Le guide della Rete italiana dei CDE n. 2. Ue

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Collana
Le guide della Rete italiana dei CDE
n. 2
Ue-diritti e cittadinanza
l’e-book ad accesso aperto
dei CDE italiani
a cura della Rete dei CDE italiani
con il contributo della Rappresentanza in Italia
della Commissione europea
ISSN 2239-5733
Collana
Le guide della Rete italiana dei CDE
n. 2
Ue-diritti e cittadinanza:
l’e-book ad accesso aperto
dei CDE italiani
a cura della Rete dei CDE italiani
con il contributo della Rappresentanza in Italia
della Commissione europea
Rete italiana dei CDE
Rappresentanza in Italia della Commissione europea
Numerose altre informazioni sull’Unione europea sono disponibili su Internet consultando il
portale Europa (http://europa.eu).
© Unione europea, 2014
Riproduzione autorizzata con citazione della fonte.
Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2014
ISBN 978-92-79-33095-7 (EPUB)
ISSN 2239-5733 (EPUB)
doi:10.2775/3665

5
Indice
Premessa9
Introduzione11
La Carta dei diritti fondamentali dell’UE nell’e-book dei CDE italiani 13
Preambolo
Carta dei diritti fondamentali
La tutela della diversità culturale e la libera circolazione delle merci nella
giurisprudenza della Corte di giustizia
15
Articolo 11
Libertà di espressione e di informazione
I Dati aperti: una risorsa per i documentalisti, un’opportunità per le imprese, un bene
comune per tutta l’Unione europea
21
Articolo 11
Libertà di espressione e d’informazione
Da internet ai social network: il diritto di ricevere e comunicare informazioni e idee –
Introduzione27
L’inquadramento costituzionale della rete Internet: da nuovo mezzo per la libertà di
espressione a presupposto per l’agire dell’individuo nella società dell’informazione 2 8
Diritto di cronaca online e tutela del diritto all’oblio
29
Qualche problematica giuridica sulle comunità online
30
La libertà di comunicare e ricevere informazioni nel quadro della libera prestazione
dei servizi
32
Internet e la libertà di espressione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti
umani33
La tutela dei minori nei nuovi media
33
Articolo 13
Libertà delle arti e delle scienze
La ricerca in Europa: cenni storici e sviluppi futuri
35
Articolo 15
Libertà professionale e diritto di lavorare
Il diritto al lavoro fra petizioni di principio
ed emergenza economico-finanziaria
43
Articolo 16
Libertà d’impresa
La libertà d’impresa in Europa. Attualità e prospettive: sintesi del convegno  
51
6
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
Articolo 17
Diritto di proprietà
Il diritto di proprietà intellettuale
57
Articolo 18
Diritto di asilo
Diritto di asilo e politiche di controllo dei flussi migratori irregolari nell’ordinamento
dell’Unione europea
63
Articolo 21
Non discriminazione
Articolo 39
Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
Cittadinanza europea e Diritti sociali
73
Articolo 22
Diversità culturale, religiosa e linguistica
La cittadinanza culturale
79
Articolo 23
Parità tra donne e uomini
Parità tra donne e uomini. Diritto alla parità di genere
85
Articolo 24
Diritti dei minori
I diritti dei minori nell’Unione europea 91
 
Articolo 34
Sicurezza sociale e assistenza sociale
Articolo 36
Accesso ai servizi d’interesse economico generale
Servizi sociali di interesse generale in Europa e in Italia  
97
Articolo 35
Protezione della salute
Articolo 37
Tutela dell’ambiente
La gestione dei rifiuti radioattivi e la protezione della salute e dell’ambiente
nell’azione dell’Unione europea: sintesi 103
La gestione dei rifiuti radioattivi nel diritto dell’Unione europea
104
La gestione dei rifiuti radioattivi nella giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea
105
 
(*) Alcuni contributi toccano più articoli della Carta.

7
Il caso del «Poligono di Quirra» alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti umani sulla tutela della salute e dell’ambiente
107
Il regime europeo di gestione dei rifiuti radioattivi alla luce dell’obbligo internazionale
di ’due care’
108
Articolo 37
Tutela dell’ambiente
Aspetti ecologici, economici, giuridici e politici .
Tutela dell’ambiente e rule of law nei paesi europei
 
109
La sfida ambientale dell’Unione europea
111
La tutela dell’ambiente attraverso la consapevolezza di essere natura
113
Ordinamento comunitario e tutela dell’ambiente
115
Articolo 37
Tutela dell’ambiente
La politica europea per le energie sostenibili a tutela dell’ambiente
117
Articolo 39
Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
Articolo 40
Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali
La costruzione della cittadinanza europea attraverso i diritti di voto e di eleggibilità
(artt. 22 del TFUE, artt. 39 e 40 della Carta dei diritti fondamentali)
125
Articolo 42
Diritto d’accesso ai documenti
Il diritto d’accesso: strumento di democrazia e di partecipazione
131
Articolo 44
Diritto di petizione
Diritto di petizione
139
Diritto di iniziativa dei cittadini europei
140
Articolo 45
Libertà di circolazione e di soggiorno
Profili critici della cittadinanza europea (art. 9 del trattato sull’Unione europea, artt.
20 — 24 del trattato sul Funzionamento dell’Unione europea e articolo 45 Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea)
143
Articolo 46
Tutela diplomatica e consolare
La protezione diplomatica e consolare dei cittadini UE
149
Indice degli Autori
155

9
Premessa
di Magda Sanna (1)
Coordinamento nazionale dei CDE (2)
 
 
A tal fine è necessario rafforzare la tutela dei diritti fondamentali, alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici, rendendo tali diritti più visibili in una Carta (3).
 
Uno dei principali obiettivi dell’Anno europeo 2013 consiste «nell’informare meglio i cittadini su come poter beneficiare al massimo dei diritti e delle politiche dell’UE e incentivare la partecipazione attiva dei cittadini al processo decisionale dell’Unione».
In questa prospettiva la Rete italiana dei CDE, ha scelto di elaborare questo e-book come
prodotto finale del Progetto di rete dei CDE in Italia, realizzato in occasione dell’Anno
europeo 2013 Diritti fondamentali e cittadinanza europea (4), per fornire uno strumento
di semplice utilizzo che diffonda contenuti da poter scaricare o consultare gratuitamente
online o in mobilità con smartphone e tablet, non solo dal personale in ambito accademico, ma anche da tutta la cittadinanza e dai giovani in particolare.
 
I CDE italiani aggiungono, quindi, al tradizionale formato «pdf», il formato «e-pub» dei
propri prodotti documentali (5) non solo perché il digitale, e nello specifico la lettura in mobilità, permette di realizzare una diffusione dei documenti più economica e con minore
impatto ambientale, ma soprattutto perché la lettura, attraverso una pluralità di dispositivi mobili, si sta affermando anche nella letteratura di carattere scientifico.
 
L’accesso libero e gratuito attraverso il web e la disseminazione dell’informazione sono
alla base delle politiche di «Open access», producono un forte impatto: più un documento è liberamente scaricabile, più è letto, più viene citato. Questo favorisce la condivisione
del sapere e quindi un più rapido avanzamento della conoscenza, senza barriere, in tutto
il mondo.
L’e-book è composto da 21 schede tematiche che commentano uno specifico diritto della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, punto focale del Progetto di rete nel
suo insieme. Una parte di esse raccoglie la sintesi delle relazioni presentate in occasione
degli eventi organizzati dai CDE per il Progetto di rete 2013 e realizzati nella prima parte
dell’anno; altre comprendono i contributi dei documentalisti che operano presso i CDE e,
in qualche caso, sono frutto del lavoro congiunto di più Centri che insieme hanno affrontato la stessa tematica.
(1)
(2)
(3)
(4)
(5)
Vice coordinatore nazionale dei CDE italiani e responsabile del CDE dell’Università degli Studi di Sassari.
Costituito da: Isolde Quadranti (Coordinatore) CDE Università degli Studi di Verona; Tiziana Dassi CDE Università Bocconi di Milano; Laura
Testoni CDE Università degli Studi di Genova; Lorenza Riccio CDE Università degli Studi di Trieste; Barbara Bonino CDE IUSE di Torino; Maria
Adelaide Ranchino CDE Biblioteca Centrale del CNR di Roma; Francesco Garza CDE Università degli Studi di Milano.
Dal Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.
do?uri=OJ:C:2007:303:0001:0016:IT:PDF).
Cfr. sito web dei CDE italiani, http://www.cdeita.it/node/58
Cfr. Collana «Le guide della Rete italiana dei CDE» (http://www.cdeita.it/node/53).

11
Introduzione
Vittorio Calaprice
Rappresentanza in Italia della Commissione europea
Per rispondere alla domanda, frequente in questi tempi difficili, «a che serve l’Europa
oggi?» Aiuta una nota immagine che raffigura l’evoluzione dell’Europa su due punti di
forza: l’uno è nei diritti che tutela, l’altro nelle opportunità che offre.
L’Unione europea si è trovata in questi ultimi anni di persistente crisi economica, stretta
in una morsa: da un lato il difficile compito di svolgere la sua capacità d’azione con gli
attuali strumenti istituzionali — messi in ordine a partire dall’entrata in vigore del Trattato
di Lisbona il 1o dicembre 2009 — dall’altro l’altrettanto rilevante obiettivo di responsabilizzarsi sempre di più agli occhi dei suoi cittadini, attrezzandosi di fronte alle sempre più
pressanti sfide interne volte a combattere e sconfiggere la crisi stessa.
Dunque da un lato i diritti, in particolare quelli ricordati nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, che troviamo in questa pubblicazione esaminati in un’ampia rassegna e autorevolmente commentati da docenti con analisi, approfondimenti, riflessioni.
Il 2013 è stato designato Anno europeo dei cittadini dalle Istituzioni europee proprio per
avviare un ampio dibattito sulla cittadinanza europea ed i suoi diritti, con l’organizzazione
di speciali incontri dei Commissari europei, decisi a discutere con i cittadini in «dialoghi
organizzati».
Il prossimo 2014 dovrà essere l’anno delle opportunità, della crescita, di un rinnovato impegno per l’occupazione. È questo l’auspicio alla base del piano di lavoro del Semestre di
presidenza italiano del Consiglio che coinciderà anche con la «messa in opera» del Quadro finanziario 2014-2020, con una nuova «più verde» politica agricola ed una rafforzata
politica di coesione.
Alcuni nuovi programmi, tra cui in particolare Erasmus +, rivolto a giovani, studenti, docenti, Creative europe, per il mondo della cultura e del cinema, Horizon 2020 per ricerca,
università, innovazione, saranno i più interessanti per legare anche cittadini ed istituzioni
in un processo di appartenenza coinvolgente la società civile e le sue principali organizzazioni.
Diritti ed opportunità si intrecceranno inoltre nel prossimo 2014 quando le Istituzioni europee saranno di fronte ad una serie di scadenze di particolare rilevanza, a maggio con il
rinnovo dei membri del Parlamento europeo, a novembre con l’avvio della nuova Commissione europea per il periodo 2014-2019.
«Per costruire un’Europa più forte e a maggiore valenza politica è necessario coinvolgere
direttamente i cittadini» ha ricordato la Vicepresidente Viviane Reding, commissaria per
la Giustizia, le libertà fondamentali e la cittadinanza all’apertura dell’Anno europeo dei
cittadini.
È questo il compito centrale della Rappresentanza in Italia della Commissione europea,
impegnata a diffondere e spiegare ai cittadini italiani specialmente questa Europa, fatta
di diritti e opportunità.
Tra gli strumenti a sua disposizione anche questo moderno e-book, frutto del lavoro paziente dell’intera rete italiana dei Centri di documentazione europea.
Uno speciale ringraziamento va, in particolare, a Isolde Quadranti, Magda Sanna, Tiziana
Dassi per l’infaticabile professionalità con cui hanno seguito questo progetto e per l’appassionata dedizione con cui quotidianamente mettono a disposizione la loro competenza nelle loro diverse università.
13

La Carta dei diritti fondamentali dell’UE nell’e-book dei CDE italiani
di Isolde Quadranti (6)
 
Tra le novità apportate dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009
risalta, ai nostri fini, il carattere giuridicamente vincolante, al pari dei Trattati, che la Carta assume per le istituzioni europee, nonché per gli Stati membri nelle sole materie già
oggetto di competenza dell’Unione, a seguito del richiamo contenuto all’articolo 6, paragrafo 1 TUE.
Se essere cittadini europei “significa condividere gli stessi valori e godere di diritti importanti” (7) , la Carta ha a tal fine un valore sostanziale poiché rafforza e codifica, in un’ottica
di trasparenza e accessibilità, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE in materia
di diritti fondamentali, consolida i principi comuni alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri e garantisce, attraverso la sua concreta applicazione, la tutela dei diritti fondamentali
nel sistema complessivo del diritto dell’UE.
 
La Carta, proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza e adattata nel 2007 a Strasburgo (8), si
distingue dai principali strumenti di tutela internazionale sui diritti dell’uomo sia perché
elaborata da un “gruppo misto” (la Convenzione istituita dal Consiglio europeo di Colonia
del 3 e 4 giugno 1999 (9), di cui facevano parte anche rappresentanti dei parlamenti nazionali degli Stati membri, sia per la classificazione dei diritti in essa elencati, in base alla
quale i diritti civili, politici, sociali, economici e culturali non sono tenuti separati, bensì
suddivisi, in base all’oggetto della protezione o al settore di attuazione, in sei capitoli:
dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia. L’obiettivo di realizzare
un testo adeguato ai fabbisogni della società contemporanea, fa sì che la Carta si distingua anche per il riferimento a ambiti, come la bioetica, la protezione dei dati, o la tutela
dell’ambiente, oggi particolarmente sensibili.
 
 
Questa rilevanza della Carta nel panorama internazionale degli strumenti a tutela della
persona risalta dall’analisi condotta nelle schede che compongono questo e-book. Esso
non vuole essere un commentario alla Carta, per cui non vi si ritrova un esame di tutti i
54 articoli che la compongono, ma solo dei diritti e delle libertà a cui, nel corso dell’Anno
europeo dei cittadini (2013) (10), i Centri di Documentazione Europea italiani che hanno
collaborato alla stesura del testo hanno dedicato momenti di riflessione, di dibattito e
di studio. Il testo ha pertanto ad oggetto il preambolo e 20 norme della Carta, in più casi
esaminate da diversi punti di vista e tenuto conto dei più recenti sviluppi e delle molteplici problematicità che possono scaturire dalla concreta applicazione dei diritti sanciti nella
Carta (come ad esempio la necessità di stabilire nuovi modelli di tutela della libertà di informazione e d’espressione su Internet che tengano conto delle specificità e potenzialità
della rete) o dalle relazioni tra diritti appartenenti a categorie diverse (come nel caso di
diritti sociali e libertà economiche). L’e-book mette in luce i rapporti esistenti tra i diritti
previsti dalla Carta e quelli riconosciuti da altri ordinamenti, quali le costituzioni nazionali
degli Stati membri, ma anche il diritto internazionale consuetudinario e pattizio. La tutela
multilivello dei diritti fondamentali che scaturisce da questa fitta rete di relazioni tra ordinamenti diversi presuppone un coordinamento tra sistemi ma anche tra Corti.
 
(6)
(7)
(8)
(9)
(10)
Responsabile del CDE di Verona e coordinatrice della rete dei CDE italiani.
M. Fornara, Il trattato UE e la Carta dei diritti fondamentali. L’impegno della Commissione, in L.S. Rossi, La protezione dei diritti fondamentali.
Carta dei diritti UE e standards internazionali, Napoli 2011, p. 15.
La versione consolidata è reperibile al sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2012:326:0391:0407:IT:PDF
Le conclusioni della presidenza si possono leggere al seguente sito: http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/
it/ec/kolnit.htm
Sito ufficiale: http://europa.eu/citizens-2013/en/join-debate.
14
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Riferimento per l’interpretazione da parte della Corte di giustizia dei diritti fondamentali
nell’ordinamento UE, standard minimo a cui gli Stati membri si devono attenere nell’applicare il diritto dell’Unione, parametro di riferimento per il diritto materiale dell’Unione, la
Carta ha anche un valore fortemente simbolico in quanto punto di partenza per il rilancio
degli ideali intorno ai quali i cittadini europei possono fondare e riconoscere il proprio
senso di appartenenza all’Unione.
Il mio ringraziamento va alla Rappresentanza in Italia della Commissione europea, che ha
supportato e creduto nel progetto dei CDE italiani per l’Anno europeo 2013, nonché all’Ufficio delle Pubblicazioni dell’Unione, che ha contribuito da un punto di vista tecnico alla
realizzazione dell’e-book. Il mio più sincero grazie va altresì ai colleghi, che con dedizione
hanno realizzato il progetto, ai docenti e agli studiosi del diritto che hanno collaborato con
i CDE mettendo a disposizione il loro sapere e il loro tempo.
Preambolo - Carta dei diritti fondamentali
15
CDE
Università degli Studi di Cagliari
Preambolo
Carta dei diritti fondamentali
Preambolo
[Omiss] L’Unione contribuisce alla salvaguardia e allo sviluppo di questi valori comuni nel rispetto della
diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa, nonché dell’identità nazionale degli Stati
membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa si sforza
di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei
servizi, delle merci e dei capitali, nonché la libertà di stabilimento. [Omiss]
La tutela della diversità culturale e la libera circolazione
delle merci nella giurisprudenza della Corte di giustizia
di Matteo Liberati (11)
 
Considerazioni introduttive
Con l’avanzamento del processo di integrazione europeo e la realizzazione di un mercato unico senza barriere interne si accresce il rischio di una progressiva erosione delle specificità culturali degli Stati membri
dell’Unione europea. La diffidenza mostrata da alcuni Paesi europei nei confronti del trattato che adotta
una Costituzione per l’Europa, prima, e del trattato di Lisbona, poi, testimonia che le forze dell’integrazione
economica e sociale possono essere avvertite come un pericolo per l’identità delle comunità nazionali.
Ciò dipende, per un verso, dal ritardo con cui la Comunità europea è stata investita di una specifica competenza nel settore culturale (12), per un altro, dalla sistematica prevalenza delle esigenze legate alla realizzazione del mercato unico sulle politiche adottate dagli Stati membri a tutela della propria identità culturale
che sono risultate confliggenti con le prime (13).
I due profili critici sopra evidenziati sono soltanto in parte connessi e possono essere esaminati autonomamente. Il presente contributo, in particolare, si propone di indagare se, e in presenza di quali condizioni,
la salvaguardia delle specificità culturali degli Stati membri dell’Unione europea possa giustificare misure
nazionali che hanno l’effetto di ostacolare gli scambi intracomunitari (14).
 
 
 
La tutela della diversità culturale e l’imposizione di dazi doganali e tasse ad effetto equivalente
Come è noto, per quanto riguarda l’integrazione economica tra i suoi membri, l’Unione europea si fonda su
un’unione doganale che si estende all’insieme degli scambi commerciali tra gli Stati e comporta il divieto
(11)
(12)
(13)
(14)
Assegnista di ricerca, Dipartimento di Scienze sociali e delle istituzioni, Università degli studi di Cagliari.
Sul progressivo radicamento della competenza della Comunità europea e dell’Unione europea nel settore culturale si rinvia alla ricostruzione
di R. Craufurd Smith, Culture and European Union Law, Oxford, 2004; cfr. anche D. Ferri, La costituzione culturale dell’Unione europea,
Padova, 2008.
V. Mitsilegas, Culture in the Evolution of European Law: Panacea in the Quest for Identity?, in (Peter Fitzpatrick & James Henry Bergeron
eds.) Europe’s Other: European Law Between Modernity and Post modernity, London, 1998, pag. 116. Cfr. anche A. Littoz-Monnet, The
European Union and Culture. Between economic regulation and European cultural policy, Manchester, 2007, pag. 44. Per un’analisi in
chiave comparatistica del conflitto tra mercato e cultura cfr. R. J. Neuwirth, The ‘Cultural Industries’: A Clash of Basic Values? A Comparative
Study of the EU and the NAFTA in Light of the WTO, in European Diversity and Autonomy Papers, EDAP 4/2004, su www.eurac.edu/edap
Il presente contributo si propone di prendere in particolare considerazione i prodotti dell’industria culturale. Per chiarificazioni di carattere
terminologico ci venga consentito di rinviare a R. McCain, Defining Cultural and Artistic Goods, in (V.A. Ginsburgh, D. Throsby, eds.)
Handbook of the Economics of Art and Culture, 2006, pag. 147. J. O’Connor, The Definition of the Cultural Industries, in Eur. J. Arts Educ.
3-2000, pagg. 3 e segg. Sulla libera circolazione delle merci, anche per la ricognizione della giurisprudenza recente più significativa si rinvia
a I. Castangia, Circolazione delle merci (Dir. C.E.), in Enciclopedia Giuridica Treccani, 2010.
16
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di introdurre dazi doganali all’importazione o all’esportazione e tasse di effetto equivalente (15). Poiché il divieto in questione è una regola fondamentale del trattato, esso può essere derogato soltanto nelle ipotesi
espressamente previste, da interpretare in termini restrittivi (16).
In questa sede giova ricordare che, a partire dal celebre caso Commissione c. Italia (17), la Corte di giustizia
ha affermato che le norme relative all’unione doganale si applicano anche agli oggetti di interesse artistico,
storico, archeologico ed etnologico. Essa ha chiarito che la nozione di merce, rilevante ai fini dell’applicazione delle norme del trattato, comprende qualsiasi bene valutabile in denaro e, pertanto, idoneo a costituire oggetto di transazioni commerciali.
Secondo la Corte, inoltre, la norma che ammette i divieti o le restrizioni all’importazione, all’esportazione
e al transito (nonché le misure di effetto equivalente) giustificate da motivi di protezione del patrimonio
artistico, storico o archeologico nazionale non trova applicazione con riferimento alle imposizioni di tipo
doganale e alle tasse equivalenti. Quale deroga al divieto di restrizioni quantitative alle importazioni e alle
esportazioni e delle misure ad effetto equivalente, che è norma fondante del mercato interno, l’articolo 36
TFUE va interpretato restrittivamente e non può estendersi ad ipotesi non espressamente contemplate. In
particolare, la Corte nota che, per la loro natura, i divieti e le restrizioni ai quali si riferisce la disposizione in
parola si distinguono in termini netti dai dazi doganali e dalle tasse analoghe che incidono sulle condizioni
economiche delle importazioni e delle esportazioni, «senza tuttavia intervenire in maniera cogente nelle
decisioni degli operatori economici» (18). Ne consegue che la clausola di deroga in questione non può operare con riguardo al divieto stabilito oggi dagli artt. 28 e 30 TFUE (19).
Resta da capire se, a prescindere dall’operatività di deroghe espresse, l’imposizione di dazi doganali o tasse equivalenti possa ritenersi compatibile col mercato comune quando persegue un fine di tipo culturale o
il relativo gettito sia destinato a sostenere delle politiche statali nel settore culturale.
La Corte di giustizia ha avuto modo di dare risposta anche a questo interrogativo concludendo che, dal
carattere generale ed assoluto del divieto di istituire dazi doganali applicabili alle merci circolanti tra gli
Stati membri, si evince che i dazi doganali sono vietati a prescindere da ogni considerazione circa lo scopo
in vista del quale sono stati istituiti (20). Nemmeno può ostare alla qualificazione come dazio o tassa equivalente la circostanza che i proventi che ne derivano siano destinati a sostenere un particolare settore produttivo (21). Il divieto non opera soltanto qualora l’onere pecuniario costituisca il corrispettivo di un servizio
prestato all’importatore (e da questo richiesto), il cui importo sia proporzionato al servizio stesso, oppure
faccia parte di un sistema generale di tributi interni gravanti indistintamente sulle merci nazionali e su
quelle importate ovvero esportate (22).
In quest’ultimo caso, peraltro, trova applicazione la disciplina dettata dall’art. 110 TFUE. Tuttavia, anche
l’art. 110 TFUE non ammette deroghe, qualunque sia la finalità del sistema impositivo considerato. Inoltre,
il paragrafo 2 di detta disposizione trova applicazione proprio nelle fattispecie in cui il tributo interno può
determinare effetti protezionistici per la presenza di produzioni nazionali concorrenti (23).
Di conseguenza si deve escludere che una normativa statale che istituisce un sistema impositivo al fine di
proteggere un prodotto nazionale nel settore culturale possa ritenersi compatibile col divieto di discriminazione fiscale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le deroghe espresse al divieto di restrizioni quantitative e misure ad effetto equivalente
e la tutela della diversità culturale
(15)
(17)
(18)
(19)
(20)
(21)
(22)
(23)
Sulla nozione di tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale cfr. Corte di giustizia, sentenza 14 dicembre 1962, cause riunite 2 e 3/62,
Commissione delle Comunità europee c. Lussemburgo e Regno Unito, in Racc. 1962, pag. 793, paragrafo 4.
Ibidem, paragrafo 3.
Corte di giustizia, sentenza 10 dicembre 1968, causa 7/68, Commissione c. Italia, in Racc. 1968, pagg. 569-570, paragrafo 1. Cfr. U. Montella,
Sulla incompatibilità con le disposizioni del trattato CEE della tassa all’esportazione di opere di interesse artistico, storico, archeologico e
etnografico, in G.I., 1969 pagg. 1 e segg.; cfr. anche pag. Pescatore, Le commerce de l’art e le marché commun, in R.T.D.E., 1985, pagg. 451
e segg..
Corte di giustizia, sentenza 10 dicembre 1968, causa 7/68, cit., pag. 571, paragrafo 3.
Ibidem, pag. 572, paragrafo 3.
Ibidem, pag. 570, paragrafo 2.
Corte di giustizia, sentenza 1º luglio 1969, causa 24/68, Commissione c. Italia, in Racc. 1969, pag. 193, paragrafo 7; Corte di giustizia,
sentenza 21 settembre 2000, cause riunite C-441/98 e C-442/98, Michailidis c. IKA, in Racc. 2000, pag. I-7145, paragrafo 17; Corte di
giustizia, sentenza 14 dicembre 1972, causa 29/72, Marimex c. Amministrazione finanziaria italiana, in Racc. 1972, pag. 1309, paragrafo 7).
Cfr. anche le Conclusioni dell’Avv. Generale M. Poiares Maduro presentate il 6 maggio 2004 nella causa C-72/03, Carbonati Apuani Srl c.
Comune di Carrara, in Racc. 2004, pag. I-8027.
Tra le prime pronunce in questo senso cfr. Corte di giustizia, sentenza 25 gennaio 1977, causa 46/76, Bauhuis, in Racc., 1977, pag. 5, paragrafo
6. V. anche Corte di giustizia, sentenza 30 maggio 1989, causa 340/87, Commissione c. Italia, in Racc., 1989, pag. 1507, paragrafo 15.
Corte di giustizia, sentenza 4 aprile 1968, causa 31/67, Stier c. Hauptzollamt Hamburg-Ericus, in Racc. 1968, pag. 314, paragrafo 1.
Preambolo - Carta dei diritti fondamentali
17
Gli artt. 34 e 35 del TFUE ripropongono immutato il divieto delle restrizioni quantitative alle importazioni e
alle esportazioni, nonché delle misure ad effetto equivalente (24). Secondo quanto disposto dall’art. 36 TFUE,
le restrizioni quantitative agli scambi intracomunitari e le misure di effetto equivalente sono ammesse
quando hanno lo scopo di proteggere il patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale e non costituiscono una discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri. Ci si
domanda, quindi, se la deroga in questione si applichi anche alle normative nazionali che, contingentando
o rendendo più gravosa l’importazione dei prodotti culturali, mirino a tutelare la diversità culturale nel
mercato interno.
Nella pronuncia sul caso Leclerc (25) la Corte di giustizia ha dato una prima parziale risposta a questo quesito.
La controversia nel caso de quo verteva sulla valutazione di conformità al trattato CEE della legge francese
sul prezzo dei libri (c.d. Loi Lang), in base alla quale gli editori o importatori di libri erano obbligati a stabilire
i prezzi di vendita al dettaglio dei libri da essi editi o importati. I commercianti al dettaglio, dal canto loro,
erano tenuti a praticare un prezzo effettivo per la vendita al pubblico compreso tra il 95% e il 100% del
prezzo fissato dall’editore o dall’importatore (26).
Secondo la Commissione la legge in questione introduceva nel mercato librario una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa (27).
Il governo francese riteneva, al contrario, che il provvedimento, pur creando un ostacolo al commercio
intracomunitario, sarebbe stato giustificato dalla necessità di salvaguardare due esigenze di natura imperativa: la difesa degli interessi dei consumatori e la tutela del libro come strumento culturale contro le
conseguenze negative che deriverebbero, per la «differenziazione e per il livello culturale della produzione
editoriale», da una concorrenza basata sui prezzi al consumo (28).
La Corte di giustizia ha affermato al riguardo che, quale deroga ad una norma fondamentale del trattato,
l’art. 36 del trattato CEE va inteso restrittivamente e non può essere esteso a scopi che non siano espressamente specificati, concludendo, infine, che «né la tutela della creatività né la differenziazione nel settore
culturale figurano tra i motivi nominati in tale articolo» (29).
Nel 2009, a distanza di quasi un ventennio, con la pronuncia resa nel caso Libro mbH (30), la Corte di giustizia è tornata sull’argomento ripetendo in termini più chiari quanto statuito con riferimento alla normativa
francese sul prezzo dei libri e operando (almeno implicitamente) una prima distinzione tra beni culturali per
ciò che concerne l’ambito di applicazione della clausola di deroga contenuta nell’art. 36 TFUE (31).
Nel caso considerato i giudici di Lussemburgo erano chiamati ad accertare se l’art. 3 della Legge federale
austriaca sul prezzo del libro (simile alla Loi Lang), che vietava agli importatori di libri in lingua tedesca di
fissare un prezzo inferiore (nel margine del 5%) al prezzo di vendita al pubblico fissato o consigliato dall’editore nello Stato di pubblicazione, costituisse o meno una misura di effetto equivalente a una restrizione
quantitativa alle importazioni ai sensi dell’art. 28 TCE. Inoltre, veniva chiesto alla Corte di giustizia di stabilire se una simile disciplina sul prezzo dei libri importati, che (nelle intenzioni del legislatore austriaco) si
proponeva di evitare le conseguenze negative che sarebbero potute derivare per consumatori del settore
del commercio librario da una concorrenza libera sui prezzi al dettaglio, potesse essere giustificata ai sensi
degli artt. 30 e 151 TCE (32).
Sulla prima questione la Corte ha affermato che, vietando agli importatori austriaci di libri in lingua tedesca di stabilire un prezzo inferiore a quello di vendita al pubblico stabilito o consigliato dall’editore per lo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(24)
(25)
(26)
(27)
(28)
(29)
(30)
(31)
(32)
Sulla nozione di misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa cfr. Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74,
Procureur du Roi c. Benoît and Gustave Dassonville, in Racc. 1974, pag. 837, in particolare, paragrafo 5.
Corte di giustizia, sentenza 10 gennaio 1985, causa 229/83, Association des Centres distributeurs Édouard Leclerc e al. c. SARL «Au blé
verte» al., in Racc. 1985, pag. 1. Sul caso Leclerc cfr. i commenti di S. B. Hornsby, Public and Private Resale Price Maintenance Systems in
the Publishing Sector: The Need for Equal Treatment in European Law, in E.L.R., 1985, pag. 381 e segg.; Y. Galmot, J. Biancarelli, Les
réglementations nationales en matière de prix au regard du droit communautaire, in R.T.D.E., 1985, pagg. 269 e segg. K. Hendry, National
Measures on Price Fixing: Compatibility with Articles 5, 30 and 85 EEC, in E.L.R., 1985, pagg. 281 e segg.; L. Focsaneanu, Réglementations
nationales de prix e droit communautaire, in R.M.C., 1986, pagg. 527 e segg.
Ibidem, paragrafo 4.
Ibidem, paragrafo 21. Sullo specifico profilo della discriminazione inversa nel caso considerato ci venga consentito rinviare a M. Jarvis, The
application of EC law by National Courts, Oxford, 1998, pagg. 165 e segg.
Ibidem, paragrafo 16.
Ibidem, paragrafo 30. Cfr. anche le Conclusioni dell’Avvocato Generale Darmon del 3 ottobre 1984, spec. paragrafo 19. Come osservato da
G. Celona (La libera circolazione delle merci e il mercato unico europeo nella giurisprudenza, Milano, 2001, pag. 246), si tratta di interessi il
cui contenuto appare alquanto oscuro nel testo della sentenza.
Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 2009, causa C-531/07, Fachverband der Buch- und Medienwirtschaft c. LIBRO Handelsgesellschaft
mbH, in EU Focus, 2009, pagg. 23-24. Sul caso cfr. il commento di A. Rigaux, Libre circulation des marchandises e prix du livre en Autriche,
in Europe, giugno 2009, pagg. 19 e segg.
Sui rapporti tra giudici nazionali e comunitari nella definizione del concetto di patrimonio artistico, storico ed archeologico cfr. M. Jarvis, The
application of EC…, op. cit., pagg. 289 e segg. L’A. mette in evidenza come, nonostante la poca chiarezza dell’espressione «national
treasures», i giudici nazionali hanno sistematicamente evitato di rivolgersi alla Corte di giustizia per chiederne l’interpretazione.
Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 2009, causa C-531/07, cit., paragrafo 13.
18
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Stato di pubblicazione, la legge austriaca introduceva un trattamento meno favorevole per i libri importati
in quanto impediva agli importatori austriaci e a tutti gli editori stranieri di stabilire i prezzi minimi nel
commercio al dettaglio tenendo conto delle caratteristiche del mercato di importazione; al contrario, essa
consentiva agli editori austriaci di fissare liberamente tali prezzi per la vendita al dettaglio nel mercato
nazionale (33).
Sulla seconda questione, nel richiamare la giurisprudenza sul caso Leclerc, la Corte di giustizia ha dichiarato
espressamente che «la protezione del libro in quanto bene culturale, non può costituire una ragione di
giustificazione di misure di restrizione all’importazione ai sensi dell’art. 30 CE». Secondo la Corte «non si
può ritenere che la protezione della diversità culturale in generale rientri nella protezione del patrimonio
artistico, storico o archeologico nazionale ai sensi dell’art. 30 CE» (34).
Sembra, pertanto, che, nell’opinione della Corte di giustizia, la tutela della diversità culturale rientri nell’ambito di applicazione della deroga di cui all’art. 36 TFUE soltanto quando tale specificità si manifesta attraverso quelli che potremmo definire come beni culturali in senso stretto, come, ad esempio, un reperto
archeologico (35). Quando, invece, la cultura di un popolo si esprime per mezzo dei prodotti della moderna
industria dell’intrattenimento, i provvedimenti adottati a sua tutela non possono ritenersi compresi nell’alveo protettivo della deroga.
Ne deriva, a nostro avviso, che una normativa statale che, discriminando i prodotti stranieri, miri a proteggere la specificità dei prodotti dell’industria libraria nazionale (così, mutatis mutandis, di quelli dell’industria
discografica o dell’home video) (36) non potrà giustificarsi alla luce dell’art. 36 TFUE.
 
 
 
 
Le misure indistintamente applicabili e i motivi imperativi di interesse pubblico, quale
spazio per la protezione della diversità culturale?
Tra le misure di effetto equivalente, oltre a quelle che colpiscono il momento dell’importazione e non si
applicano ai prodotti nazionali, troviamo anche i provvedimenti statali che riguardano la fase della commercializzazione e che, seppur applicabili tanto ai prodotti importati quanto a quelli nazionali, ostacolano di
fatto gli scambi intracomunitari (37). Com’è noto, uno Stato membro può fissare norme tecniche sulla commercializzazione dei prodotti che incidono negativamente sugli scambi solo in presenza di tre condizioni:
l’assenza di una disciplina comune sovranazionale di riferimento, la presenza di una esigenza imperativa
che giustifichi l’ostacolo al commercio intracomunitario e la proporzionalità tra l’obiettivo di protezione
perseguito e la restrizione agli scambi (38).
Tra le esigenze imperative che possono giustificare simili misure la Corte di giustizia ha indicato quelle
relative all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, alla lealtà delle transazioni commerciali
e alla difesa dei consumatori (39), alla protezione delle caratteristiche socioculturali nazionali o regionali
(nello specifico contesto della ripartizione degli orari di lavoro e di riposo) (40) e alla protezione dei mezzi di
espressione culturale, quali le opere letterarie e quelle cinematografiche (41). I giudici di Lussemburgo, invece, non hanno mai apertamente affermato che la protezione della diversità culturale rientra tra gli interessi
 
 
 
 
 
(33)
(34)
(35)
(36)
(37)
(38)
(39)
(40)
(41)
Ibidem, paragrafo 21.
Ibidem, paragrafo 32.
Sulla nozione di bene culturale in senso stretto cfr. il regolamento 3911/92/CEE del Consiglio, del 9 dicembre 1992, relativo all’esportazione
dei beni culturali, in G.U.C.E. 31 dicembre 1992 L 395, pag. 1, s pag. Allegato 1 (versione consolidata regolamento 116/2009/CE del Consiglio,
del 18 dicembre 2008, in G.U.U.E. 10 febbraio 2009 L. 39, pag. 1); cfr. anche la direttiva 93/7/CEE del Consiglio, del 15 marzo 1993, relativa
alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, in G.U.C.E. 27 marzo 1993 L 074, pag. 74. Entrambi
i provvedimenti citati richiamano l’art. 36 TFUE, il diritto degli Stati di definire il proprio patrimonio nazionale e di adottare le misure
necessarie per garantirne la protezione. Entrambi i provvedimenti non adottano una loro definizione di bene culturale: il regolamento
stabilisce che sono beni culturali quelli indicati nel suo allegato A, la direttiva rinvia alle norme legislative e regolamentari degli Stati
membri. Cfr. pure, per le interessanti riflessioni sul c.d. «closer connection test», T. Von Plehwe, Europea Union and the free movement of
cultural goods, in E.L.R., 1995, pagg. 431 e segg. Per una riflessione sulla nozione di bene culturale come bene veicolare dell’identità di un
popolo cfr. N. Horst, Creating an Ever Closer Union: The European Court of Justice and the Threat to Cultural Diversity, in Col.J.TL., 2008,
pagg. 172 e segg.. Sulla nozione di patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, anche in chiave comparatistica, cfr. B. Pasa, Beni
culturali (diritto dell’Unione europea), in DIGESTO delle Discipline Privatistiche — Sezione Civile, Milano, 2010, pagg. 83 e e segg..
Si ricorda che, oltre ai libri, tra i prodotti che incorporano opere dell’ingegno o artistiche, la Corte di giustizia ha ritenuto fossero soggetti
alle regole sulla libera circolazione delle merci anche i dischi (Corte di giustizia, sentenza 20 gennaio 1981, cause riunite 55/80 e 57/80,
Gema, in Racc. 1981, pag. 147, paragrafo 1) e le videocassette (Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 1974, causa 155/73, Sacchi, in Racc.
1973, pag. 409, parr. 6-7).
Corte di giustizia, sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, Rewe-Zentral, in Racc. 1979, pag. 649, paragrafo 14.
Ibidem, paragrafo 8. Cfr. G. Tesauro, Diritto Comunitario, Padova 2008, pagg. 436 e segg., s pag. 440-441.
Corte di giustizia, sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, Rewe-Zentral, in Racc. 1979, pag. 649, paragrafo 8.
Corte di giustizia, sentenza 23 novembre 1989, causa C-145/88, Torfaen Borough Council c. B & Q plc, in Racc. 1989, pag. 3851, paragrafo
14. Sul punto cfr. F. Pocar, articolo 30 TCE. Finalità dell’art. 30 ed altri scopi giustificativi per gli Stati, in Commentario breve ai trattati della
Comunità e dell’Unione europea, Padova, 2001, pag. 164.
Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 1985, cause riunite 60 e 61/84, Cinéthèque SA e al. c. Fédération nationale des cinémas français, in
Racc. 1985, pag. 2605, parr. 21-23. Cfr. pure Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 2009, causa C-531/07, cit., nota 22, in particolare parr. 32-34.
Sul caso Cinéthèque cfr. L. Gormley, Recent case on Articles 30-36 EEC. The Rule of Reason and Culture, in E.L.R., 1985, pagg. 440 e segg.
Preambolo - Carta dei diritti fondamentali
19
imperativi di natura generale che possono giustificare misure nazionali non discriminatorie di ostacolo alla
libera circolazione delle merci.
Nel caso Société Cinèthéque, ad esempio, la Corte di giustizia è stata chiamata a verificare la conformità al
trattato CEE dell’art. 89 della legge francese del 29 luglio 1982 sulla comunicazione audiovisiva, che dispone che nessuna opera cinematografica rappresentata nelle pubbliche sale di proiezione può essere utilizzata contemporaneamente sotto forma di supporti destinati alla vendita o al noleggio ad uso privato, e in
particolare sotto forma di videocassette e videodischi, prima della scadenza di un termine da stabilirsi per
decreto e compreso tra i 6 e i 18 mesi. Nell’opinione dei ricorrenti la legge in questione avrebbe introdotto
una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, vietata dall’art. 28 TCE, ostacolando l’importazione di videocassette e lo smercio delle stesse (42).
La Corte ha affermato al riguardo che lo scopo di dare impulso alla creazione di opere cinematografiche
senza distinzione di origine attraverso l’imposizione, per un periodo iniziale determinato, dell’obbligo di
diffondere le opere in questione innanzitutto mediante la proiezione nelle sale cinematografiche, è uno
scopo legittimo per il diritto comunitario (43).
Similmente, nel citato caso Libro mbH, dopo aver evidenziato che la protezione del libro in quanto bene
culturale non può costituire una ragione di giustificazione di misure di restrizione all’importazione ai sensi
dell’art. 36 TFUE, la Corte di giustizia ha stabilito che «per contro, la tutela del libro in quanto bene culturale può essere considerata come esigenza imperativa di interesse pubblico che può giustificare misure
di restrizione alla libera circolazione delle merci, a condizione che tali misure siano idonee a raggiungere
l’obiettivo fissato e non vadano oltre quanto necessario affinché esso sia conseguito» (44).
 
 
 
Da quanto sopra esposto emerge che la protezione dei mezzi di espressione culturale costituisce una finalità legittima per il diritto comunitario soltanto laddove il prodotto culturale sia preso in considerazione in
quanto tale e non come strumento veicolare delle specificità culturali di una nazione. Sicché l’attuazione
della libera circolazione delle merci nel mercato interno non potrebbe tollerare una normativa statale che,
al fine di preservare le caratteristiche culturali della propria industria editoriale (45) o cinematografica (46),
favorisca la commercializzazione dei prodotti nazionali. La nozione di misura indistintamente applicabile,
d’altro canto, si pone per se stessa in netto contrasto con qualsiasi finalità di carattere protezionistico. In
concreto, difficilmente si riesce ad immaginare una normativa statale che, perseguendo uno scopo protettivo di una produzione culturale nazionale, si applichi senza discriminazioni ai prodotti nazionali e a quelli
importati.
 
 
L’art. 167.4 TFUE: una clausola generale di deroga alle libertà fondamentali del mercato
interno o un limite sostanziale per l’attività normativa comunitaria?
Nei paragrafi precedenti abbiamo sottolineato come la Corte di giustizia abbia interpretato restrittivamente la clausola di deroga contenuta nell’art. 36 TFUE, escludendo dal suo ambito di applicazione la tutela
della diversità culturale in generale.
L’introduzione, per opera del trattato di Maastricht, dell’art. 128 TCE e il riconoscimento in capo alla Comunità europea di una nuova competenza nel settore culturale ha spinto parte della dottrina (47) a suggerire la
possibilità di un revirement giurisprudenziale. Segnatamente, secondo questa ipotesi ricostruttiva, il quarto
comma dell’art. 167 TFUE, che impone all’Unione europea di rispettare la diversità delle culture europee
nell’azione che svolge sulla base delle altre disposizioni del trattato CE, avrebbe introdotto una sorta di
eccezione culturale di carattere generale alle regole che informano le quattro libertà fondamentali del
mercato interno (48).
L’analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia mostra, al contrario, come nulla sia cambiato nell’interpretazione dell’art. 36 TFUE e nella valutazione di quelle misure statali che, al fine di preservare le caratte 
 
(42)
(43)
(44)
(45)
(46)
(47)
(48)
Ibidem, paragrafo 14.
Ibidem, parr. 21-23.
Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 2009, causa C-531/07, cit., paragrafo 34.
Sui rapporti tra industria libraria e diversità culturale (anche con riferimento alla giurisprudenza richiamata) cfr. F. Benhamou, S. Peltier,
How should cultural diversity be misured? An application using the French publishing industry, in Journal of Cultural Economics, 2- 2007,
pag. 85.
Sui rapporti tra industria cinematografica e diversità culturale cfr. F. Moreau, S. Peltier, Cultural Diversity in the Movie Industry: a CorssNational Study, in Journal of Media Economics, 2-2004, p.123.
V. C. B. Cunningham, In Defence of Member State Culture: The Unrealized Potential of Article 151(4) of the EC Treaty and the Consequences
for EC Cultural Policy, in Col.J.TL., 2001, pag. 119, s pag. 150.
Sulle conseguenze, per l’azione politica e legislativa comunitaria, derivate dall’introduzione dell’art. 151 TCE si rinvia a E. Psychogiopoulou,
The Integration of Cultural Consideration in EU Law and Policies, Leiden, 2008; cfr. anche R. Craufurd Smith, From Heritage Conservation to
European Identity; Article 151 EC and the Multifaceted Nature of Community Cultural Policy, in E.L.R., 2007, pagg. 48 e segg..
20
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ristiche di un’industria culturale nazionale, ostacolano la libera circolazione delle merci nel mercato interno.
Nel caso Échirolles Distribution SA (49), ad esempio, la Corte, chiamata a pronunciarsi ancora una volta sulla
compatibilità col mercato comune della legge francese sul prezzo del libro (50), ma stavolta sotto la vigenza
dell’art. 151 TCE, ha chiarito come non vi fossero ragioni per modificare l’interpretazione degli artt. 30 e 36
TCE fornita nel caso Leclerc (51).
Nondimeno, è nella pronuncia sul caso Libro mbH che la Corte ha negato definitivamente spazio a quelle
ricostruzioni che attribuiscono all’art. 151 TCE il merito d’aver introdotto una clausola generale di deroga
alle regole del mercato fondata su ragioni di difesa della diversità culturale. Secondo la Corte: «l’art. 151
[…] non può essere fatto valere come una disposizione che introduce nel diritto comunitario una causa di
giustificazione per qualsiasi misura nazionale nella materia suscettibile di ostacolare il commercio intracomunitario» (52).
Come osservato puntualmente dall’Avv. generale Trstenjak (e confermato dalla Corte), l’art. 151 TCE è una
disposizione che regola la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e la Comunità nel settore culturale. È vero, rileva Trstenjak, che dall’art. 151, paragrafo 4, TCE risulta che la Comunità tiene conto degli
aspetti culturali, in particolare ai fini di rispettare e promuovere la diversità delle sue culture, ma esso non
comporta alcuna «riserva culturale» rispetto ad altre disposizioni del trattato: «Gli Stati membri non possono quindi ricavare alcuna competenza ad adottare misure che si ripercuotono in maniera discriminatoria
sullo smercio di beni provenienti da altri Stati membri» (53).
 
