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scheda
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Le tradizioni
del periodo
natalizio
Le varie tradizioni pagane legate al culto del sole nel solstizio di inverno utilizzavano alcuni simboli che fanno riferimento alla luce e al calore, oltre che al cosmo: i principali
sono il ceppo e l’albero.
Anche nella festa romana dei Saturnali era usanza accendere e bruciare un ceppo, preferibilmente di quercia.
Quest’albero, sacro presso tutti i popoli europei, era legato
La Chiesa cattolica festeggia la nascita di Gesù il 25 dicembre, ma i motivi che hanno portato a collocarla in questa
data non sono storici. Si tratta di una datazione abbastanza
tardiva: il primo a parlarne è un certo Furio Dionisio Filocalo,
che nel 354 compose il più antico calendario cristiano giunto fino a noi, il Cronografo. In esso, alla data del 25 dicembre, è scritto: «È nato Cristo in Betlemme di Giudea».
Se non ci sono motivi storici a favore di questa data, perché
allora proprio il 25 dicembre?
La Chiesa scelse di usare, per esprimere e manifestare la
sua fede, antichi simboli e usanze legate al solstizio d’inverno e diffuse tra le numerose nazioni che formavano l’impero romano.
Il solstizio d’inverno è infatti il momento in cui le giornate ricominciano ad allungarsi, e questo veniva festeggiato
come la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte: la rinascita vittoriosa della divinità del sole che, con la
sua luce e il suo calore, dona la vita all’intero cosmo.
A Roma dal 17 al 24 dicembre si festeggiavano i saturnali
in onore di Saturno, il dio dell’agricoltura. Si accendevano
fuochi e luci, si scambiavano doni (candele accese, noci,
datteri, miele), si celebravano pubblici banchetti e brindisi.
Nel periodo imperiale durante questa festa le scuole restavano chiuse.
Sempre in epoca imperiale, si era diffusa la festa di Mitra,
divinità della luce, e nel 274 d.C. l’imperatore Aureliano aveva introdotto la festa della Vittoria del Sole, da festeggiare
proprio il 25 dicembre, poco dopo il solstizio.
Anche nel mondo celtico e nel nord Europa le celebrazioni
del solstizio invernale erano molto diffuse e popolari. Ancor
oggi, presso quei popoli il Natale è chiamato con la parola
che designava queste antiche feste: jul nelle lingue scandinave e yule in inglese.
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«Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni
grazia di Dio entri in questa casa, le donne facciano figlioli,
le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondino il grano e la
farina e si riempia la conca di vino».
Filastrocca che accompagnava l’accensione del ceppo nelle campagne emiliane
e toscane.
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alle divinità della luce e della folgore. Da come bruciava il
ceppo si presagiva come sarebbe stato l’anno seguente: le
scintille che salivano nella cappa simboleggiavano il ritorno dei giorni lunghi, la cenere veniva raccolta e sparsa nei
campi come augurio di abbondanti raccolti.
Questi riti pagani dunque passarono nel folclore cristiano
comune a vari Paesi europei, venendo riferiti a Cristo.
Tutta la simbologia della luce, legata al solstizio, venne
mantenuta, siccome nell’AT, soprattutto nei libri dei profeti,
il Messia è indicato con gli appellativi «luce», «sole», «stella».
Gesù stesso applica a sé questi simboli, quando dice «Io
sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12); nel NT il simbolo
della luce è applicato quindi a Gesù.
Il ceppo (come l’albero) divenne così simbolo dell’Albero
della vita, cioè della croce, e quindi simbolo di Cristo; la sua
accensione era accompagnata, nelle campagne, da preghiere per ottenere la fertilità dei campi, la fecondità degli
animali e della famiglia, salute, abbondanza e prosperità.
Ai nostri giorni il ceppo natalizio si è trasformato nei nastri di luci e nelle lampadine che addobbano case, alberi
e strade, e sopravvive anche in quei dolci natalizi a forma
di tronco d’albero, rivestiti di cioccolato, che si chiamano
«tronchi di Natale».
L’abete degli antichi germani non è però l’unico antenato
dell’albero di Natale. Ce n’è un altro, forse più importante: è
l’Albero del Paradiso, legato alla festa di Adamo ed Eva che
nel Medioevo si celebrava il 24 dicembre. Quel giorno si facevano rappresentazioni del Dramma del Paradiso: al centro
Tronco di Natale.
