1 Ferrara 2 dicembre 2010. Cittadine senza diritti. Le donne dall’Unità d’Italia ad oggi. GIOVANNI CAZZETTA La condizione giuridica della donna tra statuti pre-unitari e codici post-unitari. 1. Classificazioni e discriminazioni Anna Maria Mozzoni, considerando nel 1864 il progetto di Codice civile del regno d’Italia1, scriveva: «dalla mania delle classificazioni nacquero le più stridenti ingiustizie». Frutto di interessati pregiudizi maschili, le “classificazioni dei giuristi” conservano, rinnovano, creano «pregiudizi», collegando i diritti alla «funzione» e al «ruolo» dei soggetti e non – come dovrebbe essere - alla «natura umana»: “le classificazioni” volte a legittimare differenze di trattamento giuridico tra uomo e donna in riferimento alla diversità di ruolo e di funzione creano ingiusti privilegi. Il nesso tra libertà e responsabilità, il riferimento alla volontà libera del soggetto è componente ineludibile della costruzione giuridica e del complessivo rapporto tra soggetti e ordine nel periodo moderno. Ripetutamente evocata nelle pagine dei giuristi è anche “la libertà della donna”; ma una sedimentata serie di “distinzioni e classificazioni” sono utilizzate per affermare e conservare nuove e vecchie discriminazioni. Riprendendo la Mozzoni, potremmo dire che il gioco delle classificazioni giuridiche disegnò («in riferimento alla diversità di ruolo e di funzione») solo al maschile i diritti nel periodo post-unitario. Obiettivo del presente intervento è di cercare di cogliere – prestando particolare attenzione al periodo postunitario – l’uso retorico del nesso libertà/responsabilità nelle pagine dei giuristi e la scomposizione dei principi generali ed astratti entro un quadro di “regole” di “eccezioni”, di “classificazioni” volte ad escludere le donne dal diritto di cittadinanza. 2. Retorica della libertà e cittadinanza minorata Quali nessi tengono assieme retorica della libertà e «cittadinanza minorata»? Le strategie argomentative dei giuristi muovono in genere da un richiamo a «vera» libertà della donna per configurare una libertà possibile solo entro un determinato ambito, per negare “false libertà”, “falsa uguaglianza”. Il riferimento a libertà si presenta come il contraddittorio strumento di conferma di “necessarie” discriminazioni. La retorica della libertà è posta così al servizio di un continuo “dosaggio” dei diritti. Per tentare di comprendere il nesso tra retorica della libertà e cittadinanza minorata farò riferimento a due percorsi di esaltazione e, al tempo stesso, di negazione di libertà e uguaglianza. Prenderò in considerazione la volontà libera di contrarre 1 A.M. MOZZONI, La donna e i suoi rapporti sociali. In occasione della revisione del codice civile italiano, Milano, 1864. 2 matrimonio confrontandola con la negazione di diritti entro il matrimonio e la rappresentazione dei diritti della donna in relazione alla dimensione privata o pubblica della famiglia. In entrambi i percorsi – nonostante la netta distinzione liberale tra diritto e morale – un ruolo fondamentale nelle pagine dei giuristi continua ad essere giocato dal richiamo all’onestà e alla virtù femminile; un richiamo che – come vedremo - finisce spesso per configurare l’uguaglianza come una sanzione nei confronti della donna. 3. Libertà di contrarre il matrimonio e onestà della donna L’aspetto su cui più insistono i giuristi nell’affermare la libertà della donna è quello della libertà di contrarre/non contrarre il matrimonio. Il riferimento a tale libertà ha un lungo percorso dietro alle spalle: molteplici sono sul punto le pagine dei giuristi e dei teologi dopo il Concilio di Trento; innumerevoli i nessi con il processo di laicizzazione del diritto e di progressiva configurazione del matrimonio come contratto (non si dà contratto se le parti non sono formalmente libere ed uguali). Nel lungo percorso di affermazione storica del principio di libertà di contrarre/non contrarre il matrimonio si assiste allo scontro tra interessi pubblici e privati: il principio – potenzialmente contrapposto alle strategie familiari di alleanze matrimoniali e all’imposizione di matrimoni voluti dalle famiglie - apre uno scontro tra dovere di obbedienza ai padri e libertà di scelta, delinea nuovi