativa, astuzia, costruzione di tattiche e di strategie; dietro quanto appare ordinario e consueto della vita quotidiana, c'è "Il 'procedimento' ignaziano implica un 'desiderante' - colui che si raccoglie in ritiro, spinto da un desiderio e alla ricerca di una decisione da prendere -, e (…) lo conduce dal luogo in cui si trova all'inizio, a un luogo di più grande verità, attraverso una educazione che si realizza nei termini di pratiche effettive. (…) Gli procura dei punti di riferimento, e non la storia del viaggio."17 Prendiamo un brano da La scrittura della storia dove le figure del linguaggio si stagliano con particolare evidenza, anche perché sottolineate dall'uso abbondante del corsivo, delle virgolette, dei neologismi, che contribuiscono a dilatare la semanticità delle parole, e a produrre l'effetto di una prosa fatta di vocaboli il cui significato è altro rispetto a quello abituale, e da cercare altrove; dove ciò che si legge trova la propria definizione per contrasto con quanto ci si potrebbe attendere secondo l'uso comune; in esso lo spaesamento di chi legge è dovuto alla mancanza di una direzione ben definita. Il testo non ha un centro, né un punto di arrivo ben determinato, né dei protagonisti fissi. "Da una parte, nel senso etnologico e quasi religioso del termine, la scrittura svolge il ruolo di un rito di sepoltura; esorcizza la morte introducendola nel discorso. Dall'altra, ha una funzione simbolizzatrice; permette a una società di situarsi dandosi nel linguaggio un passato, e apre così al presente un proprio spazio: "contrassegnare" un passato significa fare un posto al morto, ma anche ridistribuire lo spazio dei possibili, determinare negativamente quello che c'è da fare, e dunque utilizzare la narratività che seppellisce i morti come mezzo per fissare un posto ai vivi. La sistemazione degli assenti è il rovescio di una normatività che si rivolge al lettore vivente e che instaura una relazione didattica tra il mittente e il destinatario. Nel testo, il passato occupa il posto del soggetto-re. E' stata operata una conversione scritturale. Laddove la ricerca effettuava una critica dei modelli attuali, la scrittura costruisce una 'tomba' per il morto."18 Negli scritti su L'enunciazione mistica e su Il corpo fogliato pubblicati rispettivamente nel 1976 e nel 1977, lo stesso anno delle pagine di Che cos'è un seminario? - Certeau affronta il rapporto tra mistica e corpo, e i modi in cui nell'esperienza mistica il corpo viene metaforizzato, rappresentato come una grammatica di figure, quasi un concentrato di tropi19. Si tratta di testi centrali per capire il processo di osmosi che si è prodotto nella scrittura 45 movimento e non stasi. Così è anche per i luoghi e i modi dell'imparare, segnati dall'erranza, ma soprattutto della continua messa in discussione di una illusoria 'proprietà' definitiva dei luoghi, sui quali occorre esercitarsi in una attività spossessante, creandovi delle fenditure, delle alterazioni, rendendoli 'osceni': "Insomma - dichiara in una delle frasi chiave di Che cos'è un seminario? - "noi inficiamo il luogo "proprio", come i bambini reintroducono la loro storia nel testo adulto riempiendolo di macchie e di pasticci". Qui sembra quasi di sentire echeggiare quel che Fachinelli osservava nel '68 con impareggiabile acutezza, negli articoli per "L'erba voglio" e "Quaderni piacentini" a proposito della distinzione tra "gruppo di bisogno" e "gruppo di desiderio"23. (Viene da dire a questo proposito che l'aspetto desolante della situazione attuale è il fatto che non si riesce a soddisfare né l'una né l'altra di queste due tipologie.) Che cos'è un seminario? si colloca in un periodo dove altri illustri contemporanei di Certeau organizzano e ragionano sulla struttura seminariale - come è il caso di Roland Barthes24, e naturalmente come fa "il Grande Jacques", secondo la godibile parodia che Pontalis offre dei seminari lacaniani25. La novità di Certeau consiste nel rovesciare i presupposti di queste analisi, le rende infatti 'poco importanti' nell'evidenziare la non-eccezionalità di ciò che si fa, preoccupato com'è di sottolineare che "le procedure della ricerca non sono fondamentalmente distinte dalle procedure o dalle 'maniere di fare' comuni". Di qui l'insistenza sulla costruzione di uno spazio particolare, che consenta di muoversi tra una pluralità di luoghi, dentro e fuori l'istituzione, e di considerare il passaggio attraverso università, scuole, centri esterni a queste, come se il lavoro da intraprendere consistesse nella compilazione di un dizionario, in apparenza poco utile, nel quale le definizioni sono provvisorie, labili, mutanti, evanescenti. Al giorno d'oggi le parole che adoperiamo, i concetti di cui ci serviamo, sembrano infatti aver perso la loro forza di un tempo, come ci viene suggerito dalla odierna proliferazione di lessici e dizionari, introduzioni a, glossari ed enciclopedie; dall'ansia degli aggiornamenti, delle appendici che includono centinaia di neologismi raccolti soltanto negli ultimi mesi; a sottolineare il fatto che da un anno all'altro le parole sembrano esser diventate sempre più rarefatte e indefinite, come più di un secolo fa Hofmannstahl aveva già anticipato nella Lettera a Lord Chandos. Anche se sono passati quasi trent'anni dalla pubblicazione dell'articolo di Certeau, alcune delle indicazioni più importanti che esso contiene non hanno perso un briciolo di validità. Centrale, da questo punto di vista, è l'affermazione per la quale il vero scopo dei luoghi 'impropri' e del movimento incessante tra luoghi, non è di andare verso una progressiva neutralizzazione delle soggettività, bensì quello di costruire "connessioni nel mantenimento delle differenze". Per chi continua a credere che il momento della 'presa della parola' abbia segnato una svolta fondamentale nel rovesciare le gerarchie dominanti nel modo con cui si impara e si insegna; per chi pensa che ancor più dirompente sia stata la rottura della finta neutralità della cultura fallocentrica provocata dal femminismo, questo rimane un obiettivo di lavoro irrinunciabile, oltre che una premessa di vita26. Note 1 Tutte le opere citate in nota senza l'indicazione dell'autore sono di Michel de Certeau. 2 Cfr. la nota introduttiva di Luce Giard al testo di Certeau Che cos'è un seminario?, apparsa su l' "école" dicembre 2004. 3 Nel 1994, Luce Giard - la studiosa responsabile dell'edizione critica delle opere di Certeau - ha dato alle stampe una versione riveduta del libro del '68, corredandola di una densa introduzione in cui spiega le circostanze biografiche e storiche che fanno da sfondo alla composizione de La presa della parola. La ristampa è accompagnata da alcuni scritti meno noti di Certeau ma caratterizzati da una straordinaria capacità di anticipare argomenti che solo di recente sono diventati centrali nel dibattito culturale contemporaneo. Le parti aggiunte in questa nuova edizione si intitolano rispettivamente "Le Americhe: il risveglio politico", "L'ordinario della comunicazione", "Economie etniche". Cfr. La prise de parole et autres écrits politiques, édition établie et présentée par Luce Giard, Paris, Seuil, 1994 4 La prise de parole, cit.: "En mai dernier, on a pris la parole comme on a pris la Bastille en 1789", p. 40. 5 La presa di parola è uno di quei rari libri che - pur concepito sull'onda dei grandi rivolgimenti che caratterizzarono quell'annus mirabilis, e il cui forte impatto sull'intera società francese risuona in ogni paragrafo - non è affatto uno scritto d'occasione. Al contrario, chi legge queste pagine a distanza di 35 anni è colpito dalla straordinaria freschezza con cui Certeau descrive e interpreta le circostanze di quella che nel primo capitolo viene definita come "rivoluzione simbolica" : il potere di parlare e di prendere la parola. E' questo il vero e proprio avvenimento spartiacque tra una società ancora legata a gerarchie e forme di comunicazione tradizionali, e il contesto entro cui tutti viviamo attualmente, e che siamo ormai abituati a chiamare globale, dominato dall'informatica e dalle nuove tecnologie comunicative. 6 Un'analisi degli avvenimenti che hanno caratterizzato il '68 in Italia, che può essere accostata, per intelligenza e profondità, a quella di Certeau, è senz'altro costituita dai numerosi articoli e considerazioni di Elvio Fachinelli. Cfr. in particolare la raccolta Intorno al '68, a cura di Marco Conci e Francesco Marchioro, Bolsena, Massari, 1998. 7 Le Mémoriel de Pierre Favre, Paris, Desclée de Brouwer, 1960. Guide spirituel de Jean-Joseph Surin, Paris, Desclée de Brouwer, 1963; Correspondance de Jean-Joseph Surin, Paris, Desclée de Brouwer, 1966. 8 9 Une politique de la langue. La Révolution française et les patois, in collaborazione con Dominique Julia e Jacques Revel, Paris, Gallimard, 1975. 10 La Possession de Loudun, Paris, Juillard, 1970 11 L'operazione storica, Urbino, Argalia, 1973; L'Absent de l'histoire, Paris, Mame, 1973; L'écriture de l'histoire, Paris, Gallimard, 1975 (trad. it. Roma, 1977). 12 La Fable mystique, XVI-XVII siècle, Paris, Gallimard, 1982 (trad. it. Bologna, 1987). 13 L'Invention du quotidien. T. I, Arts de faire, Paris, Gallimard, 1980 (trad. it. Roma, 2001). 14 Heterologies, a cura di Wlad Godzich, Manchester, Manchester university press, 1986 e Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (secoli XVI e XVII), a cura di Carlo Ossola, Firenze, Olschki, 1989. 15 Cit. nella nota precedente. 46 16 morivano negli anni intorno al '68, interrogandosi sulle oscillazioni che ne determinavano espansioni e contrazioni, ascese e cadute: "…il modo meglio Incluso nella raccolta La faiblesse de croire, Paris, 1987, Seuil, pp. 307-310. Lo spazio del desiderio. Gli "Esercizi spirituali" di Loyola, in Il parlare angelico, cit. pp. 95-109, pag. 96. 17 codificato di appagare il desiderio del gruppo è quello di incarnarlo nella figura del leader. Qui non importa se si tratti di una persona o di un valore. Nel momento in cui il leader tende ad esaurire in sé il desiderio collettivo, il gruppo cambia carattere. Da gruppo di desiderio, come potremmo chiamarlo, esso tende a farsi gruppo di bisogno. E questo richiama allora all'interno del gruppo tutti i problemi 18 La scrittura della storia, Roma, il Pensiero scientifico, 1977, p. 119. Si tratta dell'ultimo paragrafo della Ia. Parte, dedicata a "L'operazione storiografica". 19 Entrambi questi saggi sono inclusi nella raccolta Il parlare angelico, cit. Riferimento importante del periodo in cui scrive Il corpo fogliato è il saggio di Derrida sulla metafora nel testo filosofico La mitologia bianca, incluso in Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997 (ediz. orig. 1972), pp. 273-349. 20 L'enunciazione mistica, cit., pp.51-52. che la sua costituzione intendeva appunto risolvere." (p. 112) Anche Certeau parla di "spazio del desiderio" a proposito degli "Esercizi spirituali"; cfr. la nota precedente. 21 24 Il corpo fogliato, cit., p. 153; corsivo del testo. Cfr. Franco La Cecla, Perdersi. L'uomo senza ambiente, Roma-Bari, Laterza, 1988. Ci sarebbe molto da commentare sulla nozione di non-luogo in Certeau, certamente colui che più ha contribuito ad articolarne le caratteristiche fin dalla Cfr. Roland Barthes, Al seminario, in ID., Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, pp. 343-352 (ed. orig. 1984); lo scritto di Barthes è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista "l'Arc" nel 1974. 25 Cfr. Jean-Baptiste Pontalis, L'Amour des commencements, Paris, Gallimard, 1986, capitolo 9. 22 fine degli anni '60. A questo proposito occorrerebbe ricordare, oltre a quelli citati, anche il saggio prima richiamato sugli "Esercizi spirituali" di S.Ignazio di Loyola, comparso sulla rivista "Christus" nel 1973, vero tour de force certiano intorno all'opposizione tra spazio e luogo. Cfr. Lo spazio del desiderio. Gli "Esercizi 26 Di grande interesse su questo punto è il saggio della studioso femminista bulgara Miclena Nikolchina sul ruolo svolto da un seminario di filosofia tenuto all'università di Sofia nel periodo del passaggio dal regime totalitario alla democrazia. Cfr. il suo The Seminar: Mode d'emploi, Impure Spaces in the Light spirituali" di Loyola, cit., in particolare le pagg.97-99. 23 Elvio Fachinelli, Il desiderio dissidente, in Il bambino dalle uova d'oro, Milano, Feltrinelli, 1974, pp.pp. 107-113; l'articolo era uscito su "Quaderni piacentini", of Late Totalitarianism, in Joan W. Scott e Debra Keates (a cura di), Going Public. Feminism and the Shifting Boundaries of the Private Sphere, Urban and Champaign, University of Illinois Press, 2004, pp.359-387. n.33, febbraio 1968. In questo articolo, Fachinelli analizzava le dinamiche collettive all'interno delle aggregazioni che in numero infinito nascevano e Che cos'è un seminario?* Un caquetoir (luogo di chiacchiere) di Michel de Certeau Un caquetoir (luogo di chiacchiere) Un Seminario è un laboratorio comune che permette a ciascuno dei partecipanti d'articolare le proprie pratiche e conoscenze. È come se ciascuno vi apportasse il "dizionario" dei suoi materiali, delle sue esperienze, delle sue idee e che, per l'effetto di scambi necessariamente parziali e d'ipotesi teoriche necessariamente provvisorie, gli diventasse possibile produrre delle frasi con questo ricco vocabolario, cioè di "ricamare" o di organizzare in discorsi le sue informazioni, le sue questioni, i suoi progetti, etc. Questo luogo di scambi instauratori potrebbe essere comparato a quello che, nella Loira, si chiama un caquetoir, appuntamento settimanale sulla piazza principale, laboratorio plurale, dove dei "passanti" si fermano la domenica per produrre nello stesso tempo un linguaggio comune e dei discorsi personali. Un Seminario mette così in causa una politica della parola, come vedremo. Tuttavia in rapporto al caquetoir presenta la differenza di non essere il solo appuntamento per le chiacchiere ma solamente un luogo di linguaggio tra molti altri in una rete che non comporta più né piazza principale né centro. Così gli effetti della produzione del discorso che mette in atto non sono che tangenziali in rapporto alla ricchezza crescente e silenziosa dei viaggiatori che si fermano un momento in questa stazione. Mi sembra che il primo compito, in un Seminario, sia di rispettare ciò che non viene detto, e ancora di più ciò che vi succede all'insaputa, dunque di moderare la propria voglia di articolare, forzare, coordinare gli interventi di ciascuno: vengono *L’articolo è stato pubblicato per la prima volta in francese nella rivista studentesca La brochure ethnologique, n°3, maggio 1977, ed è stato recentemente editto in italiano sulla rivista "école", numero di dicembre, 2004. Il copyright del testo di Michel de Certeau in tutte le lingue è di Luce Giard. Traduzione dal francese di Luigi Montano (ndr). 47 da troppo lontano per poter essere interpretati; vanno troppo lontano per poter essere circoscritti in un "luogo comune". Se il "caquetoir" di Parigi VII crea degli eventi, come tu dicevi, può essere perché noi cerchiamo, e, da parte mia, io cerco di "tenerlo" (come si "tiene" una direzione) tra due modi di dare a un Seminario un'identità ripetitiva che esclude l'esperienza del tempo: l'uno, didattico, suppone che il luogo è costituito da un discorso professorale o dal prestigio di un maestro, cioè dalla forza di un testo o dall'autorità di una voce; l'altro, festoso e quasi estatico, pretende di produrre il luogo tramite il puro scambio dei sentimenti e delle convinzioni, e infine tramite la ricerca di una trasparenza di espressioni comuni. Tutti e due sopprimono le differenze al lavoro in un collettivo, - il primo schiacciandole sotto la legge di un padre, il secondo cancellandole illusoriamente nel lirismo indefinito di una comunione quasi materna. Si tratta di due tipi di unità imposta, l'uno troppo "freddo" (che esclude la parola dei partecipanti), l'altro troppo "caldo" (che esclude le differenze di posizione, di storia e di metodo che resistono al fervore della comunicazione). L'esperienza del tempo comincia in un gruppo con l'esplicitazione della sua pluralità. Occorre riconoscersi differenti (di una differenza che non può essere superata da nessuna posizione magisteriale, da nessun discorso particolare, da nessun fervore festoso) perché un Seminario si trasformi in una storia comune e parziale (un lavoro sulle e tra differenze) e perché la parola vi divenga lo strumento di una politica (l'elemento linguistico di conflitti, di accordi, di sorprese, in somma di procedure "democratiche"). Certi nostri Seminari hanno conosciuto dei momenti di euforia contagiosa o di "dinamiche di gruppo", e anche dei momenti in cui veniva la richiesta che, dal mio punto di vista particolare, io collocassi e raccogliessi in un discorso gli interventi dei partecipanti. Se da una parte è normale che ciò accada, tuttavia non dovrebbe essere la norma, perché ciò compromette quella che, in un gruppo, può essere esperienza politica della parola (dei rapporti discreti di forza), creazione di eventi nel tempo (delle "nascite" grazie alla relazione con l'altro) e produzione di un linguaggio dialogico (una comunicazione relativa a delle differenze mantenute) - tre elementi che vanno alla pari. La mia posizione sarà dunque piuttosto quella di esplicitare la mia posizione (invece di nasconderla sotto un discorso supposto capace di inglobare tutti gli altri), di mostrarne le conseguenze possibili, teoriche e pratiche, nella discussione di gruppo, e di reagire reciprocamente a quelli che intervengono in modo interrogativo che li spinga ad esprimere la loro differenza e a trovare nelle suggestioni che io posso fare il mezzo per formularla più chiaramente. I "modelli" teorici proposti hanno per funzione di delineare dei limiti (la particolarità della mia questione), e di rendere possibile degli scarti (l'espressione di altre esperienze e di altre questioni). In questo modo si avvia il lavoro comune che crea degli eventi: una serie di differenziazioni permette a ciascuno di specificare passo dopo passo il proprio cammino nella massa delle informazioni che si scambiano. Lavori di pratiche Alla fine, che cos'è un seminario? Cos'è stato il nostro? Come pensare la nostra pratica? Oscillando tra la storia di ciò che abbiamo già fatto e l'utopia di ciò che si dovrà fare, zigzagando in questo tra-due, vorrei soltanto fissare alcuni punti che possano essere sulla carta i segnali del nostro viaggio. 1) Parto dal postulato che per quanto concerne il nostro lavoro l'Università non è più il luogo né un luogo di ricerca. Per alcuni di noi non è né il campo di un confronto tecnico e professionale con il reale, né l'oggetto d'investimenti politici, intellettuali, o amorosi. Nel nostro gruppo, le pratiche effettive di ciascuno si svolgono fuori di Parigi VII. D'altra parte, nello spazio pubblico e marginale che è diventata l'Università, si possono effettuare degli incontri regolari, capaci di creare uno scarto in rapporto ai luoghi differenti da cui veniamo e dove lavoriamo. Altrimenti detto, un Seminario può produrre dei modi di prendere le distanze in rapporto ai nostri compiti e delle possibilità di ritornarvi in modo differente. Nel lavoro di ciascuno, apre una porta di uscita e di rientro. È una specie di cursore che cambia con discrezione il o i luoghi delle nostre pratiche effettive in scene dalle quali ci si può distaccare per pensare e rivederne l'azione. Permette dunque un lavoro ai bordi (sui bordi). Questo cursore non si potrà costituire come un doppione speculare dei luoghi abitati, come uno spazio dove essi potrebbero essere progettati e espressi: non è né il contrario né lo specchio della scena ma un margine che rende possibile qualche operazione di correzione sul testo. Ancor meno è un luogo autonomo in cui un sapere potrebbe costruirsi in pace. Introduce solamente un gioco nell'opaca normatività dei luoghi di lavoro. Questo gioco di (e sui) luoghi apre uno spazio critico. Ha una doppia condizione di possibilità: a)per non trasformarsi in una lusinga, in spettacolo illusorio, in un simulacro di sapere, la pratica del gruppo deve essere determinata dall'elaborazione dei suoi rapporti con la sua "esteriorità", o piuttosto dalla sua situazione di non essere che una procedura di uscita e di rientro relativa a delle localizzazioni sociali, professionali, familiari, etc; b)ma esso "esercita" questa funzione di scarto critico a causa dell'incrocio di esperienze che vi entrano e vi escono, vale a dire per un lavoro di confronto tra delle ricerche che il Seminario non crea. Cioè, i discorsi del gruppo sono definiti sia dal fatto di essere separati o privati delle pratiche e dei luoghi che analizziamo insieme, sia da una pratica della parola, da una gestione comune dei nostri scambi socio-linguistici. 