 
 
 
 
Brevi osservazioni conclusive
Sulla scorta della disamina condotta può essere formulata qualche breve riflessione conclusiva. È bene sottolineare che, attualmente, la salvaguardia delle specificità culturali degli Stati membri dell’Unione europea
rappresenta un obiettivo primario e trasversale dell’azione politica e normativa delle istituzioni sovranazionali (54). Il traguardo dell’adesione alla convenzione Unesco sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (55) e l’inserimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di
una specifica disposizione dedicata alla tutela della diversità religiosa, culturale e linguistica (56) ne offrono prova.
Più incerta si presenta l’individuazione del confine oltre il quale la tutela di alcuni valori (nel caso di specie
la diversità culturale), assunti come fondamentali all’interno dell’Unione europea, cede all’applicazione
delle regole di base del mercato comune (57). Si tratta, a ben vedere, di un confine la cui esatta determinazione è sempre rimasta nelle mani dei giudici di Lussemburgo, più orientati ad assicurare la piena realizzazione delle libertà fondanti del mercato interno che ad assecondare la paura delle comunità nazionali
di veder compresse a livello sovranazionale alcune di quelle posizioni individuali che con tanta fatica si è
guadagnate, e poi difese, nei rapporti con le autorità interne.
L’analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia ha mostrato che i giudici comunitari non hanno intenzione di consentire agli Stati membri di utilizzare la diversità culturale come uno scudo dietro al quale porre
al riparo le proprie produzioni culturali. Tutte quelle misure statali interne che discriminano un prodotto
culturale in ragione della sua nazionalità, ostacolandone l’ingresso nel mercato di riferimento, non saranno
tollerate.
 
 
 
 
(49)
(50)
(51)
(52)
(53)
(54)
(55)
(56)
(57)
Corte di giustizia, sentenza 3 ottobre 2000, causa C-9/99, Échirolles Distribution SA c. Association du Dauphiné e al., in Racc. 2000,
pag. 8907.
Supra, paragrafo 3.
Corte di giustizia, sentenza 3 ottobre 2000, causa C-9/99, cit., nota 40, paragrafo 24.
Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 2009, causa C-531/07, cit., nota 22, paragrafo 33.
Conclusioni dell’Avv. generale Verica Trstenjak, depositate il 18 dicembre 2008, paragrafo 106. Cfr. E. Psychogiopoulou, The Cultural
Mainstreaming Clause of Article 151(4) EC: Protection and Promotion of Cultural Diversity or Hidden Cultural Agenda?, in E.L.J., 2006,
pag. 575.
V. articolo 3.3. del trattato sull’Unione europea, come modificato a Lisbona.
Decisione 2006/515/CE del Consiglio, del 18 maggio 2006, in G.U.C.E. 25 luglio 2006.L 201, p.1.
L’art. 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dotata oramai com’è noto dello stesso valore giuridico dei trattati recita
«L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica».
G.N. Toggenburg, The Debate on European Values and the Case of Cultural Diversity European, in Diversity and Autonomy Papers, EDAP
1/2004, su www.eurac.edu/edap.
Articolo 11 - Libertà di espressione e di informazione
21
CDE
Università degli Studi di Genova
Articolo 11
Libertà di espressione e di informazione
Articolo 11
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà
di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle
autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.
I Dati aperti: una risorsa per i documentalisti,
un’opportunità per le imprese, un bene comune per tutta
l’Unione europea
di Laura Testoni
 
(58)
Obiettivo di questo breve saggio è una ricognizione sul fenomeno dei Dati aperti (Open data), con particolare attenzione alle politiche realizzate dall’Unione europea per favorirne, sollecitarne e promuoverne la
diffusione e l’utilizzo.
Cosa sono gli Open data e perché sono importanti per i documentalisti
L’accesso ai dati e la loro analisi sono il presupposto di ogni azione strategica.
Le istituzioni pubbliche producono dati nell’ambito della propria attività istituzionale: dati demografici,
economici, relativi ai trasporti, al commercio, alla viabilità; dati climatologici, epidemiologici, relativi all’istruzione, al turismo, ad ogni aspetto della vita sociale. Essi sono una vera e propria materia prima grezza
nell’economia della conoscenza.
Sovente i dati, sebbene non contengano informazioni sensibili, sono custoditi in silos chiusi, non sono
adeguatamente metadatati, e quindi non sono recuperabili; oppure sono compilati in formati proprietari, e
quindi non sono leggibili per tutti. In altri casi il loro status giuridico non è esplicito, cioè chi li detiene non
ha espresso regole chiare rispetto alla possibilità del loro utilizzo da parte di terze parti. In altre parole sono
dati «inerti» che non riescono cioè a sviluppare il loro potenziale, e a essere una risorsa per la collettività.
Gli Open data sono dati che possono essere liberamente utilizzati, riutilizzati e redistribuiti, con la sola limitazione di citarne l’autore o la fonte, e di redistribuirli allo stesso modo (ossia senza che vengano effettuate
modifiche) (59).
Un insieme di dati pubblicati prende il nome di dataset.
Gli Open data sono caratterizzati da alcuni aspetti fondamentali, estesamente illustrati da un Vademecum (60) curato da Formez PA e dall’Open data handbook della Open Knowledge Foundation (61). Ne citiamo
solo alcuni che riteniamo particolarmente importanti.
• Accessibili: i dati devono essere resi disponibili al maggior numero possibile di utenti senza barriere
all’utilizzo.
 
 
(58)
(59)
(60)
(61)
 
Responsabile documentalista del CDE dell’Università degli Studi di Genova
Abbiamo tradotto e sintetizzato la definizione proposta in: Open Data handbook: an Open Knowledge Foundation project, 2010-2012, Open
Knowledge Foundation (http://opendatahandbook.org/).
Vademecum Open Data: come rendere aperti i dati delle pubbliche amministrazioni, versione Beta 2011 / Formez (http://www.dati.gov.it/
sites/default/files/VademecumOpenData.pdf).
Cfr. Nota 1.
22
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•
•
•
In formati non proprietari: i dati devono essere codificati in formati aperti e pubblici.
Liberi da licenze che ne limitino l’uso.
Ricercabili: i dati devono essere facilmente identificabili in rete, grazie a cataloghi e archivi facilmente
indicizzabili dai motori di ricerca.
• Riutilizzo e ridistribuzione: i dati devono essere forniti a condizioni tali da permetterne il riutilizzo e
la ridistribuzione. Ciò comprende la possibilità di combinarli con altre basi di dati fino a creare nuove
risorse, applicazioni e servizi di pubblica utilità.
• Partecipazione universale: non devono essere poste discriminazioni di ambiti di iniziativa in riferimento a soggetti o gruppi.
• Completi: i dati devono comprendere tutte le componenti (inclusi i metadati).
• Tempestivi: gli utenti devono essere messi in condizione di accedere e utilizzare i dati in modo rapido
e immediato.
• Permanenti. I dati devono restare disponibili nel corso del loro intero ciclo di vita.
• Disponibilità e accesso: i dati devono essere disponibili preferibilmente online per un prezzo non superiore a un ragionevole costo di riproduzione.
Questo tema è di grande interesse per i documentalisti, e quindi per coloro che operano nei CDE, non solo
perché i dati sono il primo livello fondamentale di conoscenza nella società dell’informazione, ma anche
perché essere in grado di conoscere la genesi e le fonti di reperimento dei dati permette di rispondere in
maniera accurata a bisogni informativi specifici e circostanziati.
Sarà sempre più importante che i documentalisti siano in grado di agire non solo in un universo biblio-centrico ma anche, e soprattutto, in un contesto data-centrico.
L’interesse dell’Unione europea per gli open data, e più in generale per l’apertura dei documenti e delle informazioni di fonte pubblica non è recente, e affonda le sue radici nella consapevolezza che l’«ecosistema
informativo» impatta sulla vita di ogni cittadino della comunità.
Mentre nella prima rivoluzione industriale, nel Secolo XVII, le materie prime decisive per lo sviluppo erano
i materiali fossili, che resero possibile il funzionamento delle macchine a vapore, e nella seconda (fine Secolo XIX) il petrolio e l’elettricità; viviamo oggi una terza rivoluzione industriale, in cui la materia prima, e
la stessa infrastruttura produttiva, si sono smaterializzate e sono costituite dai dati e dall’informazione (62).
Ma la diffusione e la circolazione di dati e documenti non rappresenta solo un fattore di sviluppo economico: rendere pubblici tutti i documenti generalmente disponibili in possesso del settore pubblico rappresenta uno strumento fondamentale di trasparenza e un presupposto per ampliare il diritto alla conoscenza
e all’informazione, che è sancito dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
 
Inizia la riflessione sui dati aperti: consultazione, libro verde, direttiva UE 98/2003
A partire da questi presupposti l’Unione europea ha promosso nel 1999 una consultazione delle parti interessate, a partire dall’elaborazione del libro verde «L’informazione del settore pubblico: una risorsa fondamentale per l’Europa» (63) da cui è emersa l’esigenza di migliorare le condizioni di riutilizzo delle informazioni
in tutta l’Europa.
Al libro verde ha fatto seguito, nel 2002, la proposta di direttiva (64), in cui viene sottolineato il potenziale
economico dell’apertura dei dati: le tecnologie della società dell’informazione offrono possibilità senza
precedenti di aggregare dati provenienti da diverse fonti e creare così prodotti e servizi a valore aggiunto,
nei quali le informazioni del settore pubblico diventano un’importante materia prima.
La direttiva 98/2003 non ha per oggetto specifico gli Open data, ma il regime di apertura e riutilizzo dei
documenti e delle informazioni prodotte dalle pubbliche amministrazioni. Nelle sue premesse la direttiva
sottolinea due elementi di contesto: il primo è che la produzione di contenuti digitali aperti rappresenta
un enorme potenziale per la creazione di posti di lavoro, soprattutto nell’ambito delle piccole imprese
emergenti (che noi oggi chiameremmo startup), il secondo è che Il settore pubblico è già produttore di una
gamma ampia di informazioni in molti settori di attività.
In questo contesto la direttiva sottolinea che le informazioni del settore pubblico sono un’importante materia prima per i prodotti e i servizi imperniati sui contenuti digitali, e che lo diverranno ancora di più con il
diffondersi capillare della comunicazione in mobilità.
 
 
(62)
(63)
(64)
Economist, Data, data everywhere. The Special report on managing information. 27 febbraio 2010 (http://www.economist.com/
node/15557443).
Documento COM(1998) 585, adottato dalla Commissione il 20 gennaio 1999.
Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al riutilizzo dei documenti del settore pubblico e al loro sfruttamento
a fini commerciali. Documento COM(2002) 207.
Articolo 11 - Libertà di espressione e di informazione
23
E in effetti la diffusione capillare dei dispositivi mobili, non ancora pienamente sviluppata nel 2003, è oggi
uno dei principali veicoli per il riutilizzo di dati aperti: le Apps che vengono scaricate su uno smartphone
gratuitamente o dietro pagamento di una piccola somma, sono rielaborazione di dati.
Obiettivo della direttiva 98/2003 è avviare una armonizzazione minima delle normative e delle prassi
nazionali relative al riutilizzo dei documenti del settore pubblico, affinché avvenga in condizioni eque, adeguate e non discriminatorie. Ad esempio, viene introdotto il divieto di accordo in esclusiva: un ente pubblico non dovrebbe porre un’esclusiva sui dati prodotti e, in virtù di essa, conferirli a un solo partner privato.
Da questo punto di vista è importante l’aspetto delle licenze: la direttiva del 2003 incoraggia l’elaborazione
di licenze standard, condivise tra i Paesi membri.
Più nello specifico la direttiva fornisce una utile definizione del concetto di «riutilizzo»: «l’uso di documenti
in possesso di enti pubblici da parte di persone fisiche o giuridiche a fini commerciali o non commerciali
diversi dallo scopo iniziale nell’ambito dei compiti di servizio pubblico per i quali i documenti sono stati
prodotti».
Quali presupposti facilitano il «riutilizzo» dei dati e dei documenti di fonte pubblica? A questo proposito la
direttiva introduce due elementi di principio: il primo è che i documenti, per essere reperiti, devono essere
indicizzati, e che questi indici (banche dati, repertori) dovrebbero essere disponibili online; il secondo è
che il formato dei documenti non dovrebbe dipendere «dall’utilizzo di programmi informatici specifici»: in
altre parole dovrebbero essere utilizzati formati aperti e non proprietari per l’esposizione dei documenti.
I dati aperti: una storia di successo
Nel frattempo l’interesse dei governi verso l’apertura dei dati e dei documenti aumenta: nel 2009 l’amministrazione americana promulga una direttiva sull’Open government (65), accompagnata, nello stesso anno,
dall’apertura del portale Data.gov, vero e proprio repository dei dati aperti prodotti dal governo degli Stati
Uniti.
In ambito europeo, sempre nel 2009, apre il sito Data.gov.uk, supportato da Tim-Berners Lee, ideatore del
web, fondatore e direttore del consorzio W3C, docente al MIT.
Tim Berners Lee in una celebre videoconferenza di febbraio 2009 al think thank TED (66) spiega cosa sono
i dati aperti e interoperabili (linked data), quali vantaggi producono, e perché sono il futuro del web e
dell’informazione libera, contribuendo in modo significativo a farne conoscere il valore strategico. Non a
caso fra il 2011 e il 2012 molti stati europei, tra cui l’Italia (67), iniziano a pubblicare e a rendere disponibili
quantità sempre più ingenti di pubblici in formato aperto.
 
 
 
La direttiva 37/2013 e l’emergere delle grandi biblioteche digitali
Appare evidente che queste iniziative vanno ben al di là del livello minimo fissato dalla direttiva 98/2003:
i governi nazionali riconoscono il vantaggio e l’opportunità di «aprire» i dati prodotti dalle istituzioni pubbliche in portali nazionali, esponendoli in formati aperti e interoperabili, cioè suscettibili di elaborazioni
ulteriori da parte di terzi.
Inoltre biblioteche e archivi intraprendono attività di digitalizzazione massiva dei propri documenti, rendendoli fruibili, previa opportuna metadatazione, attraverso cataloghi online e portali, in alcuni casi con
risorse proprie, in altri casi in partenariato con operatori presenti sul mercato: ad esempio nel 2010 in Italia
Google e il Ministero per i beni e le attività culturali (MIBAC) hanno siglato un accordo per la digitalizzazione
e l’ inserimento su Google Books di circa un milione di volumi delle Biblioteche nazionali di Roma e Firenze.
È proprio a partire da questi presupposti che in ambito UE, a giugno 2013, viene promulgata una direttiva
(37/2013) (68), che supera e perfeziona la 98/2003 che si limitava, come s’è visto, a stabilire un insieme minimo di norme che disciplinano il riutilizzo delle informazioni del settore pubblico.
La nuova direttiva pende atto della rapida evoluzione dello scenario: si riconosce infatti che in dieci anni
si è assistito a una crescita esponenziale della quantità di dati nel mondo, compresi i dati pubblici, e alla
comparsa e raccolta di nuovi tipi di dati.
Parimenti, la nuova direttiva riconosce che si assiste a un’evoluzione costante delle tecnologie per l’analisi,
 
(65)
(66)
(67)
(68)
M-10-06 Memorandum for the heads of executive departments and agencies: Open Government Directive 8 dicembre 2009 (http://www.
whitehouse.gov/sites/default/files/omb/assets/memoranda_2010/m10-06.pdf).
Talks. Tim Berners-Lee: The next web. Filmato a febbraio 2009 disponibile con sottotitoli in italiano (http://www.ted.com/talks/lang/en/
tim_berners_lee_on_the_next_web.html) e anche Tim Berners Lee: Raw data, now! Published at Wired.co.uk in 09/11/2012 (http://www.
wired.co.uk/news/archive/2012-11/09/raw-data).
Il portale dati.gov.it (http://www.dati.gov.it) permette di accedere oggi a più di 5000 dataset di dati aperti.
Direttiva 2013/37/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 che modifica la direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo
dell’informazione del settore pubblico.
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lo sfruttamento e l’elaborazione dei dati, e che questa rapida evoluzione tecnologica permette di creare
nuovi servizi e nuove applicazioni basate sull’uso, sull’aggregazione o sulla combinazione di dati. Si tratta
dei cosiddetti mashup, che sono alla base della creazione di applicazioni a partire dalla giustapposizione e
ricombinazione di dati aperti. «Le norme adottate nel 2003 non rispecchiano più questi rapidi mutamenti
e di conseguenza», ammette il legislatore, «si rischia di non poter cogliere le opportunità economiche e
sociali offerte dal riutilizzo di dati pubblici».
Vanno segnalate alcune novità della direttiva del 2013 (69).
• Sancisce il generale principio di riutilizzabilità dei dati nel rispetto della proprietà intellettuale e della
privacy;
• introduce un principio di disponibilità dei dati/ documenti, in qualsiasi formato o lingua;
• disciplina il contenimento dei costi marginali obbligando gli enti a rendere trasparenti le regole e le
metodologie di calcolo;
• introduce raccomandazioni specifiche sul tipo di licenze da applicare ai dati, nell’autonomia di ogni
singola istituzione.
La nuova direttiva collega in modo diretto il diritto di accesso a quello di riutilizzo, sancendo il principio, non
scontato nella precedente direttiva, che un documento accessibile deve anche essere riutilizzabile.
Un altro aspetto fondamentale è che il focus della nuova direttiva riguarda il riutilizzo del materiale culturale pubblico custodito nelle biblioteche, nei musei e negli archivi: l’obiettivo è agevolare una totale condivisione del patrimonio culturale europeo con la creazione di prodotti e servizi a contenuto informativo
estesi all’intera Unione (70).
Europeana (71), la biblioteca digitale europea inaugurata nel 2008 è certamente un esempio di questo tipo di
servizi. Europeana mette a disposizione in full text milioni di documenti digitalizzati e di pubblico dominio
ad essa conferiti dalle biblioteche nazionali europee partner del progetto.
E infatti il considerando 15 della direttiva sottolinea che «le biblioteche, i musei e gli archivi detengono una
notevole quantità di preziose risorse di informazione del settore pubblico, in particolare dal momento che i
progetti di digitalizzazione hanno moltiplicato la quantità di materiale digitale di dominio pubblico». Questo
materiale, e i relativi metadati prodotti dai database che indicizzano i documenti, rappresenta un potenziale importante e può contribuire alla crescita economica e alla creazione di posti di lavoro nel settore dei
beni culturali, dell’intrattenimento, della formazione e del turismo.
La direttiva ammette che, dati i costi elevati di digitalizzazione, e considerando che biblioteche e archivi
devono generare utili per coprire una parte dei costi inerenti allo svolgimento dei compiti istituzionali, può
essere eventualmente ammessa una tariffazione per il riutilizzo dei dati, e che questa tariffazione può
eccedere i costi marginali purché i criteri per l’addebito di corrispettivi siano stabiliti dagli Stati membri.
Un altro punto toccato dalla direttiva riguarda le licenze per il riutilizzo dei dati: si raccomanda che le licenze
impongano il minor numero possibile di restrizioni al riutilizzo, e si suggerisce l’utilizzo delle licenze aperte
disponibili online: l’allusione è certamente alle licenze Creative Commons (72) che descrivono in modo duttile
diversi livelli e diverse combinazioni di apertura dei documenti.
Vale la pena sottolineare che «dati aperti» sono anche i dati bibliografici prodotti dalle grandi agenzie catalografiche nazionali, e che alcune di esse (British Library, Bibliothèque Nationale de France) già mettono
a disposizione online in formato aperto Rdf/Xml i propri dati bibliografici (73).
 
 
 
 
 
Oltre le direttive: le iniziative europee a favore degli Open data
La posizione dell’UE sugli Open data emerge in modo chiaro dal documento COM «Dati aperti. Un motore
per l’innovazione, la crescita e una governance trasparente» (74).
 
(69)
(70)
(71)
(72)
(73)
(74)
Cfr. Antonella De Robbio, Gabriele De Veris, Open Data in biblioteche, archivi e musei: la direttiva europea 37/2013 in: AIB Notizie 2013 (4)
(http://www.aib.it/attivita/2013/37887-open-data-mab/).
Un interessante approfondimento in: Antonella De Robbio, Un formato europeo per i dati di biblioteche, musei e archivi, in: Il BO, il giornale
dell’Università degli studi di Padova, 3 settembre 2013 (http://www.unipd.it/ilbo/content/un-formato-europeo-i-dati-di-bibliotechemusei-e-archivi).
http://www.europeana.eu
Cfr. http://creativecommons.org/licenses/. Le licenze Creative Commons sul diritto d’autore offrono un modo semplice e standardizzato di
garantirne il rispetto dei permessi sul diritto d’autore.
Cfr http://www.bl.uk/bibliographic/datafree.html e http://data.bnf.fr/
Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
Regoni. Dati aperti Un motore per l’innovazione, la crescita e una governance trasparente 12/12/2011 documento COM(2011) 882 def.
(http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0882:FIN:IT:PDF).
Articolo 11 - Libertà di espressione e di informazione
25
L’attenzione verso i dati aperti fa parte della strategia UE 2020, e all’Agenda digitale europea, che hanno
come obiettivo principale indirizzare le economie europee su un percorso di crescita elevata e sostenibile.
C’è poi l’aspetto economico: i dati aperti sono una potenziale fonte di ricchezza: il documento COM sottolinea infatti che «i guadagni derivanti dalla messa a disposizione di tale risorsa [i dati aperti] nell’Unione
europea si potrebbero quantificare in 40 miliardi di euro all’anno»: da questo punto di vista i dati aperti
possono essere considerati una «valuta innovativa».
In questo quadro, l’obiettivo di rafforzare e migliorare l’utilizzo di dati aperti viene perseguito sia attraverso strumenti legislativi (la direttiva 98/2013 che abbiamo appena commentato), sia attraverso altri
strumenti non giuridici. Tra essi (75):
• apertura nel dicembre 2012 del portale Open-data.europa.eu che raccoglie, indicizza ed espone in
formato aperto i dati generati dalle diverse istituzioni dell’Unione europea. Tutti i dati accessibili dal
portale sono gratuiti e riutilizzabili per usi commerciali e non commerciali. Mentre scriviamo (novembre 2013) sono accessibili dal portale più di 6.000 dataset.
• Attivazione di un gruppo di esperti PSI (Public sector information) scelti da ciascuno degli Stati membri,
con l’obiettivo di scambiare buone pratiche e raccomandazioni.
• Apertura di una piattaforma, ePSIplatform (European Public Sector Information Platform) (76) dedicata
allo scambio di sperimentazioni e documenti sul riutilizzo dei dati aperti pubblici.
• Sviluppo di una infrastruttura di servizio digitale europeo (European Digital Service Infrastructure) in
grado di sviluppare e gestire il portale di dati aperti a livello pan-europeo.
• Organizzazione di hackatons («maratone» collaborative di esperti informatici per l’elaborazione di
dati), gare, premiazioni, bandi, borse di studio e finanziamenti del Settimo programma quadro in ambito ricerca e sviluppo.
• Ricorso a politiche di «soft law»: linee guida, raccomandazioni.
• Supporto alla creazione di una rete tematica di specialisti dediti all’approfondimento delle tematiche
legali connesse all’utilizzo dei dati aperti: la rete LAPSI (77) che ha l’obiettivo di identificare le restanti
barriere e ostacoli di tipo giuridico al riuso elle informazioni del settore pubblico nel mercato europeo
dei contenuti.
• Apertura di significative linee di finanziamento sugli Open data nell’ambito del Settimo programma
quadro per i progetti di ricerca EPSI (European Public Sector Information) (78).
• Studio dell’impatto economico dei dati aperti. La commissione ha affidato a prestigiosi supervisor
esterni la realizzazione di una stima specifica delle variabili economiche rispetto alla fornitura di dati
aperti sul mercato dei contenuti dell’UE. Èstato redatto un corposo studio (79) dei modelli di pricing dei
dati aperti, da cui emerge che una più bassa tariffazione favorisce il riutilizzo dei dati e genera ampi
benefici sistemici.
• Particolare attenzione ai dati generati dalla ricerca scientifica: è noto che sempre di più la ricerca si basa
sull’elaborazione di enormi quantità di dati grezzi per produrre risultati. A partire da questa evidenza
è stato implementato Zenodo (80), un data repository multi-disciplinare digitale per i dati aperti della ricerca. Su Zenodo è possibile depositare i dati grezzi a qualsiasi stadio di ricerca, proprio per consentire
ad altri laboratori di effettuare ricerche e sperimentazioni parallele. Zenodo, ospitato nei server del
Cern, è finanziato dall’Unione europea attraverso il progetto OpenAIREplus del 7° Programma quadro.
 
 
 
 
 
 
(75)
(76)
(77)
(78)
(79)
(80)
Szymon Lewandowski, 2013. European policies on open data. PSI Group meeting, Luxembourg 24.01.2013, «Data Value Chain», Unit
European Commission, DG Connect (http://ec.europa.eu/information_society/newsroom/cf/itemdetail.cfm?item_id=9692).
http://epsiplatform.eu/
LAPSI (Legal Aspects of Public Sector Information) 2.0, http://www.lapsi-project.eu/
Cfr. Open Data and EU Funding / Miguel García; European Public Sector Information Platform — ePSIplatform Topic Report No. 2013/06, June
2013, 24 (http://epsiplatform.eu/content/open-data-and-eu-funding).
European Commission. Information Society and Media Directorate-General POPSIS Pricing Of Public Sector Information Study. Models of
Supply and Charging for Public Sector Information (ABC) Final Report, October 2011 (http://ec.europa.eu/information_society/newsroom/
cf/dae/document.cfm?action=display&doc_id=1158).
http://www.zenodo.org/. Il nome Zenodo viene da Zenodoto, il primo direttore della antica biblioteca di Alessandria. Cfr: Antonella De
Robbio, La ricerca condivisa: nasce Zenodo, il data repository europeo, in: Il BO, il giornale dell’Università degli studi di Padova, 24 maggio
2013 (http://www.unipd.it/ilbo/content/la-ricerca-condivisa-nasce-zenodo-il-data-repository-europeo).
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Conclusioni
Dalla prima consultazione sull’informazione nel settore pubblico del 1999, citata nella parte iniziale di questo testo, ad oggi sono passati quasi 15 anni, e nel frattempo Internet è cambiata, diventando l’infosfera
informativa in cui quotidianamente ci si muove.
Ma è cambiato anche il contesto economico, attraversato, rispetto ad allora, da una crisi economica profonda. I Dati aperti, se vengono fatti emergere attraverso una adeguata ma leggera infrastruttura tecnologica, non sono solo un bene comune restituito alla collettività, ma anche una risorsa che può creare
sviluppo. Da qui l’importanza, ormai pienamente condivisa dalle istituzioni dell’UE, di rilasciare i dati aperti
alla creatività e al talento di cittadini, studenti e piccole imprese.
BIBLIOGRAFIA (TUTTI I LINK SONO STATI VERIFICATI AL 02/11/2013)
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europeo e al Comitato delle regioni. Dati aperti Un motore per l’innovazione, la crescita e una governance trasparente.
Documento COM(2011) 882 definitivo
<http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0882:FIN:IT:PDF>
COMMISSIONE EUROPEA Direttiva 2013/37/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 che modifica la direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:175:0001:0008:IT:PDF).
COMMISSIONE EUROPEA L’informazione del settore pubblico: una risorsa fondamentale per l’Europa — libro verde sull’informazione
del settore pubblico nella società dell’informazione Documento COM(1998) 585, 20/1/1999 <ftp://ftp.cordis.europa.eu/pub/econtent/
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COMMISSIONE EUROPEA Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al riutilizzo dei documenti del settore
pubblico e al loro sfruttamento a fini commerciali. Documento COM(2002) 207
<http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2002:0207:FIN:IT:PDF>
DE ROBBIO, ANTONELLA, DE VERIS, GABRIELE, Open Data in biblioteche, archivi e musei: la direttiva europea 37/2013 in: AIB Notizie
2013 (4) <http://www.aib.it/attivita/2013/37887-open-data-mab>
DE ROBBIO, ANTONELLA, Un formato europeo per i dati di biblioteche, musei e archivi, in: Il BO, il giornale dell’Università degli studi di
Padova, 3 settembre 2013 <http://www.unipd.it/ilbo/content/un-formato-europeo-i-dati-di-biblioteche-musei-e-archivi>
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OPEN KNOWLEDGE FOUNDATION Open Data handbook: an Open knowledge foundation project, 2010- 2012, <http://opendatahandbook.org>
US EXECUTIVE OFFICE OF THE PRESIDENT. OFFICE OF MANAGEMENT AND BUDGET M-10-06 Memorandum for the heads of executive
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SITOGRAFIA (TUTTI I LINK SONO STATI VERIFICATI AL 02/11/2013)
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<http://www.dati.gov.it> Open data Italia
<http://www.data.gov> Open data Stati Uniti
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<http://www.europeana.eu> Europeana
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<http://opendatahandbook.org> Open data Handbook
<http://www.bl.uk/bibliographic/datafree.html> I dati bibliografici aperti della British Library
<http://data.bnf.fr> I dati bibliografici aperti della Bibliothèque Nationale de France
<http://epsiplatform.eu> European Public Sector Information platform
<http://www.lapsi-project.eu> LAPSI Legal Aspects of Public Sector Information 2.0
<http://www.zenodo.org> Zenodo
<https://ec.europa.eu/digital-agenda/en/content-and-media/open-data> Agenda digitale europea. Sezione Open Data
Articolo 11 - Libertà di espressione e d’informazione
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CDE
Università degli Studi di Milano
Articolo 11
Libertà di espressione e d’informazione
Articolo 11
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà
di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle
autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.
Da internet ai social network: il diritto di ricevere e
comunicare informazioni e idee – Introduzione
di Francesco Garza
(81)
 
L’avvento dell’era 2.0 e la diffusione sempre più rapida e ampia dei social media hanno permesso di
espandere i diritti di informazione e comunicazione ma, nel contempo, hanno spalancato le porte ad abusi,
limitazioni e tentativi di condizionamento di tali diritti.
È indubbio che a fronte delle grandi potenzialità ed opportunità offerte dalla rete siano insorti pericoli e
criticità, ma la generazione presente — e quelle future da qui in avanti — ha a disposizione effettivamente
nuovi diritti, che impongono da una parte un’assunzione di consapevolezza da parte dei cittadini e dall’altra
la necessità della società e degli Stati di farsi carico della tutela delle nuove prerogative, assicurandone
l’effettivo godimento.
Già il trattato di Maastricht aveva rafforzato l’istituto della cittadinanza europea, ampliandone il contenuto dei diritti, più volte richiamati dalla Corte europea di giustizia e potenziati ulteriormente dal trattato
di Lisbona con l’istituzione dell’iniziativa dei cittadini europei. E la libertà di espressione e comunicazione
rappresenta forse il mezzo più evidente e immediato di esercizio della cittadinanza attiva, mentre la libertà
di informazione ne costituisce il presupposto fondamentale.
Considerando internet e i social network da diverse angolature è possibile cogliere le implicazioni giuridiche e sociali legate alla loro diffusione, così come l’«apertura» della rete favorisca realmente l’essere
cittadini attivi nell’era della connessione globale.
Da questo punto di vista assumono particolare rilevanza alcuni aspetti di seguito illustrati: l’inquadramento
costituzionale del web come mezzo di libertà di espressione e di azione nella società dell’informazione; il
diritto di cronaca online e la tutela del diritto all’oblio; l’aggregarsi degli individui in «comunità online» e i
quesiti giuridici connessi all’anonimato, alla pubblicazione di contenuti illegali sul web e alle possibili attività criminose in internet; il diritto di ricevere e di comunicare informazioni online nel quadro della libera
prestazione dei servizi; l’operato della Corte europea dei diritti umani in merito alle nuove tecnologie e alla
libertà di espressione ed, infine, la tutela dei minori al’interno dei nuovi media.
(81)
Documentalista del Centro di documentazione europea dell’Università degli Studi di Milano.
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L’inquadramento costituzionale della rete Internet: da
nuovo mezzo per la libertà di espressione a presupposto
per l’agire dell’individuo nella società dell’informazione
di Marco Orofino
(82)
 
Il giurista di fronte a un nuovo fenomeno che compare all’orizzonte cerca di analizzarlo sulla base delle
categorie in suo possesso ragionando per analogia e per differenze rispetto a fenomeni che gli appaiono
analoghi. Lo studioso del diritto costituzionale ha un compito in più: deve, infatti, verificare non solo che
un fenomeno sia riconducibile a un paradigma costituzionale esistente, ma anche che questa collocazione
sia compatibile con il progetto costituzionale che ha ispirato la norma che si intende utilizzare in chiave
evolutiva.
Questa premessa ben si attaglia all’inquadramento costituzionale della rete Internet.
Internet delle origini è essenzialmente un mezzo di comunicazione (Costanzo). Sulla rete i primi servizi
disponibili sono l’email e rudimentali, rispetto ad oggi, portali di informazione. Per cui è naturale che la
giurisprudenza costituzionale e la dottrina individuino inizialmente nelle norme costituzionali dedicate alla
libertà di comunicazione ed alla libertà di manifestazione del pensiero il paradigma idoneo. Il che significa
che, inizialmente, le norme costituzionali di riferimento, per la rete e i nuovi servizi che essa rende disponibili, sono essenzialmente l’art. 15 e l’art. 21 Cost.
Due norme costituzionali, due diritti fondamentali, cui corrispondono diversi limiti e garanzie. Questa scissione tra libertà di comunicazione e libertà di manifestazione del pensiero è una specificità tutta italiana,
laddove invece altri ordinamenti costituzionali, la CEDU e la Carta europea dei diritti fondamentali accomunano in un’unica norma la libertà di espressione o di parola offrendo poi esplicita tutela al profilo della
segretezza delle comunicazioni.
La distinzione operata nella Costituzione italiana è stata oggetto di numerosi interventi della dottrina che
ha cercato di individuare una linea di demarcazione tra le due fattispecie: alcuni autori hanno considerato la
libertà di comunicazione una sub specie, adeguatamente protetta, della libertà di manifestazione (Barile),
altri autori hanno identificato nel numero e nel tipo di destinatari — determinato o indeterminato, fungibile
o infungibile (Caretti) — l’elemento differenziante le due fattispecie; altri hanno individuato nella capacità
del mezzo (e del suo uso) di garantire la segretezza l’elemento in grado di segnare il confine tra le due
norme costituzionali (Pace).
I tentativi di definire per ogni servizio la sua collocazione costituzionale sono naufragati, tanto quelli che
hanno valorizzato la volontà soggettiva quanto quelli che hanno puntato sul mezzo, con lo sviluppo della
rete Internet e la diffusione di nuovi servizi di comunicazione. Questi nuovi servizi, non a caso definiti come
ibridi, sfuggono, infatti, a una sicura collocazione tra le comunicazioni ex articolo 15 e quelle ex articolo 21
Cost. Basti pensare a titolo d’esempio alle chat-lines, ai fora di discussione, al messaging. Tutti servizi in
cui non è possibile stabilire a priori né in modo duraturo tanto la volontà dei soggetti che partecipano alle
discussioni di realizzare una comunicazione al pubblico o interpersonale, quanto la capacità del servizio
prescelto di garantire la riservatezza della comunicazione (Valastro).
Fin qui il problema poteva apparire essenzialmente legato a una scelta del Costituente italiano che, alla
luce dell’evoluzione tecnologica, mal si adattava alla nuova realtà prodottasi. E, tuttavia, le cose cambiano
radicalmente con i servizi peer to peer e con l’avvento del cd. web 2.0. I primi, come noto, consentono lo
scambio di dati, non necessariamente informazioni in senso stretto, tra gli utenti. Questo consente la nascita sulla rete di nuovi servizi in cui il contenuto informativo tende a sfumare o a essere servente rispetto ad
altri obiettivi che il trasferimento peer to peer persegue. Con il web 2.0, la persona che accede ad Internet
(attraverso una rete di comunicazione elettronica) cessa di essere un mero fruitore di servizi e contenuti,
ma diviene egli stesso produttore di contenuti e, con un tenue investimento economico e di conoscenze
può fornire servizi a terzi sulla rete.
Nel volgere di pochi anni, Internet cessa di essere solo un mezzo di comunicazione ma diviene presupposto
per lo svolgimento di tutta una serie di attività che con la comunicazione hanno poco a che fare: si pensi
all’acquisto di musica e prodotti on line e al loro pagamento, al fascicolo elettronico sanitario e alla sua consultazione on line; alla videosorveglianza, alle primarie via web, all’iscrizione obbligatoria a scuola tramite
Internet. L’elenco potrebbe essere pressoché infinito e il novero delle attività accrescersi. Queste attività
(82)
Ricercatore dell’Università degli Studi di Milano.
Articolo 11 - Libertà di espressione e d’informazione
29
coinvolgono e toccano diritti diversi da quelli di comunicazione e manifestazione del pensiero: per rimanere agli esempi è evidente che il fascicolo sanitario elettronico si leghi con il diritto alla salute, l’iscrizione via
web al diritto all’istruzione, le transazioni commerciali ai corrispondenti diritti economici.
Se Internet cessa di essere solo un mezzo di comunicazione (anche se la sua forza in questo ambito rimane
poderosa), il giurista (ed il costituzionalista) non può evitare di porsi il problema di ripensare la sua collocazione o almeno di verificare che le garanzie applicate alla rete (in quanto mezzo di comunicazione) non
pregiudichino altri diritti costituzionali di pari grado.
La questione è evidentemente aperta. Ad oggi sono due le ricostruzioni in campo.
Da un lato alcuni Autori (Rodotà) sostengono l’opportunità di definire un nuovo diritto costituzionale specificamente dedicato ad Internet. All’interno di questa prospettiva si discute se debba trattarsi di un diritto
di libertà ad hoc, se debba consistere in un comma aggiuntivo alla libertà di manifestazione del pensiero,
se debba trattarsi di un diritto di accesso a Internet e quindi di un nuovo diritto sociale (Frosini).
Da un altro lato, altri Autori (Pizzetti) ritengono che sia preferibile ripensare il catalogo esistente dei diritti
alla luce di Internet. Sia nel senso di adattare i paradigmi esistenti alla nuova realtà sia nel senso di riconoscere nuovi diritti che assumono grande forza sulla rete (diritto all’oblio, diritto ad essere ricordati).
Entrambe le ricostruzioni, qui appena ricordate, concordano su un punto e cioè sul fatto che l’orizzonte delle nuove norme costituzionali e di conseguenza delle nuove regole non possa essere solo quello nazionale,
ma debba essere quantomeno quello europeo. In questo contesto esiste ad oggi una normativa piuttosto
dettagliata in materia di reti di comunicazione elettronica e di accesso alle reti e ai servizi (Orofino, Donati).
Tale normativa individua con il Framework 2002 (come modificato dal Telecom Package) già un minimo
comun denominatore che gli Stati membri dell’UE sono chiamati ad implementare. Il tema dell’accesso
a Internet (e quindi alle reti e ai servizi di comunicazione elettronica) è il punto qualificante dell’Agenda
digitale europea. Su questo è evidente che l’Unione europea dovrà offrire un indirizzo comune, tenendo
tuttavia sempre presente che la materia e la globalità propria della rete suggeriscono un approccio internazionale e, per quanto possibile, un sistema di regole globalmente condiviso.
BIBLIOGRAFIA
A. Pace, M. Manetti, articolo 21. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, 2006.
P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, 1975.
P. Caretti, Corrispondenza (Libertà di), in Dig. Disc. Pubbl., 1989.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, 2013.
T.E. Frosini, Il diritto costituzionale di accesso ad Internet, in M. Pietrangelo (a cura di), Il diritto di accesso, 2011.
F. Pizzetti, Il caso del diritto all’oblio, 2013.
A. Valastro, Libertà di comunicazione e nuove tecnologie, 2001.
P. Costanzo, Contributo ad una storia della libertà d’informazione: le origini di internet (1969-1999), in AA.vv., Studi in onore di Aldo
Loiodice, 2012.
F. Donati, L’ordinamento amministrativo delle comunicazioni, 2008.
M. Orofino, Profili costituzionali delle comunicazioni elettroniche nell’ordinamento multilivello, 2008.
Diritto di cronaca online e tutela del diritto all’oblio
di Gloria Marchetti
(83)
 
Il diritto all’oblio è tradizionalmente inteso come diritto del singolo a non vedere riproposti al pubblico fatti
o notizie che lo riguardano che in passato sono già stati oggetto di cronaca ed è volto a tutelare il diritto
all’identità personale, da un lato, e il diritto alla riservatezza (84), dall’altro. Il riconoscimento di questo diritto
da parte della giurisprudenza è abbastanza recente. Sebbene già a partire dai primi anni ’70 la giurisprudenza di merito aveva talora riconosciuto il diritto all’oblio (85), è solo con la sent. 9 aprile 1998, n. 3679 che
la Corte di Cassazione ha affermato, per la prima volta in modo inequivocabile, il diritto all’oblio. Per un
 
 
(83)
(84)
(85)
Ricercatrice dell’Università degli Studi di Milano.
Si veda il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, «Codice in materia di protezione dei dati personali».
Per la giurisprudenza di merito, si cfr.: Pret. Roma 13 agosto 1970, 20 febbraio 1971; 25 gennaio 1979; 6 maggio 1983; 25 maggio 1985; 7
novembre 1986; Trib. Roma 15 maggio 1995; ord. Trib. Roma 8, 20 e 27 novembre 1996. Per la giurisprudenza di legittimità, si cfr.: Cass.
civ., 18 ottobre 1984, n. 5259; Cass civ., Sez. I, 7 febbraio 1996, n. 978.
30
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
lungo periodo, le sentenze che hanno avuto ad oggetto il diritto all’oblio non hanno riguardato l’attività di
cronaca online, ma l’attività di cronaca esercitata attraverso i mass media. Esse riguardavano solitamente
la richiesta di soggetti che erano stati protagonisti di fatti di cronaca, perlopiù giudiziaria, già pubblicati e
che, a distanza di tempo, venivano riproposti dai mass media, soprattutto dalla televisione. Sulle problematiche relative al diritto all’oblio riferito all’attività di cronaca online e, più in particolare, sulla questione
degli archivi storici online dei giornali, la giurisprudenza di legittimità e quella di merito si sono pronunciate
solo di recente. In realtà, il diritto all’oblio, in relazione all’attività di cronaca online, è stato garantito, negli
ultimi anni, soprattutto dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, la quale — nel cercare
di contemperare l’esigenza di garantire il diritto all’oblio con quella di rendere accessibili le notizie ai fini
storici — ha ritenuto legittima la consultazione dei dati personali online attraverso i siti degli archivi storici
dei giornali, impedendo, al contempo, l’indicizzazione dei motori di ricerca esterni ai siti Internet dove
le pubblicazioni vengono riproposte. Si è invece posta in contrasto con tali consolidati orientamenti del
Garante della privacy, la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III civile, del 5 aprile 2012, n. 5525. Essa
ha ritenuto che, al fine di tutelare l’identità personale, nella sua proiezione sociale, del soggetto cui afferisce la notizia di cronaca, bisogna garantire al medesimo l’aggiornamento e la contestualizzazione della
stessa — da parte del titolare del sito — contenuta in un archivio storico, attraverso «modalità tecniche
non modificative dell’originale». Nella direzione di un ampio riconoscimento del diritto all’oblio si è altresì
mossa la sentenza del tribunale civile di Ortona del 16 gennaio 2013. Il tribunale, infatti, nel contemperare
i diversi diritti — diritto di cronaca, diritto dei cittadini ad essere informati, da un lato, e diritto all’oblio,
dall’altro — ha ritenuto prevalente quest’ultimo. Secondo il giudice, le notizie pubblicate su una testata
giornalistica online, essendo attinenti a fatti accaduti alcuni anni prima, pur riguardando aggiornamenti
degli stessi, non rivestono più il carattere dell’interesse pubblico e, pertanto, non essendo più legittimo il
trattamento dei relativi dati per finalità giornalistiche, devono essere cancellate dall’archivio. In altri termini, il giudice si è spinto fino al punto di stabilire un periodo di tempo oltre il quale una notizia non può più
essere conservata nell’archivio di un giornale. Concludendo, si può osservare come i giudici abbiano avuto
difficoltà a compiere una valutazione circa la persistenza dell’interesse pubblico alla notizia, che permette
di garantire il diritto all’informazione, o il venir meno dello stesso, che legittima invece il riconoscimento
del diritto all’oblio. Difficoltà aggravata anche dalla circostanza che l’ordinamento italiano non disciplina
espressamente il diritto all’oblio. Si auspica che tali difficoltà possano essere superate, in futuro, con l’approvazione della proposta della Commissione europea di riforma della privacy online, la quale prevede il
riconoscimento del diritto all’oblio.
Qualche problematica giuridica sulle comunità online
di Silvia Sassi
 