equilibri tra lo Stato e i singoli (si afferma un nesso tra lo Stato e i singoli, piuttosto che tra lo Stato e le famiglie). La costruzione giuridica della libertà è comunque asimmetrica. Le due parti sono libere («ugualmente libere») di scegliere o non scegliere il matrimonio ma il dato formale di partenza (l’uguale libertà) è sorretto da un presupposto «naturale» che incide non poco nella ricostruzione: si presuppone che sempre, «per la sua natura», la donna voglia il matrimonio. La donna raffigurata dai giuristi non sceglie quel matrimonio ma il matrimonio, il suo consenso è in qualche modo sempre presente, l’esercizio della sua libertà è costantemente rappresentato come indirizzato verso il raggiungimento di un preciso obiettivo2. Nelle pagine dei giuristi perdura il riferimento a «libera scelta» per il matrimonio come scelta per l’onestà. La scelta matrimoniale è valutata come espressione di una libertà «vera» e «onesta»: la donna onesta non può non volere il matrimonio. L’enfasi posta su libertà si ferma al momento della “stipulazione del contratto”. La libertà della donna si consuma tutta nella scelta per il matrimonio. Tale scelta (libera e onesta) si pone come volontaria soggezione a una vita istituzionale del matrimonio caratterizzata da “necessarie” disuguaglianze. La libertà si ferma sulle soglie di una famiglia che ha un suo ordine («privato», «naturale», «istituzionale») caratterizzato da gerarchie e disuguaglianze. Libertà e uguaglianza scompaiono infatti dopo la stipulazione formale del contratto, 2 Un esempio settecentesco può rendere l’idea (la mentalità è destinata però a conservarsi a lungo immutata). De Luca si pone di fronte al caso di due amanti trovati in flagrante dai genitori e spinti (costretti) al matrimonio. È libero – si chiede - il consenso? In riferimento all’uomo occorre valutare se sia o meno intervenuta violenza; la questione invece non si pone in riferimento alla donna: «in questa istessa contingenza – scrive – di essere trovati in flagrante, non è cosa che dalla donna più si desideri che di divenire moglie dell’amante, al quale abbia fatto copia di sé illecitamente» (Dottor volgare, XVI, 2). 3 non entrano nel “rapporto”. La retorica della libertà legittima la soggezione volontaria all’ordinaria e disuguale vita famigliare. La commissione senatoria che modificò in senso conservatore il progetto di Codice civile del 1865 espresse con chiarezza questa posizione nel momento in cui pretese l’inserimento nel Codice dell’autorizzazione maritale3: l’«indipendenza» della donna – si afferma - offende i diritti della famiglia, è contraria «al principio della protezione che il marito deve alla moglie» e «alla deferenza che la moglie deve al marito, capo della famiglia», è una minaccia nei confronti della «unità e comunione individuale di tutte le cose della vita», «carattere più essenziale della società dei coniugi». Se libertà e uguaglianza fossero proiettate nella vita matrimoniale, esse costituirebbero dunque una minaccia per l’unità della famiglia e per la ‘comunione di vita’ che «si troverebbero esposte a continue e pericolose turbazioni». L’esigenza di evitare «turbazioni» all’unità della famiglia negava alla donna la capacità giuridica come moglie e anche come madre: la patria potestas sui figli era esercitata solo dal padre; un padre che poteva proiettare i suoi poteri anche nel futuro, imponendosi dopo la sua morte (art. 235 del Codice civile: «il padre può per testamento o per atto autentico stabilire condizioni alla madre superstite per l’educazione dei figli e per l’amministrazione dei beni»). Oltre che la ordinaria (e dispotica) vita famigliare, la libera scelta per il matrimonio assoggettava la donna a un regime disuguale in caso di separazione: il marito poteva richiedere la separazione per l’adulterio della moglie, mentre la moglie poteva intentare l’azione di separazione per adulterio del marito solo quando egli manteneva «la concubina in casa o notoriamente in altro luogo» (art. 150 del cod. civ. del 1865). La norma era ricalcata su quella della disciplina del divorzio prevista nel Codice civile francese del 1804. L’argomento riassunto da Portalis per giustificare il diverso trattamento dell’infedeltà femminile rispetto a quella maschile era il seguente: «l’infedeltà della donna suppone più corruzione ed ha effetti più pericolosi; il sesso più amabile deve, per la felicità dell’umanità, essere il più virtuoso». Il matrimonio spezza il nesso tra libertà e responsabilità: la donna ottiene con il matrimonio «protezione» perché mostra, volendo il matrimonio, la sua onestà, la sua virtù. Speculare al legame tra libera scelta matrimoniale e onestà della donna è la relazione tra scelta della disonestà e assenza di protezioni giuridiche. Per cogliere appieno la questione giova spostare brevemente lo sguardo in direzione del diritto penale. 