2) In questo spazio appartato (questo studio quasi insulare, al 5° piano di Parigi VII), quali erano, quali potevano essere le nostre pratiche? Generalmente parlando, hanno per caratteristica di salvaguardare a questo posto il ruolo di essere un luogo di transito. Non hanno dunque come finalità la costruzione di un sapere con le pietre portate da ciascuno e di edificare così un luogo proprio. Al contrario, come degli "svincoli" stradali o di shifters linguistici, sono delle procedure di "passaggio all'altro" o di alterazioni. Vengono a restaurare nel luogo (che si dice "proprio") del sapere 48 le sue relazioni con il suo contrario che comporta al tempo stesso una disappropriazione e una oscenità. Insomma, noi inficiamo il luogo "proprio", come i bambini reintroducono la loro storia nel testo adulto riempiendolo di macchie e di pasticci. Un modello di questa operazione è fornito da Freud il ritorno di ciò che è stato rimosso: nel posto che si è voluto "proprio" grazie ad una eliminazione dell'altro, ecco che il rimosso riappare come qualcosa che ritorna e altera, "macchia" e ossessiona i luoghi. Questo modello è servito da punto di partenza al nostro Seminario di quest'anno, perché comporta molte implicazioni che mettono in causa diverse specie di luoghi propri (il luogo proprio del soggetto del sapere in rapporto all'oggetto studiato, il luogo proprio di una scientificità in rapporto a delle pratiche sociali o letterarie, etc.), e permette di analizzare i ritorni dell'altro nello stesso spazio che si è creduto autonomo. Due momenti di questo processo sono, in particolare, nettamente articolati: da una parte, una distinzione o separazione tra il "proprio" e il "non-proprio"; dall'altra parte il miscuglio e come la "bastardaggine" di ciò che accade lì dove sopraggiungono dei fantasmi che non dovrebbero trovarsi là. Il nostro metodo potrebbe avere per fondamento una teoria della bastardaggine. Non che essa abbia per scopo di trasgredire e attraversare le frontiere stabilite. Si tratta piuttosto di rendere conto di ciò che accade effettivamente: il coinvolgimento del soggetto nel suo studio, il ritorno della finzione nella scintificità, la porosità tra le procedure "tecniche" e i modi di fare "comuni", le ambivalenze dei luoghi, etc. Fenomeni di passaggio, di combinazioni, di relazioni tra elementi differenti nello stesso spazio, etc., chiedono di essere analizzati per se stessi, alfine che una teoria espliciti le regole e i modelli conformi a ciò che realmente è l'esperienza della ricerca. Bisogna trovare un rigore proporzionato a questa promiscuità o bastardaggine dei fatti, e smetterla di giustapporre all'esperienza di lavoro una definizione onirica e atopica dei campi "propri". Nella pratica di un Seminario, si colgono delle procedure d'analisi e dei modi d'interrogazione che occorre specificare maggiormente: l'alternarsi tra le sedute dedicate a delle esposizioni su dei modelli teorici e le sedute riservate a dei racconti storiografie di ricerche concrete (il che rende possibile degli effetti delle une sulle altre senza confonderle); il privilegio accordato alla narratività come strumento di analisi, in quanto è un'interconnessione di dati osservati e di investimenti soggettivi e anche la combinazione di una teoria esplicativa referenziale e delle sue eccezzioni; l'esame dei conflitti di potere impliciti negli scambi di parole; l'esplicitazione della storia (una pluralità di strati e di interazioni) che è rinchiusa in uno stesso luogo, e che fa in realtà di ciascun luogo un'esperienza ambivalente del tempo; l'eterogeneità nell'atto dell'enunciazione e il sistema di enunciati in cui essa si produce, etc. Tutti questi procedimenti rinviano all'oggetto della nostra ricerca. Il fatto è che le pratiche della nostra analisi non possono essere eterogenee alla pratiche socio-culturali che studiamo. Questa posizione di principio è legata al fatto che il Seminario non costituisce un luogo "proprio" e che le procedure della ricerca non sono dunque fondamentalmente distinte dalle procedure o dalle "maniere di fare" comuni. Dal solo punto di vista metodologico è stato importante che il Seminario viaggiasse fuori da Parigi VII, come abbiamo fatto, per esempio, ritrovandoci in diversi altri luoghi - nel caso in cui ci fossero delle riunioni ulteriori non previste dal calendario universitario. Oltre al fatto che queste "uscite" permettevano delle esperienze più concrete e degli scambi più liberi, esse spezzavano la "finzione" seduttrice di un luogo e di un tempo propri. Esplicitavano o restauravano la relazione del nostro lavoro con la sua "esteriorità". Attraversando le frontiere artificiali tra le pratiche di un Seminario e le pratiche che ne sono in principio escluse (mangiare, bere, parlare della storia personale legata ad un lavoro, fare l'esperienza di una rete locale in cui s'iscrive una ricerca, etc.), facilitano una chiarificazione reciproca delle nostre "maniere" di studiare e delle maniere di fare che studiamo. Ci eliminavano dunque l'illusione di una specificità scientifica che è in gran parte sostenuta dal solo fatto di riunirsi in un luogo universitario e stimolavano tramite la percezioni di aspetti ignorati l'esigenza di analizzare l'astuta complessità delle più semplici pratiche. 3) Quanto alle pratiche socio-culturali, oggetto del Seminario, esse non designavano evidentemente dei comportamenti obiettivi, bensì delle operazioni trasformatrici: delle maniere di leggere (di produrre un senso attraversando un testo), di dirsi in una lingua che non è la propria, di truccarsi (di crearsi un volto nel codice delle simulazioni sociali), di organizzarsi delle traiettorie in un ordine urbano costituito, di "fare dei tagli" nell'intreccio di una politica locale o di un sistema famigliare, etc. Ciascuna di queste pratiche è un'arte di giocare in uno spazio imposto (un ordine) e con una congiuntura (delle "occasioni"). Ho chiamato tattiche questi modi di "rigirare" i fatti imposti da un sistema dominante e di crearvi un gioco per delle combinazioni temporanee. Le distinguo dalle strategie, che indicano la capacità di isolare un luogo autonomo di potere, di esplicitarvi un volere proprio, e di calcolare dei rapporti di forza con un "ambiente" circoscritto. Il nostro proposito era di analizzare queste tattiche, manipolazioni instabili e relazioni stabili, astuzie legate ad un non-potere e all'istante, operazioni complesse fondate su un "flair", e di domandarci quali modelli teorici e quali tipi di scrittura potessero renderne conto. Questione tanto più importante perchè queste "tattiche" costituiscono l'immensa maggioranza delle pratiche sociali, e perché l'osservazione scientifica non ne conserva spesso che ciò che è conforme ai suoi schemi procedurali, supposti più razionali ma in tutti i casi semplificativi. Iniziato dalle ricerche sulla cultura popolare e sul funzionamento effettivo delle rappresentazioni, questo lavoro pone delle questioni: la creatività dei "consumatori", poeti e artisti sconosciuti; la relazione di questa arte di "fare dei tagli" con il sistema dentro il quale si sviluppa; l'omologia con le con le "precise azioni" sociali e politiche; l'esperienza del tempo che implica una pertinenza dell'istante in queste tattiche; il rapporto di queste astuzie con i luoghi in cui si producono e che possono essere analizzati come dei puzzles di frammenti stratificati che 49 giocano gli uni sugli altri; la funzione di queste tattiche, suscettibili di essere considerate come delle articolazioni operative tra dei sistemi (codificazioni prodotte) e dei corpi (luoghi opachi e determinati, di bisogni e di piaceri); le rivoluzioni silenziose prodotte da questa attività brulicante, etc. Ma tutte queste questioni compongono il vocio del nostro caquetoir. di ciò che si fa, gli stessi "tagli" relativi ad una congiuntura e a dei destinatari, etc. Ma la parvenza delle istituzioni scientifiche (e tutte le iniziazioni necessarie ad una aggregazione) fa passare le pratiche interne per qualitativamente superiori alle pratiche "esterne" e protegge questa differenza. Può essere, in questa prospettiva e malgrado il terrorismo primario che ha generato in Lyssenko, che si debba ritornare al principio iniziale della "scienza proletaria": vale a dire che esiste una scienza delle pratiche dell'operaio o della casalinga come del ricercatore, e che non si può gerarchizzare la loro competenza in base a criteri sociali. b) Il lavoro di restituire la sua legittimità socio-culturale e di dare figura teorica a queste "maniere di fare" comuni ha portata politica, nella misura in cui esse contribuiscono a fornire dei riferimenti per un'azione collettiva. La presa di coscienza politica di esperienze sociali per lungo tempo ridotte al silenzio ha sempre avuto per condizione di possibilità la produzione di analisi tecniche, di esplicitazioni teoriche rivalutazioni simboliche. Così è stato per delle culture oppresse o per dei comportamenti repressi. Da questo punto di vista, la nostra ricerca, legata ad altre, senza dubbio non è direttamente un'azione politica, ma le prepara degli strumenti. D'altra parte essa s'inscrive necessariamente in una rete di impegni politici preliminari e congiunti. c) Proprio per il suo oggetto come per le sue prospettive, questo progetto non potrà essere circoscritto in un luogo universitario. Esso implica un gioco su una pluralità di luoghi. Il passaggio periodico per una scala di università non rappresenta che una punteggiatura di momenti critici nel testo delle nostre attività sociali. Questa operazione universitaria non può, mi sembra, essere "gestita" nella sua funzione marginale, dalla sola autocritica né dalla sola elucidazione dei suoi necessari rapporti con le esperienze che l'attraversano di tanto in tanto; le occorre essere legata in maniera più strutturale con dei luoghi d'azione e con delle effettive collettività. Occorrerà dunque considerare delle relazioni più strette tra unità universitarie e nuclei sociali fortemente impiantati - le prime più aperte gli altri più stabili. Non per una confusione di generi, che è sempre nefasta, ma in vista di connessioni nel mantenimento delle differenze. Ne abbiamo parlato a proposito delle relazioni possibili tra l'UER di etnoantropologia e altri luoghi. Ci sono sicuramente altre formule. Se, come io credo, la teoria si colloca sempre in uno scarto in rapporto all'istituzione, essa troverà in questa struttura plurale la sua condizione di possibilità. Luoghi della ricerca D'altra parte bisogna sottolineare che, in rapporto al CNRS o ad altre istituzioni spesso formate da luoghi inaccessibili per privilegiati senza responsabilità sociale e senza una regolare relazione con il crescente flusso delle ricerche degli studenti, le università offrono spazi di confronto permanenti con le domande e le innovazioni che i "ricercatori" patentati non percepiscono più. Mi sono sistemato a Parigi VII per questo. Alle grandi scuole "famigliari" o alle strutture insulari della Ricerca, "home" per un'intelligenza tranquilla da sola, preferisco questi luoghi universitari (del resto lentamente proletarizzati in rapporto ad una élite che gli sta di fronte): lì è possibile una viva collaborazione con tutti quelli che, anche se la loro presenza è già l'effetto di una selezione, arrivano viaggiando tra esigenze, esperienze e ambizioni venute da tutte le parti, da molto lontano. Certo, la "miseria" dilaga in questi luoghi. Ma proprio per questa ragione può essere che l'intellettuale trovi in questa collaborazione un'altra figura sociale e un altro ruolo tecnico, molto più che nelle celle ad aria condizionata in cui si giudica con disprezzo la degradazione delle università. Detto ciò, le università non saprebbero essere trasformate in case chiuse del sapere o di un potere del sapere. Del resto è da un bel pezzo che, almeno nei UER di scienze umane, gli studenti e molti insegnanti lo sanno. Lo dicevamo poc'anzi a proposito di un Seminario particolare, si tratta piuttosto di cercare come il lavoro che si fa là, pubblico e marginale, possa articolarsi sull'insieme delle pratiche sociali. Questa connessione verrà fuori da costrizioni economiche, esperienze scientifiche e da confronti politici. Per terminare sottolineerei soltanto tre punti che risaltano dalla nostra ricerca particolare. a) Un lavoro teorico e tecnico (la critica ideologica non è sufficiente) si deve basare sul taglio sociale sul quale si articola la costituzione di campi intellettuali "propri": la separazione tra ciò che è "scientifico" e ciò che non lo è. Così l'analisi delle pratiche o "maniere di fare" come noi le interpretiamo mostra, da una parte e dall'altra di questa frontiera, la presenza dello stesso tipo di cosa 50 Contributi “Un’utopia?” di Franca Balsamo* La ricchezza dello scritto di De Certeau (ma anche la limpidezza e la grazia dell'introduzione) richiederebbero una riflessione non di un momento, e allora, senza andare a vedere quale sia in francese il termine tradotto in italiano con "proprio" - ma immagino sia quel "propre" che in francese ha un doppio significato, non solo di "proprio" ma anche di "pulito", il che forse riempirebbe il significato di uno "spazio proprio" di altre sfumature piuttosto intriganti, - hanno stimolato semplicemente alcune, non direi neanche riflessioni, quanto piuttosto quasi libere associazioni sul "seminario" così come mi sono suggerite dalla lettura di Che cos'è un seminario? - e soprattutto dopo l'esperienza infelice del mio corso di quest'anno di sociologia della famiglia a Psicologia (università di Torino). Quello che mi ha dato la lettura di Certeau è stata la consapevolezza di essere stata quest'anno una pessima insegnante, perché non sono stata capace di utilizzare quel tempo e quello spazio per favorire una comunicazione libera, uno scambio "contaminante", come quella di cui lui parla. Non ho saputo lasciare il tempo alle studentesse, offrire loro pienamente quel tempo alle loro parole. Cercavo di "insegnare" a essere critiche, ma pretendevo "criticità" in un contesto dove la relazione era del tutto asimmetrica e in fondo la mia comunicazione non poteva che essere paradossale: siate critiche! in un certo senso dicevano le mie parole (un po' come il paradosso del "siate libere!"). Risposta, ovviamente: il silenzio. E la mia frustrazione. C'è da dire che il contesto in cui si lavora oggi all'università non è, e meno che mai può essere, quello seminariale. Non è favorito, direi anzi che è quasi impedito. Non si può fare un seminario con 60/70 persone stipate in banchi ordinati in righe come quelle di un esercito (alla fine della lezione potremmo dire: "rompete le righe"!). Anche alla facoltà di psicologia dove pensavo che si fosse un po' più attenti al "setting" , lo spazio della comunicazione è questo: una grandissima aula, alta, vuota, dove per farsi sentire bisogna usare il microfono… , oppure per stare un po' vicino anche fisicamente alle allieve/i bisogna, come peripatetici (patetici), camminare tra i banchi per decine di metri - e in un posto così è chiaro che quasi tutte/i, intimoriti, si assiepano verso il fondo, nelle ultime file, cercano di annullare la loro presenza. Bell'inizio per una comunicazione (quasi tra fantasmi). Fatta eccezione per due occasioni, nella prima li ho fatti lavorare tra loro in piccoli gruppi attraverso una sorta di gioco di ruoli (aspettative di "figli", "figlie", "madri", padri", gli uni verso gli altri); e poi, l'ultima lezione, in cui eravamo poche (meno di venti) e lo stimolo è stato il video che portava le voci e le esperienze "altre" di "altre". Allora finalmente, l'ultima lezione, mi hanno regalato il loro pensiero e le loro emozioni (ragazze e ragazzi ricchissimi cui io ho fatto perdere troppo tempo). Dunque seminario. Che cosa è/è stato seminario nella mia esperienza. Prima immagine: spazio privilegiato nella comunicazione universitaria delle femministe (no, non ho tempo di pensare all'iniziativa degli anni '80 a Torino chiamata Tematiche Femminili, che forse erano la cosa che più si è avvicinata nella mia esperienza all'idea di seminario. Già in auge nel 68 come spazio di una comunicazione considerata particolarmente "buona" (lo abbiamo ereditato da lì? o dalla letteratura sui più famosi seminari di Lacan? O da entrambi? Quali i percorsi? Per me sono state nel percorso a Torino anche le "contaminazioni", gli imbarbarimenti della comunicazione accademica che venivano dalla fabbrica e dal sindacato attraverso le 150 ore - da pensarci a quello stile che intersecava dubbiosa e balbettante autocoscienza con assertività e proclami ideologici). Si trattava di uno spazio spurio, al margine, sul margine (poco definito) tra comunicazione pubblica e privata: tra (e non più) la comunicazione dell'insegnante/docente - che sa, gerarchicamente distante, up, che conferma e riproduce la gerarchia delle conoscenze, a partire dalla propria, come "buona" e desiderabile vs la "non conoscenza" degli altri soggetti, gli "alunni" (qui il genere sparisce, con rare eccezioni), comunicazione accademica, pubblica - e quella sperimentata nel movimento femminista del piccolo gruppo dove lo scambio è (era) tutto e su tutto (ma soprattutto su di sé - poi quella cosa lì è stata sempre più criticata come "autoreferenzialità"), dove ci si "contaminava" (dunque ne parlava già Certeau tanto prima che questa parola fosse inflazionata e quasi inutilizzabile?) l'un l'altra, spazio a volte del delirio incontrollato. Ma anche e prima di allora per le donne, lo scambio "libero" era quello della chiacchiera (chit-chat, etc…), da "sempre" (?) luogo della comunicazione considerata "tipicamente femminile" e come tale squalificata (luogo di una comunicazione non rilevante - a meno di essere poi riscoperta da sociologi e antropologi come luogo privilegiato non solo del controllo sociale ma della creazione appunto di quei fondamenti comunicativi affettivamente segnati - che sono la materia con cui si costruiscono e si consolidano tutte le organizzazioni). Spazio troppo libero di scambio affettivo (e insieme razionale) - che Certeau consegna al luogo fusionale del materno…- non condivido, - luogo semplicemente meno praticato dagli uomini (e luogo soprattutto esclusivo, proibito al maschile, haram, direbbero in arabo). Il luogo della libera chiacchiera è a mio avviso un luogo rilevante di una pratica di conoscenza, di massima costruzione dei legami sociali, del tessuto sociale, della conciliazione delle differenze, 51 delle opposizioni, di riduzione delle tensioni, di controllo delle paure, di conoscenza