Anche l’albero di Natale, la cui diffusione «ufficiale» è piuttosto recente, deriva probabilmente da riti pagani legati
al solstizio d’inverno. Presso i popoli dei Paesi dell’Europa
centrale e settentrionale, l’abete (o il pino) era considerato
albero sacro, simbolo d’immortalità perché sempreverde.
Poco prima del solstizio d’inverno, gli uomini si recavano nel
bosco a tagliare un abete che veniva portato in casa, addobbato con candele accese, ghirlande, uova colorate, dolci
e fili colorati; intorno all’albero, uomini, donne e bambini trascorrevano la notte fra canti e danze.
HUGO VAN DER GOES, Il peccato originale, 1467/1468.
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della scena c’era un albero, che rappresentava sia quello
da cui Eva aveva colto il frutto proibito, sia la croce da cui
è venuta la salvezza, cioè l’Albero della Vita. Era quindi un
simbolo di Cristo.
incantato dall’atmosfera fiabesca degli alberi innevati e illuminati dalla luce delle stelle. Rientrato in casa, avrebbe
voluto ricreare quell’atmosfera, adornando un abete con
alcune candeline.
G. KÖNIG, Lutero con la sua famiglia, acquaforte.
Un’altra diffusissima usanza natalizia che ci giunge da un
lontano passato è quella di adornare l’uscio di casa con
rami di piante dalle bacche rosse – simbolo del sole – come
il pungitopo o l’agrifoglio. L’uso del vischio, invece, deriva
da una tradizione celtica cristianizzata. Questa pianta era
considerata un dono degli dèi poiché cresce come parassita sui rami di altre piante: si pensava che spuntasse dov’era
caduto un fulmine, collegandola alla divinità della luce.
TADDEO GADDI, L’albero della vita, 1355-60, Firenze, Santa Croce, refettorio.
Questo albero era spesso un abete e veniva ornato appendendovi mele, cialde che rappresentavano l’ostia (cioè
l’eucaristia, la salvezza attraverso la morte e risurrezione di
Gesù) e biscotti. Le luci e i doni simboleggiavano i doni della
grazia divina.
Quando queste sacre rappresentazioni vennero abbandonate, l’usanza passò nelle case.
La prima volta, però, che viene nominato espressamente
l’«albero di Natale», è all’inizio del XVI secolo.
Un’altra tradizione leggendaria collega l’albero di Natale a
Martin Lutero, che l’avrebbe «inventato». Secondo la leggenda, mentre stava ritornando a casa, a Wittemberg, di
notte, nella vigilia del 1530, attraversando un bosco rimase
Nelle feste legate al solstizio d’inverno c’era anche l’uso
di scambiarsi doni: la parola strenna, per esempio, deriva
dalla dea romana Strenia, nel cui boschetto sacro era usanza tagliare rametti da donare a parenti ed amici all’inizio
dell’anno.
Nel mondo germanico, la tradizione popolare parlava di una
grande caccia fatta dal dio Odino nella notte del solstizio
d’inverno. I bambini lasciavano i loro stivali vicino al caminetto, pieni di paglia e carote, per sfamare il cavallo volante
del dio che in cambio avrebbe lasciato dolciumi e regali.
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Nella tradizione cristiana la più antica figura di «portatore di
doni» e quella di san Nicola di Mira, vissuto in Turchia nel IV
secolo, da noi conosciuto come san Nicola di Bari, città in cui
è conservato il suo corpo, dopo il blitz di un gruppo di mercanti baresi che lo rubò dal suo sarcofago, a Mira, nel 1087.
San Nicola, fine del XIII secolo, Nicosia, Museo Bizantino.
Le «metamorfosi» subite dal santo non erano però finite. Alla
vigilia di Natale del 1823, fu pubblicato un racconto di Clement
Clarke Moore, in cui Santa Claus è presentato come un signore grassoccio che vola su una slitta trainata da otto renne.
«Non solo fanno la slitta volare
e in ciel galoppano senza cadere:
ogni renna ha il suo compito speciale
per saper dove i doni portare.
Cometa chiede a ciascuna stella
dov’è questa casa o dov’è quella.
Fulmine guarda di qui e di là
per sapere se la neve verrà.
Donnola segue del vento la scia
schivando le nubi che sbarran la via.
Freccia controlla il tempo scrupoloso,
ogni secondo che fugge è prezioso.
Ballerina tiene il passo cadenzato
per far che ogni ritardo sia recuperato.