4. «Abuso della libertà» Nel corso dell’Ottocento assistiamo a un processo di secolarizzazione del diritto penale, a una sua progressiva “depeccatizzazione”, a una distinzione tra morale e diritto. Vicenda centrale in questo processo è il venir meno della punibilità di rapporti 3 Prevista nel Codice Napoleone del 1804 con riferimento alla comunione dei beni, l’autorizzazione maritale fu recepita nel Codice civile del Regno d’Italia del 1865 nel diverso regime patrimoniale della separazione. La normativa – che sanciva la superiorità dell’uomo nei rapporti patrimoniali - ribadiva la condizione di inferiorità della donna nel sistema giuridico del nuovo Regno d’Italia: l’incapacità – che era specificamente riferita alle sole donne maritate - aveva infatti inevitabili riflessi sulla complessiva condizione giuridica della donna. Codice civile del Regno d’Italia, art. 134: “La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, nè transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l'autorizzazione del marito. / Il marito può con atto pubblico dare alla moglie l’autorizzazione in genere per tutti o per alcuni dei detti atti, salvo a lui il diritto di rivocarla”; art. 135: “L’autorizzazione del marito non è necessaria 1° Quando egli sia minore, interdetto, assente o condannato a più di un anno di carcere, durante l'espiazione della pena; 2° Quando la moglie sia legalmente separata per colpa del marito; 3° Quando la moglie eserciti la mercatura”; Art. 136: Se il marito ricusi l’autorizzazione alla moglie, o se trattisi di atto nel quale siavi opposizione d’interesse, ovvero se la moglie sia legalmente separata per sua colpa, o per colpa sua e del marito, o per mutuo consenso, sarà necessaria l’autorizzazione del tribunale civile. /Il tribunale non può concedere l'autorizzazione, se prima il marito non fu sentito o citato a comparire in camera di consiglio, salvi i casi di urgenza; Art. 137: La nullità derivante dal difetto di autorizzazione non può essere opposta che dal marito, dalla moglie e dai suoi eredi od aventi causa. 4 sessuale tra adulti consenzienti fuori dal matrimonio. Vengono progressivamente meno tra Sette e Ottocento le punizioni nei confronti dello «stupro semplice» (rapporto sessuale con «donna onesta» e consenziente), dello stupro qualificato da seduzione (in particolare quella accompagnata da promessa di matrimonio) per affermare la punibilità della sola «violenza carnale», caratterizzata da violenza «vera, reale, effettiva». Questo percorso – che pone al centro dell’attenzione ai fini della comminazione della pena non più l’onestà della donna ma l’assenza del consenso - è accompagnato da una particolare enfasi posta dai giuristi nei confronti della libertà. La donna sintetizza Francesco Carrara, uno dei più illustri studiosi del diritto penale dell’Ottocento italiano, ha “libera disponibilità del suo corpo”. Proviamo a considerare, però, qual è – secondo i giuristi del periodo - il diritto individuale leso dalla violenza sessuale. Anche coloro che affermavano che il diritto individuale leso in caso di violenza era la libertà sessuale della donna (e non la pudicizia, l’onore, la illibatezza corporea) continuavano a legare assieme libertà e onestà, continuavano a far riferimento ad un nesso tra libertà e responsabilità caratterizzato dalla necessità di non prestare alcuna protezione giuridica nei confronti di una donna che si era avvalsa della sua libertà “in modo disonesto”. Nonostante la distinzione tra diritto e morale, nonostante l’enfasi nei confronti della libera disponibilità del corpo, le pagine dei giuristi collegano