intima dell'altra e attraverso l'altro degli altri-altri, ma ha il difetto - a livello della comunicazione pubblica e dunque del "riconoscimento" - di essere luogo gestito dalle donne, che hanno una conoscenza profonda radicata antica e sempre attuale dei suoi meccanismi. Ma è un luogo estremo, troppo radicale. Lo spazio del seminario sta a metà strada tra il luogo della chiacchiera privata, il "fuori", della vita "comune", dell'incontro fortuito, della riunione di amiche, dell'informale e quello veramente formalizzato della comunicazione accademica, con tanto di cattedra, di registro, di registrazione "poliziesca" delle presenze e delle assenza, luogo massimo del potere - dove piccoli esseri hanno ottenuto, per aver vinto un concorso, a volte nei modi che sappiamo, di poter avere questo potere su altri esseri umani non "più deboli", ma resi tali dal contesto, deprivati delle loro conoscenze umane dallo stile autoritario dell'organizzazione. Qui si insegna: qualcuno recita la sua parte, mostra quanto è bravo, quanto la sa bene - se la sa, -, si aspetta un "riconoscimento": diviso tra questo "riconoscimento" speciale di sé e l'idea che gli altri (le/gli studenti) siano sacche quasi vuote (non hanno letto Simone de Beauvoir!, non sanno chi è Sartre!, non conoscono Nancy Chodorow né Juliet Mitchell, hanno appena sentito nominare Melanie Klein, mai sentito Eric Neumann, dei sociologici conoscono solo il nome di Parsons e vagamente forse Weber - figuriamoci de Certeau), sacchi vuoti da riempire. E giù parole, lezioni, concetti, collegamenti, passioni verbali e concettuali, giù giù dentro i sacchi - e infine la verifica: quanto è rimasto dentro? Quanto conoscono ora delle teorie della famiglia? Quante domande hanno immagazzinato, quante incertezze? E mentre tu parli sono lì con i loro quadernetti in mano che scrivono, scrivono, cercano di immagazzinare il più possibile per farti piacere, in modo poi da avere a loro volta il piacere di avere un voto, un numero, possibilmente alto così da far piacere anche ai loro genitori, così da essere tutti contenti/e, così da finire in fretta, da passare in fretta, senza sostare, di corsa, inconsapevoli, questo spazio - dove avranno acquisito un pezzo di carta, una certificazione di qualità - come quella delle macchine, - la certificazione di essere ora dei "buoni sociologi/scienziati sociali" - dei buoni disoccupati. Avranno attraversato questo spazio correndo per uscire in fretta con la mente proiettata sull'uscita, su un altro tempo, sul futuro, sul quel tempo che non arriverà mai. Il seminario, al contrario, dovrebbe essere dunque uno spazioluogo dove ci si ferma al tempo presente, dove si cerca di far circolare la conoscenza complessa di ciascuno con quella di ciascun altro (quella della memoria, delle proprie rilevanze pubbliche e private, delle proprie passioni intellettuali e non, delle proprie emozioni e conoscenze… ) - luogo di circolazione e di scambio alla pari, di influenze reciproche ("contaminazioni", appunto Certeau), spazio di comunicazioni di soggetti seminudi, spogliati dalle necessità/paura/dovere di essere giudicati/ valutati/pesati ecc. - ma questa è una utopia. A volte succede, a volte no: il seminario è tutto ciò che succede, ma non si può nascondere che cruciale è il ruolo del/dei/della conduttrice - il suo potenziale potere, la sua autorità e autorevolezza (e il suo peso rispetto all'appartenenza di genere è tutto ancora da esplorare). Dipende dalla composizione delle persone maschi/femmine/età e da ogni loro caratteristica sociale, personale, individuale - ovvio: ogni seminario è diverso da ciascun altro (ancora più ovvio ma dovrebbe essere tranquillizzante). Troppo spesso oggi si abusa del termine seminario: l'università è strapiena di ore e di spazi in cui due o tre persone tengono una dotta/erudita conferenza, cui seguono alcune dotte o timide domande, dove un/una coordinatrice sintetizza, interpreta, ringrazia e chiude un tempo in cui tutte le persone convenute avrebbero avuto qualcosa da comunicare sull'argomento o su sé, ma che altri (l'autorità) non era interessato ad ascoltare. Non abbiamo rispettato quei silenzi come comunicazione autonoma, li abbiamo imposti, costretti. Utopia? Abbiamo ancora bisogno di utopie che ci indichino una direzione sensata. Ortona nell'ultima intervista che ha rilasciato conclude la settima e ultima cassetta con queste parole: finché anche una sola persona non vede rispettati i propri diritti non si può parlare di democrazia (parole riferite dalla figlia Carla). Il seminario, luogo dove le persone si scambiano e si contagiano reciprocamente del proprio essere, pensiero, sentimento…: "riconoscimento" può essere un mezzo di formazione della democrazia, ma solo se diventa uno spazio in cui tutti/e fino all'ultima possono e si sentono liberi di esprimersi, azzerando le gerarchie (e tanto più le caste, gerarchie irrigidite nel tempo) del sapere. Ma quello che un seminario - dove si sviluppa la comunicazione informale del piccolo gruppo, al confine tra libera chiacchiera quotidiana e comunicazione formalizzata, - deve affrontare è il rischio che la comunicazione affettiva, informale, può favorire, insieme alla libertà, anche la riproduzione, si sa, di forme di potere poco visibile, di dipendenze psicologiche, di illibertà, la riproduzione di gerarchie "sottili", di schiavitù. Allora il seminario deve essere in grado di muoversi con aggiustamenti continui (può essere un soggetto collettivo?), in una mobilità permanente tra l'informale e le regole condivise della comunicazione (es. turni della parola, tempo di parola per tutti regole che tuttavia vanno di continuo rinegoziate, riverificate e riaffermate… con tempi lunghissimi di necessaria metacomunicazione), regole che nello stesso tempo non siano così rigide da scoraggiare (come gabbie/barriere del flusso) la comunicazione libera, semplice… ma allo stesso tempo nemmeno così sciolte/inesistenti da permettere che si formino leadership carismatiche che ci portano molto lontano dall'apprendimento della comunicazione e della partecipazione democratica e della libertà. * 52 Università di Torino Facoltà in conflitto di Matteo Bonazzi* Man kann nur philosophieren lernen 1 1798. Kant risponde alle accuse di irresponsabilità mossegli da Federico Guglielmo II scrivendo un celebre testo, il Conflitto delle facoltà 2, nel quale dà fondamento, struttura e articola i diversi ordini che devono assicurare il corretto funzionamento del sistema universitario. Da una parte le facoltà superiori (Teologia, Diritto e Medicina), che perseguono obiettivi politici; dall'altra la facoltà inferiore (Filosofia) che si cura soltanto della libertà, cioè della ragione. Tale divisione non è priva di condizionamenti reali. Essa risponde, infatti, alle esigenze politiche del governo, che necessità delle tre facoltà superiori per poter garantire il perseguimento del bene eterno (teologia), la realizzazione del bene civile (diritto) e il raggiungimento del bene del corpo, la salute (medicina). Le tre facoltà superiori devono rendere conto al governo perché agiscono all'interno della sfera pubblica del sapere-potere. Viceversa la facoltà inferiore di filosofia non ha nessun vincolo - almeno apparentemente. Essa può e deve seguire soltanto i dettami della libera ragion pura proprio perché i suoi effetti di sapere restano inscritti all'interno della sfera privata potremmo dire - dell'Università, senza interagire con lo spazio della verità pubblica. 1980. Jacques Derrida pronuncia all'Università di Columbia una conferenza dal titolo, "Mochlos" o il conflitto delle facoltà 3, nella quale propone una rilettura de-costruttiva del suddetto testo di Kant. Secondo Derrida, l'aspetto fondamentale dell'impostazione proposta da Kant risiede nella possibilità di separare in maniera certa l'ambito della sfera pubblica, del sapere controllato dal potere, dall'ambito della sfera privata, del sapere controllato dalla libera ragione. È con questa netta separazione - grazie a questo limite tracciato in maniera chiara e precisa - che è possibile circoscrivere il luogo proprio della filosofia, nonché l'istituzione che ne deve garantire di diritto l'effettualità. Tale limitazione fa sì che sia possibile individuare all'interno del potere un altro potere che conserverebbe la propria piena libertà precludendosi in anticipo l'accesso allo spazio pubblico dell'azione: "Il suo [della ragione] potere - ricorda Derrida - è in effetti limitato al poterpensare e giudicare, al poter-dire, ma non necessariamente dire in pubblico poiché si tratterebbe là di un'azione, d'un potere esecutivo che è negato all'Università"4. Pertanto si darebbero due tipi di linguaggio: quello della verità e quello dell'azione. Il primo puro, teorico, scientifico e relegato allo spazio della coscienza; il secondo spurio - perché contaminato dall'esigenza del potere governativo, dalla censura - pratico, e dedicato allo spazio pubblico della prassi comune. L'uno luogo dell'istituzione filosofica, l'altro luogo delle facoltà superiori. Affinché le cose stiano come Kant vorrebbe, è necessario prima di tutto isolare e delimitare la possibilità di questo spazio puramente teorico nel quale gettare le fondamenta dell'istituzione filosofica. Per far questo, Kant tende a ridurre il più possibile l'equivocità del discorso pubblico fino a relegare paradossalmente la filosofia e il suo sapere universale all'interno di un ambito quasi privato. Qui però la decostruzione trova la faglia reale, mostrando la servitù a cui è sottoposta la libera ragione nel luogo dell'istituzione. Che ne è, infatti, di quello stesso gesto col quale Kant traccia il limite che separa la pura libertà della ragione dal contaminato e pratico sapere pubblico? Quale diritto si nasconde qui dietro, nel mentre che si cerca di dare un diritto al sapere filosofico - e dunque al libero ragionare -, di stabilirne un luogo legittimo di fronte e al di là della censura del governo? Come scrive Derrida: "Effettivamente, l'Università nel suo insieme è responsabile davanti ad un'istanza non universitaria […] Se non può aversi un concetto puro dell'Università, se all'interno dell'Università non può aversi un concetto puro e puramente razionale dell'Università, questo è semplicemente perché […] l'Università è fondata. Un evento di fondazione non può essere semplicemente compreso nella logica di ciò che esso fonda. La fondazione di un diritto non è un evento giuridico. L'origine del principio di ragione, che è pure implicato all'origine dell'Università, non è affatto razionale. La fondazione di una istituzione universitaria non è un evento universitario"5. C'è allora, potremmo chiederci, un'istituzione libera da censura? Tale questione implica immediatamente anche la seguente: è possibile un'istituzione filosofica e dunque un'istituzione in cui praticare il libero ragionare? Di fronte a queste domande, Kant tenta costantemente di allontanare e di rimuovere ogni fattore censurante fino a raggiungere uno spazio puro nel quale far valere la sola legge di ragione. Come però fa presente Derrida, non ha molto senso domandarsi se l'istituzione utilizzi o subisca la censura: di fatto l'istituzione, come l'università, non potrebbe neanche sussistere fuor di censura. Infatti, se le leggi pure della ragione pratica, kantianamente, non obbligano dall'esterno, con un'imposizione, bensì muovono dall'interno con una libera necessità di tipo morale, il passaggio alla sfera del diritto e della coercizione - e dunque anche alla localizzazione istituzionalizzata del sapere - dipende semmai dal male radicale che abita nell'uomo. A causa della sua finitudine e della sua fallibilità l'uomo è costretto a seguire il diritto e non soltanto la libera morale. Sicché potremmo dire con Derrida: "senza il principio del male nell'uomo non ci sarebbe alcuna università"6. Questo è il fondamento non-universitario dell'università, nonché la responsabilità altra che in esso si nasconde. Il male radicale dell'uomo rappresenta una sorta di luogo liminare che rende conto, fuor di ragione, dell'opposizione tra sapere e potere, tra teoria e prassi, metafisica e tecnica. Qui giace inindagato l'evento non filosofico della filosofia. Ma chi ne può parlare, a questo punto? Chi può comprende il senso del male radicale che fonda le fondamenta del sapere universitario e delle 53 sue partizioni? Come scrive Derrida: "Le tre facoltà superiori hanno tutte e tre un'interpretazione specifica del male radicale. Ma esse falliscono tutte e tre a comprenderlo poiché negano la libertà concependo questo male come semplicemente 'ereditario': malattia ereditaria per la Facoltà di Medicina, debito ereditario per la Facoltà di Diritto, peccato ereditario per la Facoltà di Teologia"7. Pertanto, soltanto la facoltà inferiore, l'istituzione filosofica, sarebbe il luogo adatto in cui svolgere la domanda sul male radicale, al di là delle sue riduzioni "ereditarie". Eppure, con male radicale qui si allude ad un luogo che, come abbiamo visto, fonda le fondamenta del sistema universitario presentato da Kant, e di conseguenza in un modo o nell'altro anche le sfonda, le eccede, le travalica. Chi pensa il male radicale non pensa più soltanto e semplicemente all'interno dell'istituzione filosofica, tra le mura della facoltà inferiore. Paradossalmente il filosofo, proprio quando decide di essere tale, abbandona la propria dimora per avventurarsi, senza più certezza alcuna sull'esito del proprio cammino, in una terra straniera, dove non valgono più le rassicuranti partizioni proposte da Kant, ma dove però esse trovano origine. In eterno cammino verso il male radicale nel mentre che traccia i confini del proprio libero ragionare, così potremmo rappresentarci il filosofo, dentro e fuori le sue istituzioni, né dentro né fuori, sul margine, in bilico8. Dov'è, dunque, il nostro maestro-filosofo? Se ci aggiriamo per gli spazi dell'Università sappiamo di trovarlo nel Dipartimento che gli compete, ma poi, in maniera piuttosto paradossale, la sua presenza si ripete un po' ovunque: andiamo a Medicina ed ecco che lo rincontriamo anche lì, così a Teologia e anche a Diritto. In realtà questa sua ubiquità si spiega facilmente se ci si rende conto che il filosofo non ha luogo: "Questo maestro di verità commenta Derrida - in verità non esiste, non si trova in nessun luogo, non ha luogo, non è presente, non è là (da), non c'è Dasein di questo maestro filosofo"9. Il maestro di ragion pura non ha luogo, né ha un luogo la sua filosofia, che poi, a quanto pare, proprio sua non è. Ciononostante nel Dipartimento di filosofia un maestro si dà, ed è il maestro del filosofare. Questa è la specificità della sua disciplina: "essa si insegna senza apprendersi. Questo insegnamento è un noninsegnamento"10. Il maestro di filosofia entra in scena occupando sempre impropriamente lo spazio che gli viene assegnato dall'istituzione. Ma questo e non altri è il maestro di ragion pura, che non può quindi insegnare dei contenuti se non insegnando prima di tutto degli atti. Egli insegna a filosofare e non la filosofia, perché la filosofia non c'è. Il che non significa che non si dia della filosofia nel filosofare. Double-bind, come dice Derrida: "L'essenza della filosofia esclude l'insegnamento, l'essenza del filosofare lo esige"11. La testimonianza decostruttiva che lascia tracce dei propri atti mancati sulla scena del filosofare allude allo spazio vuoto che chiama alla filosofia. Ma questa chiamata non può che essere esibita attraverso gli atti. Mai si farà contenuto di una comunicazione verbale. Sicché il filosofare riguarda prima di tutto le performances che vengono messe in scena. E qui con performativo Derrida intende quella gestualità che traccia il nostro comune stare al mondo, ben prima della metafisica opposizione tra teoria e prassi, constatativo e performativo. Tale performatività ci riguarda tutti - dentro e fuori le istituzioni proprio perché tocca il limite della nostra finitudine, si installa sul margine ek-sistenziale del nostro Dasein e su questo insiste testimoniando del male radicale che ci abita nel più profondo. Di questo noi siamo responsabili prima di tutto. Per questo, in ultimo, l'insegnamento della filosofia è questione etica: "Noi siamo qui in questo luogo in cui la responsabilità fondatrice passa per degli atti o delle performances - che non sono soltanto degli atti di linguaggio nel senso stretto o ristretto, e che, per non essere evidentemente più degli enunciati constatativi regolati su una certa determinazione della verità, non sono forse più semplicemente dei performativi linguistici; quest'ultima opposizione (constatativo/performativo) resta ancora troppo intimamente programmata dalla legge filosofico-universitaria detto altrimenti, dalla ragione - che bisogna qui interrogare. […] Precisamente perché non ha mai riguardato solamente dei contenuti di senso, la decostruzione dovrebbe non essere separabile da questa problematica politico-istituzionale e reclamare una nuova interrogazione sulla responsabilità, una interrogazione che non si affidi più necessariamente ai codici del politico e dell'etico ereditati"12. Note * Università degli Studi di Milano. Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft, Werkausgabe Band IV, Suhrkamp, Frankfurt, 1968, p.699. 1 2 I. Kant, Der Streit der Fakultäten, Werkausgabe XI, Suhrkamp, Frankfurt 1968, trad. it., Conflitto delle facoltà, Morcelliana, Brescia 1994. 3 Conferenza pronunciata in inglese da J. Derrida il 17 aprile 1980 all'Università di Columbia (New York), in occasione del centenario della Graduate School e dopo la consegna di un Dottorato Honoris Causa [Apparsa in Philosophie, n.2, aprile 1984, tr. it., J. Derrida, "'Mochlos' o il conflitto delle facoltà", in Del diritto alla filosofia, Abramo editore, Catanzaro 1999, pp.185-223]. 4 Ibidem, p. 203, corsivo nostro. 5 Ibidem, p. 189 e p. 219, passim. 6 J. Derrida, "Cattedra vacante: censura, maestria e magistralità", in Del diritto alla filosofia, op. cit., p. 141. 7 Ibidem, p. 147. 8 Cfr. J. Derrida, "Dialogo con Jacques Derrida", in Annuario dell'Associazione degli Studenti di Filosofia dell'Università di Milano 1999-2000, Cuem, Milano 2002, pp. 133-140. J. Derrida, "Cattedra vacante: censura, maestria e magistralità", op. cit., p. 151. 10 Ibidem, p. 150. 11 Ibidem, p. 158. 12 J. Derrida , "'Mochlos' o il conflitto delle facoltà", op. cit., p. 209 e pp. 219-20, 9 passim. 