Gabriele Scaramuzza Per una fenomenologia della musica Introduzione. La musica in una prospettiva banfiana Banfi e non pochi tra i suoi allievi ebbero verso la musica un’attenzione vivissima, furono anzi degli ascoltatori appassionati nel senso più pieno della parola. L’amore per la grande tradizione della musica classica e per Wagner 1 , ma anche un’intelligente attenzione alla musica contemporanea 2 , accompagnò tutta la vita di Banfi. 1 Rinvio per questo al primo cap. del mio Crisi come rinnovamento, Milano, Unicopli, 2000, pp. 10-13. Negli Scritti letterari di Banfi (a cura di Carlo Cordié, Roma, Editori Riuniti, 1970) pure non mancano accenni alla musica: significativi quelli a Beethoven, ad es. (alle pp. 24, 41), a Palestrina e al melodramma (p. 120), a Verdi (p. 262). A proposito di quest’ultimo mi sembra sintomatico (perché tipico di una renitenza a Verdi tuttora non spenta in certi ambienti intellettuali) che il nome di Verdi non compaia poi nell’indice dei nomi degli Scritti letterari; e che la stessa cosa accada in I problemi di una estetica filosofica (a cura di L. Anceschi, Milano-Firenze, Parenti, 1961), in cui pure è presente (a p. 352) un accenno a Verdi. Vorrei ricordare anche, a testimonianza della frequentazione della vita musicale milanese da parte di Banfi, il ricordo dell’ultimo incontro con Antonia Pozzi, che avvenne a “un concerto del Quartetto” (A. Pozzi, Flaubert. La formazione letteraria (1830-1856), con una premessa di Antonio Banfi, Milano, Garzanti, 1940). 2 Cfr. la bella testimonianza di L. Rognoni, Ricordo di Antonio Banfi, in Fenomenologia e scienze dell’uomo, 3/II, 1986, pp. 231-238. Più in generale di Rognoni cfr. anche Osservazioni sull’estetica di Banfi per una fenomenologia della musica, in AAVV, Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 449-453. 1 Enzo Paci era un accanito ascoltatore (anche lui come il maestro wagneriano convinto) e scrisse significativi saggi musicali. In questo ambito egli mostrerà la rilevanza del proprio punto di vista, dichiaratamente filosofico, nell’interpretazione dei Maestri cantori di Wagner, così come della musica di Schönberg o di Stravinskij 3 . Ma anche altri banfiani quali Remo Cantoni furono molto sensibili alla musica (quest’ultimo anche alla tradizione del melodramma), anche se non ne scrissero. Un caso a sé è costituito da Luigi Rognoni, che fu un noto musicologo, allievo di Alfredo Casella per la sua formazione musicale. Scrisse un libro giovanile su Mozart e uno su Rossini in anni più maturi; ma soprattutto si occupò dell’avanguardia musicale in un celebre libro dedicato a La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, e in un successivo lavoro: Fenomenologia della musica radicale. Ma nei suoi testi non v’è alcuna analisi fenomenologica in senso specifico: ma solo l’utilizzazione della lezione di Banfi 4 come stimolo a un’apertura della sensibilità e all’attenzione alla complessità dei problemi; e di suggestioni husserliane (mediate da Paci), nella lettura di problematiche musicali soprattutto legate alle avanguardie storiche. Testimonia della vicinanza di Banfi al mondo musicale anche una lettera scritta a macchina, che gli inviò Virgilio Mortari 5 il 27 settembre 1937. La lettera è significativa anche per gli intenti poetici, a sfondo hanslickiano, che denuncia. Vale la pena riprodurla qui: 3 Questi saggi sono raccolti (assieme ai due testi banfiani qui citati e a taluni scritti di Rognoni) in La scuola di Milano e l’estetica musicale, a cura di E. Ferrari, Milano, Cuem, 2000. Su di essi cfr. anche Postilla per Luciano Anceschi ed Enzo Paci (il Tristano e Isotta e i “Viennesi”), di A. Gavazzeni, Non eseguire Beethoven e altri scritti, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 230-233. 4 L. Rognoni, Ricordo di Antonio Banfi, cit. 5 Nato nel 1902, allievo di Pizzetti e a sua volta compositore colto, di gusti neoclassici; scrisse opere, oltre che musica sacra e strumentale. 2 Carissimo, grazie infinite della tua premurosa risposta e delle care tue parole. Ho spedito l’articolo con cuore tranquillo. Il mio nuovo Concerto ha avuto infatti un esito eccellente a Venezia. In altri momenti ne sarei stato contento, e mi avrebbero fatto molto piacere tutte le esecuzioni che già sono fissate o cominciano a spuntare all’orizzonte. Del mio lavoro sono soddisfatto. Mi pare un buon passo verso la conquista. Ma nessuno ha capito la mia posizione al di là degli esperimenti e le mie aspirazioni verso un’essenzialità di musica pura, fine a se stessa. Si è ammirato quel che di espressivo vi può essere nella mia musica, quello cioè di cui non ho colpa né merito, e si è ammirato la tecnica con la quale l’espressione è stata raggiunta. Cioè quella padronanza dei mezzi che rappresentano il dovere più elementare di ogni artista, di ogni artigiano, di ogni professionista, di ogni lavoratore. Del contributo spirituale invece nessuno