PRIMO PIANO Martedì 26 Maggio 2015 11 Per almeno due anni tutti dicevano fate come Madrid se volete far riprendere l’economia Fate come la Spagna! Oppure no? Dopo le elezioni l’esaltazione deve essere ridimensionata DI STEFANO CINGOLANI R icordate il refrain che ci ha spaccato i timpani per almeno due anni? Fate come la Spagna. La Spagna sì che ha affrontato la crisi. La Spagna sì che è una democrazia: si vota, si vince, si perde, si decide. E l’austerità? In Spagna paga: ecco qua il ritorno alla crescita. E i disoccupati? E salari e stipendi massacrati? Quisquilie. E un debito pubblico triplicato? Pinzillacchere. E il deficit che ancor oggi è il doppio di quel che prevede Maastricht? Inezie. E poi è tutto certificato, tutto consentito, tutto bollinato dall’Unione europea. Chissà se oggi, dopo i risultati clamorosi (anche se non inattesi) alle elezioni locali, qualcuno dei soloni filo-spagnoli avrà la onestà di ammettere che forse tutti quei peana erano quanto meno eccessivi. Ciò vale per gli austeri di centro-sinistra, ma anche per il centro-destra che ha portato ad esempio Madrid perché è andata alle elezioni (e ha vinto la destra) invece di avventurarsi in governi tecnocratici. In realtà, nell’un caso e nell’altro, eletti o no, i governi dei Paesi deboli sono stati guidati dall’esterno, dai mercati, da Bruxelles e da Francoforte, hanno compiuto sforzi e sacrifici, ma non hanno risolto i loro problemi economici e politici. L’economia innanzitutto. Le Figaro ha pubblicato un articolo perfidamente oggettivo mettendo insieme un po’ di cifre. La Spagna ha attraversato tre crisi: quella immobiliare nel 2008 che ha innescato la crisi finanziaria la quale a sua volta ha provocato la crisi bancaria e il collasso del 2012. A quel punto, la Ue ha autorizzato, anzi concordato, un salvataggio delle banche che ha contribuito in modo determinante all’esplodere del debito pubblico già gonfiato dalla necessità di pagare sussidi e assistenza ai disoccupati. In Spagna, il mercato del lavoro è stato liberalizzato e i salari si sono abbassati molto più che in altri Paesi (esclusa la Grecia). Come effetto immediato, ciò ha provocato una disoccupazione salita al 27% nel 2013. La svalutazione salariale ha dato slancio alle esportazioni cresciute dai 12 miliardi di euro del 2009 ai 20 miliardi del primo trimestre di quest’anno, anche se la bilancia con l’estero rimane negativa: meno 1,84% del pil. Certo, il saldo è migliorato rispetto al 2009, tuttavia conta molto anche la contrazione dell’import negli anni di recessione della domanda interna. E i parametri di bilancio? Il disavanzo pubblico resta ancora doppio rispetto al mitico tetto del 3% al quale è tenacemente inchiodata l’Italia. Ciò consente di attutire gli effetti sociali della crisi, anche se non basta a sedare lo scontento che, dopo alcuni anni di protesta vociante, ma politicamente sterile, ha trovato uno sbocco politico. Ecco l’altro corno del dilemma. Perché solo gli sciocchi ragionano di politica economica senza ragionare di politica tout court. In Grecia abbiamo visto come è andata: ha vinto un partito che non è solo radicalmente di sinistra, ma si è rivelato un circolo di dilettanti allo sbaraglio che sta portando il Paese (e forse l’intera Europa) dentro un nuovo gorgo finanziario, economico e politico. In Spagna, Podemos e Ciudadanos non sembrano molto diversi. Lasciamo il beneficio d’inventario al bel Pablo Iglesias e ad Ada Colau che ha sbancato Barcellona. Tuttavia, dubbio e scetticismo s’impongono. Quale lezione si può trarre? Facciamo parlare i banchieri centrali e andiamo in Portogallo al Forum di Sintra. I giornali italiani hanno dato ampio spazio al discorso di Mario Draghi che, infatti, ha fatto da spartiacque. Il presidente della Bce ha chiesto che i governi si diano una mossa, perché la banca centrale sta esaurendo le munizioni. In questo ha inter- pretato