54 Riflessioni sulle riforme universitarie (1989-2005) di Stefano Boni* Il percorso intellettuale che porta alla docenza universitaria è in genere marcato da una profonda cesura. Dopo anni di ricerca specialistica (quelli della tesi, del dottorato, delle borse postdottorato) in cui ti viene chiesto di elaborare un sapere innovativo - di offrire un contributo specifico - in un particolare ambito della conoscenza, sei introdotto all'insegnamento. Vieni presentato ad una classe e ti viene chiesto di contribuire alla formazione di studenti. Quale apporto fornire? Come impostare il discorso? Cosa significa contribuire alla formazione di percorsi intellettuali che sono diversificati? Quali sono le tecniche pedagogiche che permettono di stimolare negli studenti nuovi percorsi analitici? Queste domande affollano la mente del docente alle prime armi, anche se - come me - ha avuto la fortuna di affiancare gli anziani nei primi tentativi didattici. Ci si rende conto che la promozione del 'sapere' si può intendere in modi divergenti. Si può cercare di comunicare una serie di nozioni, informazioni, tecniche e verificare che queste siano apprese correttamente. In questo senso la formazione è intesa come un 'plasmare' e un 'riempire' gli studenti con la finalità di generare saperi omogenei e garantiti, perlomeno nei loro tratti essenziali. Il percorso formativo è definito in maniera anonima, modulato in maniera coercitiva, cadenzato in calendari rigidi e veloci. Spesso questa procedura pedagogica è finalizzata a produrre professionalità da immettere sul mercato del lavoro. L'università diventa il luogo di corsi di formazione professionalizanti che recepiscono le sollecitazioni e rispondono alle esigenze aziendali. La didattica universitaria si trasforma (apre e cancella corsi, istituisce corsi di laurea, spartisce finanziamenti, indirizza la ricerca) in funzione delle necessità del mercato del lavoro. In antropologia, si potrebbe pensare ad un percorso formativo impostato su questi criteri per produrre mediatori culturali o esperti in cooperazione internazionale. Una volta prodotte queste professionalità, il loro inserimento nel mondo dell'impiego sarebbe funzionale e non traumatico: il percorso universitario avrebbe già predisposto lo studente ad essere un professionista, secondo i canoni richiesti dall'azienda. L'impianto delle riforme universitarie (avviate da Ruberti, perfezionate da Berlinguer e culminate nella Moratti seguendo una medesima tendenza che prescinde dai governi che si sono succeduti in questi ultimi quindici anni) è stato teso ad affermare questo modo il intendere di sapere, non solo nelle università, ma in tutto l'apparato scolastico. La sottrazione agli studenti della possibilità di determinare il proprio percorso di studio (mediante corsi di laurea in cui la scelta soggettiva ha sempre meno peso), la modularizzazione (ovvero una drastica riduzione delle ore dei corsi con conseguente impoverimento di un percorso di riflessione), l'entrata dei privati nei consigli di amministrazione, l'impoverimento degli enti di ricerca pubblica, la possibilità per le aziende di istituire corsi, la contabilizzazione del percorso formativo in termini di crediti con la mortificazione delle tesi sono alcuni dei sintomi di questa trasformazione. L'aumento spropositato delle tasse universitarie (circa 2000% in quindici anni) è coerente con questa logica: l'università genera un sapere che verrà gratificato con salari adeguati, quindi il futuro lavoratore paga per la sua professionalizzazione. La precarizzazione della docenza e della ricerca, un fenomeno che ha visto una crescita esponenziale in questi ultimi dieci anni, rappresenta l'estensione ai formatori - i docenti - delle inevitabili leggi del mercato nel terzo millennio che già interessano i 'formati'. Un modo radicalmente diverso di intendere il percorso formativo consiste nel cercare di stimolare percorsi di riflessione che non hanno un fine pre-determinato se non la problematizzazione dei concetti, la riflessione sulle metodologie, il confronto tra paradigmi analitici, l'attenta valutazione di pregi e difetti delle opere. Questo percorso vive di stimoli, di riflessione e di confronto; non può essere costretto in paradigmi predeterminati di un sapere cumulativo e certo. Deve essere attento alle specificità dello studente e deve rispettarlo lasciandogli la possibilità di determinare i tempi e le modalità della sua formazione; lo scopo non è la costruzione di professionalità tecniche ma di una consapevolezza critica. Il sapere non è finalizzato ad essere immediatamente spendibile nelle imprese ma può svolgere una benefica opera di controllo, proprio perché è estraneo alla logica del profitto che pervade il settore privato. La trasmissione di conoscenze è pubblica nel senso che dovrebbe essere accessibile a tutti (e non solo a chi sta per entrare nel mondo del lavoro), nel senso che richiede una riflessione allargata (come il seminario alla de Certeau) e nel senso che genera benefici pubblici, soggettività consapevoli. Un chimico che lavora per una impresa petrolifera deve limitarsi ad avere le competenze che consentono a quella azienda di utilizzare la sua opera per trarne profitto o deve avere una coscienza ambientale più generale che gli permette di opporsi ad operazioni che generano profitto aziendale ma anche danni ecologici? La facoltà di Economia e Commercio deve essere centrata sullo studio delle diverse modalità di produzione e sulle teorie a riguardo o deve essere pensata come un corso di formazione per bancari? Nel momento - questo in cui viviamo in cui si stanno smantellando sistematicamente tutte le forme di ricerca pubblica, chi si farà carico del monitoraggio indipendente di una una società aziendalizzata? L'antropologia e la storia ci insegnano che ormai da qualche secolo si è affermata una educazione produttivista. L'economia, ormai scissa da altri ambiti del sociale, ha acquisito una forza propulsiva propria che assoggetta e trasforma gli altri campi dell'agire umano, cercando di renderli funzionali ad una continua crescita produttiva. Rifiutare che l'università entri in questo meccanismo travolgente, significa - in quest'epoca di certezze svolgere un'operazione squisitamente antropologica: svelare le 55 logiche di un pensiero egemonico che si vorrebbe indiscutibile e proporre un'alternativa culturale. Alternativa che rimarrà aspirazione frustrata - visione antropologica perdente, pratica culturale potenziale, ciò che si immagina perché non c'è - fino a quando non avrà la forza, pratica, di imporsi. Il percorso delle riforme universitarie rafforza la consapevolezza esperienziale che viviamo in un'epoca di impotenza democratica. Il cittadino può seguire i percorsi delle leggi; può denunciare le logiche che sottendono le trasformazioni; si può mobilitare per esprimere il suo dissenso; può organizzare manifestazioni e occupazioni; quelli meno potenti spingono la protesta al limite della legalità, chi ha contatti più autorevoli tenta di intervenire per avanzare le modifiche che più gli fanno comodo. Tutto questo è ammesso - anzi previsto - nella consapevolezza che l'autorità democraticamente eletta segue comunque una sua logica ineluttabile, nella consapevolezza che i cambiamenti di schieramenti politici al governo non segneranno forti discontinuità rispetto al progetto complessivo. Non si ritiene necessario confrontarsi con il corpo docente e studentesco nell'elaborazione delle riforme. La legge entrata in vigore è frutto di elaborazioni dei potentati accademici, di trattative tra partiti nelle commissioni parlamentari, di misteriose riformulazioni del testo da parte del ministero, di voti di fiducia, delle assenze dei parlamentari al momento del voto in aula. La nostra quotidianità - la struttura in cui avviene il processo formativo in cui docenti e studenti sono coinvolti - è ridotta a soggetto passivo -pace Foucault - di fronte alle logiche della democrazia parlamentare. Rimane la parola dissenziente, atto debole, attualmente incapace - da sola - di generare la trasformazione antropologica che potrebbe portare all'affermarsi di una università in cui il sapere è dialogico, libero dalle leggi del mercato, pubblico e partecipato. * Università di Modena e Reggio Emilia Il risveglio delle metafore di Davide Borrelli* potremmo dire che il sapere funziona letteralmente come una "metafora", un principio di mobilità permanente che opera come un dispositivo di dislocazione di territori mentali. La metafora, come si sa, è quella figura retorica che reca nel suo codice genetico la qualità di "portare oltre", cioè di attraversare i confini degli ordini dei significati per combinarne i tratti in maniera inedita ed imprevedibile. Talvolta però accade che una metafora possa smarrire la sua energia dinamica e cristallizzarsi intorno ad un determinato significato, tanto che a chi se ne serve può capitare di dimenticare la sua originaria natura metaforica e cominciare ad utilizzarla come se fosse invece la definizione letterale corrispondente in senso proprio a quel particolare referente semantico. E' il caso per esempio di quando utilizziamo espressioni come "piede del tavolo" o "collo della bottiglia". Si dice in queste circostanze che la metafora si è assopita, cioè ha perduto la sua effervescenza ermeneutica per dare luogo a quella che nel linguaggio della retorica si definisce una catacresi. Ebbene, potremmo dire che se il sapere è dell'ordine del metaforico, spesso l'insegnamento si risolve in un processo di catacresizzazione della conoscenza, facendo smarrire tutto il carattere processuale ed euristico delle metafore sotto il peso delle tradizioni, degli apparati e dei linguaggi disciplinari. Nessun gesto può risultare più ostile al sapere e contrario alla sua autentica vocazione "metaforica" che decidere di trasformarlo in un universo di discorso cristallizzato o in un repertorio simbolico istituzionalizzato. La forma seminariale descritta da Michel de Certeau è un luogo dove alle metafore della conoscenza viene impedito di assopirsi e dove le catacresi del senso sono sistematicamente risvegliate, In tempi di controverse riforme dell'università e di affrettati progetti di riforma delle riforme appena approvate, lo scritto di Michel de Certeau sulla forma seminario ha il merito di sollecitarci ad una riflessione quanto mai opportuna su che cosa significa e qual è la posta in gioco dell'insieme delle pratiche che definiscono la funzione dell'insegnamento. Che tipo di segno si lascia quando si in-segna? Questo è il genere di domande che dovrebbe porsi un legislatore non incauto ogni volta che si accinge a porre mano a complesse e spesso confuse operazioni di ingegneria accademica. Perché il "seminario" come luogo emblematico della riproduzione culturale, innanzitutto? Perché, cioè, una pratica di insegnamento che viene definita in relazione all'atto di spargere "semi" piuttosto che di capitalizzare e raccogliere frutti? E come si valuta, del resto, l'efficacia formativa di un seminario, visto che la sua attività non consiste nel fornire prodotti osservabili, ma nel disseminare possibilità? E visto che il suo metodo conduce meno ad individuare un senso che a dispiegare dei sensi, intesi come orientamenti di marcia, méth-odoi appunto nell'accezione etimologica del termine? E visto che il suo obiettivo, infine, non si pone il problema di raggiungere delle mete ma piuttosto si gioca tutto all'interno dei percorsi e delle modalità che ne garantiscono la praticabilità? Il sapere non è qualcosa che si possa mai pensare di padroneggiare una volta per tutte. L'idea di sapere che affiora dalla pratica del seminario così come ce la racconta de Certeau, si avvicina piuttosto all'immagine di un vettore di trasporto che ci permette di transitare attraverso una fitta e multiforme trama di linguaggi, esperienze, sensibilità e forme di vita. In questo senso 56 rimesse in circolo e fatte pulsare di nuova vita. E questo perché il seminario non presenta la conoscenza come un oggetto che si trasmette, ma come un ambiente che reca le tracce delle storie e delle soggettività di coloro che lo hanno abitato. Per usare una terminologia certiana, diremmo che la conoscenza non si sa strategicamente, piuttosto si vive tatticamente. Che il seminario costituisca l'ambiente più idoneo per riscoprire la qualità metaforica di ogni sapere è il messaggio che con grande lucidità ed acume ci consegna de Certeau, non cessando mai di ricordarci che per il soggetto della conoscenza la posta in gioco non è mai l'individuazione di un senso proprio (cioè appropriato) delle cose bensì il riconoscimento del proprio senso in esse, del modo d'essere in cui le interpreta, le declina e le fa proprie. * Università di Lecce Il seminario: spazio di confine tra il "centro" di produzione del sapere e l' "erranza" intellettuale. di Barbara Caputo* Mi chiedo cosa ne penserebbe de Certeau, intellettuale che ha dedicato consistente parte del suo lavoro alle modalità "antidisciplinari" di sottrazione all'imposizione dell'ordine del discorso, e alla strutturazione dei tempi e dei luoghi che la rende possibile se, nel riflettere sulla sua concezione di seminario, faccio riferimento a un saggio d'ispirazione strutturalista come quello di Jean-Pierre Vernant su Hestia ed Hermes. Credo che non me ne vorrebbe, da quell'intellettuale che ha costituito la sua riflessione al confine dei saperi e apporti disciplinari più diversi, comparendo insieme a Lacan tra i fondatori dell École freudienne di Parigi, e proficuamente avvalendosi della nozione di métis greca formulata da Detienne e Vernant per forgiare il suo concetto di ruses quotidiennes. Ritengo proficuo avvalermi delle figure mitologiche di Hestia ed Hermes, discostandomi dalla minuziosa interpretazione storicamente contestualizzata, in quanto rappresentazioni costituenti influenza e traccia delle istituzioni sociali della Grecia arcaica, soprattutto nel loro valore di metafore dal valore euristico, aperte a una pluralità di interpretazioni, e alla relazione strutturale tra le due figure, che rimanda alla tensione tra il centro e il percorso, tra il ripiegamento interno sui valori del gruppo, l'apertura allo straniero e l'erranza che arricchisce il gruppo stesso. Se Hestia costituisce il punto centrale, a partire dal quale lo spazio umano si organizza, per Hermes non vi è niente "di fisso, di stabile, di permanente, di circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei". Per Hermes il ladro non esistono "né serratura, né recinto, né confine". Una tensione che non ha mai fine, e che forse ben può adattarsi a quella tensione tra l'ordine spaziale che proietta e riproduce le strutture di potere, la circoscrizione di luoghi distinti dove la legge del "proprio" regna - strategia non discorsiva che crea le condizioni per la produzione del discorso, e del disciplinamento dei corpi - e la figura dell'erranza tanto cara a Foucault e a de Certeau. Hestia ed Hermes costituiscono due qualità costitutive dello spazio, due possibilità insite in esso e in interrelazione dinamica. Si tratta di quel centro dotato di valore privilegiato per la carica simbolica conferita ai valori che gli si condensano intorno, che non è pensabile se non nella continua relazione alla possibilità dell'apertura, e dell'arricchimento che deriva dal movimento e dallo sconfinamento, dal crescere esponendosi anche al rischio della perdita, o forse della messa alla prova, dei valori del "centro". Alla stessa Hestia, non bisogna dimenticarlo, spetta l'accoglienza presso il focolare domestico dello straniero. Vedo in questa opposizione non solo la tensione creativa tra il centro di produzione di sapere dell'università e lo spazio di erranza, creatività intellettuale non strutturata del seminario, ma anche la natura stessa del lavoro dell'antropologo, per definizione costantemente "sulla frontiera", da un lato quindi pronto a rimettere continuamente in discussione le sue coordinate teoriche ed epistemologiche, dall'altro a fare da tramite, mediatore, traduttore e introduttore della voce dell'Altro e dell'Altro stesso: figura non solo del passaggio di frontiera dunque, ma anche dell'accoglienza. Proprio in questa tensione tra centro, in questo caso accademico e movimento, l'antropologo si deve sentire a causa di ciò forse più spinto di altri a riflettere sulla traduzione e trasposizione nello spazio seminariale dell'accoglienza dell'Altro, e del suo discorso creativo e innovativo, costituendo ciò che Certeau definiva con lo stesso termine con cui designava i suoi gruppi di ricerca, dei cercles d'interlocution, che costituiscano possibilità di libere pratiche antidogmatiche e "antidisciplinari", buissonnières: pratiche "artistiche" e creative che "giocano" l'ordine disciplinare. La mia intenzione era dunque di rinvenire, o forse costruire, un qualche trait d'union tra il discorso di Certeau, che nell'analisi ed elegia delle pratiques d'espace come liberi discorsi anti-strutturali trova una delle sue più felici declinazioni, e i poli spaziali mitologici di Vernant. Il "centro" può sfuggire alla cristallizzazione solo aprendosi al movimento, all'accoglienza dello straniero, agli atti di "delinquenza" che nel libero 57 movimento tra spazi diversi - perché i centri sono molteplici - e nella manipolazione sovversiva delle regole d'uso, apre la via alla costituzione di liberi discorsi, e in questi la libertà, pluralità, continua innovazione e creazione intellettuale, e il discorso in atto di libertà. Vi è tuttavia un punto su cui non mi trovo d'accordo con Certeau, vale a dire la connotazione nettamente negativa che egli sembra talvolta conferire al luogo "permanente", che non può essere inteso se non come sito di produzione di potere. Nel suo saggio Che cos'è un seminario, i legami del discorso circoscritto con quelli del pensiero più generale e maturo esposto in L'invention du quotidien appaiono evidenti. Se Certeau ha il merito di ridare visibilità, potere e valore alle microtattiche quotidiane di resistenza, egli la definisce però in buona parte come un' "estetica del colpo", un'arte che si limita a cogliere occasioni, e che, costituendo luoghi sempre transitori e aperti, così come lui pensava i suoi cercles d'interlocution, non edifica costruzioni di resistenza, e non elegge il luogo stesso a posta in gioco di lotte, come luogo dove lo svelamento della doxa e dei processi di imposizione degli schemi classificatori divenga possibilità permanente, e aperta alla discussione e agli interventi esterni all'accademia. Lo stesso Foucault, nel suo disegnare quell'arazzo di metafore che costituiscono tante possibili eterotopie, non ricorreva solo alla figura della nave, ma anche a quella del teatro, che può ospitare sullo stesso sfondo molteplici scenari, o del giardino orientale, ricomposizione della molteplicità che costituisce il cosmo. Ogni spazio, ogni pratica, ogni narrazione, costituiscono un campo di significati in cui possono contemporaneamente sussistere differenti livelli simbolici e semantici, diverse memorie, diverse funzioni e discorsi, che non rimandano necessariamente al gioco di un potere o a (talvolta) mute e puntiformi, sfuggenti strategie di resistenza, in un rapporto di reciproca esclusione. La frontiera sussiste in questo spazio di apertura del mondo accademico alla discussione e alla messa in discussione, alla rinuncia all'imposizione di un ordine dogmatico, e all'inclusione degli esponenti di punti di vista e azioni sociali tra i più diversi. Luce Giard enumera alcuni dei soggetti con i quali Certeau ebbe l'occasione di intessere un proficuo dialogo negli anni di intensa ricerca sociale: "militanti di quartiere che si mobilizzavano contro le grandi operazioni di pianificazione urbana decise da un potere tecnocratico, educatori in ambito carcerario o nelle periferie diseredate, associazioni di aiuto agli immigrati, architetti responsabili dell'edificazione di nuove città nella regione parigina, giovani donne che cercavano di prendere in gestione la loro salute, minoranze che difendevano una tradizione e una lingua regionali contro lo Stato centralizzatore e unificatore etc." (Giard 1990: 25). E la lista potrebbe allungarsi ancora. Il seminario non deve limitarsi a mio avviso ad essere evento di trasgressione errante e fuggitiva, quanto piuttosto "straniero" sempre insidiato nel centro, apertura che presiede a una tensione continua tra centro ed esterno, e che può farsi, e deve mirare, a una messa in discussione permanente delle logiche di costituzione del potere accademico in forma di discorso che tende a imporre un ordine, ponendone le premesse per continue interrogazioni critiche. Chi conduce il seminario stesso ha una gran parte di responsabilità nel realizzare questa concezione. L'antropologo, che è colui che sul campo è chiamato a mettere da parte prestigio, e capitale simbolico e culturale di cui gode nello spazio accademico, confondendosi con