capisce niente. Si crede di individuarlo soltanto se il cervello funziona in esercitazioni sistematiche, preconcette, quando cioè si è in travaglio per la determinazione di un indirizzo, e il problema viene risolto in una formula, magari nell’accademia schoenberghiana. Chi è nemico delle accademie, chi non considera l’arte come competizione sportiva e costruisce al di là del disordine ha già vissuto, ha già tentato e superato l’alchimia e cerca di realizzare in un’atmosfera indipendente. Ho vissuto la mia prima giovinezza sotto il cielo soleggiato di un allora benedetto Mediterraneo. Ora anche sulla nostra terra si addensano le nuvole. Può darsi che sia soltanto un temporale di reazione contro La Gioconda di Ponchielli, imposta come capolavoro, ma intanto io resto solo. E oggi di questa incomprensione soffro tanto che nessun successo mi può confortare. 3 Scusami questo piccolo sfogo, e non darvi importanza. È una chiacchieratina ad un amico, che mi è molto caro. Care cose a te e ai tuoi anche da Luisa. Ti abbraccio con affetto, Tuo Virgilio Mortari 6 §. 1 Una filosofia per la musica Comune agli studiosi della scuola di Milano è la convinzione dell’incidenza della riflessione filosofica nella comprensione degli eventi musicali, oltre che artistici in genere. Quello filosoficoestetico per loro, certo, è solo uno dei livelli in cui si articola la riflessione sulla realtà artistica; non l’unico. Ma è un livello imprescindibile e Banfi ne accentua la rilevanza anche contro quel “senso di diffidenza e di malcelato fastidio” (sono parole sue) verso la filosofia – e quindi anche verso la filosofia della musica – che avverte intorno a sé. Si può dire che Giovanni Piana a suo modo erediti questa profonda persuasione, dandole carne in un articolato e puntuale lavoro di ricerca, di cui la più compiuta testimonianza resta a tutt’oggi la sua Filosofia della musica 7 . L’estetica è estetica filosofica per Banfi e dunque non è distinta da un punto di vista qualitativo dalla filosofia dell’arte (la distinzione può se mai riguardare l’estensione del campo cui si volge, che non include solo l’arte). Non ha quindi senso per lui separare drasticamente la filosofia della musica dall’estetica musicale. Inoltre, pur 6 La lettera si trova presso l’Istituto Antonio Banfi di Reggio Emilia, che ringrazio per avermene permessa la pubblicazione. 7 Edita a Milano, Guerini e Associati, 1991: del volume esiste un’edizione digitale presso l’archivio che raccoglie gli scritti, all’interno del sito Spazio Filosofico:http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/filosofia_della_musica/fdm_idx.htm 4 essendo egli stato allievo di Max Dessoir 8 , non fa tesoro fino alle sue estreme conseguenze della separazione dell’estetico dall’artistico (che Dino Formaggio invece fa sua), e quindi dell’estetica (che include l’esame dell’oggetto e dell’impressione estetica, nonché delle categorie estetiche fondamentali, tra cui anche il brutto oltre al bello, al sublime, al tragico e al comico) dalla “scienza dell’arte” (che concerne la creazione artistica, il problema dell’origine dell’arte e della sua funzione, nonché l’esame del sistema delle arti, e quindi anche la Musikwissenschaft, la “scienza” o, meglio, teoria della musica). Tuttavia il disegno di un’ampia fenomenologia dell’universo estetico-artistico che Banfi traccia fa ampiamente tesoro delle indicazioni dessoiriane, e prevede un largo spazio per i problemi sopra accennati – in particolare per quello della distinzione delle arti, per quanto qui ci interessa. Rientra infatti tra i compiti di un’estetica filosofica quello di caratterizzare nelle sue strutture essenziali, nei problemi fondamentali che lo caratterizzano e nelle loro reciproche differenze, il mondo delle singole arti, e quindi anche quello della musica. Se “teoria della musica” ha questo senso (e non un senso esclusivamente tecnico), essa è parte integrante di un’estetica intesa anche come fenomenologia dell’arte, per Banfi. In uno scritto intitolato A proposito di un’estetica musicale (quella di Alfredo Parente, un allievo di Croce 9 che molto scrisse di musica), Banfi tratteggia, in polemica con le premesse da cui muove Parente, le condizioni generali di un discorso filosofico sulla musica, radicandole nella sua concezione generale dell’estetica come disciplina in grado di giustificare la realtà del mondo esteti8 Rinvio per questo al secondo capitolo di questo stesso volume recante a titolo Estetico, artistico. 9 Sul problema della musica nell’estetica di Croce e dei suoi allievi rinvio quanto meno ai saggi di Vittorio Stella (La musica nell’estetica crociana, in La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea, a cura di S. Vizzardelli, Macerata, Quodlibet, 200, pp. 75-108) e di Enrico Fubini, L’estetica crociana e la critica musicale, in Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Torino, Einaudi, 1973, pp. 3-32). 