lo stato d’animo di tutti i suoi colleghi. Il governatore della Banca del Giappone Horohiko Kuroda ha tirato gli orecchi al premier Shintaro Abe perché la cosiddetta Abenomics si è rivelata più fumo che realtà e tocca alla banca centrale stampare ancor più moneta. Ma pochi hanno scritto che lo stesso Draghi è finito sotto tiro. Lo ha attaccato apertamente Larry Summers il quale insieme a Olivier Blanchard, capo economista uscente del Fondo monetario, e al suo braccio destro Eugenio Cerutti, ha presentato un paper che rivela la crescente inefficacia degli stimoli delle banche centrali: «La fede nella loro abilità di raggiungere il loro obiettivo è aumentata, mentre l’abilità di centrare il bersaglio è diminuita». Ciò vale per i prezzi perché si è lasciato che scivolassero verso la deflazione e ancor più per lo sviluppo, soprattutto in Europa: sei milioni di posti di lavoro sono stati perduti nell’area euro dal 2008 e difficilmente saranno recuperati come ha ammesso Draghi. La spiegazione della Bce è che ciò accade perché il mercato del lavoro resta troppo rigido e non sono state fatte le riforme. Per Summers non è sufficiente: bisogna aumentare la domanda interna e ciò nell’area euro spetta alla Germania. È facile prevedere che a fine settimana, al vertice del G7 a Dresda, il governo tedesco sarà messo di nuovo all’indice, anche se il ministro delle Finanze Wolfgang Schaüble ha già messo le mani avanti. Ma la sferzata più bruciante è venuta da Stanley Fischer, numero due della Federal Reserve, decano dei banchieri centrali e professore di Draghi al Mit negli anni ‘70. Fischer si è rivolto al suo ex allievo con ironia: «Caro Mario, va bene parlare di riforme strutturali di tanto in tanto, ma non puoi farne l’argomento principale ogni volta che intervieni in pubblico». È vero, il mercato del lavoro americano è unificato e ben più flessibile di quello europeo, però per il vecchio studioso, autore del più diffuso manuale di macroeconomia, a tirare la carretta è sempre la domanda aggregata (consumi più investimenti). La Fed si è data anche un obiettivo di crescita e sta per raggiungerlo, mentre l’inflazione è ancora troppo bassa, anche se negli Usa non c’è deflazione. L’unico obiettivo della Bce, invece, è l’inflazione e finora lo ha mancato. Il marasma politico in cui cade adesso anche la Spagna non fa che dargli ragione. Formiche.net TORRE DI CONTROLLO È mai possibile che la ministra Pinotti possa fare meglio del Pentagono contro l’Isis in Iraq? Dati su cui riflettere DI S TINO OLDANI arà mai possibile che Roberta Pinotti riesca là dove hanno fallito Barack Obama e il Pentagono? «L’Italia, se ci sarà bisogno, è pronta a dare un aiuto ancora più forte contro l’Isis» ha detto la ministra della Difesa. «Sono già pronti 240 dei 280 soldati che invieremo in Iraq per dare una mano alla lotta che l’esercito iracheno e i curdi stanno conducendo contro lo Stato islamico». Non è noto se la ministra Pinotti, prima di affermazioni tanto impegnative, fosse stata messa al corrente di quanto aveva appena dichiarato il segretario Usa della Difesa, Ashton Carter, intervistato dalla Cnn, proprio sulla scarsa voglia di combattere dell’esercito iracheno. Nel tentativo evidente di soccorrere il presidente Obama, che pochi giorni prima aveva annunciato un’inesistente vittoria sull’Isis, coprendosi di ridicolo di fronte al mondo, il ministro Usa della Difesa ha spiegato la perdita del controllo della città strategica di Ramadi, in Iraq, con queste parole: «Quello che è successo, a quanto pare, è che le forze irachene non hanno mostrato alcuna volontà di combattere l’Isis e di difendersi. Possiamo addestrarli, possiamo dargli equipaggiamenti, ovviamente non possiamo dargli la voglia di combattere». Ma se la situazione è questa, che senso ha mandare 280 soldati italiani in Iraq? Che cosa fa credere alla ministra Pinotti che i nostri