i soggetti della sua ricerca (ai quali, dell'accademia poco spesso importa), e avendo tanto più successo in essa quanto più condivide tempo, pratiche, cognizioni e sentimenti con gli altri, costituendo sulla comune esperienza condivisa, sul dialogo e sullo scambio la ricchezza e la riuscita del suo lavoro, deve sentirsi in prima persona coinvolto a far sì che questa sua "trasgressione" dagli schemi classificatori sociali e questo suo "sconfinamento" non siano un "decentramento" di pratiche destinato a rimanere ben circoscritto, in uno spazio che rimarrebbe in questo caso "periferico", marginale e, au but du compte, interiorizzato. Ma la riuscita piena del seminario sarà nel costituire la frontiera, il segno visibile forse più di altri degli attraversamenti e di trasformazioni multidirezionali, entrando sempre più in tensione costruttiva con l'ordine del luogo universitario. Qui pratiche, saperi, discorsi e punti di vista si devono incontrare su un piano di dialogo paritario e di reciproco arricchimento, di continua creazione di nuovi discorsi, proliferazione di parole che innova e amplia continuamente le possibilità offerte dalla langue accademica e disciplinare, parole che entra ed esce dallo spazio universitario e circola costantemente al suo esterno. Ritengo che questa visione concordi in parte con quanto afferma Bourdieu, in Esquisse pour une auto-analyse (preferisco il titolo originario alla pur creativa traduzione, di magrittiano sapore, Questa non è un'autobiografia): "La forza dei gruppi integrati, il cui limite (e il cui modello pratico) è la famiglia conforme, deriva in gran parte (…) da una complicità fondamentale nel fantasma collettivo, che assicura a ciascuno dei membri l'esperienza di un'esaltazione dell'io, principio di una solidarietà radicata nell'adesione all'immagine del gruppo come immagine incantata di sé" (Bourdieu 2005: 18). Dove andrebbe a finire dunque l'umiltà metodologica del ricercatore sociale, se egli non assumesse la sua emicità ad impegno etico primario nelle mura accademiche, consentendo la creatività discorsiva, l'ingresso e il confronto con i discorsi altri e degli altri? Lo svolgimento di un seminario andrebbe improntato al modello dell'isonomia, l'equilibrio tra forze fisiche su cui poggia l'ordine cosmologico secondo Anassimandro, e che si sarebbe tradotto per Vernant, nella polis ateniese di Clistene, nella scomparsa di un punto centrale privilegiato. Chi coordina un seminario deve essere, uso ancora le parole di Bourdieu, "il lavoro permanente di incoraggiamento e di unificazione che spetta all'animatore, sorta di direttore d'orchestra e di regista, se non, più modestamente, di allenatore" (ibid: 28), o ancora di suggeritore, indicatore di direzioni, che può, e deve mettere in circolo, il suo sapere e la sua esperienza. Il modello che Certeau proponeva per le pratiche di resistenza sociale, per quelle arti che "giocano" l'ordine, era il ritorno 58 all'altro, o essere complementari, a seconda dei casi. E ci sarebbero ancora i modelli di dono assolutamente gratuito proposti da Jacques Derrida o Remo Guidieri. Anche il modello del dono, coerentemente con quello del seminario qui proposto, deve godere dunque di una sua apertura alla pluralità e creatività dei discorsi, al loro confronto e alla loro circolazione. all'economia del dono, quale forma di détournement e di "etica sociopolitica" opponentesi al potere dominante, al discorso ideologico, e alla circoscrizione progressiva di tempi e di luoghi. Nel far questo egli si richiamava espressamente al potlatch nella sua lettura maussiana, intendendolo come gioco basato sulla reciprocità e su di un "obbligo di dare" (Mauss 2002: 65). Credo che il modello del dono si attagli mirabilmente a una idea di seminario, che fondi una sua etica della tenacità su una "nobile gara", dove la competizione va intesa non come un superare l'altro, ma come superarsi reciprocamente nel dono, inteso come contributo arricchente e fondamentale alla riuscita del seminario stesso, "obbligo a ridistribuire tutto ciò che si è avuto, (…) di cui si è stati beneficiari (ibid: 68). Un obbligo che è anche questo di apertura all' Altro (come d'altra parte il kula), e che, per continuare con le metafore, "non ha neppure senso (…) se non è fatto a persone diverse dai componenti della famiglia, del clan o della fratria. Bisogna invitare chi può e vuole o viene ad assistere alla festa, al potlàc" (ibid: 68-69. Il corsivo è mio). Il riferimento maussiano all'obbligo di redistribuire può rimandare a un differente senso o linguaggio del dono, quello di Jacques Godbut, che porta alla donazione in senso verticale, da una generazione all'altra, comportando un debito positivo che non contempla esigenza di restituzione a breve scadenza, ma piuttosto la trasmissione dell'eredità alla generazione successiva. E, nel caso del seminario, non penso che i due modelli si escludano reciprocamente, ma piuttosto che possano coesistere l'uno accanto * Università degli Studi di Milano-Bicocca Riferimenti bibliografici Pierre Bourdieu, 2005: Questa non è un'autobiografia. Elementi per un'autoanalisi, Feltrinelli, Milano. Michel De Certeau, 1980: L'invention du quotidien, Gallimard, Paris. Jacques Derrida, 1996 : Donare il tempo. La moneta falsa, Cortina, Milano. Luce Giard, 1980: "Histoire d'une recherche", in De Certeau, M, L'invention du quotidien, Gallimard, Paris. Remo Guidieri, 1999 : Ulisse senza patria, l'ancora led mediterraneo, Napoli. Jacques Godbut, 1998 : Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino Michel Foucault, 1994: "Eterotopia", in Millepiani, n. 2, Mimesis, Milano. Marcel Mauss, 2002: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino. Jean-Pierre Vernant, 1970: L'organizzazione dello spazio, in Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino. Quei discorsi 'inconcludenti' di Elena Gagliasso Luoni* Alla Facoltà di Filosofia dell'Università de 'la Sapienza' di Roma (tra il 1989 e il 1996) ho avuto la fortuna di praticare due seminari di studio. Due esperienze a carattere assai diverso, ma di cui voglio parlare insieme. La loro evoluzione dinamica, più che i contenuti, qui c'interessa: nascita, sviluppo e successivo 'declino', in quanto gruppi informali, dal momento che entrambi sono diventati successivamente qualcosaltro, di più strutturato. Si è trattato del 'Gruppo di interesse in Filosofia della Biologia', nato spontaneamente come sotto-settore della Silfs (Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza) e rapidamente resosi autonomo, e del 'Gruppo Donne & Filosofia' che ha messo a ragionare di femminismo e filosofia studentesse e docenti insieme. Analoga la loro nascita, assolutamente informale. Analogo, dopo un po' di anni, il loro esaurirsi come semplice seminario ristretto per passare a prove più impegnative: in un caso una Scuola di Specializzazione Estiva in Storia e Filosofia delle Bioscienze1, e un motore di convegni, pubblicazioni, ricerche finanziate; nell'altro, una Rivista semestrale, Sofia. Materiali di filosofia e cultura di donne, che ha sviluppato le sue pubblicazioni per svariati anni. Nel primo caso s'era trattato di una sorta di 'piccola sfida', lanciata da alcuni di noi, filosofi e storici della biologia, per vedere se si sarebbe riusciti a parlare tra filosofi, epistemologi, storici delle scienze del vivente, biologi, neurofisiologi, naturalisti2. Parlare nel senso proprio di dire e farsi capire, tradurre gerghi specialistici, condividere sistemi culturali diversi e produrre un contesto, un setting direi, in cui, liberi da status accademico, da target, da reciproche esibizioni di appartenenza di scuola, ci si metteva in gioco. Ci si 'contaminava'. Ecco, intanto, il primo punto di risonanza che incrocia il discorso di de Certeau: contaminazione, meticciato, o come provocatoriamente egli scriveva, bastardaggine, ma anche, e di converso, un mettere meglio a fuoco "il proprio dal non-proprio". Nel corso degli incontri mensili, di sabato mattina, non uscivamo certo, dopo queste contaminazioni, uguali a come eravamo arrivati. Si producevano effettivamente quelle "porte di uscita e rientro" che de Certeau mette a tema: "dei modi per prendere le distanze in rapporto ai nostri compiti e delle possibilità di ritornarvi in modo differente". Non c'era un centro programmatico di lavoro, ma una libertà di mettere in gioco letture, idee, critiche reciproche, esperienze, vuoi di laboratorio, 59 vuoi di didattica. A volte una lettura comune, più spesso l'estenuante giustificazione inconclusa di quale avrebbe dovuto essere un tema prioritario per il gruppo: insomma discorsi e metadiscorsi, mentre la filigrana dei modi di pensare di ciascuno e i propri linguaggi specialistici si intrecciavano con il modo di pensare degli altri. Dopo, al ristorante a San Lorenzo, si continuava, mai d'accordo, sempre spostati ciascuno dal proprio nucleo di sicurezze. Divertendoci. 'Divertendoci' anche nel senso più profondo del termine: 'di/vertere'= uscire dal percorso noto. Era quello lo scarto critico di esperienze e il confronto "tra ricerche che non è il seminario a creare". Poi chi si era sobbarcato, per questo puro gusto, il viaggio dalle città fuori Roma era accompagnato alla Stazione o proseguiva la giornata come nostro ospite. Nel gruppo si sono saldate alcune amicizie, ci si è conosciuti a fondo nelle idee e negli stili personali come raramente ci si conosce tra colleghi e affini. Il gruppo delle ragazze-filosofe era invece partito, come si dice, 'dal basso'. Alcune studentesse erano venute a coinvolgerci, noi più grandi e docenti, per discutere di femminismo dentro l'Università, a partire da testi di filosofe ed epistemologhe francesi e anglosassoni e dalla concreta possibilità di invitarne alcune3. In questo altro gruppo, più uniforme dal punto di vista disciplinare, le differenze erano insite nel ruolo: studentesse, dottorande, docenti. Ma dopo poco lo si dimenticava. Anzi la tensione inespressa era a compattare maggiormente una, già data, omogenità di genere, confrontandola con gli studi del 'pensiero della differenza', linea teorica egemone in Italia in quegli anni. Una richiesta implicita di riferimento di genere che fosse positivo e non marginalizzato restava inevasa (noi docenti allora si era semplici ricercatrici). Ma il gruppo funzionava bene, tenendo insieme riferimenti testuali e narrazione in prima persona, misurandosi con lo studio di filosofe teoriche o di epistemologhe contemporanee che non avevano un luogo deputato nella struttura dei corsi ufficiali. Ma insieme prendendone le distanze attraverso il proprio bagaglio filosofico più classico: un andirivieni insomma. Così si sfatavano omogenità inesistenti, mentre alla competenza di ciascuna sul proprio terreno filosofico si affiancava "l'esame dei conflitti di potere impliciti nello scambio di parole", e, quindi, la necessità di proteggere l'entità-seminario nel proliferare delle divergenze di posizioni. Si leggeva dunque, si discuteva, e si trattava con le nostre differenze, di formazione e gusti filosofici, senz'altro con minore disinvoltura e più passionalità manifesta che nell'altro gruppo. Un pensiero diacritico insomma sulla duplice scelta di fare 'della filosofia' e di assumersi (se, come, quanto, con che rischi) l'identità di essere delle filosofe e non dei soggetti neutri. Si scrivevano brevi testi a circolazione interna, senza finalità di stampa, che mettevano a nudo idiosicrasie e appassionamenti teorici: quasi un compitino, 'Io e la filosofia', non era in realtà naivetè scolastica, ma spazio per dire alle altre (e a se stesse) su un percorso di autoriconoscimento. Per entrambe i gruppi sto parlando di una fase che, secondo un'ottica funzionale accademica, possiamo definire iniziale, di radicamento, a cui ne è successa, come s'è detto, un'altra, maggiormente ordinata, più riconosciuta, con un accesso allargato, compiti e responsabilità precise e una visibilità più autorevole. Ma, nel soffermarmi su questa fase germinale, penso che non è un caso che in tutti e due i contesti, una maturazione e un accesso più istituzionale di un qualche successo si sono accompagnati a una diminuzione di passione dell'esserci e del fare insieme. Ciò non solo per l'ovvietà del fatto che gran parte del tempo insieme era scandito, anzi incalzato, da impegni più organizzativi, accademici o redazionali (nonché finanziari), ma anche perché -mi sembra ora di poterlo riconoscere meglio- il cuore della fecondità intellettuale, creativa e relazionale, stava proprio dentro quella dimensione di non spendibilità immediata, di quasi inesistente 'ottimizzazione': in una parola di spreco. Spreco dal punto di vista di ritorni concreti, quasi una gratuità imbarazzante, dedicata a noi stessi, che non sempre si può accettare e praticare. Dunque un prima e un dopo. Due fasi nella storia di questi due gruppi che sarebbe davvero riduttivo contrapporre solo secondo un criterio romantico di un prima più libero e autentico e di un dopo inevitabilmente più imbrigliato da regole, o disciplinamenti con "funzione restrittiva e costrittiva"4. Sono un prima e un dopo piuttosto come bilanciamento mai saturo tra spreco e ottimizzazione quelli che un seminario nato spontaneo incontra. Come accade per la vita di ciascuno e per la ridondanza molteplice e senza finalità programmatiche di tutto ciò che è vivente, anche un seminario di questo genere (come cosa viva, come rete di relazioni e saperi, non nato per ragioni accademiche) incontra questo bilanciarsi -e sbilanciarsi- tra una gratuità 'inutile' dal punto di vista istituzionale e un ritaglio e rarefazione di potenzialità, obbligati dal suo corroborarsi. Per come è fatta l'Università, ma forse, direi, qualsiasi istituzione, un seminario che non trova esiti di crescita in visibilità e spendibilità (a qualsiasi livello si voglia intendere ciò, dalla costruzione di pubblicazioni, agli incontri congressuali, alle didattiche più o meno specialistiche) può solo fidare nelle dinamiche del gruppo, nella sua intelligenza locale e diffusa e soprattutto nell'eventualità storica e contestuale di fasi propizie; scorci che si possono aprire come oasi, legittimando l'esercizio dell'intelligenza 'senza alcuno scopo di carriera'. Fasi sporadiche però, non normalità accademica. Anzi, di converso, è anche la trasformazione in qualcosa di più impegnativo e solido che permette di considerare a posteriori questi gruppi come fecondi, dal momento che il loro stato più informale e magmatico non sarebbe potuto durare, come tale, sul lungo periodo. Il segno che esperienze simili lasciano è siglato dall'apertura. Apertura mentale e relazionale. Con quanto di irrisolto, di affasciante anche, ma di lontano dai sistemi di rassicurazione è peculiare delle esplorazioni non centralizzate o nettamente finalizzate. Esplorazioni fatte per noi da discorsi mai si concludevano. Così, per qualcuno, proprio per l'esperienza che vi si è vissuta dentro, quel tipo e quella fase del seminario ha fatto cambiare senso al disvalore connotativo solitamente legato alla in/concludenza di un discorso. 60 Note Massimo Stanzione e la sottoscritta. 3 Furono infatti invitate le filosofe Luce Irigaray da Parigi e Rosi Braidotti da Utrecht. * Università di Roma “La Sapienza” Indico il sito: http://www.gedy.it/unicivica. 2 Tra i biologi Pietro Omodeo (Università di Siena), Marcello Buiatti (Università di Firenze), Saverio Forestiero, Guido Modiano, Francesco Amaldi (Roma 'Tor Vergata'). Neurofisiologi: Aldo Fasolo (Università di Torino), Umberto di Porzio, 1 4 L'espressione è di Foucault (M. Foucault, L'ordine del discorso, Einaudi, Milano, 1972 (ed. or. 1970), pp.29. E inevitabile è ricordare l'intero apparato della sua analisi, ovvero quei meccanismi di controllo ed esclusione visti in relazione alle discipline, ma usabili anche nel caso di istituzionalizzazioni ben più blande: "…principio di controllo della produzione di discorso (…) che fissa dei limiti col gioco d'una identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole" (ibidem). Paolo Bazzicalupo (ISBN di Napoli). Storica delle neuroscienze Carmela Morabito (Università di Chieti) e storico della medicina Gilberto Corbellini (La Sapienza). Filosofi della Scienza: Vittorio Somenzi, Barbara Continenza, A proposito di giocatori di Alberto Giasanti* Che cos'è il Giuoco delle perle di vetro? L'invenzione viene attribuita ad un musicologo che costruisce, sull'esempio dei pallottolieri per bambini, un telaio con alcune dozzine di fili tesi, sui quali allineare perle di vetro di grandezza, forma e colori diversi. I fili corrispondono al rigo musicale e le perle alle note. Con le perle di vetro si compongono frasi o temi musicali che poi vengono modificati, sviluppati, modulati o contrapposti ad altri temi. Un gioco pratico per gli studenti di musica lasciato presto andare in disuso, ma ripreso dai matematici che lo utilizzano per esprimere fatti matematici con segni e abbreviazioni particolari. Da quel momento in poi pare che il Giuoco venga accolto e applicato in tutti i campi delle scienze, creando ciascuna un linguaggio di formule, abbreviazioni e possibili combinazioni. Così il Giuoco assume un proprio linguaggio e proprie norme, ma limitatamente a ciascuna disciplina e in qualche modo rimane ancora prigioniero dei recinti e delle barriere che ogni scienza particolare si costruisce. Incomincia però ad affascinare molti tra studiosi, studenti, accademie, ordini professionali, artisti, letterati, filosofi, sino a farlo diventare un'arte e una scienza elevata, presentandosi come l'unione mistica di tutti i membri dell'Universitas Litterarum o come una sorta di "teatro magico". Ora non basta più seguire intellettualmente le successioni di idee e il mosaico spirituale di un Giuoco con attenzione particolare e con l'esercizio della memoria, occorre anche una profonda dedizione dell'anima. In questo modo il Giuoco si arricchisce di nuove funzioni con gli elementi della contemplazione e della meditazione e diventa una festa pubblica: una specie di linguaggio universale con il quale i giocatori delle perle di vetro sono in grado di esprimere valori mediante simboli e di metterli in reciproco rapporto. A questo punto diventa necessario un Magister Ludi che possa presiedere al Giuoco delle perle di vetro e un luogo dove possa essere coltivato e sviluppato: la Provincia pedagogica che diviene il villaggio dei giocatori, la sede delle varie scuole e il luogo di residenza del Maestro del giuoco. Da qui inizia la storia di Josef Knecht, nel Giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse, che, dopo un lungo percorso di individuazione tutto teso al raggiungimento dei gradi più alti di spiritualità, viene nominato nuovo Magister Ludi, accorgendosi in quello stesso momento che la Provincia pedagogica non gli basta più. E' necessario fare esperienza del mondo fuori, risvegliarsi alla vita profana, affrontare difficoltà, dolori e privazioni, scoprire antitesi ardite per potere alla fine riunire anima e corpo, spiritualità e animalità, intelletto ed emozioni e viverli come poli di un'unità. Abbandona allora la carica di Maestro del Giuoco e ritorna nel mondo per morire e rinascere in un giuoco continuo di profondità abissali e di altezze senza fine, di ombre bianche e di ombre nere, di angeli e di demoni dove le doppie nature sono gli specchi non riconosciuti delle nostre società. Ho sempre pensato, sin dai miei primi anni di insegnamento universitario in Sicilia e di esperienza delle "150 ore" nei paesi bracciantili dei Nebrodi, che la provincia pedagogica hessiana fosse un luogo da costruire insieme a tutti coloro, uomini e donne, che intendevano riconoscersi come giocatori