5 co-artistico, e dunque anche musicale, in tutta la complessità dei suoi aspetti. Nei suoi scritti in generale di estetica Banfi non ci lascia che pochi cenni, ma non trascurabili, a questo proposito: nella musica, come nella poesia, prevale un momento di espressione del soggetto in forme intuitive: nel caso specifico sonore, vocali e strumentali, coi loro caratteristici tratti timbrici, ritmici, melodici, armonici. La musica non può perciò esser richiusa in un ambito esclusivamente soggettivo; essa si muove piuttosto tra costruzione matematica e istanze metafisiche, tra intimità personale e obbiettività ideale, tra “valore patologico” e “valore intuitivo-formale”. E non le sono estranee questioni di “significato”, e di valore10 , in generale di senso, che solo strumenti filosofici possono aiutarci a mettere a fuoco. Per Banfi e per la sua scuola inoltre – è importante sottolinearlo – la riflessione sulla musica non può dirsi esaurita nell’analisi musicologica, né nella storia della musica, nella critica musicale o in quelle tipiche forme di riflessione (cui fu attento Luciano Anceschi, per quanto riguarda la letteratura) che sono le poetiche; né tanto meno nella sociologia o nella psicologia della musica. Questi ambiti di riflessione sulla musica esprimono anzi tutti dal loro stesso seno un’ideale esigenza di riflessione filosofica. Esse tutte mettono in gioco scelte metodologiche e di campo, problemi e presupposti che solo sul piano filosofico possono ottenere, se non una soluzione, quanto meno un’esplicitazione essenziale. L’estetica certo non può pretendere di sostituire o annullare in sé questi altri piani di riflessione sulla musica, ma è importante sottolineare che l’esperienza della musica pone interrogativi per cui tali piani di ri10 Il problema per Banfi, che pur rifiuta anche in estetica di sovrapporre i problemi valutativi ai problemi descrittivi, non è di escludere il tema del valore (come conseguirebbe da un’impostazione scientista del discorso musicologico), ma se mai di non contrabbandare analisi tecniche per giudizi di valore, e di non presumere di motivare questi ultimi unicamente sulla base di competenze specialistiche; di non ridurre l’una all’altra insomma le due cose (cosa che non di rado avviene). Da questo punto di vista, una sensibilità fenomenologica (condivisibile in un’ottica banfiana) per il problema è presente in Carl Dahlhaus, Analisi musicale e giudizio estetico, a cura di A. Serravezza, Bologna, Il Mulino, 1987. 6 flessione non hanno risposta, e che per essere affrontati richiedono quel particolare tipo di impegno cui diamo nome di “filosofico”. § 2 L’esperienza, e la teoresi Per meglio introdurci al modo di procedere banfiano, leggiamo e commentiamo un passo di Banfi, posto all’inizio di uno dei suoi più noti saggi di estetica: L’esperienza estetica e la vita dell’arte, del 1940 11 . «Chi ha sensibilità e amore per la fresca ricchezza dell’esperienza, per la varietà dei suoi sensi e delle sue articolazioni, avverte facilmente quanto nel campo estetico, forse più che in ogni altro campo spirituale, essa sia ridotta, irrigidita, spezzata secondo astratti e parziali schemi teorici e formule valutative, spesso reciprocamente irriducibili e contrastanti che pur s’impongono al gusto e al giudizio critico. Contro di essi lotta invano l’intuizione, squarciandoli qua e là, senza riuscire tuttavia a dominarli, giacché – anche se ciò possa sembrare paradossale – solo una netta e radicale impostazione teoretica può risolvere quell’astratta e unilaterale schematicità, giustificare e garantire il differenziarsi dinamico dell’esperienza e, con esso, la plasticità del gusto e la concreta varietà delle prospettive critiche. 12 ». La prima cosa che colpisce è il nesso tra sensibilità estetica e gusto per la teoreticità, la congruità tra l’amore per la vita e per l’arte nella loro immediatezza vissuta e il bisogno di un’impostazione teoretica rigorosa del discorso filosofico. Anche questo è un tratto tipicamente banfiano. Fermiamo l’attenzione innanzitutto su alcuni 11 Riprendo qui tematiche già affrontate più sopra nel primo capitolo, intitolato Per una filosofia delle arti. 12 A. Banfi, Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza, Reggio Emilia, Istituto Antonio Banfi, 1988, p. 77, e cfr. pp. 186-190. 