(86)
1. Gli argomenti
Il tema si articola in due punti. Il primo punto tenta di fornire qualche precisazione sui nomi e sulle cose di
cui si tratta, e quindi che cosa si intende, o si può intendere, per comunità online. Il secondo punto elenca
alcune delle numerose problematiche giuridiche che le comunità online sollevano.
2. Che cosa si intende, o si può intendere, per «comunità online».
Internet, in virtù del nuovo linguaggio attraverso cui si esprime, che è digitale, è anche un mezzo che
connette gli individui in un luogo virtuale intorno a valori e interessi condivisi. Tuttavia, queste connessioni che avvengono tra gli individui nella Rete si trasformano in vere e proprie comunità online soltanto
a condizione che siano frequenti, orientate al perseguimento di uno scopo comune e se da tali interazioni
emerga la percezione da parte dei singoli membri di essere parte di una stessa unità. Se ci si riflette, questi tratti caratterizzanti le comunità online altro non sono che una riproposizione, in chiave moderna, di
quegli elementi che la dottrina costituzionalistica ritiene debbano sussistere necessariamente per configurare un’associazione nella dimensione reale. Se si accetta, dunque, sulla base dei tratti comuni appena
richiamati, questo paragone tra le comunità virtuali (quali ad es. i social network) e le associazioni reali, è
(86)
Ricercatrice dell’Università degli Studi di Milano.
Articolo 11 - Libertà di espressione e d’informazione
31
ragionevolmente ammissibile affermare che le prime possano ricadere nella sfera di protezione costituzionale della libertà di associazione, sancita all’art. 18 della Costituzione italiana. Nonostante ciò, si è anche
dell’opinione che le comunità virtuali non possano essere totalmente ed acriticamente paragonate a quelle
reali, dal momento che, per le caratteristiche che sono proprie ad Internet, le prime si caratterizzano per
essere precipuamente policentriche, ubique e per poter essere costruite con un certo grado di anonimato.
Sicché i limiti opponibili alle comunità online previsti dai cc. 1 e 2 dell’art. 18 della Cost. it., che tutelano la
libertà di associazione nella società reale, sono difficilmente individuabili da parte dell’operatore giuridico.
Da qui il secondo punto della nostra relazione, ossia le problematiche giuridiche che le comunità online
sollevano in ordine ai limiti ad esse opponibili a norma della Costituzione italiana.
3. Limiti opponibili alle comunità online relativamente «ai fini» e all’«organizzazione».
A norma del c. 1 dell’art. 18 Cost. it., l’associazione può perseguire qualsiasi scopo purché non vietato ai
singoli dalla legge penale. Una simile simmetria tra reati individuali e reati associativi si attaglia perfettamente al contesto di Internet in cui i networks si possono costruire in modo sempre più autonomo e
individuale anche per porre in essere una serie di attività criminose. Tra di esse, quelle che concernono la
pubblicazione sul Web di contenuti illegali, in particolare quelle che diffondono materiali all’incitamento
all’odio razziale e xenofobo stanno tornando prepotentemente di attualità. Non solo perché il fenomeno
è dilagante nella società in Rete, ma anche perché esso, calato nella dimensione virtuale, solleva ulteriori
problemi rispetto a quello noto e centrale relativo ai limiti da opporre a tali comportamenti che costituiscono, pur sempre, espressioni del pensiero. Ci si interroga, innanzitutto su quali limiti possano opporsi
al contenuto veicolato da Internet, senza negare la libertà di associazione, dal momento che in materia
coesistono nel mondo differenti disposizioni normative in ragione delle differenti matrici ideologiche ad
esse sottese. Successivamente, anche una volta risolto questo problema, ci si domanda come sia possibile vietare tali comportamenti e assicurare, nel contempo, che Internet rimanga uno spazio aperto e un
forum di discussione pubblica, dal momento che, a monte, persistono ancora forti disaccordi tra gli Stati in
merito alla disciplina della circolazione delle informazioni online e alla configurazione giuridica del diritto di
accesso ad Internet. È evidente che in un simile quadro la lotta contro tali comportamenti non sarà efficace
fintanto che gli sforzi rimarranno circoscritti al territorio di un solo Stato.
Il c. 2 dell’art. 18 vieta la formazione sia di «associazioni segrete» sia di associazioni «che perseguono,
anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare». La ratio di simili disposizioni è quella garantire il «metodo democratico», la trasparenza e la democraticità del processo di
decisione politica, nel senso della continua ricerca del consenso attraverso un libero, leale, aperto e pacifico confronto di idee. Il fatto che questo spirito democratico sia certamente promosso da Internet non
esime dall’affrontare la questione dell’assetto democratico di Internet stesso. Ciò in particolare perché la
struttura reticolare della Rete, dati i suoi tratti ubiqui e potenzialmente anonimi, sembra mostrarsi (anche)
un ambiente congeniale alla formazione di associazioni sia segrete sia organizzate militarmente. Da qui
alcune problematiche giuridiche. L’ubiquità, ad esempio, rende difficile individuare gli utenti di Internet e le
loro responsabilità, con tutte le evidenti problematiche del rispetto dell’art. 27, c. 1 della Costituzione. A ciò
si aggiunge che nella Rete è possibile creare un network con un certo grado di anonimato il cui impiego, a
norma della direttiva 2000/31/CE, non può essere impedito. Ma, alla luce del dettato costituzionale italiano,
non è possibile attribuire all’anonimato la qualifica di diritto, non essendo possibile configurarlo né sulla
base di una interpretazione estensiva della libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 Cost. it.,
come invece accade negli Stati Uniti d’America, né sulla base del diritto alla riservatezza, come previsto
dagli artt. 15 e 2 Cost. it.
Nonostante le richiamate criticità, non si deve però trascurare la natura giano di Internet che, se da un lato
permette un ambiente quanto mai fertile per innestare le radici di attività criminose sempre più pericolose, dall’altro lato può crearne uno altrettanto congeniale per promuovere la tolleranza e il rispetto della
dignità umana, ossia uno spazio «virtuale» per la «pacifica convivenza sociale». Internet e i social media
possono infatti essere strumenti assai utili per prevenire la diffusione di fenomeni criminosi provenienti da
frange estreme di partiti politici, movimenti o gruppi che siano. Ed è sotto questa prospettiva che lo Stato
deve muoversi per affrontare il problema in esame, le cui soluzioni, inevitabilmente, richiedono il coinvolgimento e la collaborazione di più attori, istituzionali e non. Ciò in ragione del fatto che lo spazio nel quale
gli individui navigano per associarsi e per costruire nuove identità sfugge alla piena sovranità dello Stato
non solo perché, per definizione, è transfrontaliero, ma anche perché, da una parte, il suo accesso è quotidianamente permesso da operatori privati del settore delle informazioni tecnologiche e, dall’altra parte, la
circolazione nella Rete è battuta dai singoli individui. Con ciò non si vuole dire che lo Stato debba arretrare
nel suo monopolio legittimo della forza, quanto piuttosto che si rendono necessarie forme di collaborazione
con la società civile nel suo complesso.
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La libertà di comunicare e ricevere informazioni nel
quadro della libera prestazione dei servizi
di Davide Diverio
 
(87)
Nell’ambito della libera circolazione dei servizi, una delle libertà economiche fondamentali del mercato
interno, la libertà di comunicazione rileva da un duplice punto di vista. Da un lato, vi è il diritto del destinatario del servizio di ricevere dati e informazioni relative all’attività economica di cui beneficerà (così come
riguardanti competenze e qualifiche del fornitore della stessa); dall’altro, quello del prestatore del servizio,
in particolare colui che esercita una professione regolamentata, di comunicare informazioni riguardanti la
sua attività e, dunque, di farsi pubblicità. Con specifico riguardo a quest’ultimo profilo, occorre ricordare
come la libertà di fare pubblicità costituisce «corollario essenziale delle libertà fondamentali istituite dal
trattato» (concl. Avv. gen. Jacobs, causa C-412/93, Leclerc-Siplec, punto 22). Tale libertà risulta quindi in
linea di principio pacificamente inclusa, per quanto qui di specifico interesse, nell’ambito di applicazione
degli artt. 56 e ss. TFUE e, quindi, secondo la relativa giurisprudenza della Corte di giustizia, una normativa
nazionale indistintamente applicabile può limitarla soltanto se giustificata da particolari esigenze imperative e in ogni caso solo qualora soddisfi il principio di proporzionalità (ex multis, 17 novembre 2009, causa
C-169/08, presidente del Consiglio dei Ministri). Allo stato attuale, la disciplina della c.d. «comunicazione
commerciale» (così è infatti definita dal legislatore dell’Unione la pubblicità delle attività economiche) è
contenuta in alcuni atti di diritto derivato. Tale disciplina può considerarsi unica, perché non distingue a seconda del particolare strumento di volta in volta impiegato per farsi pubblicità (internet, televisione, radio,
mezzi di comunicazione tradizionali), e quasi interamente riproduttiva della pertinente giurisprudenza della
Corte di giustizia. L’atto legislativo principale è senz’altro costituito dalla direttiva 2006/123/CE relativa ai
servizi nel mercato interno (più nota come «direttiva Bolkestein») e dal suo articolo 24. Tale norma esprime due principi: quello della libertà, a prima vista assoluta, di emanare comunicazioni commerciali (paragrafo 1); quello della possibilità, per lo Stato membro, di limitare le comunicazioni commerciali in vista del
perseguimento di determinati obiettivi, legati alla peculiare natura delle professioni regolamentate (quali
l’indipendenza, la dignità, il segreto professionale), oltreché per soddisfare motivi imperativi di interesse
generale e nel rispetto del principio di proporzionalità. In effetti il legislatore nazionale che intenda limitare
la pubblicità delle comunicazioni commerciali è così chiamato ad una difficile ricerca di equilibrio fra differenti ed in buona sostanza contrapposti valori, tutti apparentemente meritevoli della stessa tutela da parte
dell’ordinamento dell’Unione. Da un lato, la libera prestazione dei servizi e la libertà di comunicazione (oggi
ancor più intensamente tutelata grazie all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e alla sua
riconosciuta efficacia giuridica vincolante); dall’altro lato, la considerazione, e conseguente tutela, di motivi
imperativi di interesse generale e di aspetti essenziali per lo svolgimento delle professioni regolamentate.
A guidare il legislatore degli Stati membri, ma forse in maniera ancor più concreta gli stessi ordini professionali nazionali, in questa complessa operazione di bilanciamento sono alcune, invero non così chiare né
organiche, indicazioni che possono essere tratte dalla giurisprudenza della Corte. In particolare, con riguardo ad alcune sentenze in tema di pubblicità dei medicinali (ad es. 2 aprile 2009, causa C-421/07, Damgaard)
e alla pronuncia resa nel caso Karner (25 marzo 2004, causa C-71/02), pare potersi ricavare che la verifica
sul rispetto dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza nell’attuazione dell’art. 24 della direttiva
debba necessariamente condursi attraverso l’esame degli specifici scopi cui mirano le singole disposizioni
nazionali limitative della pubblicità e, in modo ancor più deciso, delle singole attività economiche della cui
pubblicità si tratti. Alla luce di tali coordinate giurisprudenziali deve dubitarsi del modo in cui l’ordinamento italiano si è adeguato alla disciplina di cui all’art. 24 della direttiva sui servizi. Ne sono un significativo
esempio, fra gli altri, sia i numerosi interventi in tema di liberalizzazione (da ultimi il d.l. 138/2011 e il d.p.r.
137/2012) sia quello, più specifico, costituito dalla recente riforma della professione forense (l. 31-12-2012,
n. 247).
(87)
Docente associato dell’Università degli Studi di Milano.
Articolo 11 - Libertà di espressione e d’informazione
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Internet e la libertà di espressione nella giurisprudenza
della Corte europea dei diritti umani
di Ilaria Viarengo
 
(88)
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha un ruolo essenziale nel bilanciamento tra diritti egualmente meritevoli di tutela che, pur esprimendo valori essenziali di una società democratica, non hanno carattere
assoluto. La ormai copiosa giurisprudenza della Corte europea al riguardo consente oggi quantomeno di
delineare i confini entro i quali dovrebbe ritenersi consentito l’esercizio della libertà di espressione rispetto
a diritti contrapposti, come quello alla riservatezza o alla protezione del copyright. Peraltro si tratta di una
questione destinata a diventare sempre più rilevante a seguito della crescente diffusione di informazioni
via web.
La Corte negli ultimi anni ha iniziato ad affrontare nello specifico casi di questo tipo. In particolare con riguardo alla questione della pubblicazione di informazioni diffamatorie su Internet cfr. le sentenze Ahmet
Yildirm c. Turchia, 18.12. 2012, n. 3111/10; Times Newspapers Limited c. Regno Unito, 10.3.2009, n. 3002/03
e 23676/03; con riguardo alla questione della protezione del diritto autore cfr. Ashby Donald and Others
cfr. France, 10.1.2013, n. 36769/08; caso Pirate Bay, 19.2.2013, n. 40397/12).
La libertà di espressione, garantita quale libertà fondamentale di ogni società democratica è stata intesa
in senso molto ampio da parte della Corte europea che ha incluso nell’ambito della tutela assicurata ogni
forma di espressione (e tanto più internet) con riferimento a tutte le opinioni, indipendentemente dal fatto
che possano essere più o meno condivise, provocatorie o disdicevoli, rilevando a questo riguardo solo
l’interesse sociale che rivestono. La Corte opera, innanzitutto, un distinguo a seconda del ruolo pubblico o
non ricoperto dal soggetto della cui vita privata sia data l’informazione, riconoscendo cioè che le critiche
rivolte ad un politico possano essere più penetranti rispetto a quelle consentite nei confronti di un semplice
cittadino.
La Corte nel valutare se via sia stata o non violazione della libertà di espressione procede poi attraverso un
test ormai consolidato che prevede il controllo:
• del requisito della riserva di legge, se cioè l’ingerenza (condanna per diffamazione, ad es.) sia prevista
dalla legge;
• della sussistenza di uno degli scopi di interesse pubblico indicati dall’art. 10, co.2, della convenzione o
della necessità di garantire il rispetto di diritti altrui;
• della compatibilità della restrizione adottata con i principi di uno Stato democratico, esaminando se vi
sia stato un equo bilanciamento con gli scopi di interesse pubblico perseguiti o con i diritti in conflitto.
La tutela dei minori nei nuovi media
di L. Musselli
(89)
 
Le esigenze di protezione dei minori nei nuovi media, con particolare riguardo ad internet, pongono in
evidenza alcuni aspetti problematici con riferimento, da un lato, alla conformità di ogni intervento regolativo con le libertà informative previste a livello costituzionale (Costituzione dei paesi membri e Carta dei
diritti fondamentali dell’UE) e, dall’altro, con riferimento all’individuazione concreta dei possibili strumenti
regolativi.
In tal senso la problematica della regolazione di internet in funzione di tutela dei minori rappresenta un
aspetto specifico della più ampia questione dell’internet regulation.
Il tradizionale modo di intendere la protezione dei minori nei media, nell’ottica di una «protezione da»
contenuti potenzialmente pregiudizievoli per il loro benessere psico-fisico risulta oggi inadeguato ad inquadrare in modo completo la questione. Appare, infatti, un dato innegabile che il flusso di relazioni on line
in cui il minore è immerso e l’accresciuto livello di interattività favorito dalla particolare configurazione del
(88)
(89)
Docente ordinaria dell’Università degli Studi di Milano.
Docente associato dell’Università degli Studi di Milano.
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web 2.0, oltre a schiudere grandi opportunità in termini relazionali, di conoscenza e in futuro occupazionali,
aumenti considerevolmente, e indipendentemente dalle competenze digitali maturate, la possibilità di
essere vittima, partecipe od attore di attività lesive.
Se si continua ad analizzare la tutela del minore on line cercando di adattarvi i tradizionali strumenti previsti
per la realtà mediale off-line, gli esiti, come in parte succede oggi, non potranno che essere insoddisfacenti, senza condurre ad una tutela piena ed effettiva. D’altro canto il mero ricorso a strumenti di autoregolamentazione, adottati in modo assai diversi tra i paesi dell’Unione europea, non ha condotto ai risultati
attesi, aumentando invece la frammentazione normativa.
Sembra dunque interessante quanto emerge nell’ultimo documento della Commissione del maggio 2012,
denominato «Strategia europea per un’internet migliore per i ragazzi», ove, con riferimento al nuovo
«ecosistema» dei media, si prevede la «combinazione» di diversi strumenti rappresentati dalla normativa,
dall’autodisciplina ed anche dallo strumento finanziario (Safer Internet, Meccanismo per collegare l’Europa
e Eurizon 2020).
Articolo 13 - Libertà delle arti e delle scienze
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CDE
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Biblioteca Centrale «G. Marconi»
Articolo 13
Libertà delle arti e delle scienze
Articolo 13
Le arti e la ricerca scientifica sono libere. La libertà accademica è rispettata.
La ricerca in Europa: cenni storici e sviluppi futuri
a cura di Giorgia Migliorelli
(90)
 
e Maria Adelaide Ranchino
(91)
 
La ricerca scientifica in Europa: cenni storici
Nella sua posizione storica di culla della scienza moderna, ricca di università, di centri di ricerca, di laboratori industriali, di PMI innovative, l’Europa vanta una lunga tradizione di eccellenza nella ricerca e
nell’innovazione. Ciascun paese d’Europa possiede le sue tradizioni scientifiche, i suoi punti di forza e i
suoi aspetti specifici che devono essere valorizzati e messi a fattor comune. L’80% delle attività di ricerca
del settore pubblico, infatti, sono condotte a livello nazionale, generalmente nell’ambito di programmi di
ricerca nazionali o regionali. Per superare questa frammentazione l’Unione europea ha contribuito negli
anni ad incentivare una migliore integrazione ed organizzazione dei settori scientifici e tecnologici, nonché
alla creazione di migliori condizioni quadro generali per la ricerca.
Fin dalla stipula dei trattati istituitivi della Comunità europea CECA (92) (1951) ed Euratom (93) (1957) fu avvertita l’esigenza, da parte degli Stati membri, dell’intervento promozionale delle organizzazioni europee per
lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica in Europa. Il trattato CECA, all’art. 55 infatti, affidava all’Alta
Autorità il compito di incoraggiare le ricerche tecniche ed economiche utili alla produzione e all’incremento
del consumo di carbone e acciaio, stabilendo, altresì, che i frutti delle ricerche fossero messi a disposizione di tutti gli istituti di ricerca interessati della Comunità, organizzando «ogni collegamento tra gli istituti
di ricerca». Si tratta di una prima formulazione della politica delle reti che trasformerà progressivamente
l’organizzazione della ricerca in Europa e che è destinata ad importanti sviluppi (94).
La politica della ricerca, quindi, fin dalle sue origini, è consistita principalmente nell’organizzare una cooperazione a livelli diversi, coordinando le politiche nazionali ed europee, incoraggiando i contatti tra gruppi di
ricerca al fine di accrescere la mobilità degli individui e delle idee e di rafforzare la competitività europea.
Il passo successivo per lo sviluppo delle politiche europee della ricerca si ebbe nel 1957 con il trattato
 
 
 
(90)
(91)
(92)
(93)
(94)
Documentalista del CDE della Biblioteca Centrale «G. Marconi» del CNR, http://bice.cnr.it.
Responsabile del CDE della Biblioteca Centrale «G. Marconi» del CNR.
Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, reperibile nella pagina dedicata ai Trattati della banca dati di
legislazione europea Eur-Lex: http://eur-lex.europa.eu/it/treaties/index.htm#other
Versione consolidata del trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica, GU 2010, C 84 (http://eur-lex.europa.eu/
LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:084:0001:0112:it:PDF).
Philippe Mioche, I cinquant’anni dell’Europa del carbone e dell’acciaio 1952-2002, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle
Comunità europee, 2004, pagg. 99-101.
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
Euratom (95). Inizialmente elaborato per coordinare i programmi di ricerca degli Stati, in vista di promuovere un uso pacifico dell’energia nucleare, definì quelle che sarebbero diventate le due forme principali di
intervento dell’Europa in campo scientifico: la ricerca «diretta», cioè la ricerca affidata ad un Centro comune di ricerca e la ricerca a «spese ripartite» sotto il controllo e con l’aiuto finanziario della Commissione,
attraverso gli organismi di ricerca dei paesi membri (96). Per affrontare le sfide economiche ed energetiche
di quel periodo e poter competere con i Paesi extraeuropei (97), fu istituito, quindi, alla fine degli anni ’50, il
Centro Comune di Ricerca (CCR). Il compito del CCR era fornire consulenze scientifiche indipendenti ed un
sostegno tecnico di elaborazione ed attuazione delle politiche. Durante gli anni ‘60 l’attività del CCR subì un
profondo cambiamento che si può riassumere nel passaggio da programmi diretti allo sviluppo dell’energia
nucleare a progetti di ricerca per la sicurezza nucleare, con un contemporaneo allargamento e potenziamento della ricerca non nucleare.
Negli anni ’70 la Comunità varava i primi grandi programmi a «spese ripartite» in un certo numero di settori che corrispondevano alle priorità del momento: energia, ambiente, materie prime. L’espansione della
ricerca a livello europeo, tuttavia, è proseguita lentamente e fu solo all’inizio degli anni ’80 che venne
varato il primo programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico chiamato Esprit (98) per gli anni 19841994. Le iniziative finanziate con tale programma hanno gettato le basi per la competitività europea degli
anni ’90 attraverso una stretta cooperazione industriale basata sulla ripartizione delle spese per la Ricerca
e lo Sviluppo. È però solo nel 1986 con la stesura dell’Atto unico europeo (AUE) (99) che si garantisce una
copertura normativa esplicita alle politiche per la ricerca (100). L’art. 24 dell’AUE prevede infatti l’inserimento,
nella parte III del trattato CE, di un Titolo VI dedicato interamente alla ricerca e allo sviluppo tecnologico
nel quale si affida alla Comunità il compito di «rafforzare le basi scientifiche e tecnologiche dell’industria
europea e di favorire lo sviluppo della sua competitività internazionale» (art. 130 F), attraverso un insieme
di «azioni» che il Consiglio della Comunità, su proposta della Commissione, doveva indicare in programmi-quadro pluriennali (art. 130 G) (101).
Dal 1984 ben sette programmi quadro si sono succeduti ed hanno affiancato i programmi di ricerca nazionali e regionali per concentrare e coordinare gli sforzi di Università, Enti di ricerca e piccole e grandi imprese
nei settori che possono dare valore aggiunto alla ricerca europea e produrre effetti benefici per la società.
L’obiettivo politico perseguito è stato quello di favorire la cooperazione tra i Paesi europei per sfruttare le
sinergie transnazionali, ad esempio per progetti particolarmente vasti e costosi, oppure per la ricerca di
soluzioni a problemi significativi per l’intera Europa. Ognuno di questi programmi doveva fissare gli obiettivi scientifici e tecnici, stabilendone le rispettive priorità, indicare le grandi linee delle azioni prospettate,
stabilire l’importo ritenuto necessario e le modalità della partecipazione finanziaria della Comunità, l’intero
programma, nonché la ripartizione del predetto importo tra le varie azioni previste. Grazie a questa spinta
che la ricerca ha avuto negli anni ’80, sono stati conseguiti ottimi risultati ed è stato unanimemente riconosciuto che la valorizzazione della ricerca e dello sviluppo tecnologico sono un fattore determinante per
l’integrazione tra i Paesi europei. Con il trattato di Maastricht (1992) risulta superato l’obiettivo economico
originale della Comunità — ossia la realizzazione di un mercato comune — e si afferma la vocazione politica.
Da un punto di vista strettamente formale, questo trattato ha apportato pochi cambiamenti alle disposizioni dell’Atto unico europeo in termini di ricerca e sviluppo tecnologico. In sostanza, tuttavia, all’art. 163
del trattato CE è stato aggiunto l’inciso «di promuovere le azioni di ricerca ritenute necessarie ai sensi di
altri capi del presente trattato». L’attività dell’Unione in questo settore deve essere trasversale e riguardare anche soggetti come: «le imprese, comprese le piccole e le medie imprese, i centri di ricerca e le
università», mirando innanzitutto alla loro cooperazione reciproca (102). Benché le modifiche apportate nel
 
 
 
 
 
 
 
 
(95)
(96)
(97)
(98)
(99)
(100)
(101)
(102)
Il trattato istitutivo dell’Euratom disponeva all’articolo 6 che la Commissione «Per incoraggiare l’esecuzione dei programmi di ricerche che
le vengono comunicati può: a) apportare nel quadro di contratti di ricerca un concorso finanziario, esclusa ogni sovvenzione; b) fornire, a
titolo oneroso o gratuito, per l’esecuzione di detti programmi, le materie grezze o le materie fissili speciali di cui dispone; c) mettere a
disposizione degli Stati membri, delle persone o delle imprese, a titolo oneroso o gratuito, impianti, attrezzature o l’assistenza di esperti,
d) promuovere un finanziamento in comune da parte degli Stati membri, delle persone o delle imprese interessate».
Antonio Ruberti, Michel André, Uno spazio europeo della scienza: riflessioni sulla politica europea della ricerca, Giunti, 1995, pag. 55-59.
Il CCR è dislocato in vari paesi: sede a Ispra (Italia), Mol e successivamente Geel (Belgio), Karlsruhe (Germania), Petten (Olanda) e Siviglia
(Spagna).
Commissione delle Comunità europee, Esprit programma strategico europeo di ricerca e sviluppo sulle tecnologie dell’informazione, 1988
http://bookshop.europa.eu/it/esprit-pbCDNA11518/
Consiglio delle Comunità europee, Atto unico europeo e Atto finale, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità
europee, 1986, http://bookshop.europa.eu/it/atto-unico-europeo-pbCBNF86002/
Roberto Giuffrida, Annalisa Pistilli, Ricerca e sviluppo tecnologico, in: Stelio Mangiameli, L’ordinamento europeo, III: Le politiche dell’Unione,
Milano, Giuffrè, 2008, pag. 971-1005
Cit. Antonio Ruberti, Michel André, Uno spazio europeo della scienza: riflessioni sulla politica europea della ricerca pag. 28-32
Roberto Cippitani, Laura Fulci, I programmi comunitari per la ricerca e l’innovazione. Regole di partecipazione e contratto tipo, Perugia,
Università degli Studi di Perugia, 2007, pag. 9.
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Articolo 13 - Libertà delle arti e delle scienze
corso degli anni 90’ (103) al trattato CE forniscano all’Unione una base giuridica per intraprendere azioni di
sostegno alla cooperazione europea in materia di ricerca e sviluppo, l’attività di ricerca in Europa continua
ad essere svolta soprattutto a livello nazionale. Le ripercussioni negative dovute al fatto che tali attività
risultano frammentate scoraggiano anche il più piccolo investimento a livello globale nella conoscenza.
Nell’intento di porre fine a tale situazione, la Commissione ha proposto una Comunicazione, nel gennaio
2000, per la creazione di uno Spazio europeo della ricerca (SER) (104) il cui principale obiettivo è quello di
contribuire a una migliore integrazione e organizzazione dei settori scientifici e tecnologici europei, nonché
alla creazione di migliori condizioni quadro generali per la ricerca in Europa. «Spazio europeo della ricerca»
significa eliminare le barriere che finora hanno diviso la comunità scientifica europea e mettere in contatto
i ricercatori più brillanti incoraggiandoli a condividere le loro attività per raggiungere obiettivi condivisi. La
Comunicazione è stata approvata nel contesto della «strategia di Lisbona» (105) intesa a stimolare la competitività europea perseguendo l’obiettivo strategico decennale di rendere l’Europa «l’economia basata sulla
conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». Per raggiungere tale obiettivo la
strategia si basa su tre pilastri (economico, sociale e ambientale) ed è attuata dall’Unione in diversi settori
correlati: mercato comune, società dell’informazione, ricerca, istruzione, riforme economiche strutturali e
stabilità valutaria. Nel 2005, a distanza di cinque anni e, quindi, a metà percorso, ci si è accorti che gli obiettivi fissati nel 2000 erano ben lungi dall’essere stati raggiunti e, anzi, le distanze in termini di crescita economica con gli Stati Uniti e le grandi nazioni emergenti dell’Asia sembravano essersi allargate. Preso atto
degli insufficienti risultati ottenuti, gli Stati membri dell’UE hanno deciso di rilanciare la strategia di Lisbona
concentrando gli sforzi verso i due obiettivi principali di crescita economica ed occupazione. Nell’aprile
2007, la Commissione europea ha pertanto pubblicato un libro Verde sulle prospettive del SER (106), dando
avvio ad un intenso dibattito che ha condotto al rilancio del progetto. Tale rilancio è avvenuto nel maggio
2008 con il cosiddetto «Processo di Lubiana» (107) in base al quale tutti gli attori dovranno poter beneficiare
pienamente, entro il 2020, della «quinta libertà», ovvero la libera circolazione dei ricercatori, delle conoscenze e delle tecnologie.
Un ulteriore passo avanti per lo sviluppo della strategia di Lisbona è stato l’istituzione, agli inizi del 2007,
dell’European Research Council (ERC) (108), la prima organizzazione europea creata per sostenere progetti
di ricerca fondamentale nei campi della scienza e della tecnologia, delle scienze sociali e di quelle umanistiche sulla base dell’eccellenza scientifica del ricercatore, nonché della forza innovativa della sua idea, a
prescindere dalla nazionalità, dall’età o dalla disciplina scientifica (109).
Di particolare rilievo, nel corso del 2008, l’istituzione dell’Istituto Europeo per la Tecnologia (IET) (110), un
altro organismo altrettanto importante per sostenere e far convergere i tre elementi che costituiscono
il triangolo della conoscenza (istruzione, ricerca e innovazione) verso un obiettivo unico: contribuire alla
crescita economica e alla competitività in Europa, rafforzando la capacità d’innovazione dell’UE e dei suoi
Stati membri.
Tutti i progressi fatti dall’UE nel campo della ricerca e dell’innovazione in questi anni, sono confluiti poi nel
trattato di Lisbona, in vigore dal 1 dicembre 2009, che ha recepito le tematiche affrontate relativamente
alle nuove prospettive per lo Spazio europeo della ricerca. Nel titolo XIX della versione consolidata del nuovo Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dedicato a «Ricerca e sviluppo tecnologico e spazio» si
 
 
 
 
 
 
 
 
(103)
(104)
(105)
(106)
(107)
(108)
(109)
(110)
Cfr. trattato di Amsterdam e trattato di Nizza reperibili nella pagina dedicata ai Trattati della banca dati di legislazione europea Eur-Lex:
http://eur-lex.europa.eu/it/treaties/index.htm#other
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni, del 18 gennaio 2000, «Verso uno spazio europeo della ricerca» COM(2000) 6 def. (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.
do?uri=COM:2000:0006:FIN:IT:PDF)
La «Strategia di Lisbona» nasce nel marzo del 2000 in seguito alle Conclusioni della presidenza del Consiglio europeo, Lisbona 23 e 24
marzo del 2000 nelle quali al punto 12 è stato individuato l’obiettivo di definire uno spazio europeo della ricerca e dell’innovazione. Il punto
recita: «Tenuto conto dell’apporto significativo della ricerca e dello sviluppo alla crescita economica, all’occupazione e alla coesione sociale,
l’Unione europea deve imperniare i suoi lavori sugli obiettivi definiti nella comunicazione della Commissione “Verso uno spazio europeo
della ricerca”. Occorre integrare e coordinare meglio le attività di ricerca a livello nazionale e dell’Unione per renderle quanto più possibile
efficaci ed innovative e per assicurare che l’Europa possa offrire prospettive allettanti ai suoi migliori ricercatori. Ci si dovrà avvalere
pienamente degli strumenti previsti dal trattato e di tutti gli altri mezzi idonei, tra cui gli accordi volontari, per raggiungere questo obiettivo
con flessibilità, in modo decentrato e senza burocrazia. Nel contempo si compenseranno adeguatamente l’innovazione e le idee scaturite
in questo nuovo contesto economico basato sulla conoscenza, in particolare mediante la tutela dei brevetti».
Commissione delle Comunità europee, libro verde «Nuove prospettive per lo Spazio europeo della ricerca», COM(2007) 161 def. del 4 aprile
2007 (http://ec.europa.eu/research/era/pdf/era_gp_final_it.pdf).
Consiglio competitività del 22-23 novembre 2007 (http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/en/intm/97225.
pdf).
L’European Research Council è stato lanciato ufficialmente in una conferenza inaugurale a Berlino, organizzata dalla presidenza tedesca
dell’UE e organizzato congiuntamente dalla Fondazione di ricerca tedesca DFG e la Commissione europea.
Informazioni sull’attività dell’ERC si possono reperire sul sito web: http://erc.europa.eu/about-erc/history
Regolamento (CE) n. 294/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 marzo 2008 che istituisce l’Istituto europeo di innovazione
e tecnologia (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:347:0174:0184:IT:PDF).
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è previsto, infatti, all’art. 179, c. 1o, (ex articolo 163 TCE) che l’obiettivo che l’Unione si propone è quello «di
rafforzare le sue basi scientifiche e tecnologiche con la realizzazione di uno spazio europeo della ricerca nel
quale i ricercatori, le conoscenze scientifiche e le tecnologie circolino liberamente, di favorire lo sviluppo
della sua competitività, inclusa quella della sua industria, e di promuovere le azioni di ricerca ritenute necessarie ai sensi di altri capi dei trattati», incoraggiando tra l’altro a tal fine «i centri di ricerca e le università
nei loro sforzi di ricerca e di sviluppo tecnologico di alta qualità». Il comma secondo del medesimo articolo
prevede inoltre che: «A tal fine essa incoraggia nell’insieme dell’Unione le imprese, comprese le piccole
e le medie imprese, i centri di ricerca e le università nei loro sforzi di ricerca e di sviluppo tecnologico di
alta qualità; essa sostiene i loro sforzi di cooperazione, mirando soprattutto a permettere ai ricercatori di
cooperare liberamente oltre le frontiere e alle imprese di sfruttare appieno le potenzialità del mercato
interno grazie, in particolare, all’apertura degli appalti pubblici nazionali, alla definizione di norme comuni
ed all’eliminazione degli ostacoli giuridici e fiscali a detta cooperazione».
Nello stesso anno è entrata in vigore, con lo stesso valore giuridico dei trattati, anche la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea che all’articolo 13 riconosce esplicitamente che «Le arti e la ricerca
scientifica sono libere».
La ricerca scientifica in Europa: sviluppi futuri con la strategia «Europa 2020» ed il nuovo
programma «Horizon 2020»
Sin dal varo del Settimo programma quadro (7PQ 2007-2013), il contesto economico è cambiato radicalmente. La recessione innescata dalla crisi finanziaria del 2008 ha portato all’adozione di pacchetti di stimolo per rimettere in moto l’economia.
Nel corso del 2010, con il completamento del ciclo decennale della strategia di Lisbona, le Istituzioni europee e gli Stati membri hanno avviato un dibattito per la definizione di una strategia post 2010, attraverso
una verifica dei risultati e l’individuazione dei limiti registrati dalla politica europea sino ad allora attuata
che ha portato al lancio della strategia «Europa 2020» (111). Nella premessa alla Comunicazione Europa 2020,
il Presidente della Commissione Barroso ha affermato che: «Il 2010 deve segnare un nuovo inizio. Voglio
che l’Europa esca rafforzata dalla crisi economica e finanziaria. Le realtà economiche si muovono più velocemente di quelle politiche, come dimostrano le ripercussioni mondiali della crisi finanziaria. Dobbiamo
accettare il fatto che la maggiore interdipendenza economica richiede anche una risposta più determinata
e coerente a livello politico» ed inoltre aggiunge: «È questo l’obiettivo della strategia Europa 2020: più
posti di lavoro e una vita migliore. Essa dimostra che l’Europa è capace di promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, trovare il modo di creare nuovi posti di lavoro e offrire un orientamento alle
nostre società» (112).
 
 
Per rilanciare il sistema economico, quindi, la strategia Europa 2020 individua tre priorità chiave strettamente connesse che si rafforzano a vicenda:
• crescita intelligente, per lo sviluppo di un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione;
• crescita sostenibile, per la promozione di un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più
verde e più competitiva;
• crescita inclusiva, per un’economia con un alto tasso di occupazione, in grado di favorire la coesione
sociale e territoriale.
Essendo, inoltre, le economie degli stati europei strettamente legate tra loro, è fondamentale che tutti i
Paesi membri si adoperino per programmare efficaci interventi coordinati.
L’UE, inoltre, dovrebbe raggiungere entro il 2020, cinque obiettivi (113) in base ai quali saranno valutati i progressi compiuti. Tra questi obiettivi quello previsto per il settore della ricerca è il raggiungimento del 3%
del PIL investito in ricerca e sviluppo.
 
Per ottenere tali traguardi la Commissione europea propone «sette iniziative faro» (114) la cui realizzazione
richiederà interventi a tutti i livelli di governance: istituzioni europee, Stati membri, autorità locali e regio 
(111)
(112)
(113)
(114)
Comunicazione della Commissione del 3 marzo 2010 «Europa 2020 Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva»,
COM(2010) 2020 (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:2020:FIN:IT:PDF).
Per approfondire i temi relativi alla strategia Europa 2020 consultare il sito:http://ec.europa.eu/europe2020/index_it.htm
Gli altri obiettivi sono: il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro; i traguardi «20/20/20» in materia di
clima/energia devono essere raggiunti; il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve
essere laureato; 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà.
Tre sono le iniziative previste per la crescita intelligente: L’Unione dell’innovazione, Youth on the move, Un’agenda europea del digitale. In
relazione alla crescita sostenibile sono invece previsti due programmi fondamentali: Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse, Una
politica industriale per l’era della globalizzazione. Per quanto riguarda la crescita inclusiva, infine, sono due le iniziative faro previste:
Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro, La Piattaforma europea contro la povertà.
Articolo 13 - Libertà delle arti e delle scienze
39
nali. Per la realizzazione dell’iniziativa faro «l’Unione dell’innovazione», il 30 novembre 2011 la Commissione ha presentato il pacchetto di proposte del futuro programma quadro per la ricerca e l’innovazione
«Horizon 2020» (115) che sarà attivo per il periodo 2014-2020. Il nuovo Programma Quadro riunisce tutti i
finanziamenti dell’Unione europea esistenti per la ricerca e l’innovazione, fra cui il programma quadro di
ricerca, le attività in materia di innovazione del programma quadro per la competitività e l’innovazione
(CIP) e l’Istituto europeo di innovazione e tecnologia (IET) e indirizza le risorse verso tre priorità distinte:
Eccellenza scientifica, Leadership industriale, Sfide per la società, attribuendo alla ricerca e all’innovazione
un ruolo fondamentale per conseguire gli obiettivi di crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
Il programma ha l’obiettivo, inoltre, di completare e sviluppare ulteriormente lo Spazio europeo della ricerca attraverso misure intese ad abbattere le barriere ed a creare un vero mercato unico per la conoscenza,
la ricerca e l’innovazione.
 
Presentazione di J. M. Barroso al Consiglio Europeo 24-25 ottobre 2013 della strategia Europa 2020 - Slide
dedicata allo Spazio Spazio europeo della ricerca
Verso l’accesso aperto e la condivisione dei risultati della ricerca
L’accesso alla conoscenza, all’informazione e ai dati prodotti dai ricercatori è fondamentale per il progresso
della ricerca e più in generale della società.
L’Unione europea, quindi, per stimolare il progresso scientifico e tecnologico si è posta come obiettivo
quello di dare ampia diffusione ai risultati della ricerca, sotto forma sia di pubblicazioni sia di raccolte di
dati. Lo scopo di questa politica è quello di accelerare le scoperte scientifiche, permettere nuove forme di
ricerca, consentire ai vari settori produttivi di avvalersi sistematicamente dei risultati della ricerca e, non
da ultimo, avviare tutte le iniziative necessarie per migliorare l’accesso ai risultati della ricerca scientifica
finanziata con fondi pubblici. Gli Stati membri e la Commissione hanno iniziato a studiare le questioni legate
all’accesso, alla diffusione e alla conservazione dell’informazione scientifica mediante il finanziamento di
progetti e all’avvio di un dibattito pubblico con le parti interessate. Già nell’ambito del Sesto programma
quadro erano stati finanziati progetti in questo settore come Caspar, Driver e Seadatanet (116).
Successivamente sono state avviate una serie di iniziative che hanno preso le mosse dalla comunicazione
del 2007 sull’informazione scientifica nell’era digitale (117) e dalle conclusioni del Consiglio ad essa colle 
 
(115)
(116)
(117)
Il nome «Horizon 2020» è il vincitore della competizione on line lanciata dalla Commissione europea «You Name it» per dare un nome al
futuro programma per la ricerca e l’innovazione.
Il progetto Caspar si incentra sulla gestione del futuro accesso ai dati scientifici e sulla loro conservazione; Driver riguarda il collegamento
degli archivi di informazione scientifica; Seadatanet mira allo sviluppo di un’infrastruttura paneuropea di gestione dei dati marini che
integri gli archivi nazionali di dati in questo ambito.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni
sull’informazione scientifica nell’era digitale: accesso, diffusione e conservazione, del 14 febbraio 2007, COM(2007) 56 def. (http://eur-lex.
europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2007:0056:FIN:IT:PDF).
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gate, (118) nonché dalla linea strategica sviluppata per lo Spazio europeo della ricerca. Questi documenti
rappresentano un primo passo del più ampio processo che mira a studiare il funzionamento del sistema di
pubblicazione del materiale scientifico e il suo impatto sull’eccellenza della ricerca, giungendo in un momento strategico per la ricerca europea ovvero quello dell’avvio del Settimo programma quadro.
In questo processo di transizione dal mondo stampato al mondo digitale, la Commissione ha cercato di
contribuire al dibattito tra le parti interessate e i responsabili politici, incentivando esperimenti con nuovi
modelli in grado di migliorare l’accesso e la diffusione delle informazioni scientifiche e sostenendo il collegamento di iniziative esistenti in questo settore a livello europeo (119). A tal proposito è stato avviato, nel
2008, un Progetto pilota sull’Accesso Aperto (PPOA) (120) alle pubblicazioni prodotte nell’ambito di progetti
finanziati dal Settimo programma quadro e dall’European Research Council. Tale progetto pilota, coprendo
il 20% del bilancio del 7PQ, ha spaziato in vari settori come la sanità, l’energia, l’ambiente, le scienze sociali
e le tecnologie dell’informazione e comunicazione.
I ricercatori, beneficiari delle sovvenzioni, sono tenuti a depositare i propri articoli in repositories istituzionali ad accesso aperto entro sei o, secondo la disciplina, dodici mesi dalla pubblicazione. Per sostenere
il progetto pilota sull’Open Access è stato finanziato il progetto triennale OpenAire (121) con lo scopo di diffondere l’Open Access su scala paneuropea e fornire una infrastruttura organizzativa e tecnologica per l’identificazione, il deposito, l’accesso e il monitoraggio delle pubblicazioni finanziate nell’ambito del 7PQ (122).
In merito a queste tematiche la Commissione sta continuando a lavorare e, nel luglio 2012, ha emanato due
importanti documenti sull’accesso aperto all’informazione scientifica rivolti agli Stati membri: il primo è la
Comunicazione «Verso un accesso migliore alle informazioni scientifiche: aumentare i benefici dell’investimento pubblico nella ricerca» (123) che definisce gli obiettivi di una policy sull’accesso aperto ai contenuti
della ricerca finanziata nel corso del programma quadro «Horizon 2020»; il secondo è la Raccomandazione
«Sull’accesso all’informazione e sulla sua conservazione» (124), che fornisce il contesto di applicazione della
policy stessa. I due documenti ribadiscono che l’accesso aperto è un mezzo fondamentale per migliorare
la circolazione delle conoscenze e dunque l’innovazione in Europa. Pertanto il deposito negli archivi istituzionali sarà obbligatorio per tutte le pubblicazioni scientifiche prodotte grazie ai finanziamenti di Horizon
2020 (125). A tal proposito Máire Geoghegan-Quinn, commissaria europea per la Ricerca, l’innovazione e la
scienza, ha dichiarato: «Dobbiamo garantire ai contribuenti un miglior rapporto costi/benefici. L’accesso
aperto ai documenti e ai dati consentirà ai nostri ricercatori e alle nostre imprese di realizzare più rapidamente progressi importanti, a beneficio della conoscenza e della competitività in Europa. Un accesso
ampio, equo, sostenibile e agevole alle informazioni scientifiche scaturite da attività di ricerca finanziate
con fondi pubblici e la loro conservazione sostenibile ai fini del riuso possono apportare un contributo
sostanziale alla crescita economica dell’Europa e sostenerla nell’affrontare le sfide sociali del XXI secolo».
La Commissione invita, pertanto, gli Stati membri ad adottare un approccio analogo all’interno dei loro
programmi nazionali. Un migliore accesso alle informazioni scientifiche, infatti, presuppone la collaborazione fra Stati membri, enti finanziatori della ricerca, ricercatori, editori scientifici, università con le relative
biblioteche, industrie innovative e società in genere.
Il sistema europeo di informazione scientifica deve essere adattato all’era digitale, affinché possa concretarsi la «quinta libertà» dell’UE: la libera circolazione delle conoscenze.
 