delle perle di vetro e che l'università potesse essere il territorio nel quale praticare il giuoco della conoscenza dove studenti e docenti agiscano, ciascuno per la sua parte, l'esperienza libertaria del sapere così che si possa consolidare una forma di resistenza contro il potere, imparando a vivere la vita in modo consapevole. Cosa non facile e non data una volta per tutte, come ci dice Giuseppe Pontremoli nel suo Elogio delle azioni spregevoli, ma compito quotidiano che si deve continuare a ripetere poiché l'invincibile ansia di conformismo, di cui parlava Pasolini nelle Lettere luterane, è sempre in agguato nel profondo delle nostre coscienze. Uno spazio critico in cui esserci come persone intere e nel quale affrontare con passione i contenuti formativi, ma perseguendo qualsiasi possibile sconsacrazione e preparandosi sempre a tradire il potere. Per capire il significato di "persone intere" o di "restare intero" mi servirò di un esempio. A chiusura di un seminario sull'ombra tenuto qualche anno fa avevo chiesto ad un gruppo di studenti di sociologia di mettere in evidenza gli aspetti dell'ombra più significativi e alcuni di loro avevano prodotto una serie di disegni in sequenza. Nel primo era rappresentato un bambino 61 disegnato tutto intero, mentre i disegni successivi rappresentavano quello stesso bambino privato di qualche parte del corpo, man mano che passava dai primi anni di vita con i genitori alla socializzazione nei vari ordini di scuola, dalle elementari all'università. L'ultimo disegno rappresentava solo la testa: il resto del corpo si era dissolto. Perché? Man mano che il bambino cresceva, il sacco con dentro le sue ombre si ingrandiva e si appesantiva fino ad un livello di insopportabilità tale per cui al bambino, diventato adulto, non restava che tagliare il nodo scorsoio che lo legava al sacco e all'ombra, pensando in questo modo di liberarsi per sempre dei suoi lati oscuri e di conservare solo quelli luminosi. Ma così facendo perdeva tutta la sua corporeità e spariva come essere umano per assumere la veste di automa appiattito e governato dalla sola testa. Automi che potranno ricoprire ruoli sociali e professionali di potere o, al contrario, ruoli subordinati ai primi, ma in entrambi i ruoli si sentiranno, comunque, deresponsabilizzati e disumanizzati in quanto svuotati di quelle ombre che nel tempo avevano proiettato, con apparente soddisfazione, sugli altri. Cerchiamo allora di non diventare poliziotti di noi stessi, ma di trovare una modalità di vivere la vita come un percorso di individuazione dove la pigrizia si coniuga con l'energia e dove, per diventare responsabili delle proprie scelte, si paga il prezzo del dubbio, dell'inquietudine, dell'incertezza, della provvisorietà. Un percorso insomma tra borgo e bosco, stando attenti a non soffermarsi troppo a lungo nell'uno e nell'altro luogo. E' in grado oggi l'università di indicare dei percorsi di conoscenza critica o ha ragione Kafka quando, nei Racconti, esprime l'idea che l'educazione mira solo a respingere l'assalto delle persone ignoranti alla città e poi a introdurre quelle stesse persone umiliate nella menzogna? * Università degli Studi di Milan-Bicocca L'università, l'istituzione e i suoi margini di Michele Parodi* Du bonheur qui n'est que de l'anxiété différée. Du bonheur bleuté, d'une insubordination admirable, qui s'élance du plaisir, pulvérise le present et toutes ses instances.1 È pensabile un'università critica? In che modo l'operare di ognuno si iscrive e posiziona nelle maglie di un ordinamento per sua necessità rigido e burocratico? Come è possibile nei margini dell'istituzione esprimere il proprio disagio, la propria curiosità, una creatività in grado di confrontarsi e confondersi con i regolamenti, le gerarchie, le rivalità che l'istituzione produce? Alla fine dei nostri sforzi, osservava Basaglia nel 1965, in un intervento dal titolo Potere ed istituzionalizzazione, "ci si incontra tutti allo stesso punto, di fronte allo stesso problema: davanti alla necessità di un'organizzazione e all'impossibilità di concretarla, davanti al bisogno di formulare un abbozzo di sistema cui riferirsi, per subito trascenderlo; al desiderio di provocare dall'alto gli avvenimenti e alla necessità di attendere che essi si elaborino e si sviluppino dalla base"2 . Il problema è anche quello di "come" organizzare un lavoro comune in cui riconoscere reciprocamente la propria umanità in cammino, di come immaginare una riflessione che si vorrebbe ininterrotta: invenzione di "un modo di organizzare ciò che non può e non deve essere organizzato"3 . Per rispondere alle precedenti domande - a fronte del recente proliferare di Master, Scuole di Specializzazione, corsi di aggiornamento, che segnalano un'intensificazione e un potenziamento delle forme di privilegio selettivo, a favore, come è sempre stato, dei ceti più ricchi - potremmo iniziare col chiederci se l'università debba continuare a circoscrivere le sue attività alla produzione, trasmissione di conoscenze specialistiche, e rimanere la custode di un insieme di qualificazioni di professioni specifiche, oppure se non sia un suo peculiare compito anche quello di decostruire incessantemente i sistemi di saperi e i regimi discorsivi che contribuisce a formare nell'esercizio delle sue "funzioni" - decostruire cioè se stessa. Come dichiarava, con grande chiarezza, Ivan Illich, "la scolarizzazione […] è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea quei miti che per una società consumistica sono una necessità. Per esempio ti fa credere che l'apprendimento può essere diviso in varie parti e quantificato, o che è qualcosa che acquisisci solo attraverso un processo. Un processo nel quale tu sei il consumatore e qualcun altro l'organizzatore, e tu collabori producendo la cosa che consumi e interiorizzi"4 . La scolarizzazione secondo questa prospettiva può essere pensata come il rituale di fabbricazione di una credenza occidentale: "Il rituale che crea un mito su cui la società contemporanea poi costruisce se stessa. Ne deriva, per esempio, una società che crede nella conoscenza e nel confezionamento della conoscenza, che crede nell'invecchiamento della conoscenza e nella necessità di aggiungere conoscenza a conoscenza, che crede nella conoscenza come valore - non come bene, ma come valore - e che quindi la concepisce in termini commerciali. […] È un investimento di capitale, ma è anche una forma di controllo sociale, di stratificazione, è la creazione di una società di classe suddivisa in sedici livelli con un numero sempre minore di 62 dell'apprendimento istituzionale - i corpi, i piaceri, i saperi, nella loro molteplicità e nelle loro possibilità di resistenza. Secondo Foucault, i punti del contrattacco devono essere i corpi e i piaceri9. Un corpo sempre incompiuto e mobile che dissipa la regola, la definizione, e la sua stessa identità: corpo erotico, danza - come quella di Salomè per il re Erode10. Contro ogni burocratizzazione e ogni perdita di senso si tratta di far valere un'operosità e una parola aperta ad un mondo vitale, apertura all'evento e alla sua irriducibilità: decostruzione dei regimi discorsivi, dei dispositivi incorporati e liberazione dell'espressività dei corpi. È vero, però, che non ci si libera nella solitudine, in un'individualità astratta. Soli non si può che asservirsi ai meccanismi che ci dominano. Allora, diventa importante motivare soggettività individuali verso un'organica soggettività creatrice, formazione non di una felicità solipsistica, ma di una felicità partecipata. Ricerca di una felicità non trascendente ma espressione di un lavoro collettivo efficace, pratico: dipendenza correlativa in cui sviluppare la propria singolarità cercando in un'operosità condivisa gli strumenti della propria emancipazione e del proprio riconoscimento. Ciò può avvenire per tramite di una sperimentazione quotidiana fatta di incontri, di prove, di contatti che cercano con coraggio di stabilire relazioni dialogiche, affetti, piuttosto che distanze, gerarchie, imposizioni efficentiste e totalitarie. Allora, nel rapporto dialogico, la differenza si fa creativa, e l'invenzione del quotidiano dà forma a percorsi di vita; un pensiero che non accettando la dicotomia mondo/uomini, io/altro, riconosce tra loro una solidarietà, «percepisce la realtà come processo, e la capta in costante divenire e non come qualcosa di statico. Non si scinde dall'azione. "Si bagna" costantemente nella temporalità, i cui rischi non teme»11. Certo, "l'esperienza del tempo comincia in un gruppo con l'esplicitazione della sua pluralità. Occorre riconoscersi differenti, (…) perché la parola vi divenga lo strumento di una politica (l'elemento linguistico di conflitti, di accordi, di sorprese, insomma di procedure demo-cratiche)"12, perché un agire pratico e teorico consenta la creazione di eventi nel tempo, delineando limiti che producono degli scarti. Questi scarti ("luoghi di alterazioni") permettono di prendere le distanze dai nostri compiti, rendendo possibile ritornarvi in modo differente. Bisogna trovare un rigore adeguato a questa bastardaggine: alternarsi di esposizioni teoriche e racconti, storiografie interconnessione di osservazioni e investimenti personali, combinazione di una teoria esplicativa e di un esame dei conflitti di potere impliciti in un dialogo. "Mangiare, bere, parlare della storia personale legata ad un lavoro", ad una tecnica, ad una metodologia. Pratiche trasformatrici che operano dei "tagli" in grado di articolare tra loro dei sistemi codificati e dei corpi (luoghi opachi e provvisori di bisogni e piaceri). Rivoluzione silenziosa prodotta da un'attività brulicante13. Se l'antropologia ha compreso i limiti di pratiche di campo incapaci di riconoscere l'Alterità dell'altro e la poieticità della coevità dell'incontro etnografico, un'analoga svolta andrebbe emarginati quanto più si sale. […] Il sistema crea studenti perfettamente abituati al fatto che ciò che imparano dev'essere loro insegnato, e che nulla di ciò che viene loro insegnato dev'essere realmente preso sul serio"5 . Per ostacolare i congegni disciplinari che costituiscono la struttura portante di uno scenario così preoccupante (in alcuni aspetti superato da forme più complesse e mobili di gestione del sapere, forme però che sorgono e si sviluppano a partire dalla crisi di questo panorama), Illich, nei lavori successivi a Descolarizzare la società, ha segnalato la necessità di costruire e affermare, nel proprio lavoro di studenti-docenti-ricercatori, rapporti di comunanza, modalità di lavoro comune: una politica dell'amicizia come pratica, come modo di concepire i rapporti e di stare dentro le cose, forme di produttività e di convivialità che si oppongono alla pervasività dei dispositivi di potere. Su questa medesima linea d'azione, Michel De Certeau, nell'articolo qui presentato, sottolinea l'importanza di inventare nuove politiche della parola, nuove forme conviviali capaci di restaurare la relazione tra il lavoro teorico e la sua "esteriorità", politiche in grado di fare l'esperienza di una rete locale dove inscrivere lo studio, la conoscenza e la sua trasmissione, in grado di innestare la radicalità della ricerca ad una com-partecipazione effettiva ai problemi che emergono da un territorio. Ciò configura la possibilità di creare legami più stretti "tra unità universitarie e nuclei sociali fortemente impiantati […]. Non per una confusione di generi, che è sempre nefasta, ma in vista di connessioni nel mantenimento delle differenze"6. La ricerca sociale per sua natura si svolge nel tempo, in una processualità che implica la cura dell'altro, della sua Alterità e della sua esistenza. Cura dell'altro che significa, allora, anche cura della propria Alterità, della propria esistenza. Se ora torniamo ad esaminare le argomentazioni di Illich e le fonti della sua ispirazione, piegando al campo dell'istruzione, con una parafrasi forse irriverente, i ragionamenti di Foucault sulla sessualità, possiamo individuare nella società moderna e contemporanea, un crescente incitamento ad un desiderio di istruzione gratuito e formale, un imperativo che crea quell'elemento immaginario che è il "sapere" - la finzione dei dotti come "significante unico e significato universale"7 - con l'ironia di un dispositivo che «ci fa credere che ne va della nostra "liberazione"»8. In questa prospettiva, tutte le tecniche di sviamento, di micro-sovversione, sperimentate dai giovani nella scuola e nell'università, possono essere osservate con uno sguardo differente, strumenti e "furberie" di gruppi che non avendo un luogo proprio, devono districarsi in una rete di forze e di rappresentazioni stabilite: ripiegamenti disincantati per lo più fallimentari, ma anche tentativi ostinati che cercano gli inneschi, le circostanze imponderabili, i punti di non ritorno, dove il possibile torni a fluire. Il bersaglio polemico qui non può essere certo l'istruzione, la scuola, la conoscenza, ma il dispositivo ed il desiderio (artificiale) dell'istruzione e del sapere: bisogna liberarsi dall'istanza dell'istruzione se si vuole far valere contro gli appigli del potere - con un rovesciamento tattico dei meccanismi 63 compiuta nel costruire relazioni dialogiche tra chi è impegnato a trasmettere il sapere di una disciplina e chi è interessato ad appropriarsi criticamente dei suoi strumenti conoscitivi. Relazioni che permettano di cogliere le rispettive distanze, le differenze anche istituzionali dei rispettivi ruoli, ma soprattutto le differenti motivazioni che orientano le ricerche proposte dai docenti e quelle a cui aspirano gli studenti, rendendo il loro sguardo capace di incrociarsi e trasformarsi con quello dell'altro. Potrebbero emergere allora domande che i "ricercatori patentati" non percepiscono più, domande ancorate ai luoghi concreti in cui si spendono vite concrete e alle responsabilità che l'appartenenza ad un territorio sociale impone. Come dichiarò Alain Touraine nel 1968 durante il movimento di Nanterre: "Quanto più l'università sarà moderna e scientifica tanto più sarà impegnata, politica e ideologica. […] Ma se la politica dovesse uscire dall'università, allora ne uscirei anch'io". Si tratta di impegnarsi nel riscattare l'istituzione pagando il rischio della sua libertà, del salto nel buio che si deve compiere nel perenne sforzo di emanciparsi da ogni vincolo e da ogni sovrastruttura irrigidita. Camminando per i corridoi della Bicocca, come nelle hall di un aeroporto, mi accorgo come lo spazio che mi circonda assuma le figure inquietanti di un nonluogo, un campo caratterizzato da una non appartenenza politica, in cui ogni possibilità di risignificazione dello spazio è sospesa e congelata. Gli studenti vanno e vengono, stazionano brevemente nei crocicchi dove ancora è possibile fissare un appuntamento. Scendono nella mensa dove una folla di corpi costretti in spazi esigui è nutrita e sfamata. Visione forse apocalittica e ideologica, la cui stranezza segnala, tuttavia, l'incapacità di sorprenderci di ciò che è incorporato alle nostre pratiche quotidiane. Aggiungiamo, per concludere con le parole ibride di Augè e de Certeau, che un nonluogo "non esiste mai sotto una forma pura; dei luoghi vi si ricompongono; delle relazioni vi si ricostituiscono; «le astuzie millenarie» dell'«invenzione del quotidiano» e delle «arti del fare», di cui Michel de Certeau ha proposto analisi così sottili, vi possono aprire un cammino e dispiegarvi le loro strategie"14. Note * 1 Università degli Studi di Milan-Bicocca René Char, Fogli d'Ipnos, Einaudi, Torino, 1968 [1948], 145, p. 80. 2 F. Basaglia, "Potere ed istituzionalizzazione", in Scritti I, 1953-1968, Einaudi, 1981 [1965], pp. 292-293. 3 Ibidem, p. 292. 4 "Il mito dell'istruzione", in D. Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, Elèuthera, 2003 [1988]. 5 Ibidem. 6 M. de Certeau, Che cos'è un seminario?, in questo numero di Achab. 7 8 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2001 [1976], p. 137. Ibidem, p. 142. 9 Ibidem, p. 140. M. G. Tundo, "Il corpo impuro della luna", in AAVV, Il Corpo narrato. Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Bari, Terza serie, 1985, VII, 2, 10 Fasano, Schena editore, pp. 153-161. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, 1971 [1970], p. 111. 11 12 de Certeau, op. cit. Ibidem. 14 M. Augé, Nonluoghi [titolo originale Non-lieux], Elèuthera, 1993 [1992], p. 74; cfr. M. de Certeau, L'invenzione del quotidiano. I Arti del fare, Edizioni Lavoro, 13 Roma, 2001 [1990]. Costruire insieme la conoscenza per formarsi di Clotilde Pontecorvo* La definizione di De Certeau di un seminario come "un laboratorio comune che permette a ciascuno dei partecipanti d'articolare le proprie pratiche e conoscenze. È come se ciascuno vi apportasse il "dizionario" dei suoi materiali, delle sue esperienze, delle sue idee e che, per l'effetto di scambi necessariamente parziali e d'ipotesi teoriche necessariamente provvisorie, gli diventasse possibile produrre delle frasi con questo ricco vocabolario, cioè di "ricamare" o di organizzare in discorsi le sue informazioni, le sue questioni, i suoi progetti ". Questa presentazione definisce una proposta che sembra quasi scandalosa nell'Università italiana di oggi, dove almeno nelle Facoltà umanistiche che vengono prescelte dagli studenti come quella in cui io insegno (Psicologia2 di Roma1, laurea in psicologia dello sviluppo e dell'educazione, sia triennale sia specialistica) i numeri dei frequentanti sono sempre intorno alle 100-150 persone, e gli iscritti (quindi gli esami , senza contare i fuori corso) sono intorno a 300 unità per corso di laurea. Sembra scandalosa perché non sembra possibile, nemmeno dal punto di vista spaziale per non dire temporale, poter organizzare qualcosa che assomigli, seppur lontanamente, a un seminario quale quello prospettato da De Certeau. Prescindo per ora dall'organizzazione didattica attuale e faccio riferimento a un'esperienza didattica positiva di qualche anno fa quando, conducendo con pochissimi finanziamenti di Ateneo una ricerca osservativa su un gran numero di cene di famiglie italiane che si poneva addirittura uno scopo comparativo con un'analoga ricerca condotta dall'illustre antropologa Elinor Ochs (2006) a Los Angeles con ben altre risorse. Sottolineo questo aspetto perché forse questi vincoli pratici stringenti mi hanno spinto ad allargare a un gruppo di laureandi il parterre dei ricercatori che è 64 stato composto solo successivamente da quattro brillanti dottorandi e da una postdoc che nel frattempo è riuscita a divenire ricercatrice. Si è così definito un gruppo di ricerca e di apprendimento dove tutti avevano molto da imparare, compresa me stessa, che pur essendo la docente ufficiale, non avevo avuto fino ad allora nessuna esperienza diretta dell'approccio e della metodologia conversazionale. Forse questo è stato un punto di forza del gruppo, in cui tutti dovevamo imparare una grande innovazione, anche chi come me avrebbe dovuto saperne di più. In realtà sapevano molto più di me la post-doc che era Alessandra Fasulo che aveva trascorso un periodo di studio all'UCLA e uno dei dottorandi che era Laura Sterponi (ora Teacher Associate all'Università di Berkeley) che, appena prima del suo dottorato da noi, aveva già effettuato un periodo di studio all'UCLA, con una borsa di perfezionamento post-lauream, ed ha poi continuato a lavorare lì. Il gruppo era composto in forma stabile da me e da Fasulo, che è diventata ricercatrice nel corso della ricerca, e in modo fluttuante da coloro che si sono laureati fra i primi su temi connessi alla ricerca generale: Silvia Amendola, Francesca Riccio, Deny Menghini, Dafne