Saltarello deve scalpitare
per dare il segnale di ripartire.
Donato è poi la renna postino
porta le lettere d’ogni bambino.
Cupido, quello dal cuore d’oro
sorveglia ogni dono come un tesoro.
Quando vedete le renne volare
Babbo Natale sta per arrivare».
AMBROGIO LORENZETTI, Storie di san Nicola, 1332 circa, Firenze, Uffizi.
Una delle leggende nate sul suo conto narra ciò che il santo
avrebbe fatto per evitare la triste sorte di tre fanciulle, figlie
di un uomo caduto in miseria. Avendo saputo che il padre
intendeva far prostituire le sue tre figlie perché non aveva
il denaro per pagare loro la dote, il santo, di notte, avrebbe
lanciato per tre volte, attraverso la finestra, un sacchetto di
monete d’oro, fornendo così la dote per tutte. Questo episodio nel Medioevo era così noto che Dante ne parla nella
Divina commedia, nel Purgatorio.
«Esso [uno spirito] parlava ancor de la larghezza [generoso
dono] che fece Niccolò a le pulcelle [fanciulle],
per condurre ad onor [conservare l’onore alla] lor giovinezza».
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DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio, XX, 33.
Nella fantasia popolare san Nicola diventò così «il portatore di doni» ai bambini, nella notte del 6 dicembre, che è il
giorno della sua festa. Questa usanza si diffuse nell’Europa
centrale.
Gli olandesi storpiarono il suo nome in Sinterklaas e gli
emigranti portarono con sé il culto del santo in America,
dove fu ribattezzato Santa Claus (contrazione di San Nicolaus). L’usanza di portare doni ai bambini si spostò dal 6
dicembre al giorno di Natale: il santo giungeva nella notte,
avvolto nel mantello rosso da vescovo, volando su un cavallo bianco.
(Filastrocca italiana ispirata al racconto di Moore).
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La trasformazione continuò a opera di Thomas Nast:
Santa Claus viene raffigurato come un vecchio panciuto
e barbuto, con la pipa e tanti regali, come nella figura disegnata nel 1881; vive al Polo Nord e porta solo ai bimbi
buoni dei regali, costruiti dagli elfi nella sua fabbrica di
giocattoli.
L’ultimo atto della trasformazione di san Nicola in Babbo
Natale si ha nel 1931, quando il grafico Huddon Hubbard
Sundblom, per una pubblicità della Coca Cola, ne fissò definitivamente la figura e le vesti, con i colori che sono quelli
del logo della bevanda: bianco e rosso.
Abbiamo così la barba bianca, il mantello e il cappuccio rosso; si aggiungono gli stivali e la cintura neri.
Era nato Babbo Natale, che ha conquistato tutto il mondo
occidentale, ma si è diffuso anche in diversi Paesi dell’Asia
e in Giappone.
THOMAS NAST, Santa Claus, 1881.
In diversi Paesi di lingua tedesca, collegata all’Epifania c’è
un’usanza festiva che coinvolge i bambini. Dopo la messa si recano in gruppi nelle case, per raccogliere offerte
per i bambini poveri. Vestono come i Re Magi, portano in
mano bastoni sormontati da una stella e cantano canzoni
natalizie. Collegata a questa
tradizione, in diversi land tedeschi, in Italia in Alto Adige,
in Francia in Alsazia e in alcune zone slave avviene anche
la benedizione delle case: i
bambini, sempre travestiti da re, scrivono sulle porte
delle abitazioni, oltre le cifre
dell’anno in corso, le lettere C+M+B e, che significano
«Christus mansionem benedicat» («Cristo benedica questa
casa»). Allo stesso tempo le
tre lettere sono le prime lettere dei nomi attribuiti dalla
tradizione ai Re Magi: Caspar,
Melchior e Balthasar.
Sinterklaas.
Un’altra tradizione antica di «portatori di doni» è collegata
all’Epifania. Prima che si diffondesse la tradizione dei doni
portati nella notte di Natale da Gesù Bambino, erano i Re
Magi a portarli, come avevano fatto con Gesù.
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In Italia, per l’Epifania, si è inserita anche una figura femminile,
la Befana, che porta piccoli regali, ma anche carbone se il bambino è stato «cattivo». È raffigurata come una vecchia strega,
dietro alla quale forse c’erano divinità pagane, anche se il suo
nome è stato cristianizzato: Befana, infatti, deriva da epifania.