 
 
 
 
 
 
 
(118)
(119)
(120)
(121)
(122)
(123)
(124)
(125)
Conclusioni del Consiglio europeo del 20 maggio 2008, doc. 7652/1/08 (http://register.consilium.europa.eu/doc/
srv?l=IT&t=PDF&gc=true&sc=false&f=ST%207652%202008%20REV%201&r=http%3A%2F%2Fregister.consilium.europa.eu%2Fpd%2Fit
%2F08%2Fst07%2Fst07652-re01.it08.pdf).
Commissione europea, National Open Access and Preservation policies in Europe: Analysis of a questionnaire to the European Research
Area Committee, Luxembourg, Publications office, 2011 (http://ec.europa.eu/research/science-society/document_library/pdf_06/openaccess-report-2011_en.pdf).
Con il termine open access si intende l’accesso libero e senza barriere alla letteratura scientifica per cui gli autori non ricevono compenso
economico. I principi dell’accesso aperto sono fissati nella «Dichiarazione di Berlino» sottoscritta da oltre 70 soggetti, tra enti di ricerca e
atenei italiani (http://openaccess.mpg.de/67682/BerlinDeclaration_it.pdf).
Per ulteriori informazioni sul progetto consultare il sito http://www.openaire.eu/it/home.
È stato sviluppato il portale di OpenAIRE con l’obiettivo di dare visibilità al research input (i progetti finanziati all’interno del Settimo
Programma Quadro) e al research output (le pubblicazioni dei risultati della ricerca finanziati dal progetto), oltre a essere strumento di
valutazione e monitoraggio di entrambi.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni
del 17 luglio 2012 «Verso un accesso migliore alle informazioni scientifiche: aumentare i benefici dell’investimento pubblico nella ricerca»,
COM(2012) 401 final.
Raccomandazione della Commissione del 17.7.2012 sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione, GUCE L 194/39
Antonella De Robbio, Politiche coordinate per un migliore accesso all’informazione scientifica. Due recenti documenti della Commissione
europea, in Biblioteche oggi, novembre 2012, pag. 28-29.
Articolo 13 - Libertà delle arti e delle scienze
41
ANNI
TAPPE PRINCIPALI DELLA POLITICA DELLA RICERCA
1952
1957
1983
1984
Trattato CECA; primi progetti Marzo 1955
Trattato Euratom; costituzione del Centro Comune di Ricerca
Programma Esprit
Primo Programma Quadro (1984-1987)
Atto Unico europeo
• revisione dei trattati e inserimento all’art. 24 del Titolo VI: Ricerca e Sviluppo Tecnologico
Secondo Programma Quadro (1987-1991)
Terzo Programma Quadro (1990-1994)
Trattato dell’ Unione europea (Maastricht);
• ruolo della ricerca nell’Unione europea allargata
Quarto Programma Quadro (1994-1998)
Quinto Programma Quadro (1998-2002)
Segna una svolta importante poiché si è passati dalla ricerca incentrata soprattutto sulla
performance tecnica alla ricerca e all’innovazione rivolte a obiettivi socio-economici.
Spazio Europeo della Ricerca
Sesto Programma Quadro (2002-2006)
Si proponeva di contribuire alla creazione di un vero e proprio spazio europeo della ricerca
(SER), migliorando l’integrazione ed il coordinamento della ricerca in Europa, fino ad allora
una realtà frammentata.
Adozione del Settimo Programma Quadro (2007-2013)
Mira a consolidare lo spazio europeo della ricerca, prevede un aumento del bilancio annuale dell’UE destinato alla ricerca incentivando, in questo modo, gli investimenti nazionali e
privati. Il 7PQ è stato notevolmente semplificato rispetto ai precedenti, al fine di essere più
efficace e accessibile ai ricercatori.
1986
1987
1990
1993
1994
1998
2000
2002
2006
2007
Istituzione dell’European research Council (ERC)
2008
Istituzione dell’Istituto Europeo per la Tecnologia
2009
2010
2013
Trattato di Lisbona (art. 179)
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 13)
Europa2020: Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva
(COM 2010) 2020 def.
Horizon2020 (2013-2020)
42
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Articolo 15 - Libertà professionale e diritto di lavorare
43
CDE
Università degli Studi di Catania
Articolo 15
Libertà professionale e diritto di lavorare
Articolo 15
1. Ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata.
2. Ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi
in qualunque Stato membro.
3. I cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a
condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione.
Il diritto al lavoro fra petizioni di principio
ed emergenza economico-finanziaria
di Nicoletta Parisi
 
(126)
L’ambito di tutela espresso dall’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
L’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si articola in tre diverse proposizioni: la prima ha una prospezione universale, dichiarando il diritto di ciascuna persona di lavorare e di esercitare una
professione liberamente scelta o accettata; la seconda esprime un corollario del processo di integrazione
economica avviato in Europa con il trattato di Parigi del 1951 istitutivo della CECA, collegando il diritto al
lavoro del cittadino dell’Unione al suo diritto alla libera circolazione entro il mercato interno (127); la terza accoglie il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, stabilendo il principio di equiparazione
dei cittadini stranieri regolarmente risiedenti entro il territorio di uno Stato membro al cittadino dell’Unione
in relazione alle condizioni di lavoro.
La disposizione sembra, dunque, per i propri contenuti nulla aggiungere a quanto acquisito a livello internazionale europeo. Infatti la libertà professionale espressa nel paragrafo 1 è affermata già nella Carta sociale
europea del 18 ottobre 1961 (128) e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali del 9 dicembre
1989 (129). Il diritto alla libera circolazione (nelle tre articolazioni: libera circolazione del lavoratore subordinato; libera prestazione dei servizi; libertà di stabilimento) è garantito convenzionalmente fin dal trattato
della Comunità economica europea (130) e da articolata giurisprudenza della Corte di giustizia (131). La tutela
dello straniero regolarmente soggiornante è contemplata nella Carta sociale europea (132) e nel trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (133).
 
 
 
 
 
 
 
(126)
(127)
(128)
(129)
(130)
(131)
(132)
(133)
Docente ordinario e responsabile accademica del CDE dell’Università degli Studi di Catania
V. al riguardo le conclusioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro, 26 gennaio 2006, causa C-119/04, punto 35.
Art. 1, paragrafo 2.
Punto 4.
Si vedano oggi rispettivamente gli artt. 45, 56 e 49 TFUE; adde la Nota del Praesidium (che accompagna la Carta dei diritti fondamentali)
dell’11 ottobre 2000, CONV 49.
Nella vastissima giurisprudenza precedente al trattato di Lisbona si segnalano alcune sentenze soltanto, che rappresentano a giudizio di
chi scrive tappe fondamentali al riguardo: sentenze della Corte di giustizia 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners, punti 24-27 e 32; 3
dicembre 1974, causa 33/74, van Binsbergen, punti 26-27; 4 dicembre 1974, causa 41/74, van Duyn, punti 5-7; 7 luglio 1976, causa 118/75,
Watson e Belmann, punti 11 e 16; 28 aprile 1977, causa 71776, Thieffry; 26 febbraio 1991, causa C-180/89, Commissione CE c. Repubblica
italiana; 7 maggio 1991, causa C-340/89, Vlassopoulou; 7 luglio 1992, causa C-369/90, Micheletti, punti 11-12; 9 marzo 1999, causa C-212/97,
Centros Ltd, punto 27; 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, punti 23-27; 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact.
Art. 19, paragrafo 4.
Art. 153, n. 1, lett. b) e g). V. sentenze CGCE 20 settembre 1990, causa C-192/898, S.Z. Servince; e 10 febbraio 2000, causa C-340/97, Ömer
Nazli.
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Poiché i diritti contemplati nell’art. 15 della Carta hanno un fondamento, prima dell’entrata in vigore del
trattato di Lisbona, nei trattati (e negli strumenti di soft law) comunitari, ora dell’Unione, essi «si esercitano
alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi» (134): così, in via meramente esemplificativa, quando si
tratta nel paragrafo 3 della disposizione in oggetto delle «condizioni di lavoro», esse devono essere intese,
interpretate ed applicate a partire dall’art 156 TFUE.
Se bastasse osservare quanto appena detto, il discorso potrebbe chiudersi con la mera descrizione della
disciplina stabilita in quei testi appena richiamati. Viceversa i contenuti, le implicazioni e l’efficacia della
tutela espressa dall’art. 15 della Carta possono essere compresi compiutamente (così innovando rispetto
all’assetto precedente alla riforma di Lisbona) soltanto se si considera l’intero contesto entro il quale questa disposizione è situata.
Ci si propone dunque di dare conto della complessità delle questioni sottese alla disposizione in oggetto.
 
L’art. 15 della Carta e la sua appartenenza al diritto primario dell’Unione europea
L’art. 6, n. 1, co. 1, TUE stabilisce il valore giuridicamente vincolante della Carta sui diritti fondamentali, assimilandone la portata alle norme di natura convenzionale contenute nei trattati istitutivi e di funzionamento
dell’Unione europea. Come la Corte di giustizia ha immediatamente affermato, le disposizioni della Carta
hanno in tal modo sicuramente conseguito il rango di norme primarie dell’ordinamento giuridico di essa (135).
Sul valore immediatamente precettivo di esse si pronuncia ormai in modo diffuso anche la giurisprudenza interna (136). Essa segnala inoltre la portata fondamentale di taluni dei diritti garantiti dalla Carta — per
esempio il diritto alla dignità e all’integrità della persona (137) —, nonché l’esigenza di «un rapporto integrativo [delle norme nazionali] con le fonti europee sui diritti fondamentali della persona (…) e un confronto
dialogico con le pronunce delle Corti europee di giustizia» (138).
Per riferirsi a un caso che riguarda la norma qui in commento, si consideri quanto dichiara la Corte di Cassazione italiana occupandosi di mobbing: essa afferma che «la Carta di Nizza [ha] lo stesso valore del trattato
(…). I giudici (…) dovranno ispirarsi ai principi di cui all’art. 1 della Carta, che regola il valore della dignità
umana (che include anche la dignità professionale) e all’art. 15 che regola la libertà professionale come
diritto inviolabile sotto il valore categoriale della libertà» (139).
 
 
 
 
 
L’accoglimento del principio personalistico
Le conseguenze di questa scelta normativa sono evidenti.
Al contenuto fine di queste note ci si può limitare a segnalare uno solo dei tanti motivi che l’hanno determinata: la volontà di dotare l’Unione di un catalogo di diritti e libertà fondamentali della persona (indipendentemente dalla sua valenza giuridica) è senz’altro legata a un’esigenza di visibilità politica dell’Unione
nel momento in cui gli Stati membri (con il trattato di Amsterdam) — individuando un nuovo obiettivo
consistente nel dotare l’Unione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia e rafforzando la parte del trattato CE sulla politica sociale — hanno manifestato la volontà di spostare il baricentro dell’attività dell’Organizzazione da logiche esclusivamente mercantili alla condizione della persona in quanto tale (pur senza
arretramenti nella materia economico-sociale).
Questo mutamento di prospettiva richiede un solido ancoramento culturale e normativo a un bill of rights,
che nella tradizione costituzionale europea costituisce la più significativa modalità per dare forma giuridica
a una comunità politica, riflettendone l’identità (ovvero i valori condivisi e la progettualità per un cammino da condividere), oltre che la struttura dei poteri fra gli organi di governo e dei rapporti fra questi e gli
individui e i gruppi di persone raggiunti da atti autoritativi. Per quest’ordine di motivi gli sviluppi che in
materia hanno accompagnato il modificarsi progressivo della Comunità e dell’Unione europea sono percepiti come il primo fondamentale tassello di un processo di costituzionalizzazione delle forme giuridiche
della cooperazione fra gli Stati membri dell’Unione europea all’interno della stessa, che resta pur sempre
cooperazione sul piano del diritto internazionale.
La Carta segnala, dunque, nel suo complesso il conseguimento di un’ulteriore tappa nello sviluppo di quel
processo di integrazione non più soltanto socio-economica, del quale emergono significativi indizi già
dall’art. 2 TUE, oltre che nel costante puntuale richiamo della Corte di giustizia al rispetto dei principi di
democrazia, libertà, Stato di diritto e tutela dei diritti fondamentali della persona.
(134)
(135)
(136)
(137)
(138)
(139)
Art. 52, paragrafo 2, Carta dei diritti fondamentali.
Sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kücükdeveci.
Per tutte cfr. la sentenza della Corte d’appello di Firenze (sez. lav.) 9 giugno 2007, che da tale portata fa discendere la disapplicazione della
disposizione nazionale confliggente con il principio di eguaglianza e il divieto di discriminazione (nel caso sulla base della nazionalità)
dichiarati negli articolo 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali.
Sentenza della Corte di cassazione civile, Sez. Lav., 16.10.2007 n. 21748.
Sentenza della Corte di cassazione (it.) 3 luglio 2008, n. 18203.
Sentenza 2 febbraio 2010, n. 2352.
Articolo 15 - Libertà professionale e diritto di lavorare
45
La conseguente pariordinazione di libertà economiche e diritti sociali
Avere compiuto anche il passo di accordare a tale Carta lo stesso valore vincolante esplicato dalle norme
convenzionali che istituiscono e regolano il funzionamento dell’Unione europea, situandola a livello del
diritto primario dell’ordinamento dell’Unione, determina un’ulteriore conseguenza capace di riflettersi sulle
reciproche relazioni fra diritti appartenenti a categorie diverse.
Il discorso può ora uscire dalla prospettiva generale per situarsi sul terreno dell’art. 15 della Carta e della
sua appartenenza al novero dei cosiddetti diritti sociali.
In epoca precedente all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, prevalente dottrina sosteneva (dolendosene, peraltro) che nell’Unione europea fosse venuto consolidandosi un assetto organizzato attorno a
una gerarchia fra diritti e libertà economiche, da una parte, e diritti sociali, dall’altra. Le motivazioni che
conducevano a quest’assunto erano varie. Si sosteneva che le libertà economiche godessero di «uno
statuto più robusto rispetto a quello frammentario delle politiche sociali nelle quali si annida il diritto del
lavoro» (140). Certamente ciò era vero: la dimensione economica ha rappresentato il «nocciolo duro» (quello
originario) intorno alla quale si è costituito e rafforzato il percorso di integrazione degli Stati europei organizzato entro le Comunità e l’Unione europea; esso è, infatti, costituito dalle norme indirizzate a garantire il
funzionamento del mercato interno, che si fonda sulle libertà di circolazione dei fattori e dei prodotti della
produzione e da condizioni di competitività delle imprese degli Stati membri (141): si tratta di obiettivi che, pur
affiancati dagli altri che sono venuti via via emergendo, non sono stati ridimensionati dalla riforma attuata
con i trattati di revisione dell’Accordo di Maastricht istitutivo dell’Unione (142).
Si è sostenuto, ancora, che la differente “forza” di diritti sociali e libertà economiche si manifesti nella lettera delle disposizioni contenute in materia nella Carta e nei trattati di Unione: mentre si può con sicurezza
affermare che diritti e libertà economiche sono in generale assistite dalla efficacia diretta delle norme
che li dichiarano (143), i diritti sociali fondamentali sono invece espressi nella gran parte dei casi (144) in modo
programmatico (145).
Ancora, si è ricavato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea un ruolo in gran parte negativo ricoperto dai diritti sociali (146). Quest’affermazione è certamente per taluni aspetti fondata, soprattutto
se si guarda alla timida applicazione che della Carta dei diritti fondamentali ha fatto la Corte di giustizia
prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona nella materia dei diritti sociali soprattutto (147) e all’impossibilità per la stessa Corte di utilizzare quella formidabile “stampella” alla tutela dei diritti fondamentali
rappresentata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (148). A riprova di ciò si invoca la giurisprudenza
Viking (149) e Laval (150): le due sentenze sono “lette” dalla gran parte della dottrina come un esempio della
forza prevalente delle libertà economiche (nel caso la libertà di prestazione e circolazione dei servizi nel
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(140)
(141)
(142)
(143)
(144)
(145)
(146)
(147)
(148)
(149)
(150)
 
B. Veneziani, Nel nome di Erasmo da Rotterdam. La faticosa marcia dei diritti sociali fondamentali nell’ordinamento comunitario, in RGL,
2000, pag. 779 e segg., in partic. pag. 819.
M.V. Ballestrero, Europa dei mercati e promozione dei diritti, Working Papers C.S.D.L.E. «Massimo D’Antona» — INT, 55/2007, pag. 9 e segg.,
in nota 21.
Sulla conversione della concorrenza da fine (affermato fin dall’art. 3 CEE) a strumento per il conseguimento del mercato interno (e come
tale non più contenute nelle norme sugli obiettivi dell’Organizzazione ma in disposizioni relative ad alcune politiche economiche e nel
Protocollo n. 27 allegato al TUE e al TFUE) cfr. F. Denozza, La concorrenza come mezzo o come fine, in P. Bilancia, M. D’Amico (a cura di), La
nuova Europa dopo il trattato di Lisbona, Milano, 2009, pag. 165 e segg.
Si pensi anche solo soltanto al principio intorno al quale ruota tutto il mercato interno, quello della libera circolazione: l’art. 45 TFUE (al pari
delle norme che dispongono in relazione ad altri fattori della produzione e ai prodotti) dichiara che «la libera circolazione [del lavoratore
subordinato] è assicurata» nel mercato interno, con ciò non lasciando margini di discrezionalità alle autorità nazionali nell’adempimento
del principio, che non a caso la Corte di giustizia ha sempre interpretato come di efficacia diretta: cfr. sul punto tra gli altri N. Parisi, I. Quadro
generale (nel capitolo II: Il mercato interno e la politica commerciale comune), in U. Draetta, N. Parisi (a cura di), Elementi di diritto
dell’Unione europea, Milano, 2010, pag. 102 con i riferimenti ivi contenuti.
Non si tratta peraltro di una condizione generale delle disposizioni contenute nella Carta di Nizza: l’art. 28 ha per esempio senz’altro effetti
diretti, cosi come l’art. 21 che dichiara il diritto alla non discriminazione. Diverso è il discorso sulle azioni positive indirizzate a riequilibrare
situazioni nei fatti o in diritto discriminatorie (sulle quali cfr. sinteticamente N. Parisi, G. Urso, I principi di eguaglianza e di non discriminazione
nell’ordinamento dell’Unione europea, in Studi in onore di Claudio Zanghì, Torino, 2011).
Così V. Lechevallier, Une clarification de la valeur normative des droits fondamentaux dans le cadre de la sphère professionelle, in L.
Bourgorgue-Larsen (dir.), La France face à la Charte des droits fondamentaux de l’Union européenne, Bruxelles, 2005, pag. 425. Sulla
debolezza intrinseca della Carta di Nizza prima dell’affermazione del suo valore convenzionale cfr. F. Bano, Diritto del lavoro e libera
prestazione di servizi nell’Unione europea, Bologna, 2008, specific. pag. 138.
Scrive R. Greco (in Il modello sociale della Carta di Nizza, in RGL, 2006, pag. 519 e segg.) che i diritti sociali «giocano sulla difensiva rispetto
a dinamiche globali considerate irreversibili e irresistibili» ( pag. 523); cfr. nella stessa lunghezza d’onda anche M. V. Ballestrero, Europa dei
mercati, cit., p.18.
Sul fatto che la Carta sia stata utilizzata dalla Corte di giustizia in modo ondivago, ma prevalentemente in funzione interpretativa e non
come parametro di legalità delle norme europee e delle norme nazionali adottate in sua esecuzione cfr. N. Parisi, I diritti fondamentali
nell’Unione europea fra mutuo riconoscimento in materia penale e principio di legalità, U. Draetta, N. Parisi, D. Rinoldi (a cura di), Spazio di
libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione europea. Principi fondamentali e tutela dei diritti, Napoli, 2007, pag. 129.
Come noto la Convenzione di salvaguardia protegge principalmente, anche se non esclusivamente, libertà e diritti civili e politici, riservando
ai diritti socio-economici il limitato spazio del diritto di proprietà.
Sentenza 11 dicembre 2007, causa C-438/05, Viking.
Sentenza 18 dicembre 2007, causa C-341/05, Laval.
46
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
mercato interno) sui diritti a contenuto sociale (nel caso i diritti di sciopero e di contrattazione collettiva
del lavoratore) (151).
Infine, si fa notare che la tutela dei diritti sociali troverebbe un limite alla propria valorizzazione nel principio di sussidiarietà fatto proprio anche dalla Carta di Nizza (152), la quale peraltro non può essere considerata,
nell’interpretazione delle sue norme, come capace di limitare la protezione accordata da altre norme internazionali o dalle norme costituzionali degli Stati membri (153).
Insomma, il giudizio diffuso è di un’attività di bilanciamento della Corte — si scusi il bisticcio — nel passato
tutta sbilanciata sulla protezione delle libertà economiche: la Corte di giustizia avrebbe ceduto alle lusinghe
del mercato, privilegiando queste a danno dei diritti sociali; ciò avrebbe finito con il tradursi in un insanabile
contrasto fra le prime e la componente sociale che contraddistingue le tradizioni costituzionali degli Stati
membri.
Eppure si può notare come l’affermazione di un’identità europea costruita anche sulla componente sociale
dell’Unione sia stata presente nella giurisprudenza della Corte del Lussemburgo ancor prima dell’entrata
in vigore del trattato di Lisbona (154). Si pensi ad esempio alle due sentenze, l’una nel caso Schmidberger (155),
l’altra nel caso Omega (156): esse hanno senz’altro anteposto l’esigenza del rispetto di diritti fondamentali
all’esercizio di attività economiche, giustificando restrizioni di queste ultime di non piccolo momento. E si
pensi, ancora, come la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia avesse affermato che i diritti sociali,
al pari di certe libertà economiche, possano costituire «motivi imperiosi di interesse generale» (157) e, come
tali, non solo prevalere su altri diritti a contenuto relativo (158), ma addirittura porsi allo stesso livello delle
libertà economiche qualificate in identico modo. Ciò che quella dottrina sembra dunque sostenere è che tali
riferimenti all’identità europea e ai motivi imperiosi di interesse generale sono rimasti una mera petizione
di principio, non traducendosi in concreto in una pari-ordinazione fra libertà del mercato e diritti sociali. Si
tratta, dunque e in via diffusa, di un giudizio sostanzialmente critico sull’attività della Corte di giustizia, che
nell’attività di bilanciamento avrebbe lavorato sulla base di termini asimmetrici.
Il trattato di Lisbona fa propria l’auspicata mutata prospettiva, fin dalla prima prassi della Corte di giustizia
(espressa tanto nelle sentenze che nelle conclusioni dei suoi avvocati generali) immediatamente intervenuta (159). Significativa è, per esempio, l’affermazione dell’Avvocato generale Cruz Villalón, là dove segnala
come, in taluni casi, «le condizioni di lavoro si presentino come motivi imperativi d’interesse generale»:
nulla di nuovo, già la Corte aveva così valutato il lavoro. Ma oggi, nel mutato contesto giuridico, ci si può
permettere di andare oltre l’affermazione di principio: continua infatti l’avvocato generale, scrivendo che
«[l]’entrata in vigore del trattato di Lisbona implica che (…)[le condizioni di lavoro] non devono più essere
interpretate restrittivamente (…) [poiché] non ci troviamo più dinanzi ad una mera deroga ad una libertà,
né, tanto meno, ad una deroga non scritta, ricavata dalla giurisprudenza»; è il «nuovo sistema di diritto
primario [a far] sì che gli Stati membri, in nome della salvaguardia di un determinato livello di protezione
sociale, possano giungere a porre limiti ad una libertà» fondamentale di contenuto economico, qual è
quella della libera circolazione dei servizi nel mercato interno (160). È immediatamente evidente la perfetta
simmetria fra i due termini di confronto utilizzati.
Peraltro, la Corte in un caso diverso — ugualmente incidente in tema di bilanciamento fra le due categorie
di diritti e libertà (161) — sottolinea che il rispetto dovuto ad alcuni diritti fondamentali di contenuto sociale
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(151)
(152)
(153)
(154)
(155)
(156)
(157)
(158)
(159)
(160)
(161)
Ci si limita a richiamare soltanto uno dei commenti pubblicati sulla citata giurisprudenza, orientato nel senso descritto: M.V. Ballestrero, Le
sentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia «bilancia» il diritto di sciopero, in Lav. dir., 2008, pag. 371 e segg.
A. Lo Faro, A. Andronico, Metodo aperto di coordinamento e diritti fondamentali. Strumenti complementari o grammatiche differenti?, in
Giorn. dir. lav. rel. ind., 2005, pag. 513 e segg.
Art. 53 Carta dei diritti fondamentali.
Si pensi soltanto alle sentenze già più volte ricordate Laval e Viking: l’identità sociale dell’Unione è affermata rispettivamente ai punti 90
e segg. e 343 e segg.; le conclusioni degli avvocati generali sono ugualmente significative (cfr. il punto 76 delle conclusioni dell’avv. gen.
Mengozzi e il punto 60 dell’avv. gen. Poiares Maduro); queste ultime enfatizzano con particolare significatività il reciproco condizionamento
di libertà economiche e diritti sociali (punti 59-63).
Sentenza 12 giugno 2003, causa C-112/00, punti 51-95.
Sentenza 14 ottobre 2004, causa C-36/02, punti 28-41.
Sui motivi imperiosi di carattere generale (per i riferimenti alla giurisprudenza che ne ha ricavato l’operatività pur nel silenzio dei trattati e
per l’importante distinzione fra questi e i motivi di ordine pubblico) si rinvia a D. Rinoldi, L’ordine pubblico europeo, Napoli, 2008, ca pag. VI,
paragrafo 33.
Diritti sociali e libertà economiche sono per loro intima natura diritti comprimibile perché a portata relativa. Occorre tuttavia avvertire che
sta emergendo una giurisprudenza europea (sostenuta da dottrina) secondo la quale talune forme di discriminazione darebbero vita a un
diritto assoluto: tali sarebbero le discriminazioni che «attaccano» la dignità della persona, vulnerando un bene assoluto (cfr. M. Barbera,
Introduzione, cit., pag. XXXIII).
Ci si vuole riferire alle sentenze (e alle rispettive conclusioni degli avvocati generali) 12 gennaio 2010, causa C-341/08, Petersen; 19 gennaio
2010, Kücükdeveci, cit.; 5 maggio 2010, causa C-515/08, Santos Palhota e altri; 14 luglio 2010, causa C-27/00, Commissione europea c.
Repubblica federale di Germania.
Par. 53 delle conclusioni in causa C-515/08, cit. (corsivi aggiunti).
Sentenza 15 luglio 2010, causa C-271/08, Commissione europea c. Repubblica federale di Germania, rispettivamente punti 58 e 65 (corsivi
aggiunti).
Articolo 15 - Libertà professionale e diritto di lavorare
47
non può rappresentare in via di principio l’alibi per evadere l’osservanza delle norme sul corretto funzionamento del mercato interno: osservando che «la salvaguardia di (…) elementi di solidarietà non è per sua
natura inconciliabile [con norme comunitarie che garantiscono trasparenza nel funzionamento del mercato
interno, ossia] con l’applicazione di una procedura di aggiudicazione di appalto (…)», la Corte afferma l’inderogabilità di quest’ultima in quanto «destinata a garantire, nell’interesse delle amministrazioni e aziende
(…) e dei loro dipendenti, l’accesso ad un’offerta di servizi allargata a livello dell’Unione». È questa una
prospettiva che, nell’attività di bilanciamento assai simmetrica fra i due termini, privilegia una norma a
contenuto economico, ma di essa ne valorizza la strumentalità agli interessi propri del contesto sociale nel
quale l’attività d’impresa si colloca. Si tratta peraltro di un’affermazione non isolata, sostenuta da autorevole dottrina (162) e da prassi paranormativa delle istituzioni dell’Unione (163).
 
 
I diritti sociali come diritti fondamentali: il principio della indivisibilità dei diritti
L’assetto così determinato segnala un percorso virtuoso che accoglie la complessità della società (nel caso
europea), formata non soltanto di singoli, portatori di libertà e diritti civili, politici ed economici individuali
a fronte di pubblici poteri (164), ma anche di gruppi sociali, ugualmente determinanti ai fini della enucleazione
delle linee di politica normativa da perseguire (165).
Il principio della indivisibilità è immanente nella stessa categoria concettuale del diritto fondamentale (166);
ma — come sopra si è ricordato (167) — è stata sempre negata a livello internazionale la sua concreta utilizzabilità, ascrivendo i diritti economico-sociali alla sfera dei diritti programmatici e affidandone conseguentemente la tutela a meccanismi internazionali di garanzia meno significativi (perché meno incidenti
sulla sovranità statuale, essendo in gran parte riferiti all’ambito della libera determinazione delle autorità
politiche nazionali) rispetto a quelli predisposti per i diritti di libertà, civili e politici.
Viceversa, dalla tecnica redazionale utilizzata nella Carta di Nizza emerge che a suo fondamento è posto
il principio dell’indivisibilità dei diritti, siano essi di libertà, civili, economici, sociali o culturali. Fra tutti essi
la Carta attua una pari-ordinazione intorno al valore centrale — non dichiarato espressamente nemmeno
nello strumento normativo principe per l’Europa: la Convenzione di salvaguardia del 4 novembre 1950 —
rappresentato dalla dignità della persona (168). Ciò si traduce in una maggiore effettività della tutela, potendo
cosi tutti i diritti sostenersi reciprocamente ed entrando in bilanciamento come termini paritari e non gerarchicamente ordinati.
Si prenda, dunque, il caso dell’art. 15 della Carta.
Esso è inserito nel Capo secondo della Carta dedicato alle «Libertà»; richiede di conseguenza una lettura
dei suoi contenuti valorizzata dalle implicazioni di ogni altro diritto in quello stesso Capo espresso, per
esempio della libertà di impresa (art. 16) e del diritto di proprietà (art. 17).
Tuttavia questa collocazione rende anche manifesto che i diritti che attengono ai rapporti di lavoro non si
esauriscono nel Capo quarto della Carta, intitolato alla «Solidarietà», appunto a motivo della collocazione
“fuori sacco” dell’art. 15: ne deriva che altre disposizioni — quali il principio di eguaglianza (art. 20) e di non
discriminazione (art. 21), la promozione delle pari opportunità (art. 23), la tutela, espressa dall’art. 15, della
vita privata e famigliare (art. 7), della libertà di espressione (art. 11) e di associazione (art. 12) — devono
tutti concorrere a determinare i confini della tutela in quanto ricompresi nel medesimo Capo.
Ma proprio questa organizzazione dei diritti — che risponde a criteri ordinatori non classici — da’ conto del
fatto che in verità tutti essi debbono essere letti alla luce di interazioni e condizionamenti reciproci, senza
distinzione alcuna di categoria.
 
 
 
 
 
L’universalità dei diritti sociali
In relazione a un diritto sociale fondamentale espresso dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione è poi
emersa un’ulteriore caratteristica relativa alla tutela da essa espressa.
(162)
(163)
(164)
(165)
(166)
(167)
(168)
V. per tutti D. Gottardi, Diritti sindacali e libertà economiche al Parlamento europeo. I nodi del coordinamento sistematico, in Lav. dir., 2008,
pag. 555 e segg.
V. esemplificativamente la risoluzione PE 10 marzo 2010 sulla strategia UE 2020, in GUUE, n. C 234 E.
Secondo una prospettazione tipicamente liberista, per la quale il diritto soggettivo corrisponde ad una autolimitazione dello Stato: cfr. per
la dottrina italiana S. Romano, La teoria dei diritti pubblici subiettivi, in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato di diritto amministrativo
italiano, Milano (Laterza), 1990, pag. 173 e segg.
In questo senso già G. Gurvitch, La déclaration des droits sociaux, Paris, 1946; più di recente A. Facchi, Breve storia dei diritti umani,
Bologna-Roma, 2007, pag. 120.
A. Facchi, Breve storia, cit., pagg. 125-127.
Supra, paragrafo 2.2.
Art. 1 Carta dei diritti fondamentali.
48
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Pronunciandosi in ordine all’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 34, paragrafo 2, che accorda a «ogni
individuo che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione (…) [il] diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali», certa giurisprudenza italiana lo ha ricostruito sulla base di affermazioni
assai significative. La Corte d’Appello di Firenze (169), per esempio, sostenendo che la Carta rappresenta «il
catalogo più aggiornato e ragionato di quello che configura il “precipitato” storico e valoriale di qualche
secolo di esperienza politica, sociale e giuridica del continente europeo», ne ha affermato l’universalismo
in relazione «a questioni di più alta “temperatura” sociale, di più alta “tensione” etico-politica», quali sono
quelle che attengono alla condizione dello straniero e alle sue condizioni di lavoro.
 
Ora, è evidente come il disposto utilizzato dal giudice di Firenze riproduca i contenuti dell’art. 15 della Carta:
quest’ultima norma — al pari dell’art. 34 — si riferisce (nel paragrafo 1) a «ogni persona», per riconoscere ad essa la titolarità del diritto al lavoro e alla scelta professionale; poi (par. 3) ancora ad ogni persona
(cittadina tanto dell’Unione quanto di Stati terzi) per considerarla titolata a godere di condizioni di lavoro
equivalenti.
Ai soli cittadini dell’Unione (par. 2) è riconosciuto il diritto alla libera circolazione interstatuale per ricercare
un’occupazione, per ivi soggiornare ai fini del suo esercizio, per liberamente prestare un servizio: questa
è dimensione soggettiva strettamente correlata al fatto che il governo dei flussi migratori è rimasto nella
sovranità degli Stati membri, i quali vogliono riservarsi il controllo su ingesso e soggiorno irregolari.
D’altra parte ben ricorda Marshall — che tanto studio ha dedicato alla categoria della cittadinanza dalla
prospettiva del processo di progressiva inclusione sociale (170) — si rileva come i diritti sociali siano stati il
veicolo per accordare diritti alle persone e ai gruppi di persone prive di quel legame forte con la sintesi
territoriale statale determinato dalla cittadinanza, capace di accordare il godimento e l’esercizio di libertà
e diritti civili e politici.
 
I diritti sociali sono stati dunque lo strumento per affermare la vocazione universale dei diritti individuali e
collettivi.
Occorre tuttavia anche osservare che l’universalità dei diritti è, più che un dato conseguito, un obiettivo da
perseguire. La difficoltà nasce dal confronto interculturale sotteso ad esso e dalla complessità di riempire
ciascun diritto di contenuti compatibili con il nocciolo duro delle diverse tradizioni implicate nel confronto.
Si sostiene che tale obiettivo sia conseguibile soltanto «attraverso una continua e reciproca influenza tra
teorie e pratiche, società e istituzioni» (171).
 
Il contesto istituzionale europeo
È stato sottolineato l’elemento simbolico immediatamente evidente nell’aver il trattato di Unione dichiarato il valore di norma primaria della Carta dei diritti fondamentali. Si tratta di un dato simbolico importante,
che tuttavia non deve mettere nell’ombra altri elementi di novità che concorrono a rafforzare l’effettività
del diritto al lavoro e alla scelta libera e consapevole della propria professione.
Sul piano ermeneutico, anzitutto, è importante il diverso impianto normativo relativo ai fini dell’Organizzazione, sia per essere stato anteposto — nell’ambito degli obiettivi assegnati all’Unione — lo spazio di
libertà, sicurezza e giustizia allo spazio economico, sia per le correzioni impresse in quest’ultimo: significativo è al proposito il gioco incrociato degli artt. 9-10 del trattato sul funzionamento dell’Unione con la
cancellazione (nelle disposizioni che segnalano gli obiettivi dell’Unione) della norma che indica la concorrenza come parte di essi, declassandola a mero strumento per il buon funzionamento del mercato interno.
Si tratta di elementi che, se presi singolarmente, potrebbero apparire ben poca cosa, ma sommati fra loro
manifestano invece un significativo cambio di prospettiva.
Altre modifiche istituzionali concorrono a rafforzare, almeno in astratto, l’effettiva tutela del diritto fondamentale: l’estensione (seppure non generalizzata) del procedimento di «codecisione» per l’adozione di
atti normativi; la probabile anche se forse non rapida adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo (172), che pure ben poco si occupa di diritti sociali, ma potrebbe ben essere preziosa qualora
entrasse in vigore il XII Protocollo ad essa annesso, che generalizza per gli Stati contraenti l’osservanza del
principio di non discriminazione.
 
A queste modifiche si affianca un rafforzamento del ruolo della Corte di giustizia, attuato, per quanto qui
interessa, tramite un’ampliata legittimazione attiva delle persone fisiche (nonché giuridiche) circa l’ap(169)
(170)
(171)
(172)
Sentenza 9 giugno 2007, cit.
T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, 1950 (trad. It., Torino, 1976).
Così A. Facchi, Breve storia, cit., pag. 149 citando A. Sen, Elements of a Theory of Human Rights, in Philosophy and Public Affairs, 2004,
pag. 315 e segg.
Art. 6, paragrafo 2, TUE.
Articolo 15 - Libertà professionale e diritto di lavorare
49
prezzamento della legittimità della normativa dell’Unione (173), e una maggior rapidità di decisione su rinvio
pregiudiziale per la sua interpretazione e validità quando la Corte si trovi a dover affrontare situazioni che
si caratterizzano per l’urgenza della loro soluzione (174).
Certo è che il diritto di ogni persona al lavoro e a scegliere la propria professione — come perentoriamente
dichiarato nelle norme europee e come garantito nel suo esercizio dalla giurisprudenza — si scontra con
ostacoli obiettivi, conseguenza della grave crisi economico-finanziaria che gli Stati dell’Unione europea
attraversano ormai da un quinquennio (175).
Il discorso allora si deve necessariamente spostare dal piano del dover essere al piano delle azioni positive:
occorre ripensare il rapporto fra diritto al lavoro e flexicurity; adottare misure che consentano di riparare
le conseguenze sociali della crisi e prevenirne l’aggravamento; accogliere nelle sue implicazioni (a livello
tanto nazionale che europeo) il principio di solidarietà redistribuitiva (176). Il limite delle risorse disponibili non
deve mettere a rischio l’identità costituzione degli Stati membri e dell’Unione.
 
 
 
 
(173)
(174)
(175)
(176)
Art. 263 TFUE.
Il nuovo procedimento di cui all’art. 267, paragrafo 4, TFUE (che riguarda esclusivamente le situazioni di detenzione e dunque non il
mercato interno) salda con le modifiche introdotte nel regolamento di procedura della Corte sulle procedure accelerate e d’urgenza. Al
proposito cfr. A. Tizzano, B. Gencarelli, La procédure préjudicielle d’urgence devant la Cour de Justice de l’Union européenne, in Dir. Un. eur.,
2009, pag. 923 e segg.
V. la risoluzione del Parlamento europeo del 18 aprile 2013.
V. sul punto C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, www.associazionedeicostituzionalisti.it, n. 4/2013, 11 ottobre 2013.
50
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Articolo 16 - Libertà d’impresa
51
CDE
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Articolo 16
Libertà d’impresa
Articolo 16
È riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi
nazionali.
La libertà d’impresa in Europa. Attualità e prospettive:
sintesi del convegno (177)
 
a cura di Thomas Tassani
(178)
 
e di Luigi Iovane e Andrea Tallevi
(179)
 