Arbib, Ilana Raccah, Laura Antonelli, Sabine Pirchio, Francesco Arcidiacono, Vivian Liberati, Barbara Maroni, Marilena Fatigante (gli/le ultimi/e cinque successivamente come dottorandi). La peculiarità di quello che non oso chiamare "seminario", ma che era senz'altro un gruppo di ricerca, di studio e di formazione è stata la presenza di tante relazioni didattiche a vari livelli. Senza entrare troppo nei particolari, una utile peculiarità è stata che, spesso, i nuovi laureandi sono stati introdotti alla metodologia della ricerca da uno dei più vecchi laureati, dopo neodottorandi, che ha appreso i criteri e le regola della trascrizione attraverso specifici corsi ad hoc tenuti dai primi laureati: questo ha positivamente moltiplicato i rappporti didattici, rendendoli più accessibili e ridimensionando la percezione dell'autorità, a volte eccessiva, del professore, che può ostacolare l'attività di pensiero di tutti. Non voglio fare l'elogio della mia ignoranza, ma la gestione è stata effettivamente democratica, perché sul nuovo aspetto che veniva studiato dalla singola laureanda, era lei e talvolta il suo tutor paritetico che ne sapevano di più e tutto il gruppo si sentiva di poter intervenire liberamente, quando si analizzavano insieme sequenze interattive, significative a illustrare aspetti rilevanti delle categorie proposte. E forse questa è stata la parte più formativa del lavoro del gupppo di ricerca, anche se non va trascurato il lavoro formativo dell'educatore-pari più competente. Considero questa la parte più positiva del mio lavoro formativo di questi ultimi anni.. Perché è difficile da farsi ora? E' quasi impossibile immaginarlo con dei numeri che si contano a centinaia. Richiede che su di un'area di ricerca converga un certo numero di laureandi, direi non superiore a sei-otto unità, in una unità di tempo di almeno nove mesi. E che ci sia un numero adeguato di figure intermedie: dottorandi o post-doc, anche se non ci sono più borse o retribuzioni per nessuno. E' chiaro che il gruppo può essere tenuto insieme se c'è un comune forte interesse di ricerca. Sto tentando di riattivarlo con una nuova ricerca sulla vita quotidiana di famiglie romane, che dovrebbe avere una nuova fase di analisi e di confronto nel prossimo anno, con laureandi quinquennalisti. Non mi è ancora mai riuscito di farlo con gli studenti triennali, forse perché, pur avendo impostato delle raccolte sistematiche di dati su due argomenti, che si collegano al mio corso del 3° anno di Psicologia dell'alfabetizzazione (lettura interattiva di libri da parte di bambini tra la scuola dell'infanzia e la prima elementare; attività di scrittura agli inizi della scolarità), non ho ora un mio specifico progetto di ricerca sulla emergent literacy. Questa è forse una condizione necessaria affinché si produca un lavoro seminariale reale e paritetico. A me pare che sia indispensabile che tutti abbiano una reale motivazione conoscitiva rispetto all'argomento di studio, come si è creata in un piccolo gruppo di ricerca in corso sulle cene in famiglie con bambini che hanno difficoltà di comunicazione, condotto con la dottoressa Hufty del Centro Synapsi, con due post-doc, tre laureande e alcune famiglie romane, molto aperte e disponbili. Per riassumere, mentre mi pare quasi impossibile mettere insieme più docenti in un seminario, laddove è più realizzabile un gruppo con partecipanti a diversi livelli di formazione e tenuti insieme da un forte interesse di sapere e di capire un oggetto di ricerca reale: solo questo garantisce una buona esperienza di formazione simmetrica. E' questo che ci chiede l'istituzione? No, ci chiede per lo più di fare due o tre corsi di 35-40 ore ciascuno: si migliora la cosa se facciamo un corso di 60-70 ore, come si prospetta ora per diminuire la frammentazione e per far fare meno esami agli studenti? Io non lo credo affatto. Mi pare che bisogna avere il coraggio di diminuire la quantità di ore di lezione frontale e di aumentare invece l'attività seminariale e di approfondimento dei docenti e degli studenti insieme. Se siamo convinti che si apprende solo quando si è implicati in modo diretto, personale e attivo, i docenti si devono porre essenzialmente come guida per l'altrui attività; dobbiamo pensare di introdurre dei grandi cambiamenti nella didattica universitaria, anche in termini generali. Le presentazioni di un corso ordinario, fatte dai docenti, si dovrebbero ridurre drasticamente in numero. E soprattutto dovrebbero dare agli studenti gli strumenti e il tempo necessario per capire di che si tratta con la loro testa, con i loro interessi e mezzi di comprensione e di coinvolgimento. Certo, il contrario di quello che mi è stato chiesto l'anno scorso: di fare due corsi di 32 ore, ciascuno in quattro settimane. Un carico costretto ed eccessivo per me, senza alcuna possibilità di sedimentazione culturale per gli studenti, che non hanno nemmeno avuto il tempo o la voglia di consultare un testo o intervistare un bambino. In questo senso non serve nemmeno molto lo svolgimento di esercitazioni pratiche durante il corso, che io faccio quasi ad ogni lezione. Resta sempre una modalità teleguidata e non autonoma, come invece dovrebbe essere ogni vero apprendimento. Ma è un altro discorso da sviluppare in un'altra sede. * 65 Università di Roma1 "la Sapienza" Transiti e Contraddizioni Riprendere il seminario di Michel de Certeau perché l'università non si metta in sosta di Chiara Rabbiosi* Un paio di anni fa mi è capitato di frequentare alcune lezioni presso l'UF di Antropologie, Etnologie et Science des Religions dell'università di Paris 7, il dipartimento nato da quello in cui aveva insegnato De Certeau, e nel quale gli eredi viventi di una certa epoca (il '68) e di certi maestri (nonostante i tentativi di non esserlo) cercano di portare avanti quel certo modo di insegnare (…e di pensare). Allora, frequentando l'università come studentessa, non sapevo che quello fosse il luogo dove Michel de Certeau aveva discusso e pensato con altri studenti come me. Eppure del fatto che quel dipartimento fosse sui generis, io e i miei altri colleghi-studenti ce ne eravamo accorti subito. In modo particolare, venendo dall'università italiana, il fatto di trovarmi in un aula in cui regnava una confusione di modi e di modalità di essere studenti - una confusione di età, di provenienze disciplinari e di percorsi di vita e di insegnamento fatta di molta presenza di parola e quasi totale assenza di manuali e citazioni, di continuità tra insegnante e studente -, l'effetto dell'impatto con questo ambiente è stato a dir poco bouleversant. Ammetto, talvolta persino fastidioso: trovarsi all'improvviso senza i confini e senza le etichette alle quali ero stata socializzata ad essere studente è stata una fortissima e inaspettata esperienza di straniamento. Le lezioni a Paris 7 per me sono state una vera e propria esperienza di "campo", sebbene estremamente vicine se misurate in chilometri di distanza da casa. I ricordi di questa esperienza e la lettura del saggio di Michel Di Certeau riproposto mi hanno portato oggi, nel mentre in cui mi trovo in un altro stadio di un personale percorso accademico, a riflettere non solo su cosa sia un seminario, ma sul suo (potenziale) ruolo all'interno dell'università considerando quest'ultima come un'arena politica e come un'istituzione che con una certa ipocrisia guarda, parla e cerca "cose" nel "mondo", escludendo da questa vista sé stessa. Il seminario, nelle parole di De Certeau, può essere pensato e possibilmente agito come "un luogo di transito". Questo breve intervento vorrebbe sottolineare l'importanza di questo aspetto e della presenza di luoghi specificatamente preposti ai dibattiti altrimenti transitori e contradditori. Allo stesso tempo, il seminario, così come pensato da De Certeau, è strumento e veicolo affinché si realizzino tutta una serie di transiti che necessitano anche di uno spazio ufficializzato al fine di esorcizzare il continuo rischio di baronato presente all'interno delle università, la mancanza di dialogo tra le discipline accademiche e la sterilità nella creatività. Rischi che lederebbero sia il ruolo di insegnamento sia quello di ricerca che l'istituzione università e i suoi componenti ricoprono. Transiti tra didattica e ricerca - dal punto di vista degli studenti, dei ricercatori e dei professori; tra gli aspetti da una parte gerarchici e élitisti dell'università come istituzione e dall'altra quelli legati alla sua dimensione pubblica e libertaria; tra concetti vicini e lontani dall'esperienza (riprendendo, magari impropriamente, la celebre espressione di Geertz), che coinvolgono non solo il transito tra mondi indagati e lavori prodotti, ma anche tra la dimensione privata e informale e quella pubblica e "scientifica" dei ricercatori; tra regioni disciplinari, perché come l'uomo non può esistere senza entrare in contatto con i suoi simili e con questi reciprocamente contaminarsi, nemmeno le discipline accademiche potrebbero esistere o sopravvivere barricate all'interno dei propri specifici paradigmi. Seminari come transito "tra dentro e fuori" Che l'università possa esistere al di fuori di una ortodossia o di una ideologia che la caratterizzi è difficilmente immaginabile. Né si è mai verificato, sia che l'ortodossia o l'ideologia al cuore dell'istituzione/idea università vivesse fiancheggiando la cornice definitoria di un certo quando e di un certo dove, sia nei casi in cui fosse invece in contrasto con l'ideologia dominante. Essendo anch'essa un prodotto storico e culturale, l'università tanto quanto idea quanto come istituzione - due facce della stessa medaglia - ha assunto nel tempo e nello spazio forme e modi diversi. In quanto istituzione agisce, subisce e riproduce inevitabilmente "regole" (e "discorso") a sé propri: etichette, linguaggi, modalità e gerarchie a sé specifiche. Allo stesso tempo, come idea - che peraltro affonda la sua specificità proprio nelle sue stesse origini - ha (dovrebbe avere) un carattere fortemente pubblico, libertario e critico. Tutti gli attori che gravitano tra le ribalte e i retroscena di questo "mondo" - un mondo fatto di biblioteche, aule e uffici abitati da studiosi/insegnanti chiamati professori raggruppati nelle varie facoltà, studenti che lavorano a vario livello per raggiungere diplomi, personale tecnico, amministrativo e di servizio che permettono il funzionamento della struttura - dovrebbero a mio avviso avere un certo "dovere morale" consistente nel porsi sempre in modo tale da tenere il più lontano possibile la possibilità che l'università-come-istituzione si trasformi in università-come-istituzione-totale. Il seminario così come impostato da De Certeau è (potrebbe essere) strumento attraverso il quale orientarsi in questa battaglia, luogo in cui si realizza la mediazione tra la rigidità dell'istituzione e la fluidità dell'idea. Il seminario di De Certeau non ha paura della critica, nemmeno quando è rivolta al mondo e al sapere accademico stesso. Invece, nella attualità della vita quotidiana accademica questa critica sembra possibile soltanto negli interstizi siano questi 66 materiali o immateriali: nelle parole delle chiacchiere sfuggenti nei corridoi e fuori dalle aule, oppure chiuse a chiave negli uffici privati dei dipartimenti. E' come se questo tipo di critica autoriflessiva, a differenza di altra, fosse rischiosa da registrare e recepire,pertanto sempre forzatamente transitoria. Se nell'interpretazione di Luce Giard il seminario di De Certeau si concretizzava come un luogo aperto, multiplo e contraddittorio, affascinante è la possibilità di utilizzare la contraddizione in chiave positiva, come strumento per fare critica. D'altronde la contraddizione è per forza di cose insita in qualsiasi disciplina o scienza che metta al centro della sua ricerca l'uomo, poiché l'uomo è - tutto sommato - un animale molto lontano dall'essere razionale. Forse Michel Leiris esagerava quando teorizzava che "c'est par la subjectivité (portée à son paroxisme) qu'on touche à l'objectivité" (1981, p. 263) ma certo una certa dose di esplicitazione della soggettività e della propria posizione nell'università-come-istituzione è tutt'al più recepita come ostacolo a una presunta scientificità, della quale si riconosce l'inesistenza ma alla quale comunque si aspira. Ancora di più, parlare delle mille contraddizioni all'interno delle singole discipline, delle lotte intestine all'interno di uno stesso dipartimento, dell'aridità degli steccati disciplinari nonché del fatto che inevitabilmente rapporti di potere regolino il funzionamento di questo specifico mondo (così proprio come quello "reale"), non ha posto in alcuno spazio ufficiale, come se questi argomenti non fossero paragonabili che a mere "chiacchiere da bar" prive di importanza. Eppure gli etnografi non riconoscono che queste chiacchiere sono altrettanto dense di informazione? Il seminario di De Certeau è per sua stessa ammissione il luogo delle chiacchiere, un caquetoir, proprio per questo motivo. Altra continua necessità di mediazione "tra dentro e dentro" il mondo universitario, è quella che riguarda insegnamento e ricerca. L'insegnamento - trasmissione e produzione di conoscenza - è la funzione più antica e decisiva dell'università ma il ruolo e il contenuto nonché le modalità con cui, e attraverso cui, questa funzione prende forma subiscono mutamenti. Il seminario è una modalità (tra altre e altrettanto importanti) in cui si esercita l'insegnamento: attraverso l'esplicitazione, la discussione e la messa in questione dei saperi di chi vi partecipa. E, certamente, grazie alla guida, per quanto attiva e partecipata, di un insegnante. La con-partecipazione dei saperi inevitabilmente produce anche nuove affiliazioni del sapere stesso e pertanto diventa ricerca. Tuttavia non è possibile che questa disciplina sia considerata come la sola a dover esercitare questo tipo di conoscenza, né che sola si arroghi il potere di farlo (come le altre discipline non esisterebbero senza lo spirito di cui è quella più permeata, nemmeno questa esisterebbe senza il contributo delle altre) . Se si può facilmente riconoscere il bisogno di limiti e di confini, tanto per ragioni identitarie quanto per ragioni burocratiche (perché anche le discipline accademiche si inseriscono nell'arena politica che è l'università, fatta di giochi di potere al fine di allocarsi "risorse" di vario genere, in primo luogo economiche), non credo che la rivendicazione degli stessi sia fertile ai fini della ricerca. Rivendicare la propria collocazione, la propria identità e le proprie radici accademiche si avvicina di molto alle stesse rivendicazioni mosse dai movimenti politici autonomisti, oggetto di ottima critica antropologica e sociologica. Mi sembra che si tratti di un'altra contraddizione-tabù che rischia di costituire un limite alla capacità creativa e allo spirito critico così importanti per le discipline umanistiche e sociali in senso lato. Ma qui mi fermo perché come de Certeau ci insegna "la critica ideologica non è sufficiente". Il buon senso dovrebbe riuscire ad avere la meglio sull'ideologia. Transito tra alto e basso Il seminario è anche luogo di transito tra alto e basso: per De Certeau il sapere arriva per forza di cose dal basso, nel senso che è figlio dell'umanità tutta. In questo si pone in conflitto con un certo élitismo accademico che sebbene negli ultimi anni sia andato a smussare i propri confini sociali e culturali, corre sempre il rischio di rifugiarsi in sé stesso. Così è qui più che in ogni altro spazio sociale che è richiesta la necessità di sforzarsi nel non cedere davanti a facili corporativismi, che rischiano di alienare le comunità accademiche dal resto della società globale della quale sono anch'esse parte. Perdendosi nell'autoreferenzialità i discorsi prodotti sarebbero allora sì paragonabili alle chiacchiere da bar, nel senso più negativo che a queste si può attribuire: quelle chiacchiere basate sugli stereotipi e sui luoghi comuni, sul fare del proprio l'unico e universalmente valido mondo possibile. Il seminario di De Certeau rappresenta la possibilità di mediare tra le contraddizioni che coinvolgono il mondo accademico, esplicitando l'esistenza delle contraddizioni stesse. Rileggere questo saggio oggi è anche ribadire questioni banali perché che la critica e la comunicazione possano essere fertili alla ricerca e allo sviluppo tanto di un'idea quanto di una istituzione, quale quella universitaria può essere intesa, è banale. Eppure continuamente attuale e utile. Così è buffo (e insieme amaro) notare la contraddizione più evidente: che a rileggere oggi questo saggio, figlio di una certa epoca, le critiche, la voglia di cambiamento, la necessità di maggiore comunicazione che esso emana, sono da girare a coloro che un tempo sono stati studenti e che oggi sono parte del mondo accademico sotto altre vesti, probabilmente più Transito tra dentro e fuori Il sapere che sta alla base di qualsiasi "fare università", soprattutto quando questo fare è agito da discipline che per ragion d'essere mettono al centro l'anthropos ("oggetto comune di domande convergenti" (Fischler, 1992, p.12), per definizione deve muovere da uno spirito antropologico che condivide con la disciplina che definisce sé stessa Antropologia in senso stretto. 