7 termini-chiave: esperienza (coi suoi corollari: ricchezza, sensibilità; poi irrigidita), intuizione (e sua insufficienza), teoreticità. Esperienza innanzitutto: nel nostro caso esperienza della musica, dunque, un’esperienza che esiste innanzitutto per il senso dell’udito. Questa l’esperienza che va rispettata, da cui si deve partire e cui si deve di continuo tornare per verificare la tenuta di qualsivoglia discorso sulla musica, a qualsiasi livello. Ad essa vengono attribuiti i connotati della fresca ricchezza, e della varietà di sensi e di articolazioni (in termini banfianamente più pregnanti, della complessità): fresca sta per immediata, ricca per multilaterale, inafferrabile a chi voglia rinchiuderla in schemi univoci. È un po’ – quest’esperienza o, meglio, il ritorno a essa – la versione banfiana, del zu den Sachen selbst di Husserl. In gioco sembra essere un terreno precategoriale (antecedente ogni sistemazione entro reti categoriali date), ancora non inquinato da pregiudizi (da giudizi dati prima di ascoltare, nel caso della musica); un mondo disponibile innanzitutto ai sensi (all’udito dunque qui) di chi in prima persona voglia accostarvisi. Un terreno mutilato, malamente compreso da un pensiero riduttivo, e che si potrebbe sempre di nuovo attingere mediante un atto di messa tra parentesi (l’epoché, in termini husserliani) delle teorie date. Solo, come vedremo, per Banfi questo terreno è un limite asintotico della ricerca, che non si può veramente raggiungere rinunciando a ogni sapere disponibile, ma solo lavorando al loro interno. Proprio questa esperienza (a chi abbia sensibilità per essa) risulta “ridotta, irrigidita, spezzata” da un pensiero non duttile 13 , 13 Leggiamo nel bel ricordo di Simmel del ’46: « Se più tardi alcuno ripensava agli antichi metodi formali di definizione e di dimostrazione, essi apparivano ingenui ed infantili in confronto a questo estremo assottigliarsi della ragione per seguire la testura del vivente, a questo suo vario ed inquieto dialettizzarsi per cogliere il ritmo mutevole della realtà […]. Ogni realtà appare nell’incrocio di infiniti piani, con una formula così delicata ed elegante di connessione che solo l’estrema astrazione ne può ridare la grazia, che è la grazia della vita […]. Qui la ragione non affrontata più il mondo rigida e violenta; lo penetrava, pareva disfarsi in esso, ma lasciava nella sua struttura una luminosità così viva, da rile- 8 dogmatico, nell’uso negativo che Banfi fa di questo termine. Nei suoi confronti Banfi invoca un atteggiamento, da parte di chiunque se ne occupi, di “sensibilità e amore”, di “apertura” (volendo ricorrere a un altro termine tipicamente banfiano), di disponibilità, lontano da atteggiamenti schematizzanti, riduzionisti, scevro da paraocchi pregiudizialmente valutativi. Il secondo periodo di cui è costituito il passo citato indica le vie attraverso le quali l’amore e la sensibilità possano farsi valere, il “rispetto” realizzarsi. Giacché di per sé simili propositi rischiano di restare solo programmatici, poco più che esortazioni astratte, quando non retoriche, se non si indicano le vie di un loro possibile concreto attuarsi. La sensibilità e l’amore vanno costruiti mediante un impegnativo lavoro nella ricerca. E qui è significativo che la salvaguardia della pienezza dell’esperienza sensibile (nel nostro caso uditiva dunque), il “rispetto” della sua multiformità, anzi, come si esprime Banfi, la “sensibilità e l’amore” per la sua “fresca ricchezza”, si conquistino solo attraverso un lavoro nel pensiero (“una netta e radicale impostazione teoretica”), e non mediante intuizioni risolutive o inerti abbandoni. E, si noti, la teoreticità non solo può risolvere unilateralità e dogmatismi, riduzionismi sul piano della riflessione teorica o critica; ma, anche, essa – e solo essa – può salvaguardare la pienezza del vissuto estetico. “Paradossale” è proprio questo: che la freschezza, l’autenticità di un’esperienza possa venir garantita solo da una rigorosa e astratta impostazione teorica, con quel tanto di freddezza e di distacco raziocinante che simili termini sogliono evocare. Le due cose non sono affatto contraddittorie, sono piuttosto coessenziali l’una all’altra, nell’ottica di Banfi. Di fatto non è da abbandoni contemplativi, da atteggiamenti solo ricettivi o dalla presunzione di ritrovarsi in un terreno vergine, di attingere da un rapporto privilegiato con l’esperienza, immedia- varne la trama sottile, e la tensione e il fremito» (A. Banfi, Umanità, Reggio Emilia, Franco, 1967, p. 121). 9 to, privo di presupposti 14 , fuori dalla storia (quante accuse rivolte alla fenomenologia ricorrono ad argomentazioni di questo genere!), che nasce una corretta impostazione della ricerca, e un rapporto vivo con l’esperienza estetica, il suo affrancamento dai saperi schematici che la soffocano. Nasce bensì da un lavoro all’interno di un mondo di riflessioni storicamente date intorno a quel mondo, di saperi disponibili in un certo ambito culturale. Mediante un lavoro di scavo, di presa di coscienza, di disoccultamento dei presupposti che agiscono non tematizzati in nuclei di saperi già dati: un lavoro interno, ripetiamo, all’universo di saperi che su quell’esperienza si sono venuti costruendo. L’estetica si realizza in una forma di riflessione portata alle sue più estreme conseguenze su un ambito di riflessioni e di teorizzazioni già date. L’esperienza è cancellata con ciò in un processo di mediazioni culturali? No, è essa piuttosto (col senso di una incolmabile distanza che le appartiene, di un proprio sempre rinnovato sfuggire a ciò che tenta di rinserrarla nelle sue maglie) la molla che fa scattare l’esigenza di ulteriori approfondimenti teorici, che la fa nascere e continuamente la stimola. Ed è essa quanto deve essere alla fine riconquistato nella sua “fresca ricchezza”. Ma in cosa consiste, e come si realizza di fatto, questo lavoro del pensiero e nel pensiero teso a distruggere ricorrenti dogmatismi, riduttivismi sempre in agguato, scontati unilateralismi? Innanzitutto come una sorta di metariflessione, appunto, su forme di riflessione date, che scaturisce per così dire naturalmente dal loro interno: dà seguito a un bisogno di approfondimento, di filosofia, loro immanente. Delle ricerche in atto nel mondo della cultura Banfi rivendica comunque – è importante non dimenticarlo – l’imprescindibilità ai 14 Quasi sempre in ciò che si chiama immediatezza si celano “troppi giudizi a sfondo pragmatico”. “Troppo spesso i difensori dell’immediato sono schiavi di povere ideologie e di astratte valutazioni, che scambiano per forma di immediatezza solo perché l’anima loro […] ha perduto sensibilità ed elasticità”, tanto che avverte solo ciò che corrisponde a dati acquisiti quando non a luoghi comuni (Vita dell’arte, cit., p. 187). 10 fini di una piena comprensione dell’esperienza. L’ambito di un sapere propriamente fenomenologico non le esclude, ma si configura di fatto come campo di una loro valorizzazione, nei loro rapporti reciproci e nel valore insostituibile che possiedono. § 3 L’idea, e la fenomenologia Il bisogno 15 che altre forme di riflessione recano latente in sé, il presupposto ultimo cui rinviano, configura innanzitutto l’esigenza di una direzione interpretativa, che guidi la ricerca e raccolga intorno a sé saperi sì disparati, ma intenzionalmente orientati verso un nucleo unitario di senso. L’idea è questo, e ha valore euristico, in quanto vi si esprime la coscienza di una distanza, di un’inadeguatezza: essa sa di non poter fagocitare in sé la realtà cui si riferisce. Coessenziale al “comprendere” è il rifiuto di forme di realismo gnoseologico che contrabbandino per realtà le forme del sapere con cui si tenta di afferrarla. Una fenomenologia dell’arte non può inglobare del tutto in sé la realtà artistica, l’estetica non esaurisce nei propri problemi i problemi che il mondo estetico pone. Allo stesso modo la filosofia del religioso, e a maggior ragione la storicizzazione dei fenomeni religiosi, non può affatto esser contrabbandata per una forma di razionalizzazione senza residui dell’esperienza di Dio e del sacro. Un’idea vale solo finché si rivela uno strumento efficace per orientare la descrizione; a questo soltanto è funzionale. La sua formulazione costituisce solo il primo passo di una ricerca, il cui approdo è nella ricognizione dei diversi ambiti dell’esperienza, visti nelle invarianti strutturali che ne costituiscono l’ossatura e nei problemi di fondo che li agitano. L’idea viene proposta dall’interno di altri piani di riflessione (pragmatici, analitico-descrittivi o valutativi che siano, direbbe Banfi), viene incontro a esigenze loro interne, esplicita presupposti inespressi. Non nasce da un’intuizione eidetica (qui Banfi non è fenomenologo), 15 Rinvio qui a tematiche affrontate in questo stesso volume anche nel primo capitolo, e nei capitoli sul melodrammatico e sul cinema. 11 da un rapporto intuitivo diretto con l’esperienza di cui è idea. La freschezza dell’esperienza non è un dato di partenza; si conquista piuttosto mediante un lavoro nel sapere condotto con “ostinato rigore”, come Banfi stesso si esprime. Si parte dunque di fatto sempre da un lavoro interno a quanto la nostra cultura storicamente ci mette davanti agli occhi; non dalla supposizione di ritrovarsi in un terreno immacolato. La ricerca estetica non si conclude con la determinazione dell’idea, ma da lì piuttosto prende l’avvio per descrivere un campo di esperienze, cioè, in termini banfiani, per giungere a una fenomenologia. È un principio metodico che orienta in un campo di relazioni tra ambiti diversi del sapere; guida a una descrizione, che è “aperta” anche nel senso che pone a confronto diversi punti di vista dati o possibili intorno a un certo evento. Il piano della loro “integrazione” è anche il piano in cui la ricchezza e la varietà vengono adeguatamente riconosciute, in cui la “complessità” dell’esperienza ottiene giustizia e si fa valere. “Integrazione” e “complessità” (termini chiave del pensiero banfiano) sono strettamente correlati, non possono stare l’uno senza l’altro. Ciò a cui di fatto si perviene nella ricerca è un ambito di relazionamento e di confronto tra ambiti di conoscenze relative a una certa esperienza, o ad aspetti di essa, o ad angolature svariate su di essa. “Capire” implica un avvicendarsi di punti di vista molteplici, un mobile allontanarsi o avvicinarsi di piani prospettici differenti – ora più generalmente teorici ora più circostanziati, ora più concentrati sull’oggetto di per sé, ora a mano a mano degradanti verso quanto gli è “esterno”: l’ambiente, i condizionamenti storici, la personalità dei creatori o dei fruitori. È in questo gioco che propriamente viene salvaguardata la “fresca ricchezza” dell’esperienza, l’irriducibile mobilità della vita. E v’è da sottolineare che la contestualizzazione storica è uno dei saperi in cui si articola ogni “capire”, e non il meno rilevante. A Banfi non manca certo un forte senso della storicità, dell’esser costruite nel tempo dell’esperienza e della cultura. Relativizzare un evento per lui è anche inserirlo in una rete di connessioni, 12 l’antidogmatismo si traduce anche in lavoro storiografico; piano fenomenologico e piano storico non sono da questo punto di vita in contrasto (come anche Geiger auspica). Del resto non è connaturato a ogni “comprendere” (anche nella vita comune) un giustificare in relazione a un contesto? Un restituire a ogni evento le ragioni che gli competono, un riconoscerne le motivazioni, nel tessuto di realtà in cui si produce e vive? E questo riguarda i singoli non meno che le collettività: ci si attende di esser capiti e giustificati in riferimento alla propria storia personale e all’ambiente in cui vive. Non è l’emergenza dell’azione, la sua estrapolazione che prescinde da ogni connessione che importa qui: il risultato, che vale o meno a prescindere dal cammino. Solo, la coscienza filosofica (e con essa il comprendere) non può dissolversi in presa di coscienza storica (così come la filosofia non può risolversi in storiografia filosofica). Quel piano di una fenomenologia del mondo estetico-artistico, di messa in relazione di saperi dati, che è l’estetica, non si esaurisce in storiografia di altre forme di riflessione sull’arte, tanto meno della stessa estetica. Dato che comunque esistono problemi di riuscita e di valore, e di capacità di esprimere un senso nel presente, che nessuna contestualizzazione storica esaurisce in sé. Il problema è presente in modo esemplarmente lucido ad es. a Wilhelm Furtwängler, allorché sottolinea che è limitativo porre in primo piano «la questione del significato di un’opera e di un uomo nel loro contesto storico», se questo «fa passare in secondo piano il loro rapporto con noi stessi», la questione del «significato che essi hanno per noi, uomini d’oggi» 16 . 16 E aggiunge: «Questo andar ponendo questioni di collocazione storica non sembra forse aver pervaso così profondamente il nostro modo di pensare e il nostro sentire, che – conseguenza davvero degenere – non osiamo più essere noi stessi, cominciamo a dubitare seriamente di noi stessi?». Talché l’arte, «diventata definitivamente un affare di ‘cultura’, un affare di lusso», si farebbe (con notazione di chiara ascendenza hegeliana) «intrinsecamente superflua». (W. Furtwängler, Suono e parola, trad. it. di O.P. Bertini, premessa di P. Isotta, Torino, Fògola, 1977, pp. 109-110). 13 Senza contare che la stessa storicizzazione cui il comprendere invita ha presupposti che non vanno ignorati (e proprio quello filosofico è il piano in cui la loro esplicitazione deve avvenire) – non può essere assunta a dimensione unica, né in assoluto più rilevante, del capire. Contiene certo a modo suo una valorizzazione, che tuttavia non può esser scambiata per una attribuzione di valore toutcourt, e di valore estetico e artistico in particolare. Una contestualizzazione storica si può dare di pressoché tutto, a prescindere da qualsiasi valore poi gli si attribuisca; conferisce importanza, mette in luce un rilevo, ma soltanto storici appunto. E una rilevanza storica, una novità, un’originalità su quel piano, non sono ancora valore estetico, né etico o altro. Ci sono altri valori, oltre a quello per la storia e nella storia, che possono, e talvolta devono, assumere importanza, e talvolta anche maggiore, nell’esistenza. Ma vediamo di verificare almeno alcuni di questi assunti nel modo in cui Banfi affronta un problema artistico circostanziato: quello dell’interpretazione musicale. § 4 L’interpretazione musicale A un tema particolare, quello dell’interpretazione musicale, Banfi dedica appunti pregnanti 17 , che verranno apprezzati da Gianandrea 17 A. Banfi, Appunti sull’esecuzione musicale, in I problemi di una estetica filosofica, Milano-Firenze, Parenti, 1961, pp. 341-343. Questo dell’interpretazione fu un problema assai dibattuto nella cultura musicale italiana degli anni ’30, in particolare nell’ambito della “Rassegna musicale”; e vide coinvolti ad es. studiosi quali Gatti, Della Corte, Mila, Cione, Rossi-Doria, Casella, Ballo, Ginzburg, Graziosi, oltre a Parente. Di Massimo Mila si veda l’appendice sull’interpretazione musicale in L’esperienza musicale e l’estetica, Torino, Einaudi, 1956, pp. 157-181 (dove è presente una maggior apertura al problema rispetto alle chiusure di crociani ortodossi alla Parente). Di G. Graziosi cfr. L’interpretazione musicale, Torino, Einaudi, 1967. Sul versante banfiano Luigi Rognoni ne accenna in Fenomenologia della musica radicale, Milano, Garzanti, 1974, pp. 13-22. Si veda anche, di Enrico Fubini, Temporalità e storicità nell’interpretazione musicale, in Musica e filosofia. Problemi e momenti dell’interpretazione filosofica della musica, a cura di A. Caracciolo, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 47-64. 14 Gavazzeni 18 : essi mostrano in concreto la fertilità della sua impostazione nel definire (sia pur al livello della massima generalità possibile) i termini di questo problema tipico dell’esperienza musicale: con osservazioni assai fini, tra l’altro, sulla notazione musicale, sul rapporto dell’esecutore con lo strumento, e dell’esecuzione con l’opera. Certo Banfi con queste sue riflessioni rispondeva a prese di posizioni recenti: pochi anni prima aveva recensito La musica e le arti di Alfredo Parente 19 , in cui un capitolo era dedicato al problema dell’interpretazione, liquidato tuttavia in modo piuttosto drastico. “L’interprete è passivo rispetto alla libera attività del musicista”, vi si leggeva, e: “l’esecuzione dell’opera d’arte è da riferire ad una funzione pratica e non lirica, ed è insomma tecnica, e non creativa”, e dunque non è un fatto artistico 20 . Sintomatico già in apertura dello scritto banfiano è per contro il rilievo della “complessità” del problema, del suo definirsi in funzione di aspetti molteplici, intrecciati; relativi vuoi ai soggetti coinvolti vuoi agli aspetti oggettuali implicati, e rilevabili dagli ambiti del sapere ad essi relativi. Dato che “esecuzione” è l’opera eseguita, ma anche l’attività dell’eseguire da parte di un interprete. Questo chiamare da subito in causa saperi vuoi dei soggetti vuoi degli oggetti è tipicamente fenomenologico: giacché fenomenologico è considerare ogni realtà culturale come risultante dall’incontro di qualcosa che, di volta in volta in sensi diversi, si pone come soggetto e come oggetto – incontro che nella musica si qualifica in modi peculiari. Così il momento “soggettivo” della creazione è visto non come genialità spontanea o assoluta originalità, ma come attività di un artista che si inserisce in un mondo già dato con cui deve fare i 18 G. Gavazzeni, Carta da musica, in Corriere della Sera, 15 ottobre 1962; poi in Carta da musica, Milano, Scheiwiller 1968. Cfr. inoltre quanto nota L. Rognoni nel suo Osservazioni sull’estetica di Banfi, cit., pp. 451-453. E infine cfr. E. Ferrari, I segni e l’immagine: l’esecuzione musicale in Antonio Banfi, in Materiali di Estetica, 4/2001, pp. 89-98. 19 A. Parente, La musica e le arti. Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1936. 20 Cfr. il cap. XV, che ha per titolo Il problema dell’interpretazione (in particolare qui la citazione è da p. 223). 15 conti. L’oggettività dell’opera viene vista nei suoi rapporti con un mondo musicale precostituito di forme, generi, ecc.; il suo concretarsi nella permanenza di una notazione non è un momento di fissazione estrinseca di qualcosa che esiste già compiuto nell’animo del creatore, bensì come qualcosa che retroagisce sulla stessa creazione, imponendovi esigenze peculiari che ne influenzano il corso. Perciò la notazione non è mera riproduzione di qualcosa che le preesiste, ma entra con un suo ruolo imprescindibile a determinare l’oggettività dell’opera. Essa rinvia d’altro lato all’esecuzione, che men che meno deve esser vista come una riproduzione passiva e fedele. Quanto all’esecuzione vera e propria, come attività sui generis, essa deve fare i conti con l’oggettività data dello strumento e con la soggettività dell’esecutore. Nessuno dei due può esser concepito come un mero mezzo per la messa in opera di qualcosa che gli preesiste già fatto; piuttosto entra nella costituzione dell’opera con un apporto nuovo, che ne modifica la struttura scritta o solo pensata. Lo strumento ha sue esigenze, limiti, possibilità che vanno rispettate. Lo stesso esecutore articola il suo intervento nella lettura (che è più che mera ricostruzione storica) e nella traduzione concreta strumentale dell’opera – e tutto questo è tutto meno che mera riproduzione, arrecando all’opera qualità, strati di realtà nuovi. Cadono qui problemi quali quello della “vera” esecuzione, del rapporto col pubblico, di quel particolare tipo di esecutore che è il direttore d’orchestra, dell’artista che esegue la sua opera… Non importa enumerare tutti i problemi. Quel che importa è in definitiva che l’esecuzione non è accidentale rispetto alla compiutezza dell’opera, ma piuttosto entra come fattore imprescindibile a determinarla, è prevista dall’opera stessa come suo completamento. Attivandone in concreto la “complessità”. Capire un’opera implica un compito non meno complesso che capire un’esecuzione, implica