LA SCUOLA DELLE MOGLI
di Molière
versione italiana Giovanni Raboni
regia Marco Sciaccaluga
con Eros Pagni, Alice Arcuri, Roberto Alinghieri, Marco Avogardo, Massimo Cagnina,
Pier Luigi Pasino, Roberto Serpi, Mariangeles Torres, Federico Vanni
scene Jean-Marc Stehlé e Catherine Rankl
costumi Catherine Rankl
musiche Andrea Nicolini
luci Sandro Sassi
Teatro Stabile di Genova
Teatro Ermanno Fabbri, Vignola:
29 gennaio 2013, ore 21.00
30 gennaio 2013, ore 15.00
Teatro Storchi, Modena:
dal 31 gennaio al 2 febbraio 2013, ore 21.00
3 febbraio 2013, ore 15,30
Eros Pagni è lo straordinario protagonista di questo allestimento diretto da Marco
Sciaccaluga, che fin dal debutto ha incantato e divertito pubblico e critica che l’hanno
unanimemente consacrato tra le migliori produzioni della passata Stagione. Venato da
un probabile autobiografismo (correva l’anno 1662,e il quarantenne Molière sposava la
ventenne Armande Béjart, figlia o sorella della sua amante Madeleine), La scuola delle
mogli – qui nella bella traduzione di Giovanni Raboni - è un capolavoro di analisi
psicologica e comportamentale, sotteso da una travolgente “vis comica” nella quale la
società francese di allora ha avuto modo di rispecchiarsi con un misto di paura e di
complicità, a causa della “scandalosa” forza del suo assunto narrativo e della
originalità con cui vengono definiti i suoi personaggi.
Il non più giovane Arnolfo (interpretato da Eros Pagni) ostenta la propria sfiducia nelle
donne e nell’istituzione matrimoniale: fattori che, se combinati insieme, determinano,
secondo lui, l’inarrestabile proliferazione nella società di una moltitudine di menzogne,
d’inganni e d’infelicità…
La scuola delle mogli è una delle commedie di maggior successo di Molière. Tutta
Parigi, con Luigi XIV e la famiglia reale in testa, accorse a vedere e ad applaudire la
commedia in uno spettacolo che, accompagnato da clamorose risate, suscitò però
scandalo tra i benpensanti, che lo accusarono di essere volgare, osceno, immorale.
Forte della protezione di Re Luigi XIV, Molière rispose a queste accuse con altre due
commedie Critica della scuola delle mogli e Improvvisazione a Versailles.
Emilia Romagna Teatro Fondazione – Teatro Stabile Pubblico Regionale, Sede Legale: Teatro Storchi, Largo Garibaldi 15, 41124 Modena. Sede Organizzativa: Via Ganaceto, 129 ‐ 41121, Modena Centralino: Tel. 059 2136011, Biglietteria:. 059 2136021, e‐mail: [email protected] C.F. e P.IVA 01989060361 Conversazione con il regista Marco Sciaccaluga
In polemica con Voltaire, Lessing sostiene che la grandezza di La scuola delle mogli
deriva dal fatto che nella commedia “tutto è azione, anche se sembra narrato”.
Sono perfettamente d’accordo con Lessing e aggiungerei che in questa commedia
tutto è teatro, anche se sembra letteratura. La genialità teatrale di Molière si
manifesta in questo caso nel lasciare fuori di scena, tra un atto e l’altro, lo
svolgimento degli avvenimenti, per concentrare tutta la sua attenzione sull’effetto che
apprendere ciò che è accaduto provoca nei personaggi, e in particolare in Arnolfo.
Come accadrà poi anche in La brocca rotta di Kleist, chiaramente influenzata per
quanto riguarda la struttura drammaturgica da La scuola delle mogli, Molière ci
racconta qui la storia di un’identificazione tra giudice e imputato: una storia che ha
l’andamento di un suspense, tanto più coinvolgente perché, proprio come accadrà al
giudice Adamo, gli unici a sapere di questa identità sono lo stesso Arnolfo e gli
spettatori. E questo dà a tutta la commedia non solo un originale sapore
drammaturgico, ma anche la straordinaria forza metaforica di un’avventura teatrale
che sa raccontarci sia l’inesorabile contrasto tra i nostri sogni e lo svolgimento della
realtà, sia come la vita degli esseri umani è caratterizzata dall’inesorabile difficoltà a
radicarsi in una consapevole identità.