67 prestigiose: non sono proprio loro la generazione che più di ogni altri aveva in quella contingenza reclamato la necessità del rinnovamento e dell'autocritica anche all'interno del mondo accademico proprio scagliandosi verso quelle stesse figure che oggi loro hanno sostituito? * Riferimenti bibliografici Fischler, C., 1992, L'onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Milano, Arnoldo Mondatori Editore. Leiris M., 1981, L'Afrique fantôme, Paris, Gallimard. Università degli Studi di Milano-Bicocca Totò, il Jazz e la Scienza: Un Metalogo di Francesco Ronzon* Palomar, antropologo) Hai visto quella parte del film "I soliti Ignoti" in cui Totò incontra gli altri membri della banda per elaborare i dettagli del colpo ? Cetina). Thelonius, musicista jazz.) …Perché mi fai questa domanda? P.) Si tratta di una vecchia questione che ha origine col dibattito aperto da Karl Popper sulla logica delle scoperte scientifiche. Rispetto alla visione astratta e normativa proposta da Popper, questi studiosi sostengono che l'operare del mondo scientifico vada analizzato in modo etnografico alla stessa stregua della vita quotidiana di un qualsiasi gruppo sociale: usi, valori, mitologie, comunità di pratiche, criteri di interazione tra uomini e con gli strumenti. Più che elaborare un'immagine ideale della scienza costoro cercano di rendere visibile ciò che accade effettivamente quando ci si riunisce in un gruppo di ricerca. E questo a partire dall'ipotesi che le procedure della ricerca non sono fondamentalmente distinte dalle procedure o dalle "maniere di fare" comuni. Si tratta di indagare il mondo degli intellettuali e dei ricercatori come se si trattasse di una tribù. O, se preferisci, come se si avesse a che fare con un gruppo di artisti, di burocrati o di contadini ad alto livello di specializzazione tecnologica. T.) Ovvero… P.) Così… stavo leggendo un saggio di Michel de Certeau sul tema del Seminario e mi è venuto in mente l'intricato e grottesco dialogo creato dai vari personaggi: il boxeur, l'immigrato siciliano, il bullo di periferia, il fotografo fallito… T.) E' un bel saggio. Gli ho dato un occhiata di recente tra un esercizio di solfeggio e l'altro. E' scritto con un linguaggio molto "artistico". Parla di come l'Università non dovrebbe essere un luogo di verità assolute ma un'occasione di indagine e formazione intellettuale. Di quanto sia importante dare voce a più posizioni teoriche e a differenti esperienze personali. E della necessità di uscire dalle "torri d'avorio" ponendosi interrogativi rilevanti per la società nel suo insieme. Mi sembra tutto molto condivisibile. Ma dov'é il problema ? P.) Non puoi capire, per voi jazzisti è tutto più facile. Improvvisate! Basta lasciarsi andare all'estro del momento ed il gioco è fatto… Per noi ricercatori è diverso. T.) Stop! Fermati!! Non sono abituato a tutte queste parole. Fammi degli esempi pratici. Io ti illustro alcuni stili che hanno fatto la storia del jazz e tu mi dici a cosa dovrebbero assomigliare... T.) Ti sbagli. Sei prevenuto. Guarda che per improvvisare bisogna aver studiato un bel po'. Molto più di quello che serve per suonare leggendo uno spartito. E' necessario aver introiettato un certo insieme di modelli musicali di riferimento. Bisogna che padroneggi il tuo strumento al punto da poter eseguire delle frasi inventate in tempo reale. Inoltre, devi essere sempre attento e sensibile a ciò che inventano gli altri musicisti perché quasi niente è deciso in anticipo. Insomma, ti dirò, il jazz è una musica imbevuta sino al midollo di ricerca e sperimentazione. P.) O.K. Mi sembra un approccio un po'eterodosso ma va' avanti …Ti ascolto. T.) Vediamo… Il primo esempio potrebbe essere lo swing degli anni '20 (ad es. Glenn Miller). Qui le esecuzioni erano orientate in modo rigoroso dallo spartito con solo piccoli spazi lasciati all'improvvisazione (molto fedele, peraltro, alla melodia base). P.) Bhè, questo mi fa venire in mente la ricerca standard. Quella che applica in modo sistematico dei modelli già strutturati a delle situazioni simili. E' un po'quello che è avvenuto con il marxismo, lo strutturalismo e il funzionalismo. Quando erano le "idee forti" del momento tutte le realtà sociali studiate erano P.) Effettivamente da come me ne parli, il jazz sembra molto simile al mondo della ricerca. Anzi, mi fai venire in mente proprio quanto dicono da anni i cosiddetti etnografi della scienza nei loro laboratory studies (ad es. K. Lynch, K. Knorr- 68 interpretate in rigida osservanza a queste ortodossie accademiche. conto del ruolo centrale svolto dall'interattività pratica nella didattica. Hai presente tutti quegli stage, master e laboratori ? T.) …Poi negli anni '40 arriva il be-bop (ad es. Charlie Parker). Il riferimento alla tonalità è ancora forte ma l'attenzione si sposta dalle note base degli accordi (I, IV, V) alle loro estensioni superiori (none, quarte, quinte diminuite, e così via). T.) Ma allora di cosa ti lagni.… Pensa invece che noi musicisti siamo ancora costretti a sorbirci lagne come Michael Bublè. Quello non è un jazzista. E' un buon cantante da piano-bar. Diavolo!! Non è l'uso di una blue note o di un intervallo di tritono a fare il jazz. E' il modo con cui articoli l'insieme della tua pratica musicale. E questo non è un problema che riguarda tanto la mera scelta formale delle note quanto l'intenzionalità in base alle quali orienti le tue interazioni con gli altri musicisti e con il tuo strumento. Lo scopo del gioco jazzistico è usare l'improvvisazione per indagare il campo delle possibilità musicali. Inoltre, quando Billy Holyday cantava Strange Fruit, John Coltrane suonava Alabama o Max Roach incideva Freedom Now Suite, la loro musica non si limitava a creare un mero sottofondo ma parlava delle lotte per i diritti civili di quegli anni. Il jazz ha sempre avuto caratteristiche affini a quelle della vita ordinaria, non è mai stato estraneo né esterno a chi vi prendeva parte. P.) Buffo. Sembra lo stato dell'antropologia inglese degli anni '40 e '50. I temi e le prospettive di indagine erano state fissate negli anni precedenti ma gli studiosi si adoperavano a scandagliarne gli aspetti meno battuti. Ad esempio, il tema dell'ordine sociale restava centrale ma veniva indagato a partire dalle situazioni di disordine. E' tutto qui? T.) No…Nei tardi anni '50 entra in gioco anche il modale (ad es. il Miles Davis di A Kind of Blue). In questo stile il riferimento non è più il giro armonico ma il tipo di scala prescelto (modo frigio, misolidio e così via). Abbattendo larga parte dei vincoli armonici vi è più spazio per le esplorazioni ritmiche e melodiche. P.) Non ti illudere. Non è tutto oro quello che luccica. In teoria l'idea di un'Università composta di laboratori legati alla vita reale non era affatto male. Ma una volta messa in pratica anche da noi il progetto ha subito mostrato la corda. A tutt'oggi la direzione intrapresa sembra più quella dei manuali di know-how che non quella di un'educazione della propria abilità (skill) ad operare in modo innovativo e sperimentale. E così facendo si vanifica proprio quel senso di gioco, creatività e impegno sociale di cui parla il saggio di de Certeau. P.) Questo caso è un po' più complicato. Si potrebbe paragonarlo ad una situazione di ricerca in cui sono fissate solo le aree più generali ma senza che siano prescritti gli aspetti più specifici. Un po' come dire che si deve per forza lavorare su certe aree tematiche (antropologia medica, antropologia economica) o geografiche (Africa, Meso-America) ma senza che vi sia un criterio troppo rigido nella scelta dei paradigmi interpretativi di riferimento (modelli generativi, approcci ermeneutici, analisi delle narrazioni…). T.) Vedi che mi dai ragione. Io te l'avevo detto sin dall'inizio. Anche nel caso dell'improvvisazione non si nasce già "imparati". Per quanto voi intellettuali continuiate a crederlo, la capacità di operare in maniera creativa non è affatto frutto del solo "genio individuale". E'anche e soprattutto frutto un'abilità che si educa e si sviluppa nella pratica. Sudando. Sbuffando. Provando. Rischiando. Inoltre, come sempre, ci vuole anche qualcuno che dia il buon esempio. Per fortuna che nel jazz gli esempi sono innumerevoli. In un intervista rilasciata pochi mesi prima della morte, l'alto-sassofonista Steve Lacy raccontava un aneddoto sul celebre pianista mio omonimo, Thelonious Monk. Diceva che se un suo musicista suonava in maniera troppo perfetta, lui si metteva al pianoforte e incasinava tutto, per vedere che sarebbe successo. In egual modo anche Miles Davis, il noto trombettista, nella sua autobiografia dice che a un certo punto della sua vita ha smesso di suonare tutte quelle ballad (brani lenti e d'atmosfera) per cui era famoso e ha iniziato a ibridare la sua musica con il funky (la novità musicale per i giovani afro-americani degli anni'60) per evitare di chiudersi e sclerotizzarsi in quel tipo di jazz che egli stesso aveva contribuito a plasmare. E potrei andare avanti così per ore… T.) L'ultima grande rivoluzione stilistica è stata infine quella introdotta dal free jazz (ad es. Ornette Coleman) e dall'improvvisazione radicale Nord-Europea (ad es. Derek Bailey). In quest'ambito i modelli ritmico-tonali degli anni precedenti sono solo un lontano punto di riferimento (tra i tanti) e l'attenzione si sposta tutta sull'interplay (capacità di reagire in tempo reale agli stimoli forniti dagli altri musicisti) e sulla grana e il colore del suono in quanto tale. E' un approccio molto libero e orizzontale. Non c'è l'usuale separazione tra solista e accompagnatori, si basa molto sulle individualità coinvolte e l'organizzazione sonora poggia molto sulla capacità di instaurare di volta in volta un dialogo paritetico all'interno delle varie performance. Per questo l'esito finale risulta sempre un po'aspro da sentire. Ma è molto vitale… P.) Se la metti così, mi sembra che il tipo di seminario descritto nel saggio di de Certeau assomigli proprio a quest'ultima tradizione. Anche lì si parla infatti di inclusione di tutti i partecipanti, si pone più attenzione al modus operandi che non all'opus operatum, e si conferisce un forte valore alla varietà e differenza delle posizioni in gioco. A pensarci bene è curioso. Anche nell'ambito universitario negli ultimi anni ci si è resi P.) Magari fosse tutto così facile. Se parli di innovazione nel 69 mondo dell'Università sei costretto a chiamare in causa anche l'etica, la politica e l'economia della ricerca in Italia. E qui la questione si fa ben cupa. Soprattutto nel campo delle scienze umane. I fondi sono praticamente inesistenti. Le istituzioni pubbliche non fanno ricerca e, se la fanno, la fanno male, di corsa e la usano come mera decorazione per avvalorare decisioni politiche già prese. Anche l'avanzamento nella carriera accademica presuppone pubblicazioni frequenti. Le pretendono tutti e in tempi brevi: colleghi, commissioni per i concorsi, enti finanziatori. Ma operare in una dimensione euristica non implica affatto garantire un buon risultato in tempi rapidi. Quando si sperimenta si deve accettare l'idea che l'impresa possa fallire gli obiettivi preposti. La disponibilità al fallimento non sempre conduce al progresso. E' solo il presupposto del progresso. Il cuore del problema è che però che si tratta di un rischio inevitabile e necessario. L'ossessione del successo - e quindi la scelta di seguire strade sicure e già battute - espone quasi sempre al rischio della stagnazione. T.) Mmm… Allora vuol dire che sono tempi difficili per tutti, vecchio mio! * Università di Verona, Accademia di Belle Arti G. B. Cignaroli Riferimenti Bibliografici Bateson, G: 1994 Mente e Natura, tr. It. Milano, Adelphi Berliner, P.1994 Thinking in Jazz. The Infinite Art of Improvisation, Chicago Studies in Ethnomusicology, Chicago, University of Chicago Press. Knorr-Cetina, K. 1999 Epistemic Cultures. How the Sciences Make Knowledge, Cambridge, Harvard University Press. Ronzon, F., C. Grasseni 2005 Pratiche e Cognizione. Note di Ecologia della Cultura, Roma, Meltemi. ***** Tiziano - Salomè con la testa del Battista Ringraziamenti La redazione ringrazia Luce Giard per aver consentito la pubblicazione del saggio di Certeau, Luigi Mantuano per aver concesso l’utilizzo della sua traduzione italiana, ed in modo particolare Paola Di Cori per l’entusiasmo dimostrato nel proporci e promuovere questa iniziativa, e per l’aiuto fornitoci nel collezionare alcuni dei contributi qui raccolti. Si ringraziano infine tutti gli autori degli interventi per aver accolto il nostro invito. 70 Altrevoci Riflessioni da Bomalang’ombe* di Edoardo Occa Dopo otto mesi di lavoro nel villaggio di Bomalang'ombe, situato negli altopiani meridionali della Tanzania, si cominciano a delineare in modo lucido le problematiche comportate dal gestire un progetto integrato di cooperazione allo sviluppo. Nel nostro caso, mia moglie Laura ed io rileviamo come uno degli snodi maggiormente significativi di questa esperienza professionale ed umana sia acquisire la capacità di leggere con attenzione e di conseguenza rielaborare, attraverso griglie interpretative puntuali il meno possibile autoreferenziali, i feed-back che ci giungono ora dopo ora dalle persone con cui lavoriamo. Il progetto di cui facciamo parte, essendo ripartito in diverse attività, le quali richiedono ognuna un approccio, una sensibilità e competenze differenti (elettrificazione pubblica e privata, gestione della fornitura di acqua potabile, microcredito, seminari formativi su svariate tematiche, management di una piccola fabbrica di conserve ad altri prodotti, programma di institutional building con l'amministrazione del villaggio), comporta la necessità, innanzitutto, di cogliere i tempi necessari alla popolazione per metabolizzare le innovazioni introdotte nella quotidianità, le quali, ristrutturando i meccanismi tradizionali di aggregazione, disarticolano pratiche ed usanze antiche per produrre nuovi significati, nuovi gesti, nuovi saperi. Da sottolineare inoltre, come interventi tanto differenti richiedano, da parte nostra, la capacità di saper plasmare i contenuti attraverso codici comportamentali molteplici, cosa non sempre agevole in quanto, parallelamente ad ogni "intuizione" cui si pensa di essere giunti, ecco presentarsi un nuovo ordine di problemi col quale confrontarsi. Particolarmente stimolanti sono, a questo riguardo, le pratiche interpretative di traduzione che la popolazione locale mette in atto nei confronti di una qualsiasi proposta che viene loro presentata; la gestione del servizio di fornitura di acqua potabile, per esempio, essendo uno dei servizi per il quale vengono spese le maggiori risorse in termini di tempo e di progettazione, libera una serie di dinamiche decisamente stimolanti. Mi riferisco alla difficoltà di far passare il messaggio della assoluta necessità di pagare la pur irrisoria cifra richiesta per l'utilizzo (illimitato) di acqua potabile, alla totalità della comunità. Una soluzione, seppur parziale, è stata, al momento, quella di coinvolgere nella presa in carico di responsabilità collettiva gli anziani del villaggio, i quali, in quanto autorità morali tuttora indiscusse (sebbene anche questa istituzione abbia subito - nel corso dei 25 anni di collettivizzazione delle terre e di delega nella gestione delle controversie quotidiane imposta dal sistema di socialismo africano ideato e realizzato da Nyerere - un forte riassetto di ordine simbolico prima ancora che esecutivo), hanno accettato di buon grado di prendere parte (e si tratta di una parte rilevante) nel processo di sensibilizzazione nei confronti della popolazione la quale, a sua volta, pare, al momento, aver risposto con discreto entusiasmo all'appello fatto. Questo parziale successo crediamo dipenda dal meccanismo volto a richiamare la coesione sociale suscitato dal coinvolgimento di figure le quali, accettando di lavorare su un livello strategico assolutamente paritario con l'ente promotore del servizio, hanno fatto si che almeno in parte si sia ridotto il senso di estraniamento di cui tutt'ora, seppur dopo 14 anni di presenza continuata sul territorio, l'organizzazione per la quale lavoriamo, risente. Per chiarire meglio l'affermazione appena fatta qui sopra, cercando di delineare i rapporti di potere che si sono instaurati tra noi e gli anziani del villaggio, bisogna ammettere che in realtà un certo scarto relazionale immancabilmente si è mantenuto tra gli anziani e l'organizzazione promotrice, nel senso che la dimensione prettamente operativa all'interno della quale ci muoviamo all'interno del villaggio, come NGO che si occupa dei servizi, viene filtrata dallo sguardo, spesso oggettivante e non particolarmente dialogico, di queste figure, dinamica che comporta uno scivolamento di senso tra la rappresentazione classica, e forse un po'statica, dell'organismo di cooperazione considerato occupare un ruolo di maggior potere a causa delle risorse che mette a disposizione, e la restituzione della percezione del proprio lavoro che viene agita ed esperita dalla controparte. Un altro fattore destabilizzante, nei confronti della ricerca di una piena e partecipata sostenibilità, riguarda la formula stessa della presenza sul territorio da parte nostra, in quanto NGO; circa ogni due anni, infatti, il personale responsabile in loco cambia, e questo genera inevitabilmente scompensi nella gerarchia delle priorità progettuali e nei rapporti interpersonali con la comunità; sottolineo questo in quanto, sebbene ognuno di noi cerchi di svolgere il proprio compito con il massimo rigore professionale, il fattore-umano-comportamentale-adattativo di ciascun cooperante si declina ogni volta sotto personalissimi schemi di riferimento, i quali non possono che venir registrati e ricalibrati ogni volta dalla controparte, all'insegna dei medesimi codici comunicativi. Questo comporta, secondo noi, l'insorgere di una sorta di "schizofrenia del progetto di cooperazione", causata della situazione in cui input differenti vengono forniti e successivamente squalificati da figure (noi che lavoriamo nel progetto) che, nella lettura della popolazione, sono spesso invece assunti come un'unità difficilmente districabile in singole soggettività. Questa situazione di apparente "doppio vincolo" rischia a volte di 71 grida, scherzi e risate, miscuglio buffissimo di timore ed eccitazione verso questo "strano" personaggio che si aggira tra le loro capanne… 3. Scusate l'intermezzo che potrebbe sembrare forse un po' demagogico, ma per dare anche solo una parvenza reale dell'esperienza che stiamo vivendo mi sembrava doveroso intercalare su uno degli aspetti personali più gioiosi, vivificanti e divertenti. creare un circolo ermeneutico dal quale è difficoltoso uscire, per dipanare il quale si necessita di notevoli risorse in termini di tempo ed energie. Al di là di queste note, devo proprio dire che la gente wahehe1 è stata, fino ad oggi, generosa nel dispensare stimoli ed emozioni, dubbi ed incertezze, e nel fungere da strumento di crescita e cambiamento interiore. Permettetemi di dire soltanto come sia davvero impagabile, di ritorno da un ennesima lunghissima kikao2, di ritorno verso casa, essere rincorso e letteralmente accerchiato da un nugolo di festanti bimbi, (dai quali cerco, finora senza troppo successo, di imparare il dialetto kihehe), e di essere accompagnato dalle loro Bomalang'ombe, Tanzania ottobre 2005 Note * La prima relazione da Bomalag'ombe, di Edoardo Occa, è apparsa in "Achab", Numero V, Giugno 2005 [N.d.R]. 1 In kiswahili, wa è il prefisso da apporre, al plurale, ai sostantivi appartenenti alla classe di nomi che indicano esseri animati, come appunto gli uomini e gli animali, mentre hehe non è altro che la traslitterazione del grido di guerra che veniva urlato per impressionare gli avversari "He! He! He! He!". Anche su questo sarebbe estremamente interessante soffermarsi più a lungo, infatti il nome wahehe e stato attribuito a questa tribù, appunto, da vari occasionali avversari che in battaglia sentivano scagliarsi contro quel grido. Comprendere dunque come il processo di costruzione dell'identità di questa tribù, a cominciare dal nome, sia il contributo di un'alterità - e quale alterita' di maggior rilevanza simbolica dei propri avversari in guerra - è sintomatico della natura intimamente dinamica e pluridimensionale di qualsivoglia processo antropopoietico. 2 "Riunione". Le procedure formali da seguire in ogni incontro ufficiale sono a volte estenuanti, retaggio forse di una forma di ritualità specifica, ma sicuramente anche dell'indottrinamento di stampo "maoista africano". 3 Altra nota etimologicamente ricca di spunti: mzungu, vocabolo usato per indicare il bianco, l'europeo, deriva dal verbo kuzunguka, che si potrebbe tradurre, più o meno propriamente, "gironzolare, andare a spasso, spostarsi continuamente". In Tanzania, a parte le comunità Maasai, che comunque non vengono riconosciute come tanzaniane in quanto di ceppo nilotico, non esistono comunità nomadi; l'aver immediatamente associato l'immagine del "bianco" al continuo peregrinare è cosa che meriterebbe venire investigata ulteriormente. 72 Visitate il nuovo sito di Achab: www.achabrivista.it La rivista è interamente scaricabile dal sito Maurizio Gjivovich, I mille volti dell’indipendenza - Tiblisi (Georgia), Aprile 2005 (sito internet: www.gjivovich.it) Note per la consegna e la stesura degli articoli. Gli articoli dvono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times o times new roman corpo 12. L'articolo deve avere una lunghezza minima di 3 cartelle e massima di 15 (interlinea 1,5; corpo 12). Si consiglia di ridurre al minimo le note che non dovranno essere inserite in automatico ma digitate come testo alla fine dell'articolo. Nel testo il numero della nota deve essere inserito mettendolo tra parentesi. Gli articoli devono essere spediti al seguente indirizzo: [email protected]. La redazione provvederà a contattare gli autori. D’Angelo, L. - Il giorno prima dello sgombero - Fototestimonianze, Milano, 2005