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«Viene, viene la Befana
vien dai monti, è notte fonda;
com’è stanca e la circonda
neve, gelo e tramontana,
viene, viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce
e la neve è il suo fardello,
il gelo il suo mantello
ed il vento la sua voce;
ha le mani al petto in croce.
Lei si accosta piano piano
alla villa e al casolare,
a guardare e a osservare,
or più presso or più lontano
piano piano, piano piano.
Che c’è dentro questa villa?
Guarda, guarda, tre lettini
con tre bimbi a nanna buoni.
Guarda, guarda ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini,
oh, tre calze e tre lettini.
quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.
La Befana sta sul monte,
ciò che vede e ciò che vide,
c’è chi piange e c’è chi ride,
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte».
Un lumino brilla e sale
e ne scricchiolan le scale,
il lumino brilla e scende
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale e chi mai scende?
(G. Pascoli, La Befana).
Coi suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso
e il lumino le arde in viso
come lampada da chiesa.
Coi suoi doni mamma è scesa.
Ricordiamo infine santa Lucia. È una martire di Siracusa,
messa a morte all’inizio del IV secolo, il 13 dicembre, giorno
in cui viene festeggiata. Prima della riforma del calendario
giuliano, questa data coincideva con il solstizio d’inverno. Il
suo nome, inoltre, significa «nata nelle prime ore del mattino»: la sua figura era collegata quindi alla fine del buio
invernale e alla luce. Per il giorno della sua festa ci sono
molte usanze; tra queste, anche quella di portare doni ai
bambini, presente in alcune regioni del nord-est d’Italia, in
Austria, nella Repubblica Ceca e in Slovacchia.
Sono ancora vivi alcuni proverbi che risalgono al tempo in
cui la festa di S. Lucia, il 13 dicembre, coincideva con il
solstizio d’inverno:
«Santa Lucia è il giorno più corto che ci sia».
«Da Santa Lucia a Natale il dì allunga un passo di cane».
Ma che c’è nel casolare?
Guarda, guarda tre strapunti
con tre bimbi a nanna buoni
tra la cenere e i carboni,
c’è tre zoccoli consunti;
oh, tre scarpe e tre strapunti!
La Befana vede e sente,
fugge al monte ch’è l’aurora,
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L E T R A D I Z I O N I D E L P E R I O D O N A TA L I Z I O
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Ricetta del Tronco di Natale
Ingredienti per 6 persone
330 g di zucchero
260 g di farina di frumento tipo 00
6 uova + 5 tuorli
1 bustina di lievito vanigliato
200 g di burro
1 pizzico di sale
100 g di cioccolato fondente
1/2 l di latte intero
Preparazione:
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Preparate la crema di copertura: sbattete due tuorli in una terrina e unitevi uno sciroppo preparato facendo
bollire in una casseruola lo zucchero con 4 cucchiai d’acqua. Incorporate al composto il burro, lavorato a crema,
e il cioccolato fuso.
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Preparate la pasta: ponete sei tuorli in una terrina capace, sbatteteli con una frusta, poi incorporatevi 100 g
di zucchero e un pizzico di sale. Amalgamate ai tuorli un cucchiaio di farina, precedentemente mescolata al
lievito, e uno di albumi montati a neve e proseguite alternando i due ingredienti fino a esaurimento. Ricordate
di mescolare bene il composto dopo ogni aggiunta.
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Trasferite l’impasto sulla piastra del forno foderata con un foglio d’alluminio imburrato. Livellatelo in superficie
e passatelo nel forno già caldo (180°) per 20-25 minuti.
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Nel frattempo, preparate la crema pasticciera con i tuorli, lo zucchero, la farina e il latte seguendo le indicazioni
riportate nella corrispondente ricetta, dopodiché incorporatevi il cioccolato fuso.
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Togliete la pasta dal forno, rovesciatela su un canovaccio, eliminate il foglio d’alluminio e spalmatevi sopra la
crema pasticciera al cioccolato (meno due cucchiai). Avvolgete la pasta su se stessa, poi dividete in due il rotolo
con un taglio obliquo, a un terzo della sua lunghezza.
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Avvicinate il pezzo più piccolo a quello più grande, rivestite il dolce con la crema di copertura al cioccolato e
tracciate tante linee parallele usando i rebbi di una forchetta. Decorate le estremità del tronchetto con la crema
tenuta da parte e lasciatelo in frigorifero per un paio d’ore prima di servire.
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