tutela della libertà e onestà. Si pensi alle ricostruzioni della resistenza della donna alla violenza (il riferimento a una resistenza «non apparente» «vera» «reale» caratterizza gli scritti della dottrina e della giurisprudenza sino a tutto il Novecento, presentandosi, più che come prova del dissenso, come indice di onestà). Si pensi al riferimento al matrimonio, al collegamento tra violenza sessuale e matrimonio come “purificazione” della violenza (l’articolo 352 del codice penale Zanardelli del 1889 prevedeva che il colpevole di violenza sessuale fosse esente da pena nel caso di matrimonio con la persona offesa4). Si pensi ancora alla pena per la violenza diminuita dalla metà ai due terzi nel caso in cui essa fosse stata rivolta nei confronti di una «pubblica meretrice» (art. 350 codice Zanardelli5). La mentalità dei giuristi contribuisce non poco ad esasperare in senso discriminatorio le scelte normative. Ad esempio, in riferimento alla violenza nei confronti della meretrice si discuteva appassionatamente riguardo alla possibilità di configurare un «meretricio putativo», di far valere cioè la diminuzione della pena anche quando da una serie di indizi c’era ragione di credere che la donna fosse meretrice. 4 Art. 352 Codice penale 1889: «Il colpevole di alcuno dei delitti preveduti negli articoli 331 [‘violenza carnale’], 332 [violenza carnale con abuso di autorità, di fiducia o di relazioni domestiche], 333 [atti di libidine], 335 [atti di libidine su persona minore dei sedici anni], 340 [ratto, con violenza minaccia o inganno, “per fine di libidine o di matrimonio”]e 341 [ratto di un minore] va esente da pena, se, prima che sia pronunziata la condanna, contragga matrimonio con la persona offesa; e il procedimento cessa per tutti coloro che sono concorsi nel delitto, ferma, ove ne sia il caso la pena per altri reati. / Se il matrimonio si contragga dopo la condanna, cessa l’esecuzione e cessano gli effetti penali di essa» 5 Art 350 Codice penale 1889: «Quando alcuni dei delitti previsti negli articoli 331, 332, 333, 340 e 341 sia commesso sulla persona di una pubblica meretrice, le pene in essi stabilite sono diminuite dalla metà ai due terzi» 5 La libertà della donna si lega dunque a onestà: la donna che non sceglie il matrimonio (l’onestà del matrimonio) ottiene protezioni ridotte, severi controlli, sanzioni per l’«abuso» della sua libertà/onestà. Fuori dal matrimonio, il nesso tra libertà e responsabilità resta in piedi come una sanzione nei confronti della donna “disonesta”. 5. Una sanzione per la disonestà: il divieto di ricerca della paternità Possiamo trovare una conferma di questo atteggiamento nel divieto della ricerca della paternità previsto dal Codice civile (art. 189 c.c. del 1865: «Le indagini sulla paternità non sono ammesse, fuorché nei casi di ratto o di stupro violento, quando il tempo di essi risponde a quello del concepimento»). Il divieto è sostenuto da una retorica (che non subisce grandi mutamenti dalla rivoluzione francese sino all’inizio del Novecento) tutta incentrata sulla necessità di sanzionare il riprovevole comportamento della donna. La retorica sanzionatoria muove implicitamente dal nesso tra libertà di scegliere/non scegliere il matrimonio: la donna che liberamente ha scelto «il male» non è degna della protezione della legge. L’obiettivo del divieto è di far valere il nesso libertà/responsabilità come sanzione nei confronti della donna «disonesta»: per ottenere l’onestà – si afferma – occorre punire la donna, colpirla nel punto in cui è più fragile, negarle la possibilità di individuare un padre per il figlio. Il divieto sanziona una donna che ha scelto il suo disonore. A confermarlo sono le eccezioni previste dall’art. 189 del c.c. La ricerca della paternità è possibile nei soli casi di «ratto» e di «stupro violento». La ratio delle eccezioni è data – a dire dei giuristi – dalla «notorietà del fatto»; in realtà, le eccezioni offrono “un premio” alla donna onesta (alla donna che resistendo alla violenza e al ratto non si è mostrata consenziente, «colpevole col consentire»). Le ricostruzioni giuridiche che tentano di porre rimedio alle ingiustizie generate dal divieto (si pensi solo all’impossibilità di accertare la paternità