Nella sua relazione introduttiva, il prof. Thomas Tassani, sottolinea come lo scopo del Convegno sia duplice: «da una parte, verificare se ed in che modo la tutela del mercato, della libera concorrenza e, quindi,
dell’impresa è stata realmente realizzata in Europa e, dall’altra, verificare il grado di realizzazione di altri
valori e diritti, come quelli sociali, che compongono i confini naturali della libertà di impresa». In modo da
poter dare un contenuto concreto al concetto di «cittadinanza europea».
La scelta di approfondire la libertà d’impresa potrebbe sembrare una sfida o una provocazione perché
fondamentalmente la tutela del mercato e della concorrenza sono sempre stati gli obiettivi primari della
comunità e dell’unione (per molto tempo gli unici obiettivi). Potrebbe quindi apparire non necessario una
indagine relativa al grado di riconoscimento di questi diritti fondamentali.
Tuttavia la sfida che il Convegno si pone è quella di capire se gli oltre 60 anni di comunità europea e Unione
europea hanno portato ad aumentare la libertà d’impresa in Europa, se la tutela della libertà d’impresa è
qualitativamente diversa da una mera prospettiva di integrazione negativa che fino ad oggi l’Europa ha
principalmente perseguito. Se, quindi, risultano necessari anche interventi di carattere positivo (oltre ai
divieti di discriminazione, di aiuti di Stato ecc.) per affermare la libertà d’impresa.
D’altra parte se l’Europa oggi riconosce i diritti individuali e sociali (di libertà, solidarietà, uguaglianza ecc.)
ci si deve chiedere come ed in che modo questi possano influire sul valore della libertà d’impresa.
In questo momento storico risulta dunque fondamentale una attività di costruzione o «ricostruzione» dei
valori e dei principi fondanti l’Unione europea. In questa prospettiva, il ruolo delle Università europee e
della ricerca universitaria risulta decisiva.
Nella relazione dedicata al tema della libertà di impresa quale diritto fondamentale dell’Unione europea, il
prof. Antonio Cantaro illustra l’evoluzione dei valori comunitari, dai trattati istitutivi fino alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione (c.d. Carta di Nizza), evidenziando come, nella struttura istituzionale dell’Unione
europea, si assista in realtà ad una «gerarchia di valori: la libertà di impresa è tutelata in via prioritaria
rispetto ai diritti dei lavoratori, soprattutto a quelli collettivi, e solo può essere limitata quando si tratta di
valori che attengono alla persona (privacy, dignità, discriminazione ecc.)».
Ne deriva, inoltre, nonostante le affermazioni della Carta di Nizza, una «derogabilità dei diritti sociali nazio-
(177)
(178)
(179)
Evento del CDE dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, organizzato l’8 maggio 2013 in occasione del Progetto nazionale dei CDE Diritti
fondamentali e cittadinanza europea http://www.cdeita.it/node/57
Professore associato di Diritto tributario, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Studenti del corso di laurea triennale di Economia Aziendale dell’ Università degli Studi di Urbino Carlo Bo.
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nali» dal punto di vista comunitario, che appare senza dubbio criticabile.
La centralità delle libertà economiche è una promessa dell’ordinamento europeo, che alimenta aspettative
che solo in parte possono essere mantenute.
A fronte di libertà economiche ci sono altre libertà spesso contrapposte a questa, configurando quella che
è conosciuta come la «lotta dei diritti».
Il problema centrale della libertà d’impresa è che questa vuole essere raggiunta in un territorio (europeo)
pluriordinamentale, il quale ambisce anche ad essere uno spazio unico.
La qualificazione formale delle libertà economiche, e non solo, è oggi un dato acquisito dal diritto europeo.
Ciascuna libertà ha astrattamente un rango giuridico equiordinato alle altre e quindi deve essere rispettata
in maniera paritaria nonostante questa promessa della dogmatica dei diritti fondamentali è difficile da
rispettare, generando quindi una asimmetria tra le tutele.
La differenziazione delle tutele non può allora che dipendere dalla differenza di tutele applicate da ciascun
ordinamento.
Chiara è la diversa prospettiva con cui la giurisprudenza europea legge e bilancia il conflitto tra libertà
economica di circolazione, di stabilimento e i diritti di autotutela collettiva (diritto di sciopero e di contrattazione collettiva).
Nell’apparente oscillazione della giurisprudenza si sono venute a formare diverse soluzioni di conflitto tra
le libertà economiche e le altre libertà.
Mentre nel conflitto tra libertà d’impresa e diritti della persona a subire sacrificio è quasi sempre la libertà
d’impresa, nel conflitto tra libertà economiche e diritti di tutela collettiva ad essere sacrificato è quello che
dal punto di vista degli Stati membri costituisce il loro nucleo essenziale.
L’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione (Carta di Nizza), fornisce alla libertà d’impresa
la qualità di diritto fondamentale.
La prima difficoltà alla quale va incontro la rappresentazione della libertà d’impresa quale diritto fondamentale discende dalla pluralità di libertà fissate nell’art. 16 della Carta di Nizza.
In riferimento alla libertà di impresa la corte di giustizia ha riconosciuto la libertà di esercitare un’attività
economico o commerciale e la libertà contrattuale e di concorrenza.
Un filone le configura come libertà assolute, un altro filone le configura come tutt’altro che assolute (la
libertà d’impresa andrebbe allora disciplinata tenendo presente il suo impatto sociale).
In un blocco di sentenze, la Corte di Giustizia, nel conflitto tra diritti della persona e della libertà economica,
ha privilegiato indubbiamente i primi.
Quando le libertà economiche fondamentali (es. di stabilimento e prestazione di servizi) entrano in conflitto con i fondamentali diritti di tutela dei lavoratori (di sciopero e di contrattazione), «il pendolo della
bilancia volge a favore delle libertà economiche sacrificando palesemente quello che è il nucleo essenziale
dei diritti di autotutela collettivi della gran parte degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri, ovvero
quel principio di autodeterminazione dell’interesse collettivo che sino ieri ha fatto si che non fosse possibile dubitare sulla legittimità di un’azione sindacale».
La distanza giurisprudenziale tra libertà economiche e libertà collettive dei lavoratori, all’interno della corte
di giustizia è stata giudicata molto forte dagli studiosi, basti ricordare che la nostra Costituzione ha legittimato pienamente sia lo sciopero a fine contratto, che lo sciopero economico-politico, di solidarietà o lo
sciopero politico puro.
La Corte di Giustizia nei casi Viking e Laval è giunta a conclusione che gli scioperi sindacali costituiscono un
ostacolo alla libertà economica di stabilimento solo se le azioni sono proporzionate all’esigenza di garantire
la tutela dei lavoratori.
Se l’esercizio dei diritti di tutela collettiva ostacola l’accesso di un’impresa nel mercato di un altro Stato
membro, il giudice dovrà condurre un’istruttoria sia sul metodo con cui il sindacato sceglie di adottare i suoi
diritti rivendicativi, sia sullo scopo che esso persegue (un test giudiziario di legittimità sulla meritevolezza
dell’azione collettiva).
In entrambi i casi (Viking e Laval) la Corte di Giustizia è stata sfavorevole ai sindacati per aver ostacolato
la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi. Ha riconosciuto i diritti dei sindacati come fondamentali, ma ha anche precisato che l’assenza di competenza dell’ Unione in materia di diritto di sciopero non
comporta alcuna immunità per gli ordinamenti nazionali (gli ordinamenti nazionali non possono regolare
tali diritti a prescindere dei principi che l’ordinamento europeo pone a garanzia delle libertà economiche).
In conclusione, il bilanciamento asimmetrico tra libertà economiche e libertà collettive è a favore delle
Articolo 16 - Libertà d’impresa
53
prime, auspicandosi un bilanciamento più paritario da parte della Corte di Giustizia.
L’avv. Vittorio Di Bucci, nella relazione sul tema delle politiche economiche europee per la libertà di impresa, esamina il sistema dei valori europei portando il punto di vista di Bruxelles, dato il suo ruolo di Consigliere Giuridico Principale della Commissione europea, ricordando come la supremazia della libertà di impresa, a livello comunitario, derivi dalle modalità, storiche e giuridiche, con cui la complessa struttura della
Comunità e dell’Unione poi si è formata. Ad avviso di Di Bucci, peraltro, tale supremazia non è assoluta,
incontrando una serie di significativi limiti, come per esempio nel diritto dell’ambiente e dei consumatori.
In questi ambiti, si può anzi affermare che «le maggiori tutele presenti negli ordinamenti nazionali derivano
proprio dai valori e dalle regole dell’Unione europea, che si sono imposti nei singoli Stati».
Secondo Di Bucci, inoltre, la tutela comunitaria della libertà di impresa è, prima di tutto, tutela della «libertà
concorrenziale del mercato», da cui derivano importanti limiti alla autonomia privata, si pensi alle regole
che vietano «concentrazioni, cartelli e aiuti di Stato», che invece esistono in modo molto marginale nei
singoli Stati. Si pensi all’Italia, che non contiene regole efficaci di tutela della libertà concorrenziale ed in cui
le scelte di liberalizzazione sono ancora insoddisfacenti.
Le origine storiche politiche di stabilimento del mercato interno e le regole di concorrenza, ossia politiche
del nucleo storico dell’Unione Europeo, vengono dalla Germania, dai pensatori della scuola di Friburgo, che
in periodo nazista, facevano parte della falange oppositrice e al tempo stesso volevano opporsi anche al
comunismo sovietico.
Questi hanno lavorato ad un sistema economico e politico che mirava alla costituzione di un ordinamento
regolamentato nel quale fosse poi possibile un esercizio della libertà economica, con tutta una serie di
regole funzionali (per evitare concentrazioni economiche).
Questa linea di pensiero venne poi ripresa nel dopoguerra con la forma dell’economia sociale di mercato, la
quale ebbe una grande importanza in settori come il diritto della concorrenza (una materia con radici deboli
in Europa, mentre era più consolidata negli Stati Uniti).
In questo contesto era la Germania a dettare legge in materia di concorrenza. Il diritto della concorrenza
assume un’importanza notevole nel pensiero che si basa sui principi costitutivi dell’economia (libero accesso al mercato, responsabilità contrattuale, proprietà privata, responsabilità sulle scelte economiche)
e i principi regolatori (redistribuzione della ricchezza, politiche sociali, internalizzazione dei costi interni).
A distanza di molti decenni con il trattato di Lisbona, all’art. 3, si trova la creazione di un’economia sociale
di mercato fortemente competitiva (dalla cultura tedesca la competitività trasmigra nei trattati europei).
Il programma politico dei trattati comunitari riguardava una integrazione funzionale, questo mediante la
creazione di un mercato interno. L’apertura dei mercati e la concorrenza non falsata sono le premesse per
lo svolgimento delle attività economiche e per il programma dell’Unione stessa.
Questo processo ordinamentale discende da obiettivi politici, dai quali a loro volta discendono i diritti soggettivi, tra cui la libertà d’impresa.
La libertà d’impresa prima delle espresse attribuzioni di valore, era già iscritta nelle politiche comunitarie
come risultante di politiche di integrazione dei mercati, di libera circolazione di persone, beni, servizi e
capitali e di un regime di concorrenza libera e non falsata.
Le libertà fondamentali del mercato interno erano strumento di aggregazione economica, ma anche garanzia per imprese e lavoratori (diritti sociali dei lavoratori circolanti), queste libertà ponevano dei limiti
all’azione degli Stati membri, perché comportavano un divieto di discriminazione sulla nazionalità di provenienza a meno di limitate e tassative eccezioni (ordine pubblico e sicurezza pubblica).
Nel corso degli anni la Corte procede ad una interpretazione estensiva sotto due punti di profili: uno con riferimento alla circolazione delle merci (la Corte chiarisce il divieto ad ostacoli anche non discriminatori alla
circolazione di merci, servizi e in riferimento ad un elenco di esigenze imperative riguardanti per esempio
salute sul lavoro, tutela dell’ambiente…ecc) e il secondo riguarda l’espansione orizzontale di regolamentazione ampliata ad organi secondari (una sorta di decentramento). Tutto questo esprime l’integrazione
negativa.
L’integrazione europea (oltre comprendere quella negativa) riguarda anche le legittimi esigenze di regolamentazione delle attività economiche per motivi di politiche pubbliche, questo andava fatto attraverso
una attività di armonizzazione del buon funzionamento del mercato pubblico e interno (regole comuni, che
fissano dei livelli di protezione minimi).
Le regole di armonizzazione comportano regole di apertura, ma anche limiti alla libertà d’impresa per motivi di pubblico interesse, pensiamo alle discipline che riguardano il mercato delle telecomunicazioni oppure
alle regole che disciplinano i mercati dell’energia.
Oltre alle politiche riferite a specifici settori, ci sono politiche orizzontali, pensiamo a politiche riferite all’am-
54
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
biente che pongono notevoli limiti all’attività economica oppure le politiche di protezione dei consumatori.
La creazione del mercato interno comporta sì una affermazione della libertà d’impresa e dell’accesso al
mercato, ma anche una compressione di fronte ad altre esigenze.
L’opera di armonizzazione e soggetta ad un controllo attenuato, in funzione di scelte politiche esercitate
in comune dai legislatori dell’Unione (Consiglio e Parlamento), rimane la garanzia del rispetto delle libertà
fondamentali, ma la realtà è che la Corte di Giustizia esercita un controllo procedimentale su queste scelte
di armonizzazione (verifica che siano prese in considerazione tutte le informazioni necessarie anche le
ipotesi meno accreditate).
Per quanto riguarda le regole di concorrenza, il controllo degli aiuti di Stato è una caratteristica tutta europea che non esiste in nessun’altra parte del mondo; quando la commissione vigila su questo tipo di controllo si interroga sulla legittimità e serietà dell’obiettivo che vuole essere conseguito dallo Stato membro,
sulla necessità e sulla proporzionalità della misura.
Questo tipo di controllo protegge altri soggetti di mercato contro interventi distorsivi determinati da misure
statali.
Con riferimento alle regole di concorrenza applicabili alle imprese, l’argomento è di relativa novità in Europa, queste regole essendo state inizialmente concepite come compimento al mercato interno.
Quando si parla di regole di concorrenza applicabili alle imprese, alla base di tutto c’è la libertà contrattuale,
ma questa richiede limiti pervasivi a tutela del vero obiettivo, ossia la tutela della struttura concorrenziale
del mercato.
Le norme di concorrenza possono giustificare una forte conversione della libertà contrattuale sotto forma
di obbligo di contrarre a certe condizioni, divieto di praticare condizioni che possano determinare abusi di
posizione dominante.
La rete europea della concorrenza ha l’obbligo di imporre le regole sulla concorrenza in ambito comunitario
anche alle autorità nazionali di vigilanza.
In conclusione, si può affermare che le regole e le politiche di integrazione europee rafforzano l’attività
d’impresa in senso strutturale e oggettivo attraverso l’apertura dei mercati e con la regolazione dell’ordinamento per rendere effettivo l’accesso al mercato da parte di imprese che hanno posizioni marginali o
completamente nuove.
Esistono limiti e controlli per motivi di interesse pubblico più o meno intenso a seconda che si tratti da
imposizioni degli Stati membri o dalla normativa comunitaria.
Nella relazione dedicata al tema dei sistemi fiscali nazionali, libertà di impresa e mobilità delle imprese in
Europa, il prof. Adriano Di Pietro esamina il rapporto tra integrazione europea e sistemi fiscali, evidenziando come, nella logica comunitaria, le regole di tassazioni nazionali sono viste quali possibili «ostacoli» al
mercato. La tutela della libertà di impresa in ambito europeo, infatti, richiede che gli ordinamenti nazionali
non alterino tale mercato «unico e libero» con dazi doganali, ma anche con regole fiscali tra loro differenti.
«Tuttavia, la armonizzazione fiscale è stata raggiunta solo nel settore delle imposte indirette (Iva ed accise), mentre in altri settori fondamentali (come nelle imposte sui redditi) si hanno disarmonie tra i singoli
Paesi, che portano a forme di concorrenza non leale tra gli Stati, dannosa per la libertà di impresa».
Inoltre, le regole comunitarie non sono state in grado di combattere efficacemente fenomeni di evasione
ed elusione fiscale internazionale, che si presentano come ulteriori ostacoli alla parità concorrenziale tra
le imprese.
Nella relazione sul tema della libertà di impresa e diritti dei lavoratori in Europa, il prof. Luciano Angelini
affronta il tema della tutela dei diritti dei lavoratori riconoscendo come l’integrazione europea abbia portato ad una tutela effettiva ma incompleta. Da una parte, alcuni aspetti della disciplina del rapporto di lavoro
sono stati attentamente regolati in modo sicuramente positivo (si pensi agli orari, al lavoro notturno ecc.).
Dall’altra, per quanto attiene alla retribuzione ed ai diritti collettivi, l’Unione ha sempre rinunciato alla propria competenza, lasciando le scelte agli Stati nazionali. «Ciò ha portato anche a forme di “concorrenza al
ribasso dei diritti sociali” tra gli Stati, fenomeno in grado di alterare peraltro la libera concorrenza.
Il punto di equilibrio dovrebbe quindi essere raggiunto con un ulteriore sforzo politico e giuridico della
Unione».
Nella relazione sul tema delle liberalizzazioni in Europa tra promesse e realtà, il prof. Mario Pianta ha collocato le scelte di valori compiute dal diritto europeo e dalla Unione all’interno del contesto economico degli
ultimi venti anni, evidenziando come la strada «liberista e del mercato» si sia rivelata non soddisfacente.
Il «liberismo europeo ha infatti condotto al sacrificio della economia reale rispetto a quella finanziaria (le
rendite sono cresciute più della produzione), al sacrificio dei diritti sociali rispetto a quelli dell’impresa, ad
Articolo 16 - Libertà d’impresa
55
un deficit democratico evidente».
In termini di politica economica, vi sono in primo luogo asimmetrie, tra libertà di impresa e contesto sociale,
sulla questione del diritto del lavoro e sulla mancanza dell’armonizzazione fiscale, con grandi situazioni di
squilibrio che l’UE non ha ancora adeguatamente affrontato.
Un ulteriore elemento importante in cui siamo indietro è l’asimmetria sulla questione ambientale; si evidenzia come le politiche di localizzazione delle imprese sono puramente opportunistiche.
L’asimmetria tra economia reale e finanza è la vera ragione della crisi economica, in quanto la presenza di
mercati non regolati prende il sopravvento sul resto; infatti, in Italia, la metà delle attività finanziarie rivolte
all’Europa vengono effettuate sui mercati finanziari ombra dove non c’è nessun tipo di controllo.
Vi è asimmetria tra libertà di impresa e democrazia, non essendoci una rappresentanza politica che garantisca democrazia nel contesto in cui i processi delle imprese vengono effettuati autonomamente.
Secondo i dati, in Italia il 56% degli italiani non hanno più fiducia nell’Europa, in Spagna il 76% ed anche in
Germania la maggioranza dei cittadini non hanno più fiducia nell’UE.
Questo perché in questi 20 anni il dare fiducia alla libertà di impresa ha portato a trasferire il 10% del PIL
dal lavoro all’impresa, in particolare la maggioranza alla finanza creando un problema distributivo.
Il 45% del reddito in Italia è destinato alle rendite finanziarie mentre in Svezia la percentuale scende al
35%.
Nei 5 anni di recessione l’industria italiana stà producendo il 25% in meno, questo significa che il Paese ha
perso ¼ della propria capacità produttiva.
In Italia abbiamo il 18% di disoccupazione. Tra cassa integrati, scoraggiati e disoccupazione giovanile al
37%, l’unico mercato che riesce ad avere risultati crescenti è quello sommerso.
Inoltre non è aumentato il reddito pro capite nonostante la vasta immigrazione, il tasso di aumento del
reddito reale è sotto l’1%, questo fa si che ci si trovi in una situazione in cui le promesse fatte al momento
dell’ingresso nell’UE non sono state mantenute, o meglio, sono state mantenute solo per i paesi del centro
Europa.
Secondo i dati OCSE, non c’è mai stato un livello così alto quanto oggi di disuguaglianza sociale. 9 italiani
su 10 stanno peggio di 10 anni fa.
Il rapporto Cecchini, il quale analizzava gli effetti che avrebbe portato l’ingresso nel mercato unico, diceva
che ci sarebbe stato automaticamente un aumento del’1-2% del PIL, mentre così non è stato.
Se siamo più poveri di prima, se abbiamo perso una parte dell’industria, se i salari sono bassi, se i diritti hanno avuto un processo di ridimensionamento, è perché si pensava che le liberalizzazioni, la libertà
d’impresa e la logica di mercato capace di regolarsi da sé fossero sufficienti a disegnare un sistema per
l’Europa.
In conclusione il Convegno ha evidenziato, come notato dal prof. Luigi Mari, come sia «un falso problema
chiedersi se bisogna avere meno o più Europa. Occorre infatti una Europa diversa, che proceda spedita nel
senso della Unione politica e modifichi la priorità dei propri interventi e dei propri valori».
Per creare una reale Comunità di Diritto, dei «cittadini europei», ed un sistema economico in grado di affrontare la crisi, occorre una Unione europea che curi maggiormente i diritti sociali e delle persone, e non
solo quelli economici; che realizzi una reale armonizzazione fiscale tra gli Stati membri; che abbandoni
politiche liberiste fallimentari per aprire ad interventi di stampo neo keynesiano.
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Articolo 17 - Diritto di proprietà
57
CDE
Università Bocconi
Articolo 17
Diritto di proprietà
Articolo 17
1. Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di
disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa
di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una
giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti limiti
imposti dall’interesse generale.
2. La proprietà intellettuale è protetta.
Il diritto di proprietà intellettuale
a cura della Biblioteca dell’Università Bocconi
 
(180)
Quale diritto della Carta
Per il progetto della rete italiana dei Centri di documentazione europea (CDE) dedicato alla realizzazione di
un e-book sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (di seguito la Carta) il CDE dell’Università
Bocconi ha scelto di occuparsi del diritto di proprietà intellettuale. Questo diritto viene tutelato dalla Carta
nell’ambito del Capo II dedicato alla Libertà: più precisamente all’articolo 17 la Carta sancisce il Diritto di
proprietà e al paragrafo 2 afferma che «La proprietà intellettuale è protetta» (181).
 
Chi siamo e perché lo abbiamo scelto
Durante la prima fase del progetto di rete il nostro CDE si era occupato del diritto più recente dei cittadini
europei nato con il trattato di Lisbona, ossia il diritto di Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). In quella occasione avevamo organizzato un evento (182) per presentare questo nuovo diritto e promuovere l’ICE dedicata
a «Un’educazione europea di qualità elevata per tutti» (183). L’iniziativa dei cittadini europei è un diritto
molto importante perché offre la possibilità di partecipare attivamente al processo legislativo dell’Unione
europea formulando alla Commissione un invito a proporre un atto legislativo su questioni per cui l’Unione
europea abbia la competenza di legiferare. Per fare questo l’iniziativa deve essere sostenuta da un milione
di firme raccolte in almeno 7 degli Stati membri (184).
Per questo e-book abbiamo scelto invece di illustrare un diritto, quello della proprietà intellettuale, per il
quale le biblioteche universitarie, sede di molti CDE, si trovano a svolgere un ruolo di mediazione, in quanto
garantiscono insieme a questo anche altri diritti. I Centri di documentazione europea costituiscono la prima
 
 
 
(180)
(181)
(182)
(183)
(184)
Il testo della scheda è stato scritto da Anna Vaglio, responsabile del Servizio Prestito interbibliotecario della Biblioteca Bocconi, e da Tiziana
Dassi, documentalista responsabile del CDE dell’Università Bocconi (http://lib.unibocconi.it/*ita).
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è accessibile sul sito EUR-Lex a questo link: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/
LexUriServ.do?uri=OJ:C:2007:303:0001:0016:IT:PDF
L’evento si è tenuto in Università Bocconi il 28 maggio 2013. Informazioni sull’iniziativa realizzata nell’ambito del progetto di rete sono
disponibili sul sito della Rete italiana dei CDE a questo link: http://www.cdeita.it/node/58
Per ulteriori informazioni sull’iniziativa in Italia cfr. il sito di Marco Laganà, coordinatore nazionale, Italia-ICE «Una educazione europea di
qualità elevata per tutti», http://europa.marcolagana.eu
Informazioni complete sul diritto di Iniziativa dei cittadini europei sono disponibili sul sito Europa a questo link: http://ec.europa.eu/
citizens-initiative/public/initiatives/ongoing
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rete d’informazione ufficiale dell’Unione europea diffusa in tutti gli Stati membri con la specificità di essere
inseriti prevalentemente nelle Università e in particolare nelle biblioteche, sebbene esistano anche realtà
diverse (185). L’attività dei CDE si è evoluta nel corso degli anni analogamente alla evoluzione che hanno vissuto le biblioteche stesse, riservando un ruolo sempre maggiore alle pubblicazioni su supporti diversi da
quello cartaceo, in un’ottica di estensione e agevolazione dell’accesso ai servizi e di ottimizzazione degli
spazi. Il ruolo principale dei CDE è rimasto comunque legato alla diffusione dell’informazione dell’Unione
europea per un sostegno e un contributo al dibattito sui temi europei che coinvolga anche il grande pubblico esterno alle Università e i cittadini della società civile organizzata.
In questo contesto il CDE dell’Università Bocconi è un servizio della Biblioteca nella quale è inserito e svolge
la sua attività. La Biblioteca Bocconi ha sempre curato con attenzione l’ambito dell’informazione europea,
supportando l’attività di promozione del dibattito sull’Unione europea attraverso la diffusione della documentazione ufficiale a tutti gli studenti e i cittadini, anche provenienti dall’esterno. A questa attività si è
nel tempo aggiunta l’organizzazione di eventi promossi dalla rete nazionale e realizzati in collaborazione e
con il contributo dei docenti, degli studenti e di altri Servizi dell’Università. Soprattutto negli ultimi anni si è
consolidata una cooperazione attiva con gli altri centri e le altre reti d’informazione europea presenti a Milano (186), oltre che con altre istituzioni, e questa sinergia ha contribuito ad ottimizzare gli sforzi organizzativi
e ad amplificare il coinvolgimento di pubblico alle diverse iniziative.
La scelta del diritto di proprietà intellettuale è dovuta alla particolare attenzione rivolta dalla nostra Biblioteca a questo tema nello svolgimento dei suoi servizi e nella progettazione di iniziative.
La Biblioteca informa i propri lettori delle modalità di utilizzo dei testi nel rispetto della proprietà intellettuale e questo avviene con diversi strumenti e modalità:
• I seminari offerti ogni anno agli studenti dell’Università perché apprendano a citare correttamente i
testi utilizzati, evitando qualsiasi comportamento in contraddizione con il diritto degli autori e degli
editori (Diritto d’autore, Copyright) (187).
• La pubblicazione sul suo portale web delle Linee guida (Policy) sul Copyright (188), prodotte nell’ambito
del progetto «Il Copyright per la Didattica in Università», con cui la Biblioteca ha partecipato nel 2009
al «Bando per progetti sulla cultura del diritto d’autore nelle università» promosso dalla CRUI/SIAE/AIE.
• Lo sviluppo di un servizio di testi on line per la preparazione dei corsi (Electronic Course Reserves —
ECR) (189) in cui ogni testo viene pubblicato nel rispetto dei diritti d’autore digitali.
• La collaborazione con i Docenti della Scuola di Giurisprudenza (190) nell’organizzazione di eventi sul tema.
Per questo nella presentazione del diritto di proprietà intellettuale facciamo riferimento anche a casi specifici che la Biblioteca dell’Università Bocconi si è trovata ad affrontare e risolvere.
 
 
 
 
 
 
La nostra lettura — Contesto e definizioni
Il nostro punto di osservazione, la biblioteca universitaria, si può pensare come uno spazio in cui diversi
soggetti giocano una complessa partita, osservando regole condivise.
La biblioteca acquisisce, conserva e rende disponibili testi in differenti formati e con differenti nature (libri,
articoli, banche dati, testi digitali).
La biblioteca ospita poi gli utilizzatori dei testi, i lettori, ciascuno con bisogni informativi, culture, lingue, capacità, luoghi e predilezioni diverse. Per tutti i lettori, qualsiasi siano il luogo e la modalità con cui chiedono
di accedere ai testi, la biblioteca sviluppa i propri servizi.
Infine altri due soggetti sono presenti in biblioteca: gli autori e gli editori, cioè coloro che producono i testi
e coloro che li pubblicano. Nel catalogo on line della biblioteca entrambe queste categorie sono rigorosamente associate ai testi che hanno contribuito a creare, senza ambiguità o inesattezze.
Lo sviluppo della rete e delle forme partecipative di comunicazione e di condivisione delle informazioni ha
mescolato le carte di questa partita. Al centro restano comunque i testi, anche se hanno cambiato formato
(185)
(186)
(187)
(188)
(189)
(190)
Per un elenco completo dei CDE italiani si rinvia al sito della rete nazionale alla seguente pagina web: http://www.cdeita.it/node/19
Per un elenco completo di tutte le reti d’informazione regione per regione cfr. il sito della Rappresentanza in Italia della Commissione
europea a questa pagina web: http://ec.europa.eu/italia/centri_reti/tutte_reti/index_it.htm
Per i seminari agli studenticfr. il portale della Biblioteca Bocconi alla pagina web http://lib.unibocconi.it/screens/boc_Students_
LibraryWorkshops_ita.html
Per la Policy sul Copyright cfr. il portale della Biblioteca Bocconi alla pagina web http://lib.unibocconi.it/screens/boc_Copyright_ita.html
Per la Electronic Course Reserves (ECR) cfr. il portale della Biblioteca Bocconi alla pagina web http://lib.unibocconi.it/screens/course_ita.
html
Scuola
di
Giurisprudenza
dell’Università
Bocconi:
http://www.unibocconi.it/wps/wcm/connect/Bocconi/SitoPubblico_IT/
Albero+di+navigazione/Home/Scuole+e+Programmi/Scuola+di+Giurisprudenza/
Articolo 17 - Diritto di proprietà
59
e accessibilità. Attorno ai testi, però, autori, editori e lettori si sono scambiati più volte le parti (gli autori
possono essere anche editori, i lettori diventano autori).
In ogni caso l’idea di una proprietà intellettuale sembra restare estranea alla nostra esperienza di lettori.
Noi siamo consapevoli della proprietà materiale dei libri: li acquistiamo o accediamo a quelli posseduti
dalle biblioteche. Se abbiamo acquistato un libro, esso diventa nostro, lo possiamo regalare o rivendere.
Se utilizziamo un libro della biblioteca, sappiamo di poterlo consultare per un periodo di tempo limitato e
senza danneggiarlo. La biblioteca infatti tutela i libri che possiede e conserva, misura, confronta il proprio
patrimonio.
Ci può anche succedere di salvare su un nostro dispositivo una copia di un testo trovato in rete: in qualche
modo lo facciamo nostro (lo citiamo nella bibliografia della nostra tesi, lo mostriamo a un amico, gliene
inviamo o stampiamo una copia).
Tuttavia non possediamo completamente i testi che abbiamo acquisito o ottenuto. C’è un confine che siamo tenuti a rispettare, qualsiasi sia il nostro ruolo nella partita: questo confine è costituito dalla proprietà
intellettuale, così come si esprime nelle sue regole.
La proprietà intellettuale — Le regole del gioco
Regola n. 1: c’è un autore per ogni testo
Chi scrive un testo ha diritto a essere riconosciuto come autore, qualsiasi sia la forma e il destinatario del
suo lavoro.
• Una tesi di laurea depositata e discussa presso una Università
• Un post su un blog, un intervento rivolto alla community di un social network
• Un corso pubblicato in modalità MOOC (191)
• Un articolo accessibile da una rivista open access (192)
Come conseguenza, chi utilizza il testo è tenuto a:
• Citare correttamente il nome dell’autore (193)
• Conservare l’integrità del testo
• Riprodurlo e utilizzarlo secondo la normativa sul Diritto d’autore (per evitare comportamenti scorretti
in questo senso alcune Università verificano con appositi software la presenza di brani di altri autori
nelle tesi di laurea presentate (194)
• Non danneggiare gli eventuali diritti economici dell’autore
La proprietà intellettuale che riguarda l’autore è una proprietà stabile. L’autore resta comunque tale, anche
se cederà alcuni dei suoi diritti economici ad altri soggetti (Diritto d’autore).
 
 
 
 
Regola n. 2: c’è un editore per ogni testo
L’editore si trova, in questa partita, tra chi scrive il testo e chi lo legge. Le funzioni e i ruoli che svolge sono
molti e in continuo divenire. L’editore sceglie il testo da pubblicare, interviene sulla forma del contenuto,
lo stampa, lo avvia verso la distribuzione, la promozione, la vendita. L’editore può contribuire in modo significativo a dare visibilità e a certificare il valore artistico o scientifico dei testi. L’editore ha un interesse
economico nei confronti del testo. A volte assume il diritto esclusivo di sfruttamento dell’opera da questo
punto di vista. La proprietà intellettuale che riguarda l’editore è comunque una proprietà temporanea, è
diritto sulla copia (Copyright).
Regola n. 3: il migliore amico del testo è il lettore
In alcuni casi, soprattutto nei documenti presenti in rete, l’identità dell’autore e dell’editore è incerta. In
altri casi l’autore esiste, ma non è rintracciabile. In altri casi ancora i diritti di utilizzazione economica delle
opere sono scaduti oppure non sono dichiarati. A questo punto entra in scena il lettore. Egli può infatti
condurre una ricerca adeguata e corretta per verificare la possibilità di utilizzare i testi senza richiedere
(191)
(192)
(193)
(194)
Cfr. https://www.coursera.org/
Cfr. http://www.doaj.org
Per approfondire questo tema cfr. Venuda, Fabio (2012), La citazione bibliografica nei percorsi di ricerca. Dalla galassia Gutenberg alla
rivoluzione digitale. Milano, Unicopli.
Un esempio di software per il controllo del plagio molto utilizzato nelle università italiane è Turn it in (http://turnitin.com/it/).
60
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autorizzazioni (diligent search). In ogni caso il lettore garantirà un uso corretto del testo, senza alterarlo,
modificarlo o attribuirsene in qualche modo la paternità. Per esempio, l’autore di testi pubblicati in rete può
indicarne le corrette modalità di utilizzo applicando licenze d’uso di tipo Creative Commons (195).
 
Relazione con altri diritti
Nel preambolo della Carta si precisa che «Il godimento di questi diritti (riaffermati dalla Carta ed elencati
nel paragrafo precedente) fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future».
Qualcuno si potrebbe stupire che nell’ambito del diritto di Libertà, affermato dalla Carta insieme agli altri
diritti fondamentali di Dignità, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza e Giustizia, sia tutelato anche il diritto
di proprietà intellettuale.
Effettivamente il diritto di proprietà intellettuale può sembrare di per sé già fin troppo tutelato: per restare
nell’ambito delle biblioteche a tutti gli utenti capita prima o poi di imbattersi nelle limitazioni che derivano
dall’applicazione di questo diritto e che riguardano per esempio il numero di pagine di un libro che è possibile fotocopiare oppure l’utilizzo che possiamo fare di un articolo ricevuto in formato elettronico attraverso
il servizio di prestito interbibliotecario.
In realtà aumentare a dismisura la protezione di un’opera può entrare in conflitto con almeno altri due
diritti affermati nell’ambito dello stesso Capo II dedicato al diritto di Libertà.
Prima di tutto con il diritto di Libertà di espressione e d’informazione, annunciato all’articolo 11, in particolare quando si precisa che «tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare
informazioni o idee».
Articolo 11
Libertà di espressione e d’informazione
1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di
ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità
pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.
In secondo luogo il Diritto all’istruzione annunciato all’articolo 14.
Articolo 14
Diritto all’istruzione
1. Ogni persona ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale e continua.
2. Questo diritto comporta la facoltà di accedere gratuitamente all’istruzione obbligatoria.
3. La libertà di creare istituti di insegnamento nel rispetto dei principi democratici, così come il diritto dei
genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose,
filosofiche e pedagogiche, sono rispettati secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
Anche l’articolo sul diritto di proprietà come l’articolo 11 e l’articolo 14 si rifà alla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In particolare il diritto di proprietà
corrisponde all’articolo 1 del protocollo addizionale alla CEDU, che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica
utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale» (196).Secondo
alcuni commentatori proprio sulla base delle libertà fondamentali di espressione e di informazione si può
riconoscere un diritto di accesso alle opere protette (Favale 2012, pag. 14).
La necessità di bilanciare la tutela del diritto fondamentale di proprietà, e nello specifico dei diritti di proprietà intellettuale, con quella di altri diritti fondamentali delle persone su cui si ripercuotono le misure
adottate per proteggere i titolari di diritti d’autore è emersa anche da una sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione europea del 2012 (197) (Scorza 2012).Sulla base di questo principio i giudici della Corte, contro il
parere del giudice nazionale belga che aveva accolto la richiesta della SABAM (equivalente belga della
SIAE) di ordinare al gestore di una delle più grandi piattaforme di social network, la Netlog, che impedisse
 
 
(195)
(196)
(197)
http://creativecommons.org/
Cfr. la spiegazione della Carta pubblicata nella Gazzetta ufficiale C 303 del 2007 al punto 2 (http://eur-lex.europa.eu/JOHtml.
do?uri=OJ:C:2007:303:SOM:IT:HTML).
Sentenza Promusicae del 29 gennaio 2008, punti 62-68, in C-275/06, Racc. pag. I-271.
Articolo 17 - Diritto di proprietà
61
ai propri utenti di pubblicare sulle proprie pagine video e musica senza l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore (di quelle opere), hanno stabilito che nemmeno per tutelare il diritto di proprietà intellettuale di
alcuni cittadini (gli autori) si può impedire ad altri cittadini di esercitare i propri diritti: libertà di ricevere o di
comunicare informazioni (degli utenti dei social network), diritto di tutela dei dati personali (di chi pubblica
video e musica sul proprio profilo), di libertà d’impresa (del fornitore di servizi di hosting) (198).
Una eccessiva protezione dell’opera può andare a scapito dell’autore perché può comportare una scarsa
circolazione dell’opera stessa con la conseguenza che finisca per essere poco conosciuta. Per questo lo
stesso autore può ricorrere a una limitazione della circolazione del testo pur di permetterne la distribuzione
nel rispetto degli interessi economici dell’editore: è il caso per esempio delle ricerche finanziate nell’ambito dell’ultimo Programma di ricerca Quadro dell’Unione europea per le quali era previsto l’obbligo di essere
pubblicate sul sito OpenAIRE: talvolta l’editore ha posto il vincolo di differenziare la data in cui il libro è
pubblicato sul sito e la data in cui il testo è accessibile liberamente (dopo un anno o anche 18 mesi).
In alcuni casi la limitazione di accesso derivata dall’applicazione del diritto di proprietà intellettuale può
prevedere delle deroghe per un utilizzo del testo da parte di tutti i cittadini. Un esempio è la disponibilità di
formati del testo necessari a persone con disabilità visive: sebbene il formato ePub sia normalmente leggibile
da specifici software di sintesi vocale e da e-tablet, in realtà non tutti i dispositivi sono in grado di leggerlo,
per esempio i pc. Nella nostra Biblioteca abbiamo verificato che alcuni editori prevedono la possibilità di
richiedere il file di libri accademici, come nel caso dell’editore Pearson. Altre volte è stato necessario contattare direttamente l’editore per inoltrare la richiesta del file adeguato, come per esempio nel caso dell’editore
Giappichelli. In Italia infatti il progetto LIA — Libri Italiani Accessibili, nato dalla collaborazione tra editori per
garantire l’accesso ai testi a persone con disabilità visive, non rende disponibili per il momento i manuali
accademici richiesti invece dagli utenti della nostra Biblioteca.
 
Un esempio — La Gazzetta ufficiale
Se chi scrive un testo ha diritto a essere riconosciuto come autore, ci sono casi in cui è necessario essere certi che il testo on line corrisponda esattamente a quello che l’autore ha scritto. Ne è un esempio la
Gazzetta ufficiale dell’Unione europea che è la raccolta ufficiale della legislazione dell’UE (serie L) e degli
altri documenti ufficiali delle istituzioni, degli organi e delle agenzie dell’UE (serie C e relativi supplementi).
Dal 1o luglio 2013 solo l’edizioneelettronica della Gazzetta ufficiale (e-GU) (199) è autentica e produce effetti
giuridici, non più la versione su carta (200). Questo è stato stabilito dal regolamento n. 216 del 2013 che dice
anche che «Al fine di assicurare l’autenticità, l’integrità e l’inalterabilità dell’edizione elettronica della Gazzetta ufficiale, una firma elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato e creata mediante un
dispositivo per la creazione di una firma sicura conformemente a tale direttiva, offre sufficienti garanzie
al pubblico» (201).
Una firma elettronica certifica quindi che il testo disponibile on line è quello autentico scritto dalle istituzioni, che è integro e che non è stato alterato con interventi successivi.
 
 
 
Conclusioni
La Carta afferma per tutti i cittadini europei diritti molto importanti riferiti all’ambito dell’informazione e
della cultura. Le biblioteche con la loro professionalità e i loro servizi garantiscono che vengano rispettati
sia i diritti degli utenti che all’informazione vogliono accedere che quelli degli autori di testi di varie forme
e nature (libri, articoli, banche dati, testi digitali/elettronici) e degli altri soggetti coinvolti. Le biblioteche
operano per garantire l’accesso a testi autentici nel rispetto della legalità e nelle Università in particolare
si adoperano per supportare la ricerca scientifica procurando l’accesso ai documenti e promuovendo la
corretta citazione dei testi utilizzati. L’impegno di mediazione assunto dalle biblioteche può tradursi in
proposte e sperimentazioni, nella prospettiva europea e non solo nazionale di dare voce ai nuovi lettori e
ai loro diritti superando le contraddizioni che di volta in volta emergeranno.
BIBLIOGRAFIA
Ultima consultazione dei link segnalati: 16 gennaio 2014
(198)
(199)
(200)
(201)
Sentenza della Corte di Giustizia del 16 febbraio 2012, Causa C-360/10, SABAM vs. Netlog, punto 51.
La nuova edizione elettronica della Gazzetta ufficiale (e-GU) è accessibile on line sul nuovo portale EUR-Lex: (http://new.eur-lex.europa.
eu/homepage.html)
Per un approfondimento consultare il blog professionale di Laura Testoni, documentalista del CDE dell’Università degli studi di Genova:
http://refkit.wordpree segg.com/2013/08/01/1-luglio-2013/
Regolamento (UE) n. 216/2013 del Consiglio, del 7 marzo 2013, accessibile su EUR-Lex a questo link: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/
LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:069:0001:01:IT:HTML
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
Favale, Marcella (2012) «The right of access in digital copyright: right of the owner or right of the user?». The journal of world intellectual property, 15(1), pagg. 1-25
Helfer, Laurence R. e Austin, Graeme W. (2011) Human rights and intellectual property. Mapping the global interface. Cambridge,
Cambridge University Press
Scorza, Guido (2012) «Diritto d’autore online: vietato filtrare». Leggi Oggi.it, 16 febbraio
<http://www.leggioggi.it/2012/02/16/diritto-d%E2%80%99autore-online-vietato-filtrare>
Venuda, Fabio (2012) La citazione bibliografica nei percorsi di ricerca. Dalla galassia Gutenberg alla rivoluzione digitale. Milano, Unicopli
Vezzoso, Simonetta (2009) E-learning e sistema delle eccezioni al diritto d’autore. Trento, Università degli studi di Trento
DOCUMENTI
Ultima consultazione dei link segnalati: 16 gennaio 2014
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 303 del 14 dicembre 2007, pagg.1-16
<http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2007:303:0001:0016:IT:PDF>
Regolamento (UE) n. 216/2013 del Consiglio, del 7 marzo 2013, relativo alla pubblicazione elettronica della Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 69 del 13 marzo 2013, pagg. 1–3
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 16 febbraio 2012, Causa C-360/10, SABAM vs. Netlog. Raccolta della Giurisprudenza 2012 (non ancora pubblicata)
<http://curia.europa.eu/juris/celex.jsf?celex=62010CJ0360&lang1=it&type=NOT&ancre=>
Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 303 del 14 dicembre 2007, pagg. 17-35
<http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2007:303:0017:0035:IT:PDF>
Articolo 18 - Diritto di asilo
63
CDE
Università degli Studi di Trieste
Articolo 18
Diritto di asilo
Articolo 18
Il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28
luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato
sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (in appresso denominati «i
trattati»).
Diritto di asilo e politiche di controllo dei flussi migratori
irregolari nell’ordinamento dell’Unione europea
di Linda Maria Ravo
(202)
 
Introduzione
In un contesto globale in cui la rapida evoluzione degli equilibri politici, economici e sociali confonde e altera costantemente i contorni dei fenomeni migratori, l’Unione europea resta una destinazione prioritaria
per i cittadini dei paesi terzi. I 20,7 milioni di cittadini di paesi terzi che vivono sul territorio dell’Unione
corrispondono al 4,1% circa della popolazione totale di tutti gli Stati membri – una percentuale superiore
rispetto a quella dei cittadini dell’Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non possiedono la cittadinanza (203).
Com’è noto, il flusso migratorio che origina dai paesi terzi include, oltre ai migranti economici, che si
spostano in cerca di lavoro, persone in fuga da guerre, violenze o persecuzioni, per i quali la migrazione
rappresenta l’unica alternativa possibile. Anche in ragione degli avvenimenti che hanno recentemente
sconvolto diversi paesi dell’area mediorientale, il numero delle domande di asilo presentate ogni anno negli Stati membri dell’Unione da cittadini di paesi terzi è in costante aumento dal 2006, ed ha raggiunto nel
2012 un totale superiore a 335.000 (204): un quadro che sollecita l’impegno dell’Unione e dei suoi Stati membri
a garantire un’adeguata protezione a coloro che ne hanno bisogno, come richiesto dal diritto nazionale,
europeo ed internazionale.
A fronte di tale impegno vi è l’interesse ed onere dell’Unione e degli Stati membri ad un controllo ed una
gestione razionale dei flussi migratori, che include anche l’obiettivo della lotta all’immigrazione irregolare,
la quale, come ha osservato recentemente la Commissione europea (205), resta di fatto una componente
fondamentale dell’immigrazione nell’Unione.
Punto di partenza del presente contributo è proprio l’incidenza, sull’intensità e la fruibilità del diritto di
asilo, delle politiche di controllo dei flussi migratori attuate dall’Unione e dagli Stati membri, con particolare
riguardo alle misure di contrasto e contenimento dell’immigrazione irregolare. Tali misure possono infatti
 
 
 
(202)
(203)
(204)
(205)
Dottore di ricerca in Diritto dell’Unione europea presso l’Università degli Studi di Trieste.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, del 17 giugno 2013 — Quarta relazione annuale sull’immigrazione
e l’asilo (2012), pag. 3.
Dati Eurostat, 4 giugno 2013.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, del 17 giugno 2013 — Quarta relazione annuale sull’immigrazione
e l’asilo (2012), pag. 4.
64
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avere l’effetto di limitare indistintamente l’afflusso dei migranti, senza che i differenti status connessi ai
motivi della migrazione vengano presi in considerazione; tanto più che i richiedenti asilo sono cittadini di
paesi terzi spesso privi dei requisiti per ottenere un visto ordinario, che non di rado sono costretti dalle
circostanze a tentare di attraversare le frontiere esterne dell’Unione illegalmente.
Il problematico bilanciamento tra l’interesse dell’Unione e degli Stati membri al controllo dei flussi migratori, specie irregolari, e l’esigenza di prevedere adeguate garanzie per coloro che sono legittimamente
indotti dalle circostanze a cercare accesso o protezione nel territorio degli Stati membri, che ne risulta,
offre l’occasione per evidenziare alcuni aspetti essenziali circa la rilevanza e l’intensità del diritto di asilo
nell’ordinamento dell’Unione.
Il diritto di asilo come diritto fondamentale dell’individuo nell’ordinamento dell’Unione
Il diritto di asilo è espressamente contemplato quale diritto fondamentale dell’individuo all’articolo 18 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta» o «Carta dei diritti fondamentali») (206). Esso è
garantito da tale disposizione «nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio
1951 e dal protocollo del 3 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato sull’Unione
europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea».
Le fonti cui l’articolo 18 della Carta rinvia concorrono a determinare la portata del diritto da essa tutelato.
Si tratta, da un lato, di fonti “esterne” all’ordinamento dell’Unione, derivanti dal diritto internazionale, ed
in specie le disposizioni della convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, ed il protocollo ad
essa allegato («la convenzione di Ginevra») (207). Conclusa all’indomani della redazione della Dichiarazione
universale dei diritti umani (208), la quale dispone all’articolo 14 che «ogni individuo ha il diritto di cercare e di
godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni» (209), la convenzione di Ginevra ha tracciato per la prima volta
i contorni della definizione di rifugiato (210), stabilendo altresì un regime convenzionale per la protezione
legale, l’assistenza, i diritti e gli obblighi del rifugiato negli Stati aderenti (211).
L’altro ordine di fonti cui fa riferimento l’articolo 18 della Carta è invece di natura “interna”: il rinvio è,
infatti, all’insieme delle disposizioni rilevanti contenute nei trattati che sono alla base dell’ordinamento
dell’Unione, ossia il trattato sull’Unione europea («TUE») ed il trattato sul funzionamento dell’Unione europea («TFUE»), nonché nei protocolli ad essi allegati (212). Come si legge nelle spiegazioni relative all’articolo
 
 
 
 
 
 
 