addestratori militari siano più bravi dei loro colleghi americani nel convincere i soldati iracheni a sfidare sul campo i tagliagole dello Stato islamico? Mistero. «Fra le nazioni, l’Italia è quella che ha fornito un contingente fra i più significativi, proprio perché abbiamo compreso la gravità del rischio», ha sottolineato la Pinotti. «Quello dell’Isis è un punto su cui la comunità occidentale si gioca il futuro e la convivenza civile con l’Oriente: l’Isis è una minaccia per il mondo che vuole vivere senza oppressioni e terrorismo». Giusto. Ma per sconfiggere l’Isis, che dispone di milizie sempre più numerose e bene armate, ed è ricco dei pozzi petroliferi conquistati, le belle parole servono a ben poco. Basteranno 240 addestratori? Non è disfattismo, ma è lecito dubitarne. Sul piano delle motivazioni, è bene ricordare che la stragrande maggioranza dei giovani italiani (66,7%) che hanno fatto domanda per partecipare al concorso militare di Vfp1 (Volontario in ferma prefissata di un anno) erano disoccupati provenienti dal Sud e dalle isole. Più o meno la stessa percentuale si registra per chi si propone per una ferma volontaria di quattro anni (Vfp4), con l’obiettivo di un posto fisso per qualche anno e uno stipendio di 800 euro al mese. Il risultato è che l’esercito italiano (102 mila unità) è composto da personale proveniente per il 50,8% dal Mezzogiorno, e per il 20,7% dalle isole (Sicilia e Sardegna). Il sito linkiesta.it, che ha intervistato numerosi volontari Vfp1 e Vfp4, rivela che la maggioranza si arruola per sfuggire alla disoccupazione, spesso con il miraggio dei 3.500 euro di stipendio, dati a chi partecipa alle missioni all’estero, le più rischiose. Molti lo fanno perché hanno già moglie e figli da mantenere, altri per comprare la casa. Dopo il congedo, i più tentato di reinserirsi nella società, anche con lavori umili. Ma non di rado capita che molti, delusi, si arruolino di nuovo, avendone l’età, pur di avere un salario sicuro rispetto ai lavori in fabbrica o nell’edilizia. Piaccia o meno, al netto della retorica, la realtà è questa: abbiamo un esercito fatto da giovani che cercano in primo luogo un rimedio alla disoccupazione. E nessuno di loro ha veramente la passione per le armi, tantomeno voglia di battersi con l’Isis. Quanto ai 240 addestratori, sono forse sono più motivati dei soldati iracheni che dovrebbero convincere a combattere? Il dubbio è grande. Poi c’è la questione delle risorse economiche. Giovedì 21 maggio è uscito il «Documento programmatico pluriennale per la Difesa per il triennio 2015-2017», che negli ambienti militari ha suscitato non poche preoccupazioni per le continue riduzioni di spesa. Il budget 2015 della Difesa si attesta a 13,1 miliardi, di cui 9,6 per gli stipendi del personale militare e civile (73,3%), 2,3 miliardi per gli investimenti (18%) e 1,1 per l’esercizio (8,7%). A causa dei tagli imposti dai vincoli del bilancio statale e dalla crisi, la spesa complessiva scenderà sotto i 13 miliardi nel 2016 (12,3 miliardi), per risalire di poco nel 2017 (12,7 miliardi). Il grosso della spesa (oltre i 9 miliardi) resterà quella destinata al personale, che sommando le tre forze armate conta più di 174 mila unità, di cui circa 90 mila sono ufficiali e sottufficiali. Più comandanti che comandati. Il divario organizzativo con gli Usa è clamoroso. In Italia vi sono circa seicento fra generali e ammiragli, mentre gli Stati Uniti, che vantano un apparato militare di un milione 400 mila uomini, hanno appena 900 ufficiali dello stesso livello. Per contro, da noi l’eccellenza militare, pronta per le operazioni sul campo, è ridotta ai minimi termini, tra 12 e 15 mila unità, di cui 5 mila impiegate nelle 28 missioni all’estero. In pratica, un esercito per lo più di burocrati con le stellette. Una realtà che, per giudizio unanime degli analisti militari, va cambiata al più presto.