Proprio dal contrasto tra ciò che Arnolfo ha programmato e i fatti che egli viene ad
apprendere attraverso i racconti dei suoi interlocutori nasce anche la potente comicità
della commedia.
Certo, in La scuola delle mogli si parla di corna e di contrasto tra le generazioni, e
innumerevoli sono le occasioni per ridere; ma lungi dall’essere consolatoria, in
Molière, la risata è anche la chiave per scoprire tante verità. La trama della commedia
può essere raccontata come il contrasto tra un sogno totalitario (il progetto di Arnolfo
di creare in Agnese la moglie ideale) e la libertà individuale, che anche a loro insaputa
si concretizza nell’amore che nasce “naturalmente” tra Agnese e Orazio. Come Faust,
Arnolfo sogna l’eterna giovinezza, anche se non ha più bisogno d’incontrare
Mefistofele, perché il diavolo lo porta dentro di sé, nella propria cattiva coscienza; e
come Frankenstein ordisce il folle programma di dare vita alla creatura perfetta
attraverso la quale realizzare la sua aspirazione all’immortalità.
Ma si tratta pur sempre di una commedia e alla fine il suo sogno è destinato a
spezzarsi nel contrasto con la realtà e con la natura umana.
La forza di La scuola delle mogli deriva non solo da quello che racconta, ma anche e
soprattutto dal modo in cui lo fa. Quello che Molière propone non è un affresco
metafisico o una metafora esistenziale, ma è soprattutto una piccola storia privata di
provincia, attraverso la quale però sa far nascere l’immagine di un’umanità e di una
società senza tempo, dove si alimenta l’illusione che i catechismi, i regolamenti e le
ideologie possano governare la natura, piegandola al loro programmatico volere.
Emilia Romagna Teatro Fondazione – Teatro Stabile Pubblico Regionale, Sede Legale: Teatro Storchi, Largo Garibaldi 15, 41124 Modena. Sede Organizzativa: Via Ganaceto, 129 ‐ 41121, Modena Centralino: Tel. 059 2136011, Biglietteria:. 059 2136021, e‐mail: [email protected] C.F. e P.IVA 01989060361 Perché hai scelto di spostare l’ambientazione della commedia dal Seicento al primo
Novecento?
Sul tema della collocazione nello spazio e nel tempo della messa in scena di un
classico credo bisognerebbe innanzitutto abbandonare ogni posizione pregiudiziale:
quella dei registi che esibiscono la modernizzazione come unico dato di originalità, ma
anche quella degli spettatori più conservatori che si scandalizzano di fronte
all’inserimento nella rappresentazione di elementi non legati al momento cronologico
in cui un’opera è stata scritta. Nel teatro che mi piace fare e vedere, il problema delle
modalità di rappresentazione nasce innanzitutto da una ragione narrativa.
Personalmente sono sempre molto rigoroso nell’analisi critica del testo che sto
mettendo in scena, ma sono anche convinto che nel teatro d’interpretazione questo
profondo rispetto per la parola dell’autore non passi affatto attraverso l’appiattimento
figurativo sull’epoca in cui un testo è stato scritto. Anzi, mi piace pensare, credo con
buon fondamento, che se Molière o Shakespeare potessero assistere oggi alla
rappresentazione di una loro opera sarebbero quanto meno stupefatti nel veder
entrare in scena personaggi vestiti con abiti del Seicento. Il teatro è sempre coniugato
al presente e la forza di un classico sta nella sua capacità di parlarci ancora, senza
condizionamento a-priori e senza forzature pregiudiziali.
E allora, da dove nasce la scelta di raccontare La scuola delle mogli proprio in questo
modo?