(206)
(207)
(208)
(209)
(210)
(211)
(212)
La Carta, proclamata solennemente a Nizza il 7 dicembre 2000 dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione, ed in seguito
modificata e proclamata una seconda volta il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, possiede, sin dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona,
valore giuridico pari a quello dei trattati (articolo 6(1) del trattato sull’Unione europea). Il rispetto delle disposizioni della Carta, che
costituiscono espressione di uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali ivi garantiti, costituisce un obbligo di carattere vincolante
sia per le istituzioni dell’Unione che per gli Stati membri secondo le rispettive competenze e nel campo di applicazione del diritto dell’Unione
(cfr. articolo 51 della Carta); entro tali limiti, esse possono essere direttamente invocate quale parametro di legittimità sia nell’ambito del
controllo della legalità degli atti delle istituzioni, che con riferimento agli atti o alle misure adottati dalle autorità nazionali. Per
approfondimenti cfr., tra gli altri, Rossi L.S. (a cura di), La protezione dei diritti fondamentali. Carta di diritti UE e standard internazionali,
Napoli, 2011, pag. 19 e Parisi N., Funzione e ruolo della Carta dei diritti fondamentali nel sistema delle fonti alla luce del trattato di Lisbona,
in Dir. Un. eur., 2009, n. 3, pag. 653.
Convenzione relativa allo status dei rifugiati, conclusa a Ginevra il 28 luglio 1951. La convenzione, nata per affrontare il problema dei
rifugiati vittime degli esodi forzati determinati dagli avvenimenti storici della seconda guerra mondiale, è stata integrata dal Protocollo
addizionale relativo allo status dei rifugiati, adottato a New York il 31 gennaio 1967, che ne ha esteso il campo di applicazione, abolendo la
disposizione che limitava temporalmente il riconoscimento dello status di rifugiato ad eventi anteriori il 1º gennaio 1951. Complessivamente,
sono 147 gli Stati che hanno aderito ad uno o ambedue gli strumenti normativi.
Approvata e proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi, la Dichiarazione fa parte dei documenti
di base delle Nazioni Unite insieme al suo stesso Statuto. I diritti e le libertà in essa riconosciuti sono ormai considerati dalla gran parte
delle nazioni civili alla stregua di principi inalienabili del diritto internazionale generale ed hanno contribuito in maniera decisiva
all’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo, ispirando numerosi trattati internazionali. Per approfondimenti, cfr., tra gli altri,
Conforti B., La Carta delle Nazioni Unite, Fiesole, 1993, Cassese A., I diritti umani nel mondo contemporaneo, Bari, 1994.
Per approfondimenti circa la qualificazione del diritto di asilo come diritto fondamentale dell’individuo cfr., tra gli altri, Garcia-Mora M.R.,
International Law and Asylum as a Human Right, Washington, 1956.
«Chiunque, […] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore,
non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure [...] essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali
avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi» (articolo 1A(2) della convenzione di Ginevra).
Per approfondimenti, cfr., ex multis, Koziebrodski L. B., Le droit d’asile, Leiden, 1962; Sinha S.P., Asylum and International Law, The Hague,
1971; Goodwin-Gill G.S., The Refugee in International Law, Oxford, 1996; Whittaker D.J., Asylum seekers and refugees in the contemporary
world, London, 2006; Steinbock D.J., The refugee definition as Law, in Nicholson F., Twomey pag. (a cura di), Refugee Rights and Realities
Evolving International Concepts and Regimes, Cambridge, 1999, pag. 13; Hathaway J., The Rights of Refugees under International Law,
Cambridge, 2005; Morrone F., L’asilo nel diritto internazionale, in Bilotta B., Cappelletti F.A. (a cura di), Il diritto d’asilo, Padova, 2006,
pag. 31; Pedrazzi M., Il diritto d’asilo nel diritto internazionale agli albori del terzo millennio, in Zagato L. (a cura di), Verso una disciplina
comune europea del diritto d’asilo, 2006, Padova, pag. 19; Benvenuti P., La convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, in Pineschi L.
(a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, 2006, pag. 153; Goodwin-Gill G., Mcadam J., The Refugee in
International Law, Oxford, 2007.
Il riferimento va, in particolare, al Protocollo (n. 24) sull’asilo, nonché ai protocolli relativi al Regno Unito e all’Irlanda (Protocollo n. 21 sulla
posizione del Regno Unito e dell’Iralnda rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia) ed alla Danimarca (Protocollo n. 22 sulla
posizione della Danimarca).
Articolo 18 - Diritto di asilo
65
18 della Carta (213), il testo di tale disposizione è basato, in effetti, sull’articolo 63 del trattato sulla Comunità
europea («TCE»), ora sostituito dall’articolo 78 TFUE (214), il quale definisce la competenza dell’Unione in materia di asilo, protezione sussidiaria e protezione temporanea (215) e costituisce la base giuridica per l’azione
dell’Unione in questo campo. Questa deve mirare, nella formulazione attuale della disposizione, ad «offrire
uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e
a garantire il rispetto del principio del non-respingimento», conformemente al diritto internazionale pertinente.
Alla concreta realizzazione del diritto fondamentale di asilo tutelato dall’articolo 18 della Carta concorrono
numerosi atti di diritto derivato (216), adottati dall’Unione sulla base delle competenze ad essa attribuite dai
trattati. Essi costituiscono attuazione del piano per un regime comune europeo in materia di asilo (217), la cui
progressiva realizzazione, attualmente in via di completamento, è stata concepita in due fasi: una prima
fase volta ad uniformare, accelerare e migliorare l’efficienza delle procedure in materia di asilo e protezione internazionale negli Stati membri, vuoi attraverso la previsione di norme minime comuni per la concessione della protezione (218) e l’accoglienza dei richiedenti asilo (219) negli Stati membri, vuoi attraverso un
meccanismo di cooperazione ed equa ripartizione delle domande di asilo e/o dei beneficiari di protezione
internazionale (220); una seconda fase, avviata nel 2007, che mira invece a rivedere gli strumenti esistenti
per conseguire un livello comune di protezione dei rifugiati e richiedenti asilo più elevato e più uniforme
all’interno dell’Unione, oltre a garantire una maggiore solidarietà tra gli Stati membri (221). L’insieme di tali
strumenti, interpretati ed applicati alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia e nel rispetto degli
standard derivanti dal diritto internazionale (222), costituisce la cornice normativa entro la quale il contenuto
concreto del diritto fondamentale di asilo viene declinato nell’ordinamento dell’Unione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Disciplina europea dell’asilo e politica comune dell’immigrazione nello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia
Lo sviluppo di una politica comune europea in materia di asilo contribuisce alla realizzazione del più ampio
obiettivo dell’Unione di creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia entro i suoi confini, come stabilito
dall’articolo 3(2) TUE ed illustrato nell’articolo 67 TFUE.
L’esigenza di coordinare le politiche degli Stati membri in materia di asilo è, invero, intimamente legata
alle conseguenze dell’abolizione delle frontiere interne. Da un lato, tale sistema ha generato l’urgenza di
dissuadere i richiedenti asilo dallo spostarsi da uno Stato membro all’altro al solo fine di presentare la propria domanda di protezione nel paese che applica una più generosa politica ai fini della concessione dello
status di rifugiato o persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale (c.d. «asylum shopping»),
ed evitare che un medesimo soggetto presenti più domande di protezione in diversi Stati membri con-
(213)
(214)
(215)
(216)
(217)
(218)
(219)
(220)
(221)
(222)
Le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (2007/C 303/02) sono state elaborate sotto l’autorità del praesidium della
convenzione che ha redatto il testo della Carta e hanno un importante valore interpretativo (cfr. il preambolo alla Carta stessa).
Più precisamente, l’art. 78 TFUE ha riformulato l’art. 63(1) e (2) TCE e l’art 64(2) TCE, apportando alcune modifiche, tra cui la chiara
affermazione dell’impegno dell’Unione a sviluppare una politica comune in materia d’asilo; la codificazione del concetto di protezione
internazionale già presente nella legislazione derivata; la garanzia espressa del rispetto del principio di non-refoulement.
Preme in proposito ricordare che la competenza attribuita all’Unione europea in questa materia rientra tra le competenze concorrenti, il cui
esercizio è soggetto al principio di sussidiarietà (art. 5(3) TUE).
«La promozione dell’applicazione» del diritto di asilo tutelato dall’articolo 18 della Carta è spesso identificata quale obiettivo espresso
dell’atto nelle intenzioni del legislatore: cfr., ad esempio, il paragrafo 35 del preambolo alla direttiva 2013/33/UE, il paragrafo 16 del
preambolo alla direttiva 2011/95/UE, il paragrafo 60 del preambolo alla direttiva 2013/32/UE.
Il piano fu inizialmente definito nelle Conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Tampere del 1999 e fu in seguito sviluppato nei
programmi elaborati sulla base di esse (cfr. in particolare la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, del 10
maggio 2005 — Il programma dell’Aia: dieci priorità per i prossimi cinque anni. Partenariato per rinnovare l’Europa nel campo della libertà,
sicurezza e giustizia, ed il relativo piano d’azione; il libro Verde sul futuro regime comune europeo in materia di asilo del 2007; il Piano
strategico sull’asilo del 2008; il Programma di Stoccolma del 2009 ed il relativo piano d’azione).
Direttiva 2001/55/CE del Consiglio del 20 luglio 2001 sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso
massiccio di sfollati; direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004 recante norme minime sull’attribuzione della qualifica di rifugiato
o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché sul contenuto della protezione; direttiva 2005/85/CE del Consiglio
del 1º dicembre 2005 recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello
status di rifugiato.
Direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 recante norme minime per l’accoglienza dei richiedenti asilo.
Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio del 18 febbraio 2003 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato
membro competente, noto come «regolamento Dublino II».
Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 (rifusione in materia di qualifiche), direttiva 2013/32/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (rifusione in materia di procedure); direttiva 2013/33/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (rifusione in materia di accoglienza); regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e
del Consiglio del 26 giugno 2013 (rifusione in materia di determinazione dello Stato membro competente); va menzionata altresì la strategia
di cooperazione attraverso l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo («EASO»), stabilito con regolamento (UE) n. 439/2010 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 19 maggio 2010 e operativo dalla metà del 2011.
Per un’ampia ed «operativa» disamina delle regole di diritto dell’Unione esistenti in materia e della giurisprudenza pertinente, cfr. Agenzia
dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Consiglio d’Europa, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione,
Lussemburgo, 2013, reperibile all’indirizzo http://fra.europa.eu/sites/default/files/handbook-law-asylum-migration-borders_it.pdf.
66
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
temporaneamente. Dall’altro lato, la creazione di uno spazio senza frontiere interne ha posto l’esigenza di
sviluppare una politica comune dell’immigrazione intesa a provvedere ad una gestione efficace e coerente
dei flussi migratori provenienti dai paesi terzi, che consentisse di beneficiare delle opportunità economiche e demografiche offerte dall’immigrazione e di contrastare, allo stesso tempo, i fenomeni deteriori
legati all’afflusso migratorio (223). In tale contesto, le azioni e le politiche intraprese dall’Unione e dagli Stati
membri per attuare gli obiettivi della politica comune in materia di immigrazione (224), ed in specie la prevenzione ed il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta di esseri umani (225), nonché la sorveglianza
e la gestione delle frontiere esterne (226), si sono accompagnate alla progressiva realizzazione di un regime
comune europeo di asilo, volto a garantire procedure di asilo veloci ed accessibili a coloro che, nell’ambito
di flussi migratori misti, necessitino di protezione (227).
Questo secondo aspetto implica l’esigenza di un bilanciamento fra interessi differenti, che possono in certi
casi risultare contrapposti. L’esigenza di un controllo razionale dei flussi migratori e di un contenimento
dell’immigrazione irregolare, costituisce infatti, nel contesto della creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, un obiettivo espresso della politica comune in materia di immigrazione, e, in quanto
tale, un interesse pubblico essenziale dell’Unione e dei suoi Stati membri. Tale interesse può, tuttavia,
scontrarsi con l’impegno a fornire adeguata protezione ed assistenza a coloro che, a prescindere dal loro
status di migranti regolari o irregolari, sono in fuga dalle persecuzioni, le violenze e le guerre che straziano
i loro paesi di origine (228). Le misure adottate nel contesto della lotta contro il fenomeno dell’immigrazione
illegale, divenuta oramai il fulcro delle politiche migratorie sia dell’Unione che degli Stati membri (229), sono
infatti in grado di incidere pesantemente sull’esercizio del diritto di asilo, inteso come diritto dell’individuo
a cercare asilo e, una volta ottenuto, a goderne (230): questo accade, ad esempio, ove il rimpatrio, l’espulsione o l’allontanamento degli irregolari avvenga in assenza di un attento esame su base individuale dei
loro eventuali bisogni di protezione e senza tenere conto delle conseguenze che possono derivare loro in
conseguenza di tali misure (231).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Diritto fondamentale di asilo e contrasto dell’immigrazione irregolare: il principio di nonrefoulement come garanzia minima di bilanciamento
Le considerazioni che precedono inducono a porsi un quesito essenziale: come raggiungere un equilibrio
tra la realizzazione dell’interesse pubblico alla gestione dei flussi migratori irregolari ed il rispetto del diritto
fondamentale di asilo garantito dall’articolo 18 della Carta?
La risposta a tale domanda va ricercata nelle garanzie che derivano dal contenuto del principio di non-refoulement, o non-respingimento, il quale trova espressione nell’articolo 33 della convenzione di Ginevra,
ed espresso riconoscimento nell’ordinamento dell’Unione all’articolo 78 TFUE. Il principio è stato oggetto di
(223)
(224)
(225)
(226)
(227)
(228)
(229)
(230)
(231)
In tal senso Parisciani E., I respingimenti in Libia tra obblighi internazionali in materia di diritti umani e contrasto all’immigrazione clandestina
via mare, in Simoncelli M. (a cura di), Dove i diritti umani non esistono più: la violazione dei diritti umani nelle guerre contemporanee,
Roma, 2010, pag. 153, spec. pag. 154.
Per approfondimenti cfr., ex multis, Lang A., La politica comunitaria in materia di immigrazione, in Dir. pub. com pag. eur., 2003, pag. 698
e Nascimbene B., Favilli C., La gestione dell’immigrazione a livello comunitario, in Colombo A., Ronzitti N. (a cura di), L’Italia e la politica
internazionale, Bologna, 2006, pag. 149.
Articolo 79(1) TFUE. Per approfondimenti cfr. Pisillo-Mazzeschi R., Strumenti comunitari di prevenzione e di contrasto all’immigrazione
clandestina, in Dir. Un. eur., 2004, p.723.
Articolo 77(1)(b) e (c) TFUE (già articolo 62 TCE).
Si veda la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, del 30 novembre 2006 — L’approccio globale in materia
di migrazione un anno dopo: verso una politica europea globale della migrazione, pag. 10.
V. le Conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Tampere del 1999, paragrafo 3. Criticamente, in proposito, BATTJES H., A Balance
between Fairness and Efficiency? The Directive on International Protection and the Dublin II Regulation, in Eur. Journal Migration Law, 2002,
pag. 159 e Gil-Bazo M.T., The Protection of Refugees under the Common European Asylum System. The Establishment of a European
Jurisdiction for Asylum Purposes and Compliance with International Refugee and Human Rights Law, in Cuadernos Europeos de Deusto,
2007, pag. 153, spec. pagg. 156-157.
Si veda in proposito Caggiano G., Le nuove politiche dei controlli alle frontiere, dell’asilo e dell’immigrazione nello spazio unificato di libertà,
sicurezza e giustizia, in Benvenuti pag. (a cura di), Flussi migratori e fruizione dei diritti fondamentali, L’Aquila, 2008, pag. 101.
V. in tal senso l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite («UNHCR»), Handbook on Procedures and Criteria for determining Refugees
Status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, versione emendata del 1992 (HCR/IP/4Eng/
REV.1), paragrafo 25. Non sono peraltro mancati autori che hanno sostenuto che il diritto di asilo dovrebbe essere inteso come diritto
soggettivo dei singoli ad ottenere l’asilo (cfr., a proposito dell’articolo 18 della Carta, Gil-Bazo M-T., The Charter of Fundamental Rights of
the European Union and the Right to be Granted Asylum in the Union’s Law, in Refugee Survey Quarterly, 2008, pag. 33, spec. pagg. 46 e
segg.), sebbene esso non sia espressamente riconosciuto in nessun accordo internazionale universale e la stessa formulazione dell’articolo
14 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo sia volutamente ambigua in tal senso (cfr., a tale proposito, Goodwin-Gill G.S., The 1967
declaration on territorial asylum, United Nations Audiovisual Library of International Law, 2012, reperibile all’indirizzo http://legal.un.org/
avl/pdf/ha/dta/dta_e.pdf).
In effetti, premessa necessaria per l’applicazione delle garanzie previste dal diritto derivato in materia di asilo, compreso l’obbligo degli
Stati di fare in modo che gli interessati siano in grado di accedere efficacemente alle procedure per la concessione dello status di rifugiato
o persona altrimenti bisognosa di protezione, è che i soggetti in questione abbiano già raggiunto il territorio, la frontiera o una zona di
transito di uno Stato membro: cfr. l’articolo 3(1), della direttiva 2005/85/CE e l’articolo 3(1), della direttiva di rifusione 2013/32/UE. Sul punto,
in dottrina, Parisciani E., op. cit., pag. 169.
67
Articolo 18 - Diritto di asilo
evoluzione e riaffermazione — esplicita o implicita nella prassi — nel quadro di diversi strumenti di diritto
internazionale di carattere sia universale (232) che regionale: particolare menzione meritano la convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali («CEDU») (233), interpretata alla luce
della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo («Corte Edu» o «Corte di Strasburgo») (234), e la
stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (235). Si ritiene, ad oggi, che il principio abbia ormai assunto
rango di principio inderogabile di diritto cogente, in quanto estrinsecazione del principio di diritto internazionale generale che vieta la tortura e le altre pene o trattamenti inumani e degradanti (236).
Nella formulazione accolta dalla convenzione di Ginevra, il principio di non-refoulement fa divieto agli Stati
di «espellere o respingere in qualunque maniera, un rifugiato alle frontiere dei territori in cui la sua vita o
la sua libertà sarebbe minacciata a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua
appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Tale principio viene comunemente interpretato quale divieto agli Stati di espellere o altrimenti respingere — vuoi verso paesi direttamente a rischio per la persona (refoulement diretto), vuoi verso paesi che
a loro volta potrebbero allontanare la persona verso un altro Stato dove esiste tale rischio (refoulement
indiretto) — non solamente coloro che abbiano già ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e già
si trovano sul territorio statale, ma anche coloro il cui status non sia ancora stato accertato (237); ciò a prescindere dal fatto che l’entrata nel territorio sia avvenuta in maniera irregolare (238) ed indipendentemente dalla
forma in cui si realizza l’allontanamento, incluso il respingimento o la non ammissione alla frontiera (239).
Corollario del principio di non-respingimento è, alla luce di tale ricostruzione, l’obbligo degli Stati di non
ostacolare, attraverso provvedimenti di allontanamento, respingimento, rimpatrio o espulsione, le persone
bisognose di protezione dall’ottenere effettivo accesso alle procedure per la determinazione dello status
di rifugiato (240): dal principio di non-respingimento promana, dunque, un «contenuto minimo di natura procedurale» del diritto di asilo, il cui rispetto si impone ancor prima della realizzazione delle garanzie legate
alla concessione della protezione (241).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
È interessante notare come le obbligazioni che derivano in capo agli Stati da tale «contenuto procedurale
minimo» siano caratterizzate non solo da un aspetto negativo, che impone di esimersi dal mettere in atto
(232)
(233)
(234)
(235)
(236)
(237)
(238)
(239)
(240)
(241)
Ad esempio il Patto internazionale sui diritti civili e politici concluso a New York il 16 dicembre 1966 e la convenzione contro la tortura e
altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984, entrambi elaborati in seno alle Nazioni
Unite.
La convenzione è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 in seno al Consiglio d’Europa. Vi aderiscono i 47 Stati membri del Consiglio
d’Europa, tra cui i Stati membri dell’Unione europea, ed è ad oggi intesa come il più importante strumento di tutela dei diritti fondamentali
a livello regionale.
Il riferimento è in particolare all’articolo 3 CEDU, il quale sancisce il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. La norma è stata
interpretata nel senso di imporre un divieto all’allontanamento forzato delle persone verso paesi a rischio a partire dalla decisione della
Corte Edu, sentenza del 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito (n. 14038/88), secondo una ricostruzione poi consolidata in tutta giurisprudenza
successiva. Appare opportuno ricordare anche l’articolo 4 del Protocollo n. 4 allegato alla CEDU, che sancisce il divieto di espulsioni
collettive.
L’articolo 19(2) della Carta riafferma espressamente il principio di non-respingimento con riferimento all’allontanamento, l’espulsione e
l’estradizione. Ai sensi delle relative spiegazioni, tale disposizione «incorpora» la pertinente giurisprudenza relativa all’articolo 3 CEDU.
L’articolo 19(2) va, peraltro, considerato alla luce di altre disposizioni della Carta, tra cui l’articolo 4, che sancisce la proibizione della tortura
e delle pene o trattamenti inumani e degradanti, e l’articolo 19(1), che vieta le espulsioni collettive.
Cfr., tra gli altri, Pedrazzi M., op. cit., pag. 36; Goodwin-Gill G.S., op cit., pagg. 167 e segg.; Allain J., The Jus Cogens Nature of NonRefoulement, in Int. Journal Refugee Law, 2001, pag. 533; Lauterpacht E., Bethlehem D., The Scope and the content of the principle of
non-refoulement, in Feller E., Turk V., Nicholson F. (a cura di) Refugee protection in International Law. UNHCR’s Global Consultations on
International Protection, Cambridge, 2001, pag. 87.
Si sostiene infatti che il riconoscimento dello status di rifugiato abbia natura declaratoria e non costitutiva: in tal senso si è da tempo
pronunciato l’Executive Committee on the International Protection of Refugees («ExCom») dell’UNHCR (cfr. Conclusion No. 6 (1997)) e lo
stesso UNHCR (cfr. Handbook on Procedures and Criteria for determining Refugees Status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol
relating to the Status of Refugees, op.cit., paragrafo 28), ma la tesi è accolta da gran parte della dottrina (cfr., ex multis, Conetti G., Rifugiati,
in Appendice Novissimo Digesto Italiano, vol. VI, 1986, Torino, pag. 819, che parla a proposito di «regime di asilo provvisorio», Lauterpacht
E., Bethlehem D., op. cit., pag. 126, Goodwin-Gill G., McAdam J., op. cit., pag. 232, Liguori A., I respingimenti in mare e il diritto internazionale,
22 novembre 2010, reperibile su http://www.europeanrights.eu/index.php?lang=ita&funzione=S&op=5&id=525, pag. 6).
La tesi è sostenuta dall’UNHCR, ma anche da gran parte della dottrina (cfr., ad esempio, Goodwin-GillG.S., op. cit., pagg. 127 e segg.).
Si noti che l’UNHCR e molta parte della dottrina sostengono che il divieto di respingimento «alla frontiera» sia applicabile per analogia
anche ai respingimenti in alto mare (cfr. Parere consultivo dell’UNHCR sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement
derivanti dalla convenzione relative allo status dei rifugiati del 1951 e del suo Protocollo del 1967, Ginevra, 26 gennaio 2007, e, in dottrina,
ex multis, Castrogiovanni I., Sul refoulement di profughi haitiani intercettati in acque internazionali, in Riv. dir. int., 1994, pag. 474, Fornari
M.N., Soccorso di profughi in mare e diritto d’asilo: questioni di diritto internazionale sollevate dalla vicenda della nave Tampa, in Com.
internaz, 2002, pag. 61, Nascimbene B., Il respingimento degli immigrati e i rapporti tra Italia e Unione europea, Istituto Affari Internazionali,
Senato, 2009 reperibile su http://www.iai.it/pdf/DocIAI/IAI0922.pdf, Di Pascale A., Migration control at sea: the Italian case, in Ryan B.,
Mitsilgas V. (a cura di), Extraterritorial immigration control. Legal challenges, Leiden-Boston, 2010, pag. 281). Non mancano tuttavia opinioni
discordanti (cfr. ad esempio Hailbronner K., Comments on: The Right to Leave, the Right to Return and the Question of a Right to Remain,
in Gowland-Debbas V. (a cura di), The problem of Refugees in the light of Contemporary International Law Issues, The Hague, 1996,
pag. 109).
UNHCR ExCom Conclusion No. 85 (1998) e Conclusion No. 99 (2004).
Cfr. Liguori A., op. cit., pag. 6, la quale cita Zaniboni E., La tutela dei richiedenti asilo tra politiche restrittive e garanzie procedurali, in
Triggiani, E. (a cura di), Europa e Mediterraneo. Le regole per la costruzione di una società integrata, Napoli, 2010, pag. 207, in particolare
pag. 226. Sulle garanzie procedurali avverso l’espulsione in generale cfr. Liguori A., Le garanzie procedurali avverso l’espulsione degli
immigrati in Europa, Napoli, 2008, spec. pagg. XIII e segg.
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
comportamenti idonei a limitare l’accesso delle procedure da parte degli interessati, ma anche da un aspetto positivo, fonte di obbligazioni materiali cui gli Stati sono tenuti anche ove i soggetti in questione non
manifestino espressamente la volontà di chiedere asilo. Tali obbligazioni si sostanzierebbero, in particolare, nell’identificazione di coloro che sono potenzialmente bisognosi di protezione sulla base di un esame
individuale della loro situazione, nella valutazione dell’esistenza del rischio che essi subiscano trattamenti
vietati in conseguenza della misura di allontanamento e nell’adozione delle misure necessarie ad assicurare loro un effettivo accesso alle procedure per l’accertamento e l’eventuale concessione dello status
di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione (242). Da tali obbligazioni positive alcuni studiosi
deducono, peraltro, un ulteriore dovere in capo agli Stati, che consisterebbe nel consentire l’ammissione,
almeno temporanea (243), dei richiedenti asilo, al fine di garantire lo svolgimento delle relative procedure (244).
Le garanzie appena illustrate, che originano dal contenuto del principio di non-respingimento, impongono, in
sostanza, che la competenza o esigenza del contenimento dell’ingresso e della presenza di immigrati irregolari nel territorio vada intesa come proceduralmente recessiva rispetto all’esigenza di un puntuale e adeguato
esame delle circostanze in cui si trovano i soggetti interessati, che è funzionale alla garanzia di un accesso
effettivo alle procedure per la concessione dello status di rifugiato. Gli obblighi che ne derivano in capo agli
Stati costituiscono dunque, nell’ottica di un bilanciamento tra l’esigenza di tutelare coloro che sono bisognosi
di protezione internazionale e l’interesse pubblico dell’Unione e dei suoi Stati membri al controllo dei flussi
migratori, una garanzia minima di tutela del diritto fondamentale di asilo garantito dall’articolo 18 della Carta.
 
 
 
Le politiche europee per la gestione integrata delle frontiere esterne: profili problematici
La gestione e sorveglianza delle frontiere esterne (245), che ha assunto negli ultimi anni crescente importanza
a livello nazionale come a livello europeo, è un ambito in cui la tensione tra la tutela del diritto fondamentale di asilo e l’interesse al controllo ed al contenimento dei flussi migratori irregolari emerge in tutta la
sua complessità.
Nonostante la premessa per cui il rafforzamento delle politiche di controllo delle frontiere esterne non
avrebbe dovuto impedire l’accesso ai sistemi di protezione per le persone che ne hanno diritto, in particolare individui e gruppi che si trovano in situazioni vulnerabili, rendendo anzi prioritarie le esigenze di coloro
che necessitano di protezione internazionale (246), l’impatto — diretto o indiretto — delle politiche attuate
dall’Unione e dagli Stati membri sul diritto fondamentale di asilo in tale ambito è stato recentemente causa
di forti preoccupazioni.
Sebbene la tutela del diritto fondamentale di asilo sancito dall’articolo 18 della Carta ed il rispetto del principio di non-respingimento siano oggetto di espresse garanzie (247), le misure adottate nel contesto delle
operazioni di controllo delle frontiere esterne e contrasto all’immigrazione irregolare da alcuni Stati membri — spesso condotte sotto l’egida dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale
alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea («Frontex») (248) — hanno in diverse occasioni
dato origine a gravi violazioni di tali principi.
 
 
 
 
(242)
(243)
(244)
(245)
(246)
(247)
(248)
In tal senso si è pronunciato il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti («CPT»), organo
creato in seno al Consiglio d’Europa in virtù dell’articolo 1 della convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o
trattamenti inumani o degradanti adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, nel rapporto redatto in occasione della sua visita in Italia nel
luglio 2009 (cfr. in particolare i paragrafi 30 e segg.).
Non sarebbe infatti possibile, allo stato attuale, derivare in capo allo straniero richiedente protezione un diritto di ingresso nel territorio
dello Stato, poiché il diritto internazionale riconosce allo Stato il potere di regolare le condizioni per l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri
nel suo territorio: cfr., ex multis, Parisciani E., op. cit., pag. 166, e dottrina ivi citata.
In tal senso, ex multis, Weis P., Legal aspects of the Convention of 28 July 1951 relating to the status of refugee, in BYIL, 1953, pag. 478,
Lauterpacht E., Bethlehem D., op. cit., pag. 113, Noll G., Seeking asylum at embassies: a right to entry under international law?, in Int. Journal
Refugee Law, 2005, pag. 548.
Tale politica comprende tutta una serie di misure, dalla previsione di un corpus legislativo, a meccanismi operativi di concertazione e di
cooperazione, al sostegno logistico ed alla ripartizione del carico finanziario tra gli Stati membri dell’Unione, come inizialmente delineate
nella Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, del 7 maggio 2002 — Verso una gestione integrata delle
frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea.
In tal senso il Consiglio europeo nel Programma di Stoccolma del 2009, paragrafo 5.1.
Si veda, ad esempio, l’articolo 3 del regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006 («codice
frontiere Schengen») e l’articolo 2(4) del regolamento (UE) n. 1052/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2013 che
istituisce il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur).
L’Agenzia, istituita con regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004, ha lo scopo di coordinare il pattugliamento delle
frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli Stati membri, fornire sostegno operativo, coordinare operazioni congiunte e provvedere
all’implementazione di accordi con i paesi confinanti con l’Unione per la riammissione dei migranti extracomunitari respinti lungo le
frontiere. Nonostante gli Stati membri mantengano piena responsabilità delle loro azioni od omissioni, numerosi autori hanno sottolineato
la possibilità di configurare in capo all’agenzia delle responsabilità per le violazioni dei diritti fondamentali commesse dalle autorità degli
Stati membri nel contesto delle operazioni da essa coordinate (cfr., ad esempio, Liguori A., Ricciuti N., Frontex ed il rispetto dei diritti umani
nelle operazioni congiunte alle frontiere esterne dell’Unione europea, in Diritti um. dir. int., n. 3, 2012, pag. 539, e Parisciani E., op.cit., pagg.
177 e segg.). Appare in proposito significativa la recente approvazione di alcune modifiche al regolamento istitutivo che mirano ad
assicurare, nel contesto di tutte le operazioni, un maggiore livello di tutela dei diritti fondamentali e dei diritti dei rifugiati e dei richiedenti
asilo (regolamento (UE) n. 1168/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011).
Articolo 18 - Diritto di asilo
69
La questione è anche stata oggetto di una nota ed importante pronuncia della Corte Edu (249), resa in un caso
contro l’Italia relativo alla controversa prassi delle operazioni di respingimento delle imbarcazioni intercettate in alto mare (250). La Corte ha sancito in tale occasione la contrarietà di siffatte operazioni di respingimento rispetto a diverse disposizioni della CEDU, nella misura in cui esse erano state condotte in assenza
di una identificazione e di una previa verifica della situazione individuale dei migranti a bordo, nonostante
l’esistenza di un serio rischio che i ricorrenti sarebbero stati sottoposti al rischio di trattamenti inumani e
degradanti e privati di ogni tipo di protezione, ed in assenza della garanzia di alcun rimedio effettivo esperibile contro i provvedimenti di respingimento (251).
Le considerazioni appena svolte gettano luce su alcune lacune della politica messa in atto dall’Unione
europea e dagli Stati membri per la lotta all’immigrazione illegale, rese ancora più allarmanti dalle notizie,
che non cessano di riempire le cronache, della tragica scomparsa di migliaia di persone che perdono la vita
nel tentativo di attraversare le frontiere esterne dell’Unione, specie nel Mediterraneo (252). Tali lacune non
potranno essere colmate sino a che, alla previsione di meccanismi coordinati e rafforzati per il controllo e
la sorveglianza delle frontiere esterne, non si accompagnerà la previsione di efficaci misure per agevolare
l’ammissione temporanea, l’ingresso e l’effettivo reinsediamento nel territorio dell’Unione dei richiedenti
asilo, o quantomeno l’avvio di una responsabile politica di cooperazione con i paesi terzi in grado di garantire a coloro che necessitano di protezione un effettivo accesso alle procedure, possibilmente ancora prima
che gli interessati tentino l’attraversamento irregolare delle frontiere (253).
L’auspicio è che la futura strategia in materia di immigrazione ed asilo, che verrà delineata nel contesto
della elaborazione delle nuove linee guida per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (254), sia in grado di
pervenire ad un corretto bilanciamento, attraverso l’approvazione di misure concrete che vadano oltre al
modesto impegno espresso sinora dalle istituzioni (255).
 
 
 
 
 
 
 
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(249)
(250)
(251)
(252)
(253)
(254)
(255)
Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2012, Hirsi Jamaa e a. c. Italia (n. 27765/09), concernente la prassi dei respingimenti verso la Libia posta in
essere dall’Italia a seguito dell’entrata in vigore dell’accordo bilaterale di «amicizia, partenariato e cooperazione» concluso tra i due paesi
nel 2008. Tra i numerosissimi commenti alla pronuncia, cfr. Liguori A., La Corte europea condanna l’Italia per i respingimenti verso la Libia
del 2009: il caso Hirsi, in Riv. dir. int., n. 2, 2012, pag. 415.
La letteratura in argomento è sterminata. Ci si limita in questa sede a rinviare, ex multis, a Liguori A., I respingimenti in mare e il diritto
internazionale, op.cit.; De Vittor F., Soccorso in mare e rimpatri in Libia: tra diritto del mare e tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in
Riv. dir. int., 2009, pag. 800; Palmisano G., Il trattamento del migrante clandestino, in Europa e Mediterraneo, op.cit., pag. 319; Vassallo
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stranieri, n. 2, 2010, pag. 73; Klepp S., A contested Asylum system: the European Union between refugee protection and border control in
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Mediterranean Sea and Their Forced Return to Libya, INEX Paper, Amsterdam and Oslo, 2010, reperibile su www.inexproject.eu; Trevisanut
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2008, pag. 205. Di interesse, in quanto unisce all’analisi giuridica la ricerca qualitativa, anche il rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea
per i diritti fondamentali, I diritti fondamentali alle frontiere marittime meridionali dell’Europa, Lussemburgo, 2013, reperibile all’indirizzo
http://fra.europa.eu/sites/default/files/fundamental-rights-europes-southern-sea-borders-jul-13_en.pdf.
Pur riconoscendo il diritto sovrano degli Stati di controllare l’ingresso e la permanenza degli stranieri sul loro territorio, la Corte ha infatti
ritenuto che le operazioni di respingimento in questione avevano integrato una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani
e degradanti (articolo 3 CEDU), del divieto di espulsioni collettive (articolo 4 Protocollo n. 4 allegato alla CEDU) e altresì del diritto ad un
ricorso effettivo (articolo 13 CEDU).
La gravità della situazione ha suscitato forti tensioni, provocando la reazione della Commissione europea la quale, in seguito al tragico
incidente del 3 ottobre 2013, in cui 366 persone hanno perso la vita a causa dell’affondamento di un’imbarcazione carica di migranti al largo
delle coste di Lampedusa, ha deciso di istituire la task force «Mediterraneo» («TFM»). Il mandato della TFM include la realizzazione di una
gamma di misure che sono state delineate nella Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, del 4 dicembre
2013, sull’attività della Task Force «Mediterraneo». L’iniziativa della Commissione è stata tuttavia criticata da diverse organizzazioni della
società civile, che hanno ritenuto le misure proposte insufficienti a fronteggiare adeguatamente la crisi (v., ad esempio, il comunicato
stampa pubblicato da Amnesty International il 18 dicembre 2013).
Ronzitti N., in un’intervista al quotidiano italiano Il Sole 24Ore, propone come possibile soluzione «quella di creare uffici delle Nazioni Unite
o dell’Unione europea nei Paesi di partenza dei migranti, nel Nord Africa, in modo da vagliare le domande dei richiedenti asilo direttamente
sul posto».
Cfr. l’articolo 68 TFUE.
Cfr. le conclusioni del Consiglio europeo al vertice del 24 e 25 ottobre 2013 (paragrafi 46 e segg.), ed al più recente vertice del 19 e 20
dicembre 2013 (paragrafi 41 e segg.).
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Articolo 21 - Non discriminazione
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CDE
Università degli studi «Magna Graecia» di Catanzaro
Articolo 21
Non discriminazione
Articolo 39
Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
Articolo 21
1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della
pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni
personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
2. Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata
qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
Articolo 39
1. Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello
Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.
2. I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto.
Cittadinanza europea e Diritti sociali
di Andrea Lollo
(256)
 
Note introduttive: un binomio che resta sullo sfondo del processo di integrazione europea.
L’accostamento dei termini cittadinanza europea e diritti sociali può suscitare in un primo momento al giurista
un senso di disorientamento, richiedendo di declinare ad un livello del tutto nuovo, qual è quello dell’Unione
europea, un binomio che ha costituito dal dopoguerra ad oggi un’autentica architrave nella edificazione delle
moderne comunità nazionali. Ed, in effetti, non v’è chi non veda come i modelli di welfare non siano neppure
pensabili senza una preventiva restrizione delle politiche redistributive ai membri della nazione (257).
Tuttavia, i più recenti indirizzi giurisprudenziali mettono in luce una connaturale tendenza all’insaziabilità (258)
dei diritti sociali, i quali vantano una pretesa all’effettività che trascende i confini delle comunità nazionali,
 
 
(256)
(257)
(258)
Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e Diritti fondamentali dell’Università degli Studi di Pisa
Cfr., per tutti, S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, Bologna 2012, 12; J.
Halfmann, Welfare State and Territory, in M. Bommes-A. Geddes (a cura di), Immigration and Welfare: Challenging the Boarders of the
Welfare State, London 2000, 34 e segg.
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Diritti insaziabili, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Roma-Bari 2001, 179.
74
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divenuti ormai sempre più porosi. Sennonché, una simile pretesa dei diritti mediamente più costosi può
stridere con la natura anfibologica dell’ordinamento eurounitario, il quale, con un’espressione prosaica,
potrebbe essere paragonato alla figura mitologica dell’ircocervo, animale per metà capro e per altra metà
cervo. Da un lato, difatti, è ai più evidente come non esista un demos europeo (259) e come la cittadinanza
europea, pur tendendo ad atteggiarsi progressivamente alla stregua di una vera e propria cittadinanza
nazionale, conserva ancora oggi la natura duale ed ancillare impressale da Maastricht in poi, dall’altro,
come potrà vedersi a breve, il ricco catalogo di diritti sociali contenuto nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea cozza con l’assenza di un compiuto modello di Welfare paneuropeo, sicché il procedimento di diffusione di quei diritti rischia di rimanere ancora in larga parte legato all’opera «creativa» della
giurisprudenza sovranazionale.
Simili problematiche, appare evidente, si intersecano con (e si convertono in) questioni di più ampio respiro, che costituiscono il riflesso di fenomeni quali il processo di denazionalizzazione del diritto (260) e lo
spacchettamento dei confini, politici e giuridici, delle comunità nazionali. Fra questi, in particolare, occorre
fare i conti con la questione della certezza del diritto e della stabilità finanziaria degli Stati partners, i quali,
stante anche l’assenza di una compiuta dimensione deontica europea, si vedono astretti sempre di più tra
la naturale vocazione inclusiva dei diritti sociali e la scarsezza delle risorse, acuita oggi dalla crisi economica
che affligge l’Europa.
Emerge, insomma, come la questione dei diritti fondamentali collegati alla cittadinanza europea — e, fra
questi, quelli sociali in particolare — costituisca la cartina di tornasole di questioni ben più complesse e
cruciali che si stagliano all’orizzonte del processo di integrazione europea, sicché la cittadinanza europea
costituisce, a sua volta e nel contesto, un «perfetto specchio vivente dell’universo».
 
 
Il paradigma inclusivo della cittadinanza europea nell’accesso cross border ai diritti sociali
Per quanto riguarda la questione dei titolari dei diritti sociali, occorre, innanzitutto, rilevare come i più
recenti indirizzi giurisprudenziali abbiano contribuito a creare un autentico «paradigma inclusivo» (261) della cittadinanza europea nell’accesso cross border alle prestazioni sociali nello Stato ospite, segnando un
«cambio di paradigma» (262), per l’appunto, nel processo di integrazione europea. In effetti, l’esigenza di
prevenire fenomeni di dumping sociale ed altre possibili distorsioni del processo concorrenziale, asservita
alle quattro libertà fondamentali dei trattati istitutivi, tende ora a cedere il passo ad una nuova logica sottostante l’integrazione: migliorare le condizioni di vita del cittadino europeo e, più in generale, consentire
a ciascuno la piena realizzazione del benessere personale.
 
 
Tale affermazione trova conferma, in primo luogo, nella più recente giurisprudenza sull’accesso ai diritti
sociali dei cittadini economicamente «inattivi». Prendendo sul serio il principio affermato ex professo nella
celebre sentenza Martinez Sala, del 12 maggio 1998 — per cui «un cittadino dell’Unione europea che risiede
legalmente nel territorio dello Stato membro ospitante può avvalersi del principio della parità di trattamento in tutte le situazioni che rientrano nel campo di applicazione ratione materiae del diritto comunitario» –,
la Corte di giustizia ha applicato generosamente, fino a disapplicarla sostanzialmente, la nota condizione
di autosufficienza economica contenuta nella direttiva 38/2004, per la quale il diritto di circolazione e
soggiorno dei cittadini europei è subordinato all’esistenza di risorse economiche sufficienti e di un’assicurazione per malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante.
Dalla giurisprudenza sull’accesso alle prestazioni sociali nello Stato ospite degli studenti e dei soggetti
in cerca di occupazione e, ancora, da quella più recente sul diritto di soggiorno dei minori accompagnati
emerge, difatti, come la Corte di giustizia tenda a realizzare un’autentica interpretatio abrogans dei limiti
contenuti nel diritto primario, volti a delimitare l’accesso alle prestazioni sociali agli operatori economici
del diritto (263). Ed una simile vocazione inclusiva si radica proprio sull’istituto della cittadinanza europea,
contribuendo in tal modo a configurare un’Europa delle persone sempre più solidale.
La vera novità implicata in questi orientamenti giurisprudenziali non si risolve, però, nel superamento di
quella originaria «frigidità sociale» (264) risalente alle prime politiche comunitarie, giacché quella in larga
 
 
(259)
(260)
(261)
(262)
(263)
(264)
Cfr., per tutti, L. Ventura, L’irriducibile crisi della democrazia repubblicana, in AA. VV., Studi in onore di Aldo Loiodice, Bari 2012, 569 e segg.
Cfr. pag. Carrozza, Nazione, in Digesto discipl. pubbl., vol. XVI, Torino 1994, 126 e segg.
S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa, cit., 219 e segg.; A. Lollo, Il paradigma inclusivo della cittadinanza europea e la solidarietà
transnazionale, in www.gruppodipisa.it, 2012.
N. Reich, The Constitutional Relevance of Citizenship and Free Movement in an Enlarged Union, in Common Market Law Review, 2000, 449.
Su questa giurisprudenza cfr., da ultimo, L. Raimondi, Circolazione degli studenti universitari e principio di non discriminazione nella recente
giurisprudenza della Corte di giustizia, in E. Triggiani (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Bari 2011, 309 e segg.; pag.
Gargiulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà, ivi, 229 e segg.; N. Lazzerini, La Corte di giustizia consolida la propria
giurisprudenza sul diritto di soggiorno nell’Unione dei soggetti non economicamente attivi: le sentenze Teixeira e Ibrahim, in www.
osservatoriosullefonti.it, 2/2010.
F. Mancini, Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento delle Comunità europee, in AA.VV., Il lavoro nel diritto comunitario
e l’ordinamento italiano, Padova 1988, 26.
Articolo 39 - Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
75
parte era stata già scalfita da una coraggiosa giurisprudenza comunitaria, mediante l’applicazione estensiva, sia da un punto di vista soggettivo che oggettivo, del principio di non discriminazione tra gli operatori
economici del diritto che circolavano da uno Stato membro all’altro. Al contrario, l’estensione delle prestazioni sociali a categorie estranee al circuito della produzione economica denota un abbandono della logica
«commutativa» della solidarietà transnazionale, che tende ad essere scalzata da un’idea di solidarietà
propriamente redistributiva ed «asimmetrica». Tale contenuto della solidarietà riflette, in altri termini, l’idea per cui il sostegno pubblico implica unicamente uno stato di bisogno del cittadino, diversamente dalle
logiche della «solidarietà occupazionale» o «categoriale», per cui il titolo di accesso transfrontaliero alle
prestazioni sociali rimane pur sempre legato alla funzione economica assolta dal migrante attivo all’interno
del mercato (265).
Benché, come si è detto, la logica dell’integrazione europea tenda ormai a spogliarsi progressivamente
della sua originaria matrice funzionale, occorre nondimeno rilevare come una simile vocazione inclusiva
della giurisprudenza della Corte di giustizia rimanga pur sempre legata all’intreccio del diritto alla libera circolazione con il principio di parità di trattamento collegato, a sua volta, allo status di cittadino europeo. La
libera circolazione dei cittadini tende ad assumere, difatti, una portata «costituzionale», tale da rimettere
in discussione, fino quasi a ribaltarlo, l’originario rapporto tra il diritto primario e il diritto derivato: non è più
la direttiva n. 38/2004 ad attribuire al cittadino un diritto di circolare e soggiornare, in quanto tale libertà
trova fondamento nelle norme dei trattati, mentre il diritto derivato ne disciplina solo i limiti, che, come tali,
rimangono assoggettati allo scrutinio di compatibilità al diritto primario compiuto dalla Corte di giustizia. Da
tutto ciò emerge, insomma, come il processo di affermazione dei diritti sociali sia tuttora in parte ancorato
paradossalmente ad una delle quattro libertà fondamentali su cui si poggiavano le primigenie Comunità
economiche (266).
 