la conoscenza dei vari fattori che entrano a determinarla – e quindi veramente, come s’è detto, è un mettere in relazione (non è detto sempre pacifica) saperi, mondi di conoscenze diverse, e pur sorrette da un nucleo interpretativo che 16 tendenzialmente le chiama intorno a sé, le giustifica, le amalgama. Qui questo centro, l’ipotesi di fondo che guida la ricerca e si ripercuote a vari livelli, è che l’esecuzione non sia mera riproduzione passiva (e dunque qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’arte); ma momento attivo nella costruzione dell’evento musicale. E non si tratta di una mera enunciazione di principio: l’interessante è poi rendersi conto che questo assunto ha effetti ai vari livelli della realtà multilaterale dell’esecuzione, e si ripercuote in tutte le componenti che entrano a costituirla. § 5 Per concludere Per quel tanto di fenomenologico che vi si può rintracciare, il pensiero di Banfi può essere ricondotto nell’alveo delle prime letture della fenomenologia husserliana, in cui si originarono anche le ricerche estetiche (non prive di ricadute sull’estetica musicale) di Conrad, Geiger e Ingarden 21 . Geiger dedica osservazioni solo collaterali alla musica, volte a mettere in luce la soggettività estetica, il tipo di atteggiamento (la concentrazione esterna) adeguato a coglierne i tratti propriamente estetici da parte del fruitore (e, in controluce, da parte del teorico)22 . Le sue ricerche possono aiutare a sgombrare il campo da qualche equivoco, ma non entrano in analisi particolari. Analisi che sono invece presenti, e in modo assai articolato, negli scritti di Waldemar Conrad e di Roman Ingarden, in cui lo spazio di una fenomenologia della musica viene ben più compiutamente articolandosi. Conrad parte da una preventiva astensione dal ricorso a linguaggi precostituiti nella descrizione dell’oggetto esteticomusicale, a linguaggi di musicisti o musicologi, alla terminologia tecnica dell’analisi musicale (il confronto con Riemann avverrà so21 Cfr. G. Scaramuzza, Antonio Banfi e la prima estetica fenomenologica, in Annali dell’Istituto Antonio Banfi, 5/1998, pp. 11-14. 22 Cfr. Id., Moritz Geiger e l’estetica musicale, in Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e di Gottinga, a cura di S. Besoli e L. Guidetti, Macerata, Quodlibet, 2000, pp. 467-479. 17 lo alla fine). Ci può essere qualche ingenuità in questo, ma, di nuovo, il problema è vedere cosa produce nell’analisi articolata che Conrad compie; e resta che essa è tutt’altro che priva di spunti interessanti 23 . Ingarden dedica alla musica importanti ricerche, incentrate sul tema dell’identità dell’opera d’arte musicale 24 . Negli appunti banfiani sull’esecuzione musicale, o quanto meno in taluni loro tratti, viene spontaneo ritrovare un’eco dello spirito che animava le ricerche dei primi allievi di Husserl che tentarono di mettere a frutto nel campo dell’estetica le acquisizioni della neonata fenomenologia. Le osservazioni banfiane sull’esecuzione musicale restano (pur nei limiti di un semplice abbozzo) tra le migliori testimonianze della sensibilità fenomenologica che indubbiamente animava il loro autore. L’atteggiamento antiriduttivo, il rispetto per la complessità (la stratificazione molteplice) dell’esperienza musicale, il gusto per le differenze, l’attenzione alle distinzioni dei piani di riflessione su di essa, accomunano appunto Banfi a Husserl e ai primi cultori di estetica fenomenologica. 23 Waldemar Conrad, Der ästhetische Gegenstand. Eine phänomenologische Studie. 2. Der ästhetische Gegenstand der Musik, in Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, III/1908, pp. 80-118. Per una compiuta e competente analisi delle ricerche musicali di Conrad e di Ingarden rinvio ad Augusto Mazzoni, La musica nell’estetica fenomenologica, Milano, Mimesis, 2004. 24 Roman Ingarden, L’opera musicale e il problema della sua identità, a cura di A. Fiorenza, Palermo, Flaccovio, 1989. Su di esso mi permetto di rinviare a G. Scaramuzza, rec. a R. Ingarden, L’opera d’arte musicale e il problema della sua identità, in Iride, 6/1991, pp. 271-273. 18 Ringraziamenti Il saggio di Gabriele Scaramuzza che pubblichiamo, commento e, al tempo stesso, introduzione teorica ai temi agitati nel prezioso frammento banfiano sull’esecuzione musicale, è il decimo capitolo del volume L’estetica e le arti. La scuola di Milano. CUEM , Milano 2007, pp.223- 236. Ringraziamo l’autore e l’editore per avercene permessa la pubblicazione. Il testo di Scaramuzza sviluppa ed approfondisce le tematiche presenti nel precedente Crisi come rinnovamento. Scritti sull’estetica della scuola di Milano, Milano, UNICOPLI, 2006. Ai due volumi rimandiamo il lettore che voglia approfondire i nessi che determinano il rapporto fra dimensione estetica e concetto d’esperienza nel pensiero di Antonio Banfi, attraverso le trasparenze di una scrittura di singolare profondità. 19