anche nel caso di matrimoni contratti solo religiosamente - che per il codice del 1865 non avevano alcun valore giuridico – quando il padre abbandonava quella famiglia ‘di fatto’) insistono, specularmente, sull’onestà della donna. Si insiste infatti - seguendo schemi che si fondano ancora su ricostruzioni di antico regime – nel rappresentare una donna non veramente libera, sedotta da raggiri maschili e, in particolare, dal più pericoloso di essi: la promessa del matrimonio. La tecnica più diffusa per aggirare il divieto di ricerca della paternità era infatti quella di avanzare una richiesta di risarcimento del danno per seduzione con promessa di matrimonio, ottenendo così (solo dopo aver dimostrato l’onestà della donna sedotta) un indiretto accertamento della paternità. 6. «Per natura sua». Libertà e uguaglianza della donna nel diritto privato e nel diritto pubblico. La retorica della libertà è posta dunque a sostegno di discriminazioni entro il nucleo «naturale» della famiglia (la donna onesta, scegliendo il matrimonio, ha 6 liberamente voluto quell’assetto) e di sanzioni per le scelte operate fuori dalla famiglia (la donna disonesta ha liberamente scelto di privarsi delle tutele della legge). La contraddittoria retorica della libertà “nella famiglia” si collega e sostiene la negazione di libertà politiche nei confronti della donna, la negazione di una piena applicazione dell’art. 24 dello Statuto che prevedeva l’uguaglianza di «tutti i regnicoli» di fronte alla legge. La giurisprudenza affermava pacificamente che pur in presenza di detto articolo il legislatore era libero di conservare tutte le disparità sancite dal diritto comune. «Tutti» - in sostanza - era declinato solo al maschile (ma, anche qui, con esclusivo riferimento ai cittadini possidenti: gli allargamenti del suffragio maschile si avranno solo nel 1882 e nel 1913). Per fare un esempio, si può scorrere l’elencazione di coloro che «non sono elettori né eleggibili» fissato dall’articolo 30 dal regio decreto 10 febbraio 1889, n. 5921 (Testo unico della legge comunale e provinciale): «gli analfabeti […]; le donne; gli interdetti e gli inabilitati; i condannati per oziosità, vagabondaggio e mendicità […]; gli ammoniti a norma di legge; i soggetti alla sorveglianza speciale». Non mi interessa qui considerare complessivamente il tema della negazione dei diritti politici ma tentare di comprendere come la retorica della libertà (e dell’uguaglianza) della donna venisse giocata in riferimento al rapporto tra pubblico e privato. La divisione pubblico/privato è fondamentale nella storia moderna e contemporanea della famiglia. La famiglia si pone tra pubblico e privato, in un rapporto di coesistenza e non di alterità tra le due dimensioni. L’opposizione è però spesso presentata come netta, inconciliabile. Da un lato la famiglia come luogo privato di sentimenti, come spazio pregiuridico e prestatale, nucleo originario da tutelare con un muro invalicabile da ingerenze esterne; dall’altro lato, la famiglia come luogo pubblico, inevitabilmente collegato alla società, alla macrocomunità, luogo di educazione e di disciplina (si pensi alla famiglia forte e gerarchizzata di antico regime che si poneva come primo luogo di «abitudine all’obbedienza», come specchio di uno stato forte e gerarchizzato). Una dimensione tipica del diritto moderno è stata quella di porre un nesso diretto tra lo Stato e i singoli; quello di far valere diritti e libertà nei confronti dei singoli anche valicando il muro della comunità famigliare. L’attribuzione di diritti ai singoli entro la famiglia ha disegnato in maniera nuova la relazione tra il versante pubblico e quello privato, non solo ponendo il dilemma del primato dei diritti dei singoli rispetto alla famiglia o della famiglia rispetto ai singoli, ma anche ridefinendo il quadro delle relazione tra pubblico e privato, la relazione tra comunità politica e la famiglia come «comunità di amore e solidarietà». La questione di una rilevanza sempre maggiore della dimensione pubblica all’interno della famiglia è ben presente al momento dell’Unità. Nel 1863, presentando il primo libro del progetto di Codice civile, Giuseppe Pisanelli afferma di aver dubitato a lungo riguardo all’opportunità di