 
Diritti sociali e solidarietà transnazionale nella più recente giurisprudenza successiva al
trattato di Lisbona
È per le ragioni sopra esposte che appare davvero rivoluzionaria una recentissima giurisprudenza della
Corte di giustizia estensiva dell’accesso alle prestazioni sociali a cittadini (non solo «inattivi», ma anche)
«stanziali», come i minori accompagnati, consentendo loro di azionare i diritti di cittadinanza (europea)
anche nei confronti del proprio Stato nazionale. Esiste, difatti, un filone giurisprudenziale — che per ovvi
motivi non è qui possibile ricostruire in modo approfondito — che tende a valorizzare il «contenuto essenziale» dei diritti collegati alla cittadinanza europea, al punto tale da legittimare la Corte europea ad ingerirsi
persino nelle politiche migratorie nazionali (267).
Ora, sebbene tale «contenuto essenziale» dei diritti di cittadinanza appaia ancora rarefatto, richiedendo
di essere declinato secondo la logica del caso concreto dalla giurisprudenza nazionale e/o sovranazionale,
occorre rilevare come tale valorizzazione possa generare un ulteriore allentamento di quella logica funzionale dell’integrazione europea, come è dimostrato dallo scollamento del legame tra la libera circolazione
del cittadino e l’accesso alle prestazioni sociali. La Corte di giustizia, in altri termini, pare intendere che tale
contenuto dei diritti è universalizzabile e che, quindi, è sottratto ad operazioni di bilanciamento, proprio in
quanto si aggancia al valore (non bilanciabile) della dignità della persona umana.
Non può, del resto, negarsi come una sensibile accelerazione in tal senso possa provenire dall’elevare la
Carta di Nizza-Strasburgo al livello del diritto primario, che pare, in effetti, avere generato un rinnovato
humus giuridico in cui la dignità umana è destinata ormai a divenire la «bussola» per le operazioni di bilanciamento volte a ricomporre, caso per caso, i conflitti tra i diritti delle diverse generazioni (268), costituendo
questa, in ultima analisi, la bilancia che consente tali operazioni e che, come tale, non ne può essere fagocitata (269).
Scorrendo rapidamente il catalogo dei diritti riconosciuti dal Bill of rights emerge, in effetti, con tutta
evidenza una vocazione universalistica dei diritti sociali, contemplando questi la persona e non solo il
cittadino (270). Lo stesso protocollo n. 30 — sottoscritto dalla Polonia e dal Regno Unito, al quale si è poi ag 
 
 
 
(265)
(266)
(267)
(268)
(269)
(270)
S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa, cit., 149.
Cfr. R. Greco, Il modello sociale della Carta di Nizza, in Quest. Giust., 3/2006, 518 e segg.; F. Salmoni, Diritti sociali e Unione europea.
Dall’ordinamento comunitario allo Stato sociale europeo, in AA.VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, III, Torino 2005, 51 e segg.
Cfr. le sentenze C-34/09 Gerardo Ruiz Zambrano c. Office National de l’Emploi e 5 maggio 2011; causa C-343/09, Shirley McCarthy c.
Secretary of State for the Home Department.
Cfr. C. Salazar, A Lisbon Story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato… a un incerto presente?
Relazione al Convegno su «I diritti sociali dopo Lisbona. Il ruolo delle Corti. Il caso italiano. Il diritto del lavoro fra riforme delle regole e
vincoli di sistema», in www.gruppodipisa.it, 2011, 18.
Cfr. G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it., 2008,
passim.
Cfr., da ultimo, A. Morelli, Il carattere inclusivo dei diritti sociali e i paradossi della solidarietà orizzontale, in www.gruppodipisa.it, 2012.
76
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
giunto l’opt out concesso dal Consiglio europeo alla Repubblica ceca, nell’ottobre 2009 –, che rappresenta
senz’altro un deciso elemento di freno in ordine al processo di diffusione dei diritti sociali, è stato in buona
sostanza disapplicato dalla Corte di giustizia. Com’è noto, quel protocollo, prevedendo che la Carta dei
diritti non estenda la competenza della Corte di giustizia o di qualunque altro organo giurisdizionale della
Polonia o del Regno Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti o le disposizioni, le pratiche o le azioni
amministrative non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai principi che essa riafferma e che, ove una
disposizione della Carta faccia riferimento a leggi e pratiche nazionali, si applichi alla Polonia o al Regno
Unito soltanto nella misura in cui i diritti o i principi ivi contenuti siano riconosciuti nel diritto e nella pratica
dei due Paesi, rappresenta il tentativo di questi Stati di opporre uno scudo al processo di implementazione
dei diritti sociali (271). Scudo che si è, tuttavia, rivelato inefficace fino ad ora, essendo stato di fatto aggirato
dalla giurisprudenza europea mediante una (non applicazione della Carta dei diritti, in luogo di una) diretta
applicazione delle norme dei trattati concernenti la cittadinanza europea.
Ma v’è di più; difatti, alla luce di quanto fino ad ora rilevato, non può negarsi come a giovarne sia il senso
di appartenenza all’Unione europea, che tende ad irrobustirsi in modo ragguardevole, fino ad incidere sui
tradizionali modi di intendere i rapporti tra i cittadini europei. Ora, non è qui possibile approfondire questioni che meriterebbero senz’altro un maggiore respiro teorico; tuttavia, giova rilevare come sulla scena dell’ordinamento dell’Unione cominci a diffondersi proprio quella che è stata autorevolmente definita
come la «solidarietà tra estranei» (272): una solidarietà, cioè, tra persone che, sebbene appartenenti a diversi
Stati membri, siano accomunati dallo status di cittadino europeo.
Può, pertanto, immaginarsi che una simile idea di solidarietà possa — come è, d’altra parte, accaduto storicamente per le comunità nazionali — costituire un forte elemento acceleratore in ordine al processo di
integrazione e di politicizzazione dell’Unione europea. Non appare neppure casuale, in questa logica, che
alla valorizzazione della cittadinanza dell’Unione faccia da pendant una progressiva tendenza della giurisprudenza europea a delimitare persino la discrezionalità degli Stati membri nella definizione dei criteri di
acquisto e di revoca della cittadinanza nazionale, che vengono ora progressivamente assoggettati ad un
test di proporzionalità rimesso alla valutazione del giudice nazionale.
Per quanto, difatti, la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza nazionale rientri,
in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro, questa deve, nondimeno, essere «esercitata nel rispetto del diritto comunitario» e, quindi, dei principi generali provenienti
dal livello sovranazionale (273). Pertanto, la cittadinanza europea, pur congegnata dai trattati come istituto
accessorio (274) ed ancillare (275) rispetto a quella nazionale, tende oggi a smarcarsi da quest’ultima, rendendosi
progressivamente più autonoma, fino a potersi osservare che, se è vero che l’accessorio (la cittadinanza
europea) non può determinare il principale (la cittadinanza nazionale), è altrettanto vero che il principale
finisce per essere condizionato notevolmente dall’accessorio (276). Il che, stante anche il novellato articolo 20
del TFUE, che attribuisce alla cittadinanza europea una natura aggiuntiva (277) e non più solo complementare
rispetto a quella nazionale, conferma l’intuizione per la quale sia tuttora in corso quel processo di «fondamentalizzazione» della cittadinanza europea, «promesso» dalla Corte di giustizia, dalla sentenza Grzelczyk
in poi.
L’esigenza di garantire la massima realizzazione del contenuto essenziale dei diritti di cittadinanza finisce
addirittura per mettere in crisi anche il limite delle situazioni puramente interne agli ordinamenti nazionali.
Secondo un orientamento ormai vieppiù diffuso, la Corte di giustizia tende, difatti, ad attrarre nella propria
giurisdizione fattispecie in cui l’elemento transfrontaliero appare assai affievolito, al fine di assicurare una
tutela più intensa possibile dei diritti fondamentali. È così che, ad esempio, in nome della massima espansione dei diritti sociali, la Corte europea ha talvolta finito per obliterare il limite del principio di attribuzione
delle competenze, cavallo di battaglia del regime di separazione degli ordinamenti.
Quanto appena sopra accennato si interseca, poi, con la vexata quaestio delle discriminazioni al contrario,
la cui rimozione è stata tradizionalmente rimessa all’azione correttiva delle Corti costituzionali nazionali,
e che pare, invece, ormai attratta nella sfera di competenza dell’ordinamento europeo. In questa nuova
 
 
 
 
 
 
 
(271)
(272)
(273)
(274)
(275)
(276)
(277)
Cfr. C. Salazar, I princìpi in materia di libertà, in paper, 2013, 24; F. Pizzolato, Il sistema di protezione sociale nel processo di integrazione
europea, Milano 2002.
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, trad. it., Milano 1998, passim; conf. S. Giubboni, Diritti, cit., 220.
Cfr. la sentenza Micheletti, resa nella causa 369/1990, del 7 luglio 1992 e, più di recente, la sentenza Janko Rottman c. Freeistaat Bayern,
del 2010.
Cfr., per tutti, M. Cartabia, Cittadinanza europea, in Enciclopedia giuridica Treccani, VI, Aggiornamento, Roma 1995, 4 e segg.; C. Pinelli,
Cittadinanza europea, in Enc. dir., Annali, I, Milano 2007, 181 e segg.
S. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo dell’Europa, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1996, 870.
Cfr. F. Dinelli, Recenti tendenze in materia di cittadinanza europea: oltre il limite delle «situazioni puramente interne» all’ordinamento degli
Stati membri, in Foro amministrativo. Tar, 5/2011,1786.
Come è stato rilevato (F. Dinelli, Recenti tendenze, cit., 1781), quella che sembrerebbe un’operazione di «mera cosmesi linguistica», in
realtà potrebbe significare una maggiore autonomia della cittadinanza europea rispetto a quella nazionale. Difatti, «mentre la cittadinanza
complementare non può che seguire tutte le sorti della cittadinanza “principale” […], non necessariamente lo stesso deve valere con
riferimento ad una forma di cittadinanza che, essendo aggiuntiva, una volta acquisita dovrebbe poter godere di vita propria».
77
Articolo 39 - Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
luce, l’applicazione diretta del principio generale d’eguaglianza — che trova ora nel Bill of rights un esplicito
riconoscimento giuridico — potrebbe consentire di rimuovere ogni discriminazione in danno dei cittadini
nazionali, conseguente all’applicazione della disciplina sovranazionale più favorevole.
Note conclusive: l’integrazione europea tra deficit democratico ed esigenze di
ripoliticizzazione dell’Unione.
La Corte di giustizia tende, insomma, a ritagliarsi un ruolo sempre più importante nel processo di diffusione dei diritti sociali in una dimensione sovranazionale, fino a rasentare quasi quel ruolo di «giudice dei
diritti» che rievoca l’azione in passato assolta dalle Corti costituzionali nazionali. La qual cosa, se da un lato
incrocia un ulteriore nervo scoperto in tema dei rapporti tra gli organi di garanzia nell’attuazione dei diritti
fondamentali, dall’altro, potrà verosimilmente contribuire ad elevare ulteriormente l’espansione dei diritti
sociali nel contesto multilivello, a maggior ragione allorché verrà ultimato il processo di adesione dell’Unione al sistema Cedu.
Si avverte, allora, la sensazione per cui il modello di solidarietà economico-sociale possa in Europa progressivamente assumere tratti somatici simili a quelli della solidarietà nazionale, seppure con alcuni importanti
distinguo. L’attuale formulazione dei trattati, pur dopo Lisbona, lascia, difatti, intravedere un progetto
sociale incompiuto, se solo si considera che ancora in massima parte sui bilanci degli Stati nazionali si
riflettono i costi collegati all’effettività dei diritti sociali. La stessa Corte di giustizia, del resto, dimostra
comprensibilmente di non ignorare del tutto il problema della condizione di stabilità finanziaria degli Stati
membri, oggi più che mai acuito dalla crisi economica che attanaglia l’Europa. Basti a questo proposito
richiamare il requisito del «collegamento reale» con il circuito del mercato dello Stato ospite, requisito di
conio giurisprudenziale che ha fino ad ora costituito un importante lacciuolo nel processo di attuazione dei
diritti sociali dei cittadini dinamici.
Occorre, d’altro canto, tenere in debito conto come la versione dei trattati novellati a Lisbona e, segnatamente, l’inclusione del Bill of rights tra le fonti di hard law possano con ogni probabilità, in un prossimo
futuro, costituire tasselli decisivi per la costruzione politica di un primo modello sociale compiutamente
postnazionale. Il sistema dei trattati non dà certo vita ad un federalismo solidaristico e non attribuisce all’Unione il ruolo di «signora della solidarietà», né tanto meno introduce un federalismo competitivo (278) — per
cui il mercato unico verrebbe ad essere fronteggiato dai soli sistemi di protezione sociale territoriali –, e,
tuttavia, la collocazione in posizione apicale, tra i valori cui si ispira l’Unione europea, della dignità umana,
dell’eguaglianza, della solidarietà, nonché il principio di indivisibilità dei valori contenuti nella Carta (279), la
cancellazione, tra gli obiettivi contenuti nei trattati, del riferimento alla concorrenza libera e non falsata, il
riferimento «all’economia sociale di mercato fortemente competitiva», l’introduzione della social policy tra
le materie di competenza concorrente e l’introduzione della clausola sociale (art. 9 TFUE) potrebbero, con
tutta evidenza, spingere in tal senso le politiche delle Istituzioni europee.
Fare previsioni nel campo del diritto è, come si sa, assai arduo ed il rischio di essere smentiti è sempre
dietro l’angolo. Tuttavia, proprio la questione dell’effettività dei diritti sociali pare ormai rendere pressante,
e non più procrastinabile, l’esigenza di intraprendere un cammino che volga ad una più stretta unione tra i
popoli dell’Europa e che passi naturalmente per una modifica dei trattati. L’azione, pur meritoria, di quello
che ha nel corso degli anni rievocato sempre più l’idea del giudice «Ercole», di dworkiniana memoria, deve
oggi essere supportata da una autentica e costruttiva politica solidale propriamente postnazionale, potendo il rafforzamento, in chiave politica, dell’Unione costituire forse l’unico rimedio del diritto per contenere
gli effetti dannosi già prodotti dalla crisi economica.
Volendo fare quadrare il cerchio con la questione della cittadinanza europea e dei diritti sociali, per scongiurare il rischio di rimanere ancora legati ad un’idea «individualistica» (280) dell’integrazione — ispirata, in
modo non del tutto dissimile da quanto è accaduto per la costruzione della costituzione economica, sui
diritti del singolo che esercita la libera circolazione —, con il pericolo, soprattutto nei prossimi anni, di dovere ricorrere, in modo vieppiù frequente a politiche di social leveling down (281), occorre creare e diffondere
una dimensione partecipativa propriamente paneuropea, nonché edificare un compiuto sistema di doveri
direttamente riferiti alle Istituzioni europee.
 
 
 
 
(278)
(279)
(280)
(281)
Cfr. G. Bronzini, Il modello sociale europeo, in F. Bassanini-G. Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al trattato di
Lisbona, Bologna 2010, 119 e segg.
Cfr. E. Paciotti, La Carta: i contenuti e gli autori, in A. Manzella-P. Melograni-E. Paciotti-S. Rodotà, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna 2000,
17; A. Manzella, Dal mercato ai diritti, ivi, 38 e segg.; S. Rodotà, La Carta come atto politico e documento giuridico, ivi, 73; da ultimo, M.
Cartabia, I diritti fondamentali e la cittadinanza dell’Unione, in F. Bassanini-G. Tiberi (a cura di), Le nuove, cit., 105.
S. Giubboni, Diritti, cit., 227.
S. Besson-A. Utzinger, Introduction: Future Challenges of European Citizenship. Facing a Wide-open Pandora’s Box?, in European Law
Journal, 2007, 573 e segg.; conf. S. Giubboni, Diritti, cit., 225.
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Articolo 22 - Diversità culturale , religiosa e linguistic a
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CDE
Università degli Studi di Salerno
Università Ca’ Foscari di Venezia
Articolo 22
Diversità culturale, religiosa e linguistica
Articolo 22
L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica.
La cittadinanza culturale
di Emilio Ciaburri, Maria Senatore , Stefania Tesser
(282)
 
(283)
 
1. Il concetto di cittadinanza e la cittadinanza europea
La cittadinanza dell’Unione è un elemento pregnante nella costruzione dell’identità europea (284). Se è vero
che «ogni processo di integrazione che coinvolge individui, costumi e istituzioni implica l’idea di una qualche identità culturale unitaria…» (285), risulta inscindibile il nesso fra cittadinanza e cultura (intesa come sentimento di identità e di continuità) nel progetto dell’integrazione.
Al centro di tale progetto è l’individuo. Destinatario di riconoscimento e tutela di diritti da parte delle istituzioni comunitarie. La stessa moderna idea di cittadinanza, dalla sua originaria formulazione, verte su tale
aspetto garantista (286).
Si fa qui riferimento alla teorizzazione di Thomas Humprey Marshall (1893-1981), sociologo e storico inglese. Nel suo impianto teorico la cittadinanza si sostanzia nel riconoscimento di diritti civili (libertà di parola,
di pensiero, di coscienza, diritto alla proprietà); di diritti politici (elettorato attivo, con l’estensione del diritto di voto per l’idea di universalismo come garanzia di democrazia e elettorato passivo, come accesso agli
uffici pubblici e all’associazione in partiti politici); di diritti sociali (promozione del welfare state, garanzie di
sussistenza economica, sussidiarietà verso gli svantaggiati, diritto all’accesso al lavoro, alle cure mediche,
all’istruzione ecc.) (287).
 
 
 
 
L’evoluzione del concetto di cittadinanza
Il mondo capitalistico è stato interessato da rapidi processi di sviluppo: sino a giungere, con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione, agli esiti dell’età contemporanea (lla post-modernità, nella definizione degli storici) (288). Fra tali mutamenti, di fondamentale rilevanza è il pluralismo culturale: per il quale si
 
(282)
(283)
(284)
(285)
(286)
(287)
(288)
Documentalisti del CDE dell’Università degli Studi di Salerno
Documentalista responsabile del CDE dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Significativo, a tale riguardo, è il lungo percorso intrapreso dalla cittadinanza europea fino alla sua effettiva formalizzazione nel trattato di
Maastricht, ripresa nel trattato di Lisbona e peculiarmente definita nell’art. 20 del trattato di funzionamento dell’Unione (TFUE), che le
conferisce carattere aggiuntivo rispetto alla cittadinanza di uno Stato membro.
S. Fuselli, «Raccontarsi nell’altro: al principio della coscienza europea,» in Cittadinanza e diversità culturale nello spazio giuridico europeo,
di M.C. Baruffi (Padova: Cedam, 2010), 121.
In questa ottica, i diritti dei quali la cittadinanza riconosce la titolarità e l’agibilità informano lo status individuale all’uguaglianza. Permettono
al cittadino, cioè, l’integrazione e la partecipazione alla vita di comunità senza ostacoli e condizionamenti «classisti». cfr. B. Turner, «Outline
of a Theory of Citizenship,» in Dimensions of radical democracy. Pluralism, citizenship, community, a cura di C. Mouffe, (New York: Verso,
1992), 33-62.
T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (Torino: Unione tipografico-editrice torinese, 1976).
Esemplare al riguardo il fenomeno conosciuto come la «crisi del welfare»: il sistema di protezione sociale e di sussidiarietà rappresenta
uno stigma definente dell’assetto istituzionale degli stati occidentali, ma è stato minato dall’affermazione della visione economicista delle
dinamiche sociali (dei modelli economici improntati alla concezione liberista, alle logiche del mercato e della ricerca del profitto); cfr. J.
Rifkin, The empathic civilization: the race to global consciousness in a world in crisis (New York: Penguin, 2009).
80
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ridefiniscono vincoli associativi secondo particolari istanze di inclusione che, pur conservando logiche e
motivazioni identitarie, in breve hanno assunto dimensioni generali, universalistiche.
Risalta pertanto un dato irrefutabile: quanto più rilevante sia stato il livello dei cambiamenti sociali, tanto
più peculiari dovrebbero risultare i termini di una riformulazione dell’idea di cittadinanza. Sino a giungere
a una sua «risemantizzazione»: conferire alla cittadinanza, cioè, specifiche connotazioni che la definiscano
quale fondamentale strumento della democrazia e dell’inclusione sociale.
A tale proposito si può richiamare la riflessione del sociologo Raymond Williams (1921-1988). Lo studioso,
già a partire da un’analisi del 1961, auspica la long revolution (289). Un percorso di modernizzazione della società che realizzi il modello di cittadinanza che si affermi, ovviamente, nella tutela di diritti, ma che avvalori
in primo luogo le esigenze di integrazione sociale attraverso l’accesso ai mezzi di comunicazione; a ogni
strumento di diffusione delle idee. Con la rilevanza preminente riconosciuta alla cultura, intesa sia come
way of life (come modo di vivere), sia come proposizione di pratiche artistiche: espressioni creative per la
comunicazione e la condivisione di nuovi codici e significati (290). Un’assunzione, dunque, della arti performative come azione partecipativa di cittadinanza attiva (291).
Una visione preconizzante delle forme alle quali è pervenuta l’attuale società, definita, secondo l’intuizione
dei sociologi Manuel Castells e Jan van Dijk, come la network society (292). La definizione designa una società
fortemente caratterizzata dai mass-media, nei quali il singolo, i gruppi, le organizzazioni e le comunità
reclamano un ruolo maggiore nelle decisioni che incidono sulla vita sociale. Le rivendicazioni seguono il
modello della «massa critica». Il concetto è mutuato dalla fisica: indica le particolari modalità di espressione dell’impegno civile con le quali si intende innescare il processo di cambiamento sociale. Esso sarà provocato, indotto, da una minoranza attiva che raggiunga un grado di influenza generale attraverso iniziative
di mobilitazione che si servono della comunicazione istantanea e pervasiva del web (si parla di fenomeni
di comunicazione virale, al riguardo) (293).
 
 
 
 
 
La cittadinanza culturale e la cittadinanza europea
Questa elaborazione dottrinale rappresenta il punto di snodo per un nuovo approccio alle tematiche della
cittadinanza. Il concetto si è evoluto fino a pervenire alla corrente accezione: in essa, tra i diritti fondamentali della persona assicurati dallo status di cittadino, spicca la salvaguardia della diversità culturale (294).
L’auspicata innovazione del concetto di cittadinanza, la sua integrazione valoriale e funzionale, dunque, si
realizza con la proposizione e il riconoscimento dei diritti culturali (295). Nella sua nuova definizione, la cittadinanza contempla e delinea, come suoi peculiari, gli ambiti della cittadinanza culturale (296).
Il riferimento principale, a tale proposito, è nella teorizzazione di Jan Pakulski (1941). Alla cittadinanza caratterizzata dalla tripartizione dei diritti teorizzata da Marshall, Pakulski aggiunge, di fatto, i diritti culturali (297).
Per l’effettivo riconoscimento della cittadinanza culturale, Pakulski individua una configurazione duale che
si evidenzia nei contenuti peculiari della rappresentazione e dell’identificazione. Nella sua elaborazione
 
 
 
 
(289)
(290)
(291)
(292)
(293)
(294)
(295)
(296)
(297)
R. Williams, «Culture is ordinary» in Resources of hope: culture, democracy, socialism, di R. Williams e R. Gable (London: Verso, 1989), 3-14.
Ibid. Se lo sviluppo capitalistico ha comportato una compressione dei diritti riconosciuti al cittadino, o degli spazi per rivendicarne
l’effettività, l’ambito della cultura gli restituisce un luogo in cui esercitare a pieno il suo diritto di rappresentanza.
Cfr. A. Delli Paoli e S. Leone «La promozione della creatività,» in Nuove generazioni e ricerca sociale per le politiche giovanili, a cura di S.
Leone (Milano: Franco Angeli, 2012), 155-178. La tematica è stata al centro anche dell’intervento che la prof.ssa S. Leone ha tenuto
nell’ambito dell’evento Cittadinanza culturale: identità espressione partecipazione nello spazio europeo, organizzato il 26 giugno 2013 dal
CDE dell’Università degli Studi di Salerno.
v. M. Castells, The information age: economy, society and culture. Vol. 1, The rise of the network society (Cambridge; Oxford: Blackwell,1996);
J. van Dijk, The network society: social aspects of new media (New York: Sage,1999).
Un approdo, dunque, della lunga rivoluzione immaginata da Williams, nella quale l’inclusione sociale verta sul nodo dell’accesso e l’utilizzo
dei mezzi di comunicazione. . Si pensi ai recenti movimenti d’opinione (occupy wall street; indignados, we are the 99% ecc.) che si sono
diffusi in piena autonomia rispetto ai soggetti rappresentativi istituzionali, parlamenti, partiti politici, come rispetto ai tradizionali gruppi di
pressione — la stampa e la televisione — e anzi, spesso, in aperta contrapposizione ad essi.
Nella consapevolezza della ricchezza delle umane possibilità, della qualità della diversità: perché il carattere unico e irripetibile di ogni
persona, espresso dalla sua creatività, si confermi una risorsa e non il pretesto per la marginalizzazione o l’esclusione. La tesi predominante
nel volume del sociologo dell’University of Sussex si fonda sulla convinzione che, in questa temperie culturale, le istanze da parte
dell’individuo e dei gruppi sociali declinano nuove modalità di affermazione della cittadinanza attiva nell’ambito della tutela identitaria
della diversità culturale, sollecitando maggiore rappresentatività e democrazia sostanziale all’interno delle istituzioni. Cfr. B. Higmore, a
cura di, The everyday life reader (London-New York: Routledge, 2002).
Ibid. Si fa riferimento a diritti che riflettono espressività, rappresentazioni, conoscenze, pratiche sociali e competenze. La richiesta di tutela
di essi diviene, in tal modo, uno strumento di manifestazione identitaria: l’affermazione, da parte del singolo, del proprio ruolo sociale, del
proprio modo di essere e di vivere, della propria unicità.
Il tema della cittadinanza culturale, in realtà, è complesso. Il concetto esula da formalizzazioni in istituti, da classificazioni deterministiche;
è materia che attinge a spazi simbolici, immateriali: a un corpus di significati plurale e diffuso, cfr. R. Rosaldo, «Cultural Citizenship and
Educational Democracy,» Cultural Anthropology 9, no.3(1994): 402-411. Pur se datato, il contributo è illuminante fin dall’esordio: The term
cultural citizenship is a deliberate oxymoron, a pair of words that do not go together comfortably.
J. Pakulski, «Cultural Citizenship,» Citizenship Studies 1, no.1(1997): 73-86.
81
Articolo 22 - Diversità culturale , religiosa e linguistic a
i due contenuti si esprimono attraverso quattro tipologie di diritti culturali: diritti di testimonianza e partecipazione mediante espressioni simboliche (symbolic presence); diritti di riconoscimento della dignità
delle forme di rappresentazione (dignifying representation); diritti di manifestazione della sfera identitaria
(propagation of identity); diritti di mantenimento di stili di vita peculiari (propagation of distinct cultural
lifestyles) (298).
Nell’ambito delle politiche poste in essere dall’UE, si riscontrano le modalità secondo le quali vengono
declinate le tematiche della cittadinanza cogliendo i caratteri precipui di questa rinnovata concezione. Lo
testimonia, ad esempio, la continuità degli orientamenti programmatici assicurata dal presidente Barroso
nella materia (299). In precedenza si potevano rinvenire i lineamenti caratterizzanti questa stessa visione nel
«libro bianco sul dialogo interculturale» (300), presentato dal Consiglio d’Europa il 7 maggio 2008. Esso verte
sui concetti che si sono qui evidenziati, quali il rispetto della dignità individuale, del pluralismo e della diversità, della solidarietà, della partecipazione alla vita sociale, culturale, economica e politica.
Sempre sotto l’egida del Consiglio d’Europa, è stato inoltre redatto il «Manifeste européen pour la multiple appartenance culturelle» (301) del 2007, che, fra l’altro, auspica una «citoyenneté européenne en construction reposant sur la reconnaissance mutuelle de cultures différentes e l’attachement à des valeurs
partagées» (302).
Si può far riferimento, inoltre, a documenti ancora risalenti: alla Dichiarazione di Faro del 2005; al colloquio
sul tema «La cultura europea: identità e diversità», tenutosi a Strasburgo nei giorni 8 e 9 settembre, sempre nel 2005; alle linee guida della Dichiarazione di Wroclaw del 2004; alla dichiarazione di Opatija su «Intercultural Dialogue and Conflict Prevention» del 2003, che prosegue nella direzione del progetto «Intercultural Dialogue and Conflict Prevention Project», lanciato dal Consiglio d’Europa per il triennio 2002-2004.
Si evince, dunque, che la salvaguardia della diversità e del pluralismo culturale siano costantemente oggetto degli interventi e dei programmi dell’UE (303).
Un’assidua attenzione alla tutela dei diritti culturali, in modo che essa consegua nei nostri antichi confini,
agibilità ed effettività per l’impegno civile e l’affermazione identitaria dell’homo novissimus: il cittadino
europeo.
 
 
 
 
 
 
Cittadinanza europea, democrazia partecipativa e diritti culturali (304)
 
Con l’art. 3 del trattato sull’UE
e l’art. 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (306) la
diversità culturale è uno dei diritti fondamentali assicurati a tutti i cittadini dell’Unione europea. La cittadinanza europea garantisce a tutti i cittadini dell’Unione la stessa possibilità di difesa dei diritti fondamentali
superando l’idea di nazionalità intesa come appartenenza etnica o statale. Infatti, l’appartenenza ad una
organizzazione sovranazionale come l’Unione europea prescinde dall’avere una lingua e una cultura comuni, caratteristica dello Stato-nazione: il cittadino dell’UE si sente cittadino europeo senza rinunciare alle
altre identità (nazionale, locale). Il patrimonio costituzionale europeo accoglie cosi un’interpretazione del
principio di uguaglianza come diritto alla diversità: coloro che esprimono la propria specificità, diversità
non devono essere considerati minoranza, ma come gruppi più o meno consistenti che hanno il diritto di
esprimere la loro identità.
(305)
 
(298)
(299)
(300)
(301)
(302)
(303)
(304)
(305)
(306)
 
Di ognuna di esse Pakulski designa lo scopo (nella sua lezione, i gruppi che li hanno reclamati: con una identificazione tra soggetto sociale
e obiettivi da perseguire) e il dominio (sempre secondo la terminologia adottata dall’autore, i contenuti peculiari della categoria). Con i
contenuti e gli attori sociali richiedenti, sono evidenziate anche le istituzioni-chiave e i luoghi di convivenza nei quali i diritti sono posti in
essere.
J.M. Barroso, Orientamenti politici per la prossima Commissione (Bruxelles: Commissione europea, 2009).
Consiglio d’Europa, libro bianco sul dialogo interculturale. Vivere insieme in pari dignità. Strasburgo, 7 maggio 2008, (Strasbourg: COE,
2008).
Conseil de l’Europe, Manifeste européen pour la multiple appartenance culturelle, Strasbourg, 3 dicembre 2007. Brussels: COE, 2008.
Ivi, 3.
Si può dire che le politiche di intervento dell’Unione nella materia seguano il tipico percorso dell’espansione dei diritti nell’ambito della
cittadinanza: secondo il processo dialogico (e spesso dialettico), cioè, che parte dalla rivendicazione di diritti e tutela da parte degli attori
sociali e si conclude con l’accoglimento delle istanze e il riconoscimento formale di garanzie da parte delle istituzioni. Cfr. L. Grifone
Baglioni, Capire le disuguaglianze attraverso la cittadinanza (Firenze: LG Baglioni, 2008).
I contenuti di questa sezione sono tratti dal workshop «Al cuore della cittadinanza europea: i diritti culturali», organizzato il 4 giugno 2013
dal Centro di documentazione europea dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. I vari contributi saranno liberamente accessibili all’interno
della collana online Sapere l’Europa, sapere d’Europa in corso di pubblicazione presso Ca’ Foscari Digital Publishing. Si ringraziano in
particolare: M. Cermel, C. Chiuppani, B. Cortese, A. D’Alessandro, I. Padoan, L. Zagato.
«[L’Unione europea] rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio
culturale
europeo».
Versione
consolidata
del
trattato:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.
do?uri=OJ:C:2012:326:0013:0046:IT:PDF.
Testo integrale: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:083:0389:0403:IT:PDF. Ricordiamo che il trattato di
Lisbona ha conferito alla Carta lo stesso valore giuridico dei trattati.
82
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
A livello internazionale esistono attualmente strumenti giuridici, soprattutto la Convenzione di Faro (307), che
hanno implicato un cambiamento di prospettiva nel rapporto tra cittadino e patrimonio culturale sottolineandone la dimensione partecipativa: oggi si tende sempre più a parlare di diritto al patrimonio culturale
come diritto delle comunità alla selezione, tutela, promozione del patrimonio culturale indipendentemente
dalle origini etniche e geografiche e secondo le definizioni che di questi diritti danno le diverse heritage
communities.
La tutela della diversità culturale trova quindi il suo ulteriore sviluppo in una responsabilità condivisa: i
cittadini sono chiamati a cooperare attivamente con le istituzioni pubbliche alla definizione e gestione
del patrimonio tangibile e intangibile che è espressione della loro identità culturale. Il cittadino deve però
avere gli strumenti per prendere consapevolezza del valore di questo patrimonio e per tutelarlo. In questa
accezione i diritti culturali rappresentano il diritto di accesso alle risorse culturali appropriate e designano
le capabilities che servono ad esercitare quei saperi necessari a abitare il proprio ambiente, produrre le
risorse, scegliere la migliore educazione o il miglior sistema politico. Sono quindi una dimensione trasversale dell’esistenza che coinvolge anche la partecipazione alla vita politica, componente essenziale della
cittadinanza.
La cittadinanza europea trova pieno riconoscimento nel trattato di Lisbona che ha tra i suoi obiettivi la promozione di una democrazia europea in cui i cittadini hanno maggiori opportunità di partecipare al funzionamento dell’UE. Alcuni strumenti sono indicati nell’art. 10 del trattato sull’UE che fonda il funzionamento
dell’Unione sulla democrazia rappresentativa e quindi sul ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti
nazionali, oltre che delle istituzioni intergovernative. Nel medesimo articolo la dimensione partecipativa
della democrazia è esplicitata nell’iniziativa politica dei cittadini e in una maggiore trasparenza ed apertura
delle istituzioni tramite la regolamentazione dell’accesso ai loro documenti ed il meccanismo delle consultazioni.
Esiste quindi un quadro giuridico che rende possibile la partecipazione dei cittadini alla valorizzazione del
loro territorio. Il substrato sociale dell’Unione non è tuttavia sempre in grado di approfittarne. Uno dei
principali ostacoli alla formazione di una cittadinanza consapevole da parte di alcuni gruppi è l’esclusione
sociale dovuta ad un inadeguato livello di istruzione: chi è privo degli strumenti culturali necessari a comprendere i fenomeni sociali che lo investono non è in grado di partecipare alle scelte politiche e il principio
della sovranità popolare, perno di ogni democrazia, risulta indebolito. Questi gruppi avranno quindi difficoltà anche a tutelare la propria identità culturale. Le politiche dell’Unione europea dovrebbero concentrare i
loro sforzi nel rimuovere questi ostacoli per la realizzazione di una effettiva uguaglianza di tutti i cittadini
ma molto può essere fatto anche da quest’ultimi. È importante da un lato creare una sempre più diffusa
consapevolezza sul valore dell’eredità culturale delle diverse comunità, dall’altro riflettere sulle metodologie e gli strumenti di applicazione della legislazione comunitaria e delle convenzioni internazionali (308). In
particolare, è importante favorire uno scambio di idee e di buone pratiche su come creare dei momenti di
dialogo tra i vari soggetti coinvolti: pubblica amministrazione, istituzioni culturali, università e cittadini rappresentati nelle varie associazioni. In questa prospettiva, forniamo qui di seguito alcuni esempi di iniziative
realizzate o in corso di realizzazione per favorire una partecipazione democratica alla cultura.
A Venezia l’associazione culturale «Faro Venezia (309)» si occupa della promozione della Convenzione di Faro
e di darne consistenza operativa attraverso le «passeggiate patrimoniali» che si svolgono principalmente
durante le «giornate europee del patrimonio (310)». Si tratta di percorsi nei quali i cittadini imparano a conoscere e a prendere consapevolezza del valore del patrimonio materiale e immateriale della città spesso
poco conosciuto come, per esempio, l’Arsenale. Esistono a Venezia diverse associazioni culturali che hanno
acquisito questo ruolo propositivo (per es. «Venti di Cultura» per la laguna) e di interfaccia tra cittadini,
visitatori e patrimonio culturale e ambientale della città. Sono tuttavia una realtà ancora frammentata.
Anche per superare questa frammentazione «Faro Venezia» ha proposto l’istituzione di una Commissione
patrimoniale sul modello già realizzato a Marsiglia. Si tratta di un luogo di «consultazione permanente tra le
amministrazioni pubbliche e le comunità patrimoniali attive nel loro territorio di riferimento (311)». È costituita
dai rappresentanti delle diverse comunità patrimoniali e funge da anello di collegamento tra amministra 
 
 
 
 
(307)
(308)
(309)
(310)
(311)
Testo della «Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società» del 2005 (traduzione non ufficiale
in italiano): http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/UfficioStudi/documents/1362477547947_Convenzione_di_Faro.pdf. Versione
ufficiale in inglese: http://conventions.coe.int/Treaty/EN/Treaties/Html/199.htm
Oltre alla già citata Convenzione di Faro, ricordiamo la convenzione europea sul paesaggio: http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/
html/176.htm
Per informazioni sull’associazione: http://www.unfaropervenezia.eu/
Cfr. Calzolaio F., Strategie di partecipazione per il patrimonio culturale veneziano, l’arsenale e la laguna, 2013: http://www.unfaropervenezia.
eu/phocadownload/articolo%20calzolaio%20-%20partecipazione%20al%20patrimonio.pdf
A De Vita , Proposta per l’istituzione di una Commissione patrimoniale a Venezia, 2013: http://www.unfaropervenezia.eu/phocadownload/
proposta%20per%20commissione%20patrimoniale%20di%20faro%20venezia.pdf
83
Articolo 22 - Diversità culturale , religiosa e linguistic a
zione e le diverse associazioni assicurando loro un ruolo propositivo nel definire iò che è patrimonio e quali
sono le modalità della sua valorizzazione.
Attualmente l’associazione ha anche proposto una sorta di «Carta di Venezia» che è ancora in elaborazione. Si tratta di un documento proposto dai cittadini dove vengono definite le principali linee guida e azioni
che devono intraprendere le comunità locali e le amministrazioni pubbliche ai vari livelli per dare attuazione ai principi della convenzione di Faro. L’intento è di dare massima diffusione al documento presso le
comunità patrimoniali di tutta Europa per creare un processo di riflessione sui principi di Faro e favorire lo
scambio di nuove idee e buone pratiche. Tra i principi in discussione: dare alle comunità cittadine un ruolo
propulsore nell’applicazione dei principi di Faro sviluppando una rete tra queste città; favorire la creazione
di commissioni patrimoniali; fare una mappatura degli elementi di interesse ereditario, cioè individuare
quei luoghi che dal punto di vista dei cittadini hanno un significato forte; creare dei poli di formazione
europea legati all’artigianato; creare una rete permanente di città che possono contribuire al tema della
partecipazione democratica della cultura (312).
 
Il partenariato «Terre del Brenta» è invece un esempio di come l’iniziativa dei cittadini abbia portato alla
creazione di un parco in un ex latifondo Morosini (provincia di Vicenza). Un risultato che è stato possibile
perché dei cittadini hanno saputo sfruttare le opportunità offerte dallo strumento comunitario denominato
«Approccio LEADER (313)» per la gestione partecipata delle strategie di sviluppo; è uno strumento ben collaudato nei Gruppi di azione locale (GAL), organismi senza fini di lucro aperti a tutti i soggetti presenti sul
territorio. È stata l’occasione per creare un partenariato con le pubbliche amministrazioni ed i privati (314) per
la gestione dei fondi comunitari e denominato «Terre del Brenta»: un’associazione non-profit a gestione
pubblico-privata che ha coinvolto diversi attori (amministrazioni, aziende private, associazioni di categoria
e di volontariato ecc.). Anche il settore culturale ha avuto buone possibilità di essere coinvolto in iniziative
di sviluppo locale sostenibile perché la tendenza è di incoraggiare progetti integrati. Ora si aprono nuove
possibilità con lo strumento denominato Community Led Local Development (CLLD, Sviluppo locale di tipo
partecipativo) (315) che punterà ancora di più sulla partecipazione attiva dei cittadini per indirizzare le pubbliche amministrazioni a usare le risorse verso obiettivi e strategie condivisi. Anche se esiste ancora qualche
difficoltà a coinvolgere gli amministratori ad aprire un tavolo comune per elaborare congiuntamente un
programma di sviluppo locale, questi brevi esempi dimostrano che è possibile attuare delle politiche culturali bottom-up e che questo può essere un modo per rendere effettiva la tutela del diritto alla diversità
culturale delle comunità presenti nel territorio dell’Unione.
 
 
 
BIBLIOGRAFIA DEI DOCUMENTI CONSULTATI
Ultima consultazione dei link segnalati: 30 ottobre 2013
Barroso, José Manuel. Orientamenti politici per la prossima Commissione. Bruxelles: Commissione europea, 2009.
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Calzolaio, Francesco. Strategie di partecipazione per il patrimonio culturale veneziano, l’arsenale e la laguna, 2013. <http://www.unfaropervenezia.eu/phocadownload/articolo%20calzolaio%20-%20partecipazione%20al%20patrimonio.pdf>
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(312)
(313)
(314)
(315)
Per ulteriori chiarimenti vedere il sito dell’associazione « Faro Venezia»: http://www.unfaropervenezia.eu/
Maggiori informazioni sul sito della Rete europea per lo sviluppo rurale: http://enrd.ec.europa.eu/leader/leader/leader-tool-kit/theleader-approach/it/the-leader-approach_it.cfm
Per maggiori informazioni vedere il sito del partenariato «Terre del Brenta»: http://www.terredelbrenta.it/
Per maggiori informazioni: http://enrd.ec.europa.eu/themes/clld/.
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
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Per approfondimenti sul tema della Cittadinanza culturale europea si segnala, inoltre, la bibliografia consultabile on line: http://www.
unisa.it/uploads/867/20130411_bibliografia_del_cde_unisa_sul_tema_cittadinanza_culturale_nello_spazio_europeo.pdf
Articolo 23 - Parità tra donne e uomini
85
CDE
OPIB ICCU Roma
Articolo 23
Parità tra donne e uomini
Articolo 23
La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione,
di lavoro e di retribuzione.
Parità tra donne e uomini. Diritto alla parità di genere
di Massimina Cattari
(316)
 
Introduzione
Il trattato di Lisbona del 2009 ha ribadito che « l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana,
della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani». «L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la
parità tra donne e uomini e la solidarietà tra le generazioni» (317).
La più forte e più esplicita manifestazione di questi valori si trova nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (318).
La Carta, adottata nel dicembre 2000 e inserita nel trattato di Lisbona nel 2009, comprende il capitolo
III intitolato «Uguaglianza», che riprende i principi di non discriminazione, diversità culturale, religiosa e
linguistica, in particolare l’Articolo 23 — Parità tra donne e uomini. Il capitolo affronta, inoltre, il tema dei
diritti dei bambini, degli anziani e dei disabili.
 
 
Le pari opportunità
Quello delle Pari opportunità è un principio di carattere generale le cui principali componenti sono la parità
di trattamento tra le persone e la parità tra uomini e donne. Tale principio è applicabile in tutti i campi, in
modo particolare nella vita professionale, nell’istruzione, nell’accesso ai beni e servizi e alle cure sanitarie.
Il riconoscimento del principio di parità fa parte degli obiettivi dell’Unione europea e il principio di non discriminazione, ad esso strettamente connesso, è stato rafforzato dai trattati di Amsterdam (319) e di Lisbona.
L’UE può così adottare tutti i provvedimenti necessari per combattere qualsiasi forma di discriminazione
fondata sulla razza o l’origine etnica, la religione o il credo, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
 
Le principali iniziative legislative adottate dall’UE sulle Pari opportunità
Il trattato istitutivo della Comunità economica europea (320) ha sancito nel 1957 il principio della parità tra
 
(316)
(317)
(318)
(319)
(320)
Responsabile del Centro di documentazione europea CDE OPIB. ICCU. Ufficio Documentazione Programmi Internazionali — OPIB —
Osservatorio Programmi Internazionali per le Biblioteche — Roma.
Trattato di Lisbona: http://eur-lex.europa.eu/JOHtml.do?uri=OJ:C:2007:306:SOM:IT:HTML
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è stata proclamata in forma solenne nell’ambito del Consiglio europeo di Nizza il 7
dicembre 2000. Pubblicata il 30.3.2010 sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (C 83/02). http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/
LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:083:0389:0403:IT:PDF. Essa si basa sui trattati comunitari, sulle convenzioni internazionali, sulle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, nonché sulle varie dichiarazioni del Parlamento europeo. Con l’entrata in vigore del trattato di
Lisbona il 1º dicembre 2009, la Carta ha ricevuto lo stesso valore giuridico vincolante dei trattati.
Trattato di Amsterdam: http://eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/11997D/htm/11997D.html
Trattato che istituisce la Comunità economica europea http://europa.eu/legislation_summaries/institutional_affairs/treaties/treaties_
eec_it.htm
86
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uomini e donne, esigendo in un primo momento la parità di retribuzione per lo stesso lavoro.
La parità di trattamento tra donne e uomini è stata un principio fondante dell’Unione europea quando il
trattato di Roma sancì il principio della parità salariale. A partire dal 1975, diverse direttive hanno esteso
l’applicazione del principio di parità tra uomini e donne alle condizioni di lavoro, alla formazione e alla promozione professionali, alla sicurezza sociale, all’accesso a beni e servizi, alla protezione della maternità e
del congedo parentale. Tale principio è stato in seguito esteso alla difesa dei diritti, al risarcimento delle
vittime e all’onere della prova nei procedimenti giudiziari.
Il trattato di Amsterdam (1997) ha permesso di integrare la tematica uomo-donna in tutte le politiche comunitarie e di erigere il principio di parità di trattamento a diritto fondamentale.
L’Unione europea riconosce inoltre il principio di non discriminazione che costituisce la base della lotta
contro le disparità di trattamento.
Il trattato di Nizza (2001) (321), riconosceva invece la necessità di adottare azioni positive volte a incoraggiare
la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Il trattato di Lisbona (2009) afferma il principio della parità tra donne e uomini a valore comune dell’Unione
europea (articolo 2 del trattato UE (TUE)). L’Unione promuove l’uguaglianza (articolo 3 del TUE) e lotta contro le disparità nel quadro delle azioni che mette in atto (articolo 8 del trattato sul funzionamento dell’UE
(TFUE)).
Il principio di uguaglianza è inoltre un diritto sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Questa ha acquisito un valore vincolante in seguito alla sua integrazione nel TUE.
L’Unione europea interviene, quindi, attivamente per eliminare la discriminazione e realizzare la parità dei
generi. Gli obiettivi principali prevedono l’eliminazione degli stereotipi sessisti e la realizzazione dell’indipendenza economica per le donne, affinché esse possano lavorare, avere un proprio reddito e avere pari
diritti alle prestazioni sociali.
I programmi dell’UE sostengono finanziariamente l’attuazione di questi obiettivi.
 
Le Strategie e i Programmi comunitari di promozione della Parità di genere
Ai programmi pluriannuali di promozione della parità di trattamento, avviati negli anni 1980, la Commissione europea ha associato la Strategia comunitaria in vigore per il periodo 2001-2005.
In seguito, è stata adottata un’altra Strategia comunitaria per gli anni 2006-2010, che ha riguardato i settori
d’intervento prioritari quali: l’indipendenza economica, la conciliazione della vita privata e della vita professionale, la pari rappresentanza nella vita pubblica e nel processo decisionale, l’eradicazione della violenza e della tratta delle donne, l’eliminazione degli stereotipi presenti nella società e infine la promozione
della parità tra i sessi al di fuori dell’UE.
L’UE ha anche creato una Rete di donne che occupano posizioni di responsabilità per accelerare il loro accesso al potere; nel 2006 è stato inoltre istituito a Vilnius (Lituania) un Istituto europeo per l’uguaglianza
di genere EIGE (322).
 
La Strategia per la parità tra donne e uomini (2010-2015)
La Commissione europea presenta le nuove priorità in materia di parità tra uomini e donne. Questa Strategia ha l’obiettivo principale di contribuire a migliorare la posizione delle donne nel mercato del lavoro, nella
società e nelle posizioni decisionali, tanto nell’Unione europea quanto nel resto del mondo (323).
La presente Strategia fa seguito alla «tabella di marcia 2006-2010» (324) per la parità fra le donne e gli uomini. Essa riprende le priorità definite dalla «Carta per le donne» (325), e costituisce il programma di lavoro della
Commissione, descrivendone le azioni chiave previste nel periodo 2010-2015.
Questa Strategia costituisce inoltre una base per la cooperazione fra la Commissione, le altre istituzioni
europee, gli Stati membri e le altre parti interessate, nel quadro del patto europeo per la parità di genere.
I settori d’intervento prioritari della Strategia sono:
• Indipendenza economica delle donne;
• Pari retribuzione;
• Parità nel processo decisionale;
 
 
 
(321)
(322)
(323)
(324)
(325)
Trattato di Nizza: http://europa.eu/legislation_summaries/institutional_affairs/treaties/nice_treaty/index_it.htm
http://eige.europa.eu/
Strategia per la parità tra donne e uomini: http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_policy/equality_between_
men_and_women/em0037_it.htm
Tabella di marcia per la parità fra le donne e gli uomini (2006-2010): http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_
policy/equality_between_men_and_women/c10404_it.htm
Carta per le donne: http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_policy/equality_between_men_and_women/
em0033_it.htm
Articolo 23 - Parità tra donne e uomini
87
• Dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne;
• Parità tra donne e uomini nelle azioni esterne.
Indipendenza economica delle donne: si è finora rilevato che il tasso di occupazione delle donne è aumentato in maniera significativa nel corso dell’ultimo decennio. Questa crescita deve proseguire per raggiungere l’obiettivo fissato dalla Strategia Europa 2020 (326), che prevede un tasso di occupazione del 75%
e va estesa alle donne con i tassi di occupazione più bassi. Occorre migliorare la qualità dei posti di lavoro
e delle politiche di conciliazione della vita privata e di quella professionale.
Pari retribuzione: la Commissione sottolinea il persistere di un divario retributivo tra uomini e donne, anche per lo stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Le cause di tale divario sono molteplici e derivano,
in particolare, anche dalla disparità di accesso all’istruzione e al mercato del lavoro.
Parità nel processo decisionale: le donne sono sottorappresentate nei processi decisionali, sia nei parlamenti e governi nazionali sia nei consigli di direzione di grandi imprese. Esse rappresentano tuttavia la
metà della forza lavoro e più della metà dei nuovi diplomati universitari dell’UE.
Dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne: si stima che in Europa il 20-25% delle
donne sia stato oggetto di violenze fisiche almeno una volta nella vita e che circa mezzo milione di donne
viventi in Europa sia stato sottoposto a mutilazioni genitali.
Parità tra donne e uomini nelle azioni esterne: la politica esterna dell’UE intende contribuire alla parità tra
uomini e donne e all’emancipazione femminile (327).
 
 
Il programma Progress (2007-2013)
La suddetta Strategia viene perseguita dall’attuale Programma comunitario per l’occupazione e la solidarietà sociale PROGRESS in vigore per il periodo 2007-2013 (328).
Il programma Progress è stato istituito per sostenere finanziariamente la realizzazione degli obiettivi dell’Unione europea nei settori dell’occupazione e degli affari sociali, fissati nella comunicazione della Commissione sull’ «Agenda Sociale» (329), e quindi a contribuire al conseguimento degli obiettivi della Strategia di
Lisbona in questi ambiti.
Il programma è suddiviso in cinque sezioni (330), ognuna delle quali, in relazione alle proprie tematiche, riprende gli obiettivi del programma. In particolare, le sezioni 4 e 5 trattano:
• La Diversità e lotta contro la discriminazione: che sostiene l’applicazione efficace del principio della
non discriminazione e ne promuove l’integrazione in tutte le politiche comunitarie;
• la Parità fra uomini e donne: che sostiene l’applicazione efficace del principio della parità fra uomini e
donne e promuove l’integrazione della dimensione di genere in tutte le politiche comunitarie.
Per un periodo di 7 anni Progress collabora con il Fondo sociale europeo (FSE).
 