Da un’esigenza prevalentemente narrativa, dicevo. Ci è sembrato di leggere nella
commedia l’esplicito rinvio a una realtà piccolo borghese e questo ci ha indotto a
pensare a uno spazio che appartenesse soprattutto al tempo in cui la borghesia ha
assunto uno specifico riconoscimento sociale. A questo punto con gli scenografi JeanMarc Stehlé e Catherine Rankl abbiamo fatto diversi tentativi guardando agli ultimi
due secoli, per fissarci poi su quell’epoca specifica non tanto per precise ragioni
critiche, ma per una serie complessa di suggestioni culturali, che in me hanno
riguardato soprattutto certo cinema francese che amo, con in primo piano quello di
Claude Chabrol che forse meglio di ogni altro ha saputo dare spessore universale
all’evocazione di un universo provinciale.
Messa in moto l’immaginazione, poi tutto è venuto un po’ da sé, senza forzature e
senza compiacimenti citazionisti; portando in primo piano, a sorpresa anche per noi,
un clima da vaudeville cechoviano. Ciò che veramente mi interessa è raccontare
quella storia che Molière confina in un piccolo microcosmo privato, avendo però la
capacità di farlo esplodere, in modo da investire anche la nostra realtà
contemporanea, come spero possa accadere anche alla nostra scatola scenica, che
rinvia a un universo in cui si sente il profumo di baguette e il suono della fisarmonica,
ma anche a piccole cose di cattivo gusto, a segreti nascosti, a orchi in agguato, che
cercano invano di condizionare lo sbocciare della natura.
a cura di a.v.
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dobbiamo scrivere come avremmo scritto se fossimo stati al posto dell’autore, ma
come l’autore scriverebbe se fosse al nostro posto. Sembra un paradosso, ed è invece,
credo, semplicemente la verità. Solo che la verità è, nella maggior parte dei casi,
irraggiungibile, e il massimo che possiamo fare è tendere ad essa, sforzarci (senza
trucchi e senza iattanza) di rendere un po’ meno vertiginosa la distanza che ce ne
separa. Traducendo La scuola delle mogli ho cercato di orientare in questo senso tutte
le scelte linguistiche (non solo lessicali e sintattiche ma anche, e forse più ancora,
timbriche e tonali, insomma “musicali”) alle quali mi sono via via trovato di fronte.
Come ogni testo, anche una traduzione scopre strada facendo il proprio destino,
cresce, per così dire, su se stessa: e dunque, man mano che procedevo, le scelte si
sono fatte sempre più obbligate e, insieme, più “naturali”. Riguardo alla metrica era
necessario prendere, invece, una decisione a priori: bisognava decidere, insomma,
prima di mettersi al lavoro, come cavarsela con l’implacabile alessandrino a rima
baciata dell’originale.
Valendomi anche di precedenti esperienze (soprattutto quella fatta traducendo - non
una, ma addirittura due volte – la Fedra di Racine), ho scartato sia l’ipotesi del doppio
settenario (il cosiddetto “martelliano”), che è un verso, secondo me, d’una monotonia
difficilmente sopportabile ed è in ogni caso lontanissimo dalla morbidezza
dell’alessandrino francese; sia quella dell’endecasillabo sciolto (che a teatro ha, per il
mio orecchio, un che di troppo alfieriano, di troppo austero e al tempo stesso
concitato) e ho optato per un libero e vario susseguirsi di endecasillabi e settenari,
cioè dei due versi più classici e insieme più “fisiologici” della tradizione italiana. Il mio
intento, spero non illusorio, era quello di creare un continuum sonoro sempre
riconoscibile ma mai del tutto prevedibile, e capace – cosa ancora più essenziale – di
un’estrema adattabilità al ritmo del parlato.
Tale scelta comporta, ovviamente, l’abbandono della corrispondenza che in una
traduzione per teatro, ammesso che l’abbia altrove, non ha, a mio avviso, alcuna
importanza; altra e ben più decisiva conseguenza è la fedeltà alla sublime scioltezza
della prosa molièriana che essa mi ha, spero, consentito. Ho detto “prosa” e voglio
chiarire che non si tratta di un lapsus. Molière non è Racine: non è, voglio dire, un
grande poeta, bensì un grandissimo prosatore che per obbedire alle convenzioni
dell’epoca e alle richieste del pubblico ha scritto in versi un certo numero dei suoi
capolavori. Io ho cercato di farla rivivere e in qualche misura di liberarla, la sua
grande prosa, inserendola in una gabbia metrica più agile e lieve, e soprattutto meno
coercitiva, meno punitiva di quella dell’originale.
Giovanni Raboni
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