inserire i diritti di famiglia entro il codice civile: «L’idea fondamentale del Codice è quella della proprietà, e tutte le sue disposizioni si aggirano attorno ai beni. Il primo libro del Codice per contrario riguarda i diritti di famiglia, per modo che a me è sempre paruto che questo primo libro sia una branca di leggi speciali, ed intermedie tra il Codice civile e lo 7 Statuto. Il Codice civile riguarda l’individuo: il primo libro del Codice la società di famiglia, lo Statuto, la società politica». Affiora una radicale contrapposizione tra un diritto privato caratterizzato da un esasperato individualismo possessivo e la società politica; ed emerge, nello stesso tempo, la rappresentazione di uno spazio intermedio pubblico e privato, difficile da definire e da regolare. Giocando sull’ambiguità di questo spazio intermedio i giuristi affermarono espansioni e restrizioni di libertà e uguaglianza: le argomentazioni utilizzate per espandere libertà e uguaglianza in una dimensione sono spesso poste, nell’altra dimensione, al servizio di scelte discriminatorie. La retorica della «vera» libertà “nella famiglia” legittima anche in questo caso l’attribuzione di una cittadinanza minorata alla donna. Un esempio di tale ingannevole retorica della libertà e dell’uguaglianza può forse aiutare a cogliere i legami posti tra le diverse dimensioni. Proviamo allora a seguire alcuni passaggi presenti nella voce Famiglia del Digesto italiano redatta nel 1895 da Giuseppe Manfredini. Manfredini si dichiara favorevole a una visione della famiglia aperta a libertà e uguaglianza. Parla di «ineluttabile evoluzione storica»; insiste sulla necessità di una visione «laica» e «liberale» (sottratta a regole «pretesche»6) della famiglia. È a favore, ad esempio, del sistema «logico, morale, umano, civile del divorzio»; ritiene che la libertà e l’uguaglianza della donna debba essere sempre garantita: «la donna è considerata uguale all’uomo e a lui uguale deve essere anche quando gli è moglie». Nella dimensione privata, la famiglia deve essere – prosegue – ispirata «all’odio per i privilegi e all’amore per l’uguaglianza» e guidata da un solo gran consigliere: «l’amore deve essere il gran consigliere»; «l’amore è il capo della società domestica che è società di mutuo affetto e di mutua dedizione». Le conclusioni sono ‘avanzate’ per il periodo: Manfredini propone tra l’altro di attribuire la potestà sui figli ad entrambi i genitori e di abolire l’autorizzazione maritale. Una nuova e diversa serie di enunciati affiora, però, nel momento in cui si passa a considerare la relazione tra la dimensione privata della famiglia e la dimensione pubblica. La libertà e l’uguaglianza esaltate nella dimensione privata sono poste infatti a sostegno di trattamenti giuridici discriminatori nella sfera pubblica (ancora configurata - come in antico regime – come fondata su un equilibrio tra ordine della famiglie e Stato). La polarizzazione moderna tra individui e Stato è realizzata solo in riferimento al soggetto maschile e negata per la donna: la ricerca di un punto di equilibrio tra la forza espansiva di libertà ed uguaglianza e «stabilità dello Stato» è tutta giocata sulla tenuta del ruolo «naturale» della donna nella famiglia: «la donna fa parte della famiglia per natura sua, mentre l’uomo vi fa parte per educazione». Il destino che lega la donna alla famiglia diviene la chiave di lettura per considerare libertà ed uguaglianza in una sfera pubblica in cui alla donna «manca la funzione da esercitare che è propria dell’altro». Il discorso, dunque, si scinde: in 6 In Francia – scrive – negli anni della rivoluzione «la ragione, la libertà, l’uguaglianza riformarono la costituzione famigliare, sottraendola al giogo ed all’intolleranza pretesca e sopprimendo quelle prescrizioni che dipendevano dalle distinzioni di classi, dai privilegi d’età e di sesso e dalla proprietà delle terre» 8 riferimento alla “funzione naturale” della donna entro la famiglia si richiede libertà e uguaglianza (si sostiene l’abolizione di tutte le disposizioni «che fanno del marito un padrone e della donna una dipendente»); considerando invece la dimensione pubblica della famiglia si ribadiscono necessarie discriminazioni. Non è possibile – scrive Manfredini - accordare alle donne diritti politici, non è possibile confondere la sfera privata della solidarietà e dell’amore con la sfera pubblica, con la stabilità dello Stato, con le necessità della pubblica economia. Nella sfera pubblica la “libertà vera” della donna si afferma attraverso esclusioni: la donna – ad esempio - deve essere liberata dal lavoro per far ritorno alla dimensione privata della famiglia in cui si realizza la sola libertà e uguaglianza possibile: «si chiedono leggi che limitino il lavoro delle donne e dei fanciulli […] Non basta. La donna deve essere liberata dal lavoro, la vera emancipazione della donna sta nel farla ritornare alla famiglia dalla quale le false idee economiche e industriali l’hanno strappata». Il “ritorno alla famiglia” (caratterizzata da “amore/libertà/ uguaglianza”) è posto a sostegno di una limitazione funzionale dei diritti di cittadinanza, come argine allo sfaldamento dell’ordine sociale dovuto a false idee emancipatorie. Tornano in mente le parole di Anna Maria Mozzoni circa le classificazioni interessate dei giuristi. Riguardo al lavoro della donna la Mozzoni aveva scritto: «il lavoro è il grande emancipatore, il lavoro è libertà». 7. Cittadine senza diritti La legge del 1919 abolì l’autorizzazione maritale ma nel dibattito parlamentare restarono inascoltate le (poche) voci di coloro che chiedevano una piena equiparazione della condizione giuridica della donna a quella dell’uomo «sia nel diritto privato, sia nel diritto pubblico». A ben vedere l’innovazione più importante della legge del 1919 stava nell’art. 7 che ammetteva le donne, «a pari titolo degli uomini», all’esercizio di «tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici». Non lasciamoci ingannare però da quel riferimento a «tutte le professioni»: non mancavano anche in questo caso eccezioni, classificazioni. Erano esclusi «soltanto» (così recita l’art. 7) gli impieghi implicanti «poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato»7. La possibilità per la donna sposata di amministrare autonomamente il proprio patrimonio raggiunta nel 1919 eliminò una vistosa stortura presente nel Codice del 1865 ma molte altre classificazioni e discriminazioni furono conservate “sopra inaccessibile roccia”. Il diritto di voto – com’è noto - sarà accordato in Italia alle donne solo nel 1946, per la piena parificazione in tutte le professioni occorrerà attendere ancora anni. 7 L. 17 luglio 1919 n. 1176 (Norme circa la capacità giuridica della donna). Art. 1: Gli articoli 134, 135, 136, 137 […] sono abrogati. […]; Art. 7: Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionari o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento. 9 La Costituzione repubblicana muterà profondamente il quadro dei principi di riferimento e costringerà i giuristi a prendere sul serio libertà e uguaglianza, spogliando progressivamente (anche se troppo lentamente8) le costruzioni giuridiche dalle classificazioni poste a sostegno di una cittadinanza “universale” contraddittoriamente segnata dalla presenza di cittadine senza diritti. Riferimenti bibliografici essenziali: G. CAZZETTA, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano, 1999; ID., «Colpevole col consentire». Dallo stupro alla violenza sessuale nella penalistica dell'Ottocento, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», vol. 79, 1997, pp. 424-462; P. COSTA, Il ‘discorso della cittadinanza’ e la differenza di genere, in Il genere dell’Europa. Storia delle donne e identità di genere (a cura di A. De Clementi), Roma, 2003, pp. 139-165; M. GRAZIOSI, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e diritto», 2 (1993), pp. 99-143; L. MARTONE, L’incapacità delle donne nel sistema giuridico dell’Italia liberale, in «Democrazia e Diritto», 36 (1996), pp. 515-547; P. UNGARI, Storia del diritto di famiglia in Italia, Bologna, 1974; Innesti. Donne e genere nella storia sociale (a cura di G. Calvi), Roma, 2004. Ampi riferimenti bibliografici sono presenti nel sito ’Donne&Diritti’ (www.unipa.it/storichedeldiritto). 8 La parificazione dei diritti entro la famiglia sarà raggiunta – com’è noto - soltanto nel 1975, più di un quarto di secolo dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.