 
 
Il Programma DAPHNE III (2007-2013)
L’UE combatte la tratta, gli abusi e la violenza ai danni delle donne.
La Commissione europea finanzia il Programma DAPHNE III (nell’ambito del Programma generale Diritti fondamentali e giustizia), volto a tutelare
le donne, i bambini e i giovani da ogni forma di violenza (331).
Il Programma finanzia progetti quali centri di accoglienza per donne e strutture sanitarie, nonché ogni
azione volta a modificare i comportamenti e a proteggere le donne appartenenti a gruppi di migranti e a
minoranze etniche.
L’attuale DAPHNE III continua le politiche e gli obiettivi definiti con i precedenti Programmi DAPHNE (20002003) e DAPHNE II (2004-2008).
 
(326)
(327)
(328)
(329)
(330)
(331)
Strategia Europa 2020: http://ec.europa.eu/europe2020/index_en.htm
Per approfondimenti sulla Strategia per la parità tra donne e uomini e su tutte le specifiche Azioni che la Commissione intende perseguire
si può consultare il documento COM(2010) 491 def.: «Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato
economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni del 21 settembre 2010, Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015».
Per informazioni consultare il sito della Commissione europea — DG Occupazione, affari sociali ed occupazione: http://ec.europa.eu/social/
main.jsp?langId=it&catId=327 e il sito OPIB http://www.opib.librari.beniculturali.it/index.php?it/172/progress
Agenda sociale europea rinnovata: http://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=89&langId=it&newsId=984&furtherNews=yes
Le prime tre sezioni del Programma Progress riguardano: Occupazione, che sostiene l’attuazione della Strategia europea per l’occupazione
(SEO), elaborata per incoraggiare lo scambio di informazioni tra tutti gli Stati membri, allo scopo di delineare buone pratiche che possano
contribuire a creare un maggior numero di posti di lavoro di migliore qualità in ogni paese; Protezione sociale e integrazione, che sostiene
l’applicazione del metodo aperto di coordinamento (OMC) nel campo della protezione e dell’inclusione sociale; Condizioni di lavoro, che
sostiene il miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di lavoro, comprese la salute e la sicurezza sul posto di lavoro e la conciliazione
dei tempi tra lavoro e vita familiare.
http://ec.europa.eu/justice/index_it.htm#newsroom-tab
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I nuovi Programmi e le Iniziative comunitarie per gli anni 2014-2020.
Tra i Programmi di finanziamento europei che promuovono le tematiche delle Pari Opportunità, diversità e
lotta contro la discriminazione, si segnalano «Diritti e Cittadinanza» e «Fondi strutturali Europei».
Programma Diritti e Cittadinanza (2014-2020)
Il Programma europeo «Diritti e Cittadinanza» (332) sostituirà gli attuali programmi Progress, Daphne III e
Diritti fondamentali e cittadinanza, nelle seguenti componenti:
• diversità e lotta contro la discriminazione;
• parità tra uomini e donne.
L’obiettivo generale del programma è quello di contribuire alla creazione di uno spazio in cui i diritti delle
persone, quali sanciti dal trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, siano promossi e protetti.
Gli obiettivi specifici del programma sono:
• contribuire a rafforzare l’esercizio dei diritti derivanti dalla cittadinanza dell’Unione;
• promuovere i principi di non discriminazione (di razza od origine etnica, religione, convinzioni personali,
disabilità, età o orientamento sessuale);
• contribuire a garantire un livello elevato di protezione dei dati personali;
• promuovere il rispetto dei diritti del minore;
• promuovere e rafforzare i diritti derivanti dalla normativa dell’Unione sui consumatori e dalla libertà
d’impresa nel mercato interno.
La Commissione intende collaborare con le Organizzazioni internazionali attive nei settori di competenza
del programma quali il Consiglio d’Europa, L’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica
e le Nazioni Unite.
 
I fondi Strutturali Europei (2014-2020)
Per conseguire gli obiettivi della «Strategia Europa 2020» occorre avvalersi in modo più efficiente dell’intera gamma di politiche e strumenti di cui l’Unione europea dispone. Tra questi figurano politiche e strumenti
trasversali come: il mercato unico; gli strumenti della politica estera e il bilancio dell’Ue, inclusi i fondi
strutturali: Fondo sociale europeo, Fondo di coesione e Fondo di sviluppo regionale (333).
I fondi strutturali sono i principali strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea che punta
a equiparare i diversi livelli di sviluppo tra le regioni e tra gli Strati membri al fine di realizzare la «coesione
economica e sociale».
Attualmente essi sono:
1. Il Fondo sociale europeo (FSE), istituito nel 1958, che favorisce l’inserimento professionale dei disoccupati e delle categorie sociali più deboli, finanziando in particolare azioni di formazione;
2. Il Fondo di coesione, istituito nel 1994, finalizzato ad accelerare i tempi della convergenza economica,
sociale e territoriale nei Paesi con un Pil medio pro capite inferiore al 90 per cento della media comunitaria;
3. Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), istituito nel 1975, finanzia principalmente la realizzazione
di infrastrutture e investimenti produttivi che generano occupazione soprattutto nel mondo delle imprese.
In particolare, attraverso il Fondo Sociale Europeo le donne possono accedere ad un piano di formazione
specializzata e a finanziamenti che favoriscono l’imprenditoria femminile.
A questo proposito si rende opportuno segnalare la Rete europea per la promozione dell’imprenditorialità
femminile dell’UE, costituita da rappresentanti di governo responsabili della promozione dell’imprenditorialità delle donne. Ha soci in 30 paesi comunitari e fornisce consulenza, supporto e contatti per le imprenditrici, aiutandole a emergere e ad ampliare la propria attività commerciale (334).
 
 
(332)
(333)
(334)
Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce il programma «Diritti e cittadinanza» per il periodo 20142020: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0758:FIN:IT:PDF. Sito europeo: http://ec.europa.eu/justice/
newsroom/news/201 e sito OPIB: http://www.opib.librari.beniculturali.it/index.php?it/377/diritti-e-cittadinanza.
Sito della Commissione europea: http://ec.europa.eu/regional_policy/what/future/index_it.cfm; Sito OPIB: http://www.opib.librari.
beniculturali.it/index.php?it/390/fondi-strutturali-2014-2020. Si segnala inoltre il Portale OpenCoesione, primo portale sull’attuazione
degli investimenti programmati nel ciclo 2007-2013 da Regioni e amministrazioni centrali dello Stato con le risorse per la coesione. I dati
sono pubblicati perché i cittadini possano valutare se i progetti corrispondono ai loro bisogni e se le risorse vengono impegnate in modo
efficace.
Per approfondimenti consultare il sito della Commissione europea Imprese e Industria: http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/
promoting-entrepreneurship/women/index_it.htm.
Articolo 23 - Parità tra donne e uomini
89
L’UE ha anche aperto un Portale dell’imprenditorialità femminile Women’s Entrepreneurship Portal (335),
incoraggiando il lavoro in rete delle imprenditrici tra e negli Stati membri.
 
Politiche di pari opportunità in Italia
Nell’ambito dell’attuazione delle politiche di pari opportunità e non discriminazione, il Dipartimento Pari
Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri (336) promuove iniziative, protocolli d’intesa, progetti
nazionali e internazionali volti alla realizzazione di azioni positive, allo scambio di informazioni e buone
prassi tra gli attori locali e alla diffusione sul territorio dei valori rappresentati.
Il Comitato consultivo per le pari opportunità (337) assiste la Commissione europea nel suddetto compito e
nella formulazione / attuazione delle attività condotte dall’UE per promuovere la parità tra uomo e donna.
Il Comitato favorisce inoltre lo scambio di esperienze, politiche e pratiche tra gli Stati membri e le varie
parti interessate. A tal fine, sottopone alla Commissione pareri su vari temi di rilevanza per la promozione
della parità tra i sessi nell’UE.
Il 29 Gennaio 2010 il Comitato ha adottato il «Parere sul futuro della politica di uguaglianza di genere dopo
il 2010 e sulle priorità di un possibile quadro di riferimento futuro per la parità tra donne e uomini» (338), elaborato da un gruppo di lavoro (2008) presieduto dal Dipartimento per le Pari Opportunità della presidenza
del Consiglio dei Ministri.
All’interno del Dipartimento inoltre opera La «Rete per le Pari Opportunità» (339), la quale svolge un’importante attività di comunicazione attraverso il suo portale, che presenta una Sezione interamente dedicata
all’Europa e alle Pari Opportunità, alle Iniziative comunitarie e agli altri Programmi comunitari.
La «Rete per le Pari Opportunità» rappresenta, grazie ad Internet, un mezzo veloce e facilmente accessibile per favorire lo scambio di esperienze progettuali, la condivisione di strumenti di lavoro e di metodologie
operative e di assistenza tecnico-specialistica per l’attuazione del mainstreaming di genere e la realizzazione di interventi specifici nell’ambito delle politiche cofinanziate dai fondi Strutturali.
Si segnala, inoltre, che opera all’interno del nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo
(Mibact) il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità (340).
 
 
 
 
 
L’Iniziativa UE: l’Anno europeo
L’ Unione europea promuove molteplici attività che avvicinano l’Europa ai suoi cittadini. Sembra diventato improrogabile partire da una più approfondita conoscenza delle sue principali attività volte a favorire
l’avvicinamento e la partecipazione delle istituzioni europee ai cittadini. Esse, come già precedentemente
esposto, si configurano come: Strategie (Europa 2020), Strumenti di finanziamento (Programmi europei e
internazionali) e Iniziative (Anno europeo, Diritto d’iniziativa dei cittadini europei ecc.).
Tra le principali Iniziative UE è opportuno segnalare l’Anno europeo (341). Dal 1983, ogni anno, l’Unione europea sceglie un determinato tema al fine di sensibilizzare i cittadini europei e di richiamare l’attenzione dei
governi nazionali su una questione specifica.
In relazione alla tematica delle Pari Opportunità l’UE ha proclamato il 2007 l’Anno Europeo delle Pari Opportunità per Tutti (342) con l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini sui vantaggi di una società solidale, in cui
tutti abbiano pari opportunità. L’Anno europeo 2007 ha avuto successo se si guarda all’attuazione sia pratica che finanziaria dei suoi obiettivi. Le azioni prodotte sono state attuate nel rispetto dei principi chiave
relativi all’attuazione tra questi: il decentramento e il trattamento equilibrato di tutti i motivi di discriminazione. Per la prima volta è stata messa maggiore enfasi sulle diverse discriminazioni (età, razza, religione,
orientamento sessuale) e sull’integrazione di genere. A livello UE, l’Anno è stato attuato in vari modi: è
stato creato un Comitato consultivo per coinvolgere i soggetti chiave, è stato organizzato il «Parlamento
europeo delle pari opportunità per tutti», sono state condotte tre indagini Eurobarometro ed è stata avviata una campagna di informazione e di educazione su scala UE. Il fattore decisivo del successo dell’Anno
europeo è stato l’impegno politico a tutti i livelli.
 
 
(335)
(336)
(337)
(338)
(339)
(340)
(341)
(342)
http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/promoting-entrepreneurship/women/portal/index_en.htm.
Dipartimento Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei Ministri: http://www.pariopportunita.gov.it/index.php/attivita.
Comitato consultivo per le pari opportunità: http://www.retepariopportunita.it/defaultdesktop.aspx?page=3650. Il Comitato è composto
da rappresentanti degli Stati membri, delle parti sociali a livello europeo e delle ONG. È stato istituito nel 1981 mediante la decisione 82/43/
CEE della Commissione.
http://www.retepariopportunita.it/Rete_Pari_Opportunita/UserFiles/news/opinionjanuary2010.pdf
Rete per le pari opportunità: http://www.retepariopportunita.it/defaultdesktop.aspx?page=21.
http://www.cug.beniculturali.it/
Sito UE dedicato all’Anno europeo: http://europa.eu/about-eu/basic-information/european-years/index_en.htm. Una Sezione speciale
sull’Anno europeo è presente anche sul sito OPIB: http://www.opib.librari.beniculturali.it/index.php?it/229/anno-europeo
http://europa.eu/legislation_summaries/other/c10314_it.htm.
90
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Il 16 settembre 2013 a Trieste durante uno dei dibattiti pubblici sul Futuro dell’Europa, la vicepresidente della CE Viviane Reding, ha dato molta importanza, tra l’altro, alle tematiche relative alla parità di genere (343).
Data la costante attenzione e sensibilità da parte dell’UE nell’aiutare i cittadini a conciliare le esigenze professionali e famigliari, è stato proposto di designare il 2014 Anno Europeo per la conciliazione famiglia-lavoro (344). L’Anno europeo 2014 costruirà sui risultati ottenuti negli anni europei precedenti, continuerà
a perseguire gli stessi obiettivi strategici, avendo come base delle questioni trasversali estremamente
rilevanti, in particolare quelle trattate dagli Anni europei 2007 Pari Opportunità per tutti, 2010 Lotta alla
povertà e all’esclusione sociale, 2011 Volontariato, 2012 Invecchiamento attivo e della solidarietà tra le
generazioni e 2013 Cittadini.
Conclusioni
Il Centro di documentazione europea CDE OPIB (345) ha realizzato varie iniziative sui temi della cultura,
dell’informazione e del ruolo delle donne nella società tra queste:
• il 15 giugno 2012 a Roma la conferenza internazionale «Cultura, informazione e documentazione, ricerca e formazione. Il ruolo dei CDE in Europa e in Italia» in occasione dell’inagurazione del nuovo CDE
OPIB;
• il 30 maggio 2013 a Roma il Convegno «I giovani, i diritti fondamentali e la cittadinanza europea. Formarsi e lavorare nei Paesi dell’Unione europea» ideato e organizzato dai 5 CDE di Roma, nell’ambito
dell’A. E. dei Cittadini.
Entrambi gli eventi sono stati realizzati con il contributo della Rappresentanza in Italia della Commissione
europea.
L’ Europa ha compiuto notevoli progressi verso la parità tra uomini e donne durante gli ultimi decenni:
ha dimostrato il proprio impegno, ha realizzato partenariati e ha creato sinergie fra le sue risorse e i suoi
strumenti, giuridici, politici e finanziari, per operare cambiamenti. Ma è necessario che si acquisti sempre
maggiore consapevolezza sul fatto che l’Europa ha bisogno delle donne e non solo l’Europa ma tutto il
mondo e in particolar modo il mondo della cultura.
Le donne, d’altro canto, hanno bisogno dell’Europa per vivere meglio la loro cittadinanza: per questo motivo esse hanno il diritto di sapere che cosa fa l’Europa per migliorare la loro vita quotidiana e che esistono
oggi sia una legislazione europea, progressivamente elaborata, sia delle strutture ideate affinché le varie disposizioni della Commissione e del Parlamento europeo vengano correttamente applicate nei Paesi
dell’Unione.
 
 
 
(343)
(344)
(345)
http://ec.europa.eu/italia/attualita/primo_piano/comunicazione/dialogo_cittadini_it.htm
http://eyf2014.wordpree segg.com/. COFACE, la Confederazione delle organizzazioni familiari dell’Unione europea, attraverso il documento
«le 5 buone ragioni della dichiarazione scritta 32» propone il 2014 Anno europeo della conciliazione della vita professionale e familiare.
Articolo: Massimina Cattari. Comunicare l’Europa. Il nuovo centro di documentazione europea CDE OPIB e le iniziative UE 2013, in AIB
Notizie 25 (2013), n. 1. Articolo: Massimina Cattari, Roberta Lasio. Il nuovo Centro di documentazione europea CDE OPIB: attività e servizi
offerti, in DigItalia, anno VIII (2013), n. 1.
91
Articolo 24 - Diritti dei minori
CDE
Università degli Studi di Verona
Articolo 24
Diritti dei minori
Articolo 24
1. I minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono
esprimere liberamente la propria opinione. Questa viene presa in considerazione sulle questioni che li
riguardano in funzione della loro età e della loro maturità.
2. In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private,
l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente.
3. Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori,
salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.
I diritti dei minori nell’Unione europea (346)
 
di Marco Tirozzi
(347)
 
e Cinzia Peraro
(348)
 
Premessa
La tutela dei diritti dei minori rappresenta una priorità nell’azione dell’UE e trova espressa previsione
nell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali. La norma riguarda aspetti rilevanti per la protezione del
minore quale soggetto particolarmente vulnerabile, tra cui il diritto di esprimere liberamente la propria
opinione (par. 1), la centralità dell’interesse superiore del minore (par. 2) e il diritto alla c.d. bigenitorialità
(par. 3).
Il concetto a fondamento degli strumenti internazionali in materia è che il minore viene riconosciuto quale
«soggetto titolare di diritti». Non si rinviene, però, una definizione uniforme di minore: ogni persona di età
inferiore ai 18 anni secondo la convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 e la convenzione dell’Aja
del 1996 (349); fino ai 16 anni ai sensi delle convenzioni dell’Aja del 1980 (350) e di Lussemburgo del 1980 (351) e,
infine, ove mancante, viene fatto rinvio alla legge nazionale.
 
 
 
Dal 2005 ad oggi l’UE, con lo scopo di realizzare uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia», ha intrapreso
un percorso fondato su dialogo politico, azione legislativa, cooperazione internazionale e assistenza finanziaria affinché le sue politiche rappresentino per il resto del mondo un modello positivo in materia di lotta
contro ogni forma di discriminazione, abuso o violenza ai danni dei minori (352).
 
Situazioni in cui la protezione dei minori è centrale riguardano il fenomeno delle famiglie «aventi impli-
(346)
(347)
(348)
(349)
(350)
(351)
(352)
Il testo riprende le relazioni del Convegno «Diritti dei minori nell’UE: responsabilità genitoriale e obbligazioni alimentari», tenutosi a Verona
il 17 maggio 2013, organizzato dal CDE di Verona. Per i podcast delle relazioni, si veda: http://europa.univr.it/
Dott. in Giurisprudenza. Ha collaborato con il CDE di Verona per la realizzazione del Convegno nell’ambito del progetto nazionale dei CDE
2013
Dott.ssa in Giurisprudenza. Ha curato l’editing del presente contributo e realizzato il video di introduzione al Convegno organizzato dal CDE
di Verona nell’ambito del progetto nazionale dei CDE 2013, reperibile al sito: http://fmisrv.univr.it/FLV/CDE/video_CDE_Verona_ %2017_
maggio_2013.html
Reperibili rispettivamente ai siti: http://www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.htm e http://www.admin.ch/
opc/it/classified-compilation/20061344/201105120000/0.211.231.011.pdf
Reperibile al sito: http://www.esteri.it/MAE/normative/Normativa_Consolare/ServiziConsolari/TutelaConsolare/Minori/convaja_251080.
pdf
Reperibile al sito: http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/105.htm
COM(2006)367 def. del 4-07-2006, Verso una strategia dell’Unione europea sui diritti dei minori, reperibile al sito: http://eur-lex.europa.
eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2006:0367:FIN:IT:PDF
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
cazioni transnazionali», ossia nuclei familiari i cui componenti hanno nazionalità diverse, hanno la stessa
nazionalità ma vivono in un paese terzo oppure, entrambi i coniugi, ma anche singolarmente, si spostano
da un paese all’altro cambiando la propria residenza per motivi di lavoro o migrazione.
Secondo recenti statistiche, su un totale approssimativo di 122 milioni di matrimoni nell’UE, 16 milioni circa
(13%) rientrano in questa categoria. Per separazione personale si sono sciolte 8.500 unioni registrate e
sono stati pronunciati circa 140.000 divorzi di coppie aventi implicazioni transnazionali (353). In molti casi di
«crisi della famiglia», i figli sono vittime di battaglie giudiziarie tra i genitori.
Il legislatore europeo ha adottato atti normativi volti a disciplinare alcuni aspetti specifici tenuto conto del
carattere transnazionale che coinvolge la giurisdizione e la legislazione di più Stati UE. Nel settore della
cooperazione giudiziaria in materia civile (art. 81 TFUE), sulla base del principio del mutuo riconoscimento
delle decisioni e dei valori fondamentali comuni agli Stati UE, sono stati adottati due regolamenti (infra
paragrafi II, III e IV) relativi ai rapporti familiari, al fine di attenuare le difficoltà che, su un piano procedurale, legislativo e giurisdizionale, migliaia di coppie transnazionali in crisi affrontano per definire questioni
essenziali quali l’affidamento, il diritto di visita del genitore non convivente, il mantenimento dei figli e il
ritorno del minore in caso di sottrazione illecita.
 
Il regolamento (CE) n. 2201/2003: la responsabilità genitoriale
Il regolamento (CE) n. 2201/2003 (354) è relativo, da un lato, a giurisdizione, riconoscimento ed esecuzione
delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale e, dall’altro, all’integrazione e al miglioramento della
disciplina dettata dalla convenzione dell’Aja del 1980 in materia di sottrazione illecita di minori.
La disciplina si applica a tutti gli Stati membri UE, ad eccezione della Danimarca. Questo atto trova nella
tutela dell’interesse superiore del minore il suo principio ispiratore. Trattandosi di «clausola generale», la
determinazione concreta del suo contenuto si desume dai valori socio-culturali condivisi da tutti i paesi UE.
L’interpretazione e l’applicazione delle norme devono avvenire in modo tale da non pregiudicare i diritti
fondamentali del minore quali, in materia di responsabilità genitoriale, il diritto ad intrattenere rapporti con
entrambi i genitori (c.d. bigenitorialità) e il diritto del minore ad essere ascoltato nei procedimenti che lo
riguardano, tenendo conto della sua età e della sua maturità.
Il regolamento disciplina tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, incluse le misure di
protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale. Per la
prima volta, infatti, sono stati dettati criteri autonomi volti a individuare la competenza giurisdizionale in
caso di controversia tra soggetti titolari di potestà genitoriale su un minore, di solito i genitori. Scopo di
tali norme è evitare che ciascuno dei soggetti esercenti la responsabilità genitoriale si rivolga al giudice
del proprio paese e che siano emesse due decisioni nella stessa causa, provocando talora rallentamenti e
incompatibilità.
In particolare, i procedimenti riguardano il diritto di affidamento e di visita del minore, la tutela e la curatela, la responsabilità sul minore e la collocazione dello stesso presso una famiglia o un ente affidatario.
Tale elenco, tuttavia, non è esaustivo, avendo la Corte di Giustizia dell’UE esteso l’applicabilità del regolamento a fattispecie differenti in cui era urgente trovare la soluzione migliore per la tutela del minore (ad
es. collocamento di minori c.d. borderline, che abbiano commesso illeciti o tentato il suicidio, in un istituto
di custodia, terapeutico e rieducativo, situato in un altro Stato membro, pur implicando, anche solo temporaneamente, una privazione della libertà del soggetto).
Con riguardo alla competenza giurisdizionale, il c.d. foro generale è la residenza abituale del minore sancito
dall’art. 8. È compito del giudice nazionale adito verificare, sulla base delle peculiari circostanze fattuali che
caratterizzano ogni caso di specie, quale sia la residenza abituale del minore. La Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi mediante il rinvio pregiudiziale d’urgenza, ha fornito spiegazioni a riguardo. Ad es. nella
sentenza Mercredì (355) la domanda presentata dalla Corte d’Appello inglese verteva sull’interpretazione
dei criteri più appropriati per determinare la residenza abituale di un neonato al fine di stabilire la competenza giurisdizionale (nel caso, giudice francese o inglese) per decidere sul diritto di affidamento ai sensi
del regolamento 2201/2003. In primo luogo, dopo aver richiamato quanto affermato nella sentenza A (356)
sulla definizione di residenza abituale, che deve essere intesa come il luogo con cui il minore presenta un
certo livello di integrazione socio-ambientale, la Corte di Giustizia ha individuato i criteri per «misurare»
 
 
 
(353)
(354)
(355)
(356)
COM(2010)125 def. del 16-03-2011, reperibile al sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0125:FIN:IT:PDF
Reperibile al sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2003:338:0001:0029:IT:PDF
Corte di giustizia UE, 22 dicembre 2010, C-497/10 PPU, Mercredi, reperibile al sito: http://curia.europa.eu/juris/document/document.
jsf?text=&docid=83470&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=550871
Corte di Giustizia UE, 2 aprile 2009, C-523/07, A, reperibile al sito: http://curia.europa.eu/juris/document/document.
jsf?text=&docid=73639&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=550984
Articolo 24 - Diritti dei minori
93
tale livello di integrazione, ovvero durata, condizioni e ragioni del soggiorno del minore nel territorio di uno
Stato membro, cittadinanza del minore o l’adozione, da parte dell’esercente la responsabilità genitoriale
sul minore, di misure volte a trasferirsi in maniera stabile con lo stesso in un territorio diverso da quello di
provenienza, quali ad es. la presa in locazione di un alloggio o la ricerca di un impiego lavorativo.
Conseguentemente, i giudici europei hanno precisato che, laddove il soggetto sia un neonato, fondamentali si rivelano l’ambiente sociale e familiare della cerchia di persone che del minore si prendono cura,
assumendo pertanto importanza la volontà di coloro da cui effettivamente dipende. Nella fattispecie, il neonato era accudito dalla madre: pochi giorni trascorsi insieme a lei possono dirsi sufficienti a determinare
uno spostamento della residenza abituale del neonato. Tuttavia, oggetto di valutazione devono comunque
essere le ragioni e le condizioni del trasferimento in Francia, l’origine geografica e familiare della madre,
nonché i rapporti familiari e sociali che la madre intrattiene in quello stesso Stato membro.
Esistono poi i criteri c.d. speciali di individuazione del giudice competente, laddove vi siano elementi tali
da creare un collegamento tra il minore e un altro Stato UE che si riveli essere più forte rispetto a quello
esistente col paese membro in cui si trova la sua residenza abituale. Infatti, l’art. 12 statuisce la proroga di
competenza, prevedendo la possibilità di radicare dinanzi al giudice competente a decidere sulla domanda
di scioglimento del vincolo matrimoniale anche tutte le questioni relative alla responsabilità genitoriale
dei coniugi in lite (diritto di affidamento e di visita). Tuttavia, per l’applicazione di tale norma è necessaria
l’accettazione di entrambi i coniugi e, sopratutto, deve essere ritenuta conforme all’interesse superiore del
minore. Altresì, è consentito adire il giudice del luogo prescelto dalle parti in lite, di solito i genitori, sempre
che il minore presenti con lo Stato eletto un legame sostanziale (ad es. se in tale Stato risiede abitualmente
il genitore che ha il diritto di affidamento).
Infine, il criterio residuale della competenza del giudice del «luogo in cui si trova il minore» si applica quando non sia possibile in alcun modo localizzare la residenza abituale del minore e nemmeno il ricorso alla
volontà delle parti sia sufficiente ad individuare il giudice competente (ad es. perché la scelta delle parti è
ritenuta non conforme all’interesse superiore del minore: articolo 13).
Il criterio del collegamento più stretto giustifica, inoltre, la facoltà del giudice, individuato ai sensi delle norme sopra citate, di dismettere la propria competenza a favore di un altro giudice europeo da lui considerato
«more appropriate» a risolvere, nel merito, una lite in materia di responsabilità genitoriale. Poiché implica
valutazioni discrezionali da parte dell’autorità giurisdizionale, è applicabile solo nei casi eccezionali espressamente indicati e in presenza di legami sostanziali tra il minore e lo Stato ritenuto più appropriato (art. 15).
Si veda la sentenza dell’11.12.2009 (357) con cui il Tribunale dei Minori di Genova ha trasferito la controversia a favore dell’autorità giurisdizionale polacca: il giudice italiano, competente in virtù del criterio della
residenza abituale del minore in Italia, valutata la sussistenza di due dei tre legami particolari previsti dal
regolamento, in particolare la cittadinanza polacca del minore e la residenza della madre in Polonia, riteneva che il giudice polacco fosse più adatto a trattare il caso alla luce delle sue concrete esigenze e quindi
del suo preminente interesse.
 
Segue: la sottrazione internazionale di minori
La sottrazione illecita di minori costituisce, da molti anni, un fenomeno contro il quale, all’interno e all’esterno del sistema UE, gli attori del dialogo politico e delle istituzioni sovranazionali promuovono una lotta
volta a prevenire i trasferimenti illeciti, incentivare la cooperazione tra gli Stati e favorire il ritorno immediato del minore.
Il trasferimento di un minore ha carattere illecito se compiuto in violazione del diritto di affidamento riconosciuto ad altro soggetto sulla base della legge nazionale e degli accordi assunti in sede di scioglimento
del vincolo matrimoniale (art. 2 del regolamento 2201/2003), precisando che il titolare del diritto di affidamento non può cambiare liberamente la residenza abituale del minore se la sentenza di divorzio attribuisce all’altro genitore il diritto di visita. L’illiceità del comportamento si ha anche qualora l’affidamento
sia congiunto e il minore venga trasferito in uno Stato membro senza consenso dell’altro titolare della
responsabilità genitoriale.
Nella prassi, ricorrono le ipotesi in cui il genitore che ha portato con sé il figlio, al termine di un periodo di
vacanza all’estero non lo faccia rientrare nel paese di residenza abituale.
Inoltre, frequentemente era il genitore titolare del diritto di visita a commettere la sottrazione, ora, invece,
è soprattutto il genitore a cui spetta il diritto di affidamento che, una volta divenutone titolare, sottrae
illecitamente il minore facendo ritorno al proprio paese d’origine. Sono, altresì, aumentate le sottrazioni
compiute dal genitore (di solito la madre) vittima di ripetute violenze domestiche e che, pertanto, si trasferisce allo scopo di allontanare sé stesso e il minore al coniuge/compagno violento.
(357)
Reperibile al sito: http://static.ilsole24ore.com/content/AltraDocumentazione/body/11900001-12000000/11955923.pdf
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A livello internazionale ed europeo molti sono stati gli sforzi volti ad elaborare strumenti normativi che
presentino gli obiettivi, oltre alla prevenzione delle sottrazioni, di facilitare il ritorno e di ripristinare in maniera rapida la situazione di fatto antecedente alla sottrazione, ristabilendo il rapporto con il genitore e i
legami con l’ambiente sociale, familiare ed educativo.
In particolare, il regolamento 2201/2003 — che detta disposizioni integrative e complementari rispetto a
quelle della convenzione dell’Aja del 1980 — ha elaborato, contro tali comportamenti illeciti commessi
all’interno dell’UE, soluzioni ad hoc sulla base del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni. Tale
criterio comporta l’eliminazione di possibili conflitti di giudicato tra decisioni di «ritorno del minore», solitamente emesse nello Stato UE in cui il minore aveva la propria residenza abituale, e quelle di «non ritorno
del minore», emanate invece nello Stato UE in cui il minore era stato illecitamente trasferito o trattenuto.
In simili casi, sussiste altrimenti il pericolo che la decisione di ritorno del minore presso la sua precedente
residenza risulti contraria al suo interesse superiore poiché, rimanendo a lungo nel nuovo paese, si andrebbe a sradicare il minore dal nuovo ambiente familiare e sociale in cui si è inserito.
Uno strumento utile, elaborato con la finalità ultima di pervenire ad una interpretazione uniforme delle
norme della convenzione dell’Aja del 1980 tramite l’esperienza dei vari Stati contraenti, è il database INCADAT che raccoglie le decisioni giudiziarie più importanti dei tribunali degli Stati contraenti (358).
La procedura per l’immediato rimpatrio del minore nello Stato della residenza abituale, disciplinata dalla
convenzione dell’Aja del 1980 così come integrata dall’art.11 del regolamento 2201/2003, è applicabile ad
ogni minore che abbia la residenza abituale in uno Stato UE immediatamente prima della sottrazione e che
non abbia compiuto il 16° anno di età.
Il genitore a cui il minore è stato sottratto illecitamente, titolare del diritto di affidamento per legge o in
forza di una decisione giurisdizionale, può presentare un’istanza di rimpatrio del minore ed ottenere una
decisione di ritorno. Tuttavia, ai sensi degli artt. 12 e 13 della convenzione dell’Aja del 1980, il giudice dello
Stato in cui il minore è stato portato può rigettare tale istanza se la persona, l’ente o l’istituzione, che a
questa si oppongono, dimostrino che il minore si sia integrato nel nuovo ambiente; che il ritorno possa
esporre il minore a pericoli fisici/psichici; che il minore si opponga al ritorno; che il titolare del diritto di affidamento non lo esercitava effettivamente o avesse consentito, anche successivamente, al trasferimento
o al mancato ritorno. Si tratta comunque di cause eccezionali da interpretarsi restrittivamente.
Nella prassi, frequenti sono le manipolazioni dilatorie volte a far sì che il bambino trascorra almeno un
anno nello Stato in cui è stato illecitamente trasferito (per dimostrare l’inopportunità di sradicare il minore
dal nuovo ambiente in cui, seppur illecitamente, è stato portato). Altresì, può accadere che, subito prima
di commettere la sottrazione, il genitore affidatario che si oppone al rimpatrio presenti una denuncia nei
confronti del genitore co-affidatario per violenze e minacce ai danni propri e del figlio. Queste strategie
pretestuose hanno lo scopo di evitare che il tribunale adito emetta una «decisione di ritorno», ma che invece ne pronunci una di «non ritorno».
Per evitare siffatti conflitti di giudicato ed assicurare il ripristino dello status quo ante, l’art. 11 del regolamento 2201/2003 ha statuito la prevalenza della competenza del giudice dello Stato di residenza abituale
del minore immediatamente prima dell’illecito trasferimento o mancato ritorno. È previsto, infatti, che tale
autorità deve essere informata e ricevere tutta la documentazione in caso di emissione di una «decisione
di non ritorno» (adottata rigettando la domanda di rimpatrio sulla base degli artt. 12 e 13 della convenzione
dell’Aja del 1980), assumendo pertanto carattere provvisorio. Questo giudice, quindi, tratta nel merito la
causa, decide sul diritto di affidamento e di visita e ordina il ritorno definitivo del minore, ove lo ritenga
conforme al suo interesse superiore.
Le «decisioni di ritorno» devono essere riconosciute immediatamente esecutive in tutti gli Stati UE grazie
all’abolizione del decreto di exequatur. L’art. 42 del regolamento precisa che il giudice UE allega alla propria decisione un apposito «certificato», in cui venga dato atto dell’avvenuta audizione del minore, delle
parti in causa e della valutazione dei motivi del precedente rigetto dell’istanza di rimpatrio del minore.
In occasione del rinvio pregiudiziale nel caso Rinau (359), la Corte di Giustizia ha statuito che una volta che un
provvedimento contro il ritorno sia stato emanato e portato a conoscenza del giudice d’origine, è irrilevante, ai fini del rilascio del certificato previsto all’art. 42, che tale provvedimento sia stato sospeso, riformato,
annullato o comunque non sia passato in giudicato o sia stato sostituito da un provvedimento di ritorno,
quando il ritorno del minore non ha effettivamente avuto luogo (nella fattispecie, è stato respinto il ricorso
della madre che aveva impugnato il provvedimento di ritorno della figlia in Germania, a favore del padre,
per mancanza dei presupposti del certificato).
 
 
(358)
(359)
Si veda: http://www.incadat.com
Corte di giustizia UE, 11 luglio 2008, C-195/08 PPU, Rinau, reperibile al sito: http://curia.europa.eu/juris/document/document.
jsf?text=&docid=67594&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=551231
Articolo 24 - Diritti dei minori
95
Il regolamento (CE) n. 4/2009: le obbligazioni alimentari
Le relazioni familiari aventi implicazioni transfrontaliere sono oggetto anche del regolamento (CE)
n. 4/2009 (360), che riguarda, in particolare, le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di
parentela, di matrimonio o di affinità, ma anche vincoli non necessariamente tradizionali, come ad es. la
c.d. second parent adoption o maternità surrogata. Esso disciplina la competenza, la legge applicabile, il
riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia. Il presupposto della normativa è che un creditore
di alimenti deve essere in grado di ottenere facilmente in uno Stato membro una decisione che sia automaticamente esecutiva in un altro Stato membro, senza ulteriori formalità, in virtù del principio del mutuo
riconoscimento delle decisioni.
Tale normativa si applica in tutti gli Stati UE, ad eccezione del Regno Unito e della Danimarca, anche qualora
il convenuto sia residente in un paese extra UE (c.d. applicazione soggettiva universale).
Indipendentemente dai singoli ordinamenti dei paesi membri, rientrano nella nozione di «obbligazioni alimentari» una pluralità di istituti: il mantenimento della prole mediante assegno periodico, il pagamento
una tantum e il trasferimento della proprietà di un immobile ne sono, solamente, alcuni esempi. Per «creditore di alimenti» si intende chiunque sia beneficiario di crediti alimentari, ai sensi della legge nazionale o in
forza di una decisione giurisdizionale, anche se non abbia già iniziato a beneficiarne. Ai soli fini del riconoscimento ed esecuzione delle sentenze, il regolamento include in tale definizione anche l’ente pubblico: ai
sensi dell’art. 64 è creditore di alimenti l’ente pubblico che abbia il diritto di agire per conto di una persona
a cui è dovuto il diritto di alimenti o di chiedere il rimborso di prestazioni erogate al creditore.
Per quanto riguarda l’individuazione del giudice competente a dirimere una controversia transnazionale in
materia di obbligazioni alimentari, il legislatore europeo ha stabilito, quale criterio generale, la competenza
del tribunale del paese UE in cui il convenuto (ad es. genitore) o il creditore di alimenti (ad es. minore)
hanno la propria residenza abituale. Quando la causa alimentare sia accessoria (ad. es. mantenimento) ad
una domanda in materia di responsabilità genitoriale (ad es. affidamento) o di stato delle persone, è competente il giudice della causa principale.
I criteri sussidiari previsti nel regolamento tendono a spostare all’interno dell’UE la competenza giurisdizionale anche laddove il convenuto o il creditore di alimenti siano residenti in un paese terzo, occorrendo,
però, la sussistenza di un collegamento sufficiente della controversia con lo Stato UE dell’autorità adita e
che il procedimento non possa ragionevolmente essere intentato o si riveli impossibile nello Stato terzo
(c.d. forum necessitatis: articolo 7).
In merito alla determinazione della legge applicabile, l’art. 15 del regolamento rinvia al protocollo dell’Aja
del 23 novembre 2007 (convenzione internazionale ratificata dall’UE e pertanto applicabile a tutti gli Stati
membri, ad eccezione di Danimarca e Regno Unito) (361). In esso sono previsti tre criteri c.d. a cascata, che si
applicano in successione qualora in virtù del criterio precedente il creditore di alimenti non riesca a recuperare le somme a lui spettanti. Essi individuano rispettivamente come applicabile la legge, anche di uno
Stato terzo, del luogo in cui il creditore di alimenti ha la propria residenza abituale, la lex fori, cioè del luogo
in cui è stata radicata la controversia e, infine, la legge nazionale comune al convenuto e al creditore di
alimenti.
La tutela del beneficiario delle obbligazioni alimentari è stata rafforzata con la previsione della sola richiesta dell’allegazione alla domanda di esecuzione di tutti i documenti necessari (art. 20 del regolamento
4/2009), e non, a differenza del regolamento 2201/2003, di una certificazione del provvedimento da parte del paese d’origine. Rimane comunque possibile fare opposizione all’esecutività del provvedimento o
chiederne la sospensione in casi specifici (art. 21). Inoltre, il convenuto contumace può richiedere allo Stato
d’origine il riesame della decisione per violazione dei diritti di difesa, che può pertanto essere annullata,
rimanendo, tuttavia, in capo al beneficiario il diritto di chiedere gli alimenti derivanti dal primo procedimento (art. 19).
 
 
Tra normativa e realtà
L’azione normativa dell’UE è volta a realizzare lo «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone e, grazie al principio del mutuo riconoscimento, l’immediata
esecutività delle decisioni. In particolare, in materia di famiglia, il criterio guida è l’interesse superiore del
minore, quale unico parametro per qualsiasi tipo di atto o decisione che lo riguardi, soprattutto nei casi di
definizione dei rapporti familiari, o comunque di legami personali, aventi implicazioni transfrontaliere.
(360)
(361)
Reperibile al sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:007:0001:0079:IT:PDF
Reperibile al sito: http://www.hcch.net/upload/conventions/txt39en.pdf
96
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Le istituzioni UE, in particolar modo la Commissione europea, facendo riferimento a raccolte di dati (362) e a
risultati di consultazioni pubbliche (363), hanno affrontato nuove problematiche, rilevanti per la protezione dei
minori, legate a crisi economica, globalizzazione, incremento esponenziale dei fenomeni migratori verso il
vecchio continente, sviluppo tecnologico, diffusione del web tra i più giovani e aumento di divorzi e separazioni di coppie c.d. transnazionali.
La situazione dei minori in Europa presenta comunque profili critici: l’accesso alla giustizia e la partecipazione a processi civili o penali non sono ovunque a «misura di minore» (364); spesso non è loro fornita
assistenza da parte di personale specializzato, non sono adeguatamente informati dei procedimenti che li
vedono coinvolti e, talvolta, detenuti in istituti carcerari troppo a lungo a scapito del loro recupero sociale
e benessere psico-fisico. Grave è inoltre il fenomeno dello sfruttamento sessuale: in Europa il 20% dei minori è a rischio di violenze sessuali o costretto a prostituirsi, nella maggioranza dei casi sono persone che
appartengono a minoranze etniche, versano in condizioni di povertà e presentano forme di disabilità. In
crescita sono inoltre l’adescamento on line dei bambini e degli adolescenti ai fini di abuso, il cyber-bullismo
e il bullismo nelle scuole a sfondo omofobico e transfobico (365). In aggiunta, l’uso incontrollato di Internet
comporta rischi di violazioni del diritto alla privacy e i videogiochi violenti espongono i minori a contenuti
offensivi e diseducativi.
L’UE, in tale ottica, ha adottato nel febbraio 2011 un programma a lungo termine An EU Agenda for the Rights of the Child (366), la direttiva 2011/36 sulla prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e sulla
lotta contro abuso e sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile (367) e la direttiva 2012/29
che assicura protezione alle vittime di reato (368); il Piano di azione sui minori non accompagnati del 2010 in
aiuto ai giovani che, in fuga da guerre, disastri naturali, discriminazioni e persecuzioni, giungono in Europa
senza l’assistenza di un adulto (369) e la consultazione della Commissione del 2013 per raccogliere pareri su
come arrestare le mutilazioni genitali femminili su donne e bambine in Europa e nel resto del mondo (370).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
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Reperibile al sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0060:FIN:IT:PDF
Direttiva 2011/36 del 5 aprile 2011: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:101:0001:0011:IT:PDF.
Direttiva 2012/29 del 25 ottobre 2012: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2012:315:0057:0073:IT:PDF
COM(2010)213 def. del 6-05-2010: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0213:FIN:IT:PDF
Si veda: http://ec.europa.eu/news/external_relations/130308_it.htm
Articolo 34 - Sicurezza sociale e assistenza sociale
97
CDE
Università degli Studi di Ferrara
Articolo 34
Sicurezza sociale e assistenza sociale
Articolo 36
Accesso ai servizi d’interesse economico generale
Articolo 34
1. L’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali
che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza
o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto
dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali.
2. Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di
sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi
nazionali.
3. Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto
all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che
non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni
e prassi nazionali.
Articolo 36
Al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione, questa riconosce e rispetta
l’accesso ai servizi d’interesse economico generale quale previsto dalle legislazioni e prassi nazionali,
conformemente ai trattati.
Servizi sociali di interesse generale in Europa e in
Italia (371)
 
di Erika Bertazzo
(372)
 
Il convegno «Servizi sociali di interesse generale in Europa e in Italia» si sviluppa nel contesto del Dottorato in Diritto dell’Unione europea del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, la cui sede
organizzativa è presente nella città di Rovigo (373); l’iniziativa è ideata, più precisamente, nell’ambito della
 
(371)
(372)
(373)
Evento del Centro di documentazione europea dell’Università di Ferrara del 14-15 febbraio 2013 (Rovigo-Ferrara) inserito nel Progetto
nazionale dei CDE 2013 «Diritti fondamentali e cittadinanza europea» http://www.cdeita.it/node/57
Dottoranda in Diritto dell’Unione europea presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
http://www.unife.it/giurisprudenza-rovigo; coordinatore del dottorato è il Prof. Paolo Borghi, ordinario di Diritto Agrario e di Diritto dei
Prodotti Alimentari presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
cattedra di Diritto del Lavoro coordinata dal Prof. Gian Guido Balandi (374). La scelta della tematica affonda le
proprie radici in un progetto di ricerca curato dalla scrivente, Dott.ssa Erika Bertazzo (375), finanziato da una
borsa di studio Spinner erogata dalla Regione Emilia Romagna ed avente ad oggetto l’argomento «Servizi
Sociali» nel diritto europeo, nazionale e regionale. Il progetto trova, in seguito, il fondamentale sostegno
del Centro di Documentazione e Studi sulle Comunità europee dell’Università di Ferrara, diretto dal Prof.
Aurelio Bruzzo (376) e diventa parte integrante del progetto dal titolo «Diritti fondamentali e cittadinanza
europea». Questo progetto, che vuole celebrare il 2013 in quanto anno europeo dei cittadini, è promosso
dai Centri di documentazione europea italiani ed è realizzato con il contributo della Rappresentanza in Italia
della Commissione europea. Infine, a coronamento dell’iniziativa, si aggiunge il patrocinio del Comune di
Ferrara.
Scopo del Convegno è lo studio e l’approfondimento del cd. «diritto di accesso ai servizi di interesse generale» (s.i.g.) ed in particolare ai «servizi sociali di interesse generale» (s.s.i.g.), servizi che più degli altri
incidono sulla vita del cittadino europeo e che accompagnano la persona nell’arco della propria esistenza,
dalla nascita alla morte. L’iniziativa intende diffondere informazioni su questi servizi a favore della collettività, con l’obiettivo anche di ottimizzare il rapporto utente-istituzioni locali. La tematica di riferimento sono
i «Servizi sociali di interesse generale in Europa e in Italia» e si vuole, inoltre, favorire una prospettiva di
comparazione con altri ordinamenti. L’evento è organizzato in modo da essere partecipativo, con la presenza di un pubblico multisettoriale costituito da studiosi, istituzioni, operatori, associazioni e cittadinanza,
quale diretta destinataria e beneficiaria dei servizi.
La location dell’evento rispecchia, in un certo senso, quelle che sono effettivamente le sue origini, un
convegno con una doppia anima, ponte tra due Regioni — Veneto ed Emilia Romagna — e avente per asse
portante due città, Rovigo e Ferrara.
La struttura e la suddivisione in tre sessioni, invece, rispecchia tre livelli imprescindibili di analisi, che vengono spesso trascurati dagli stessi operatori del diritto: è un po’ come lo struzzo, mi si perdoni la metafora,
che vuol nascondere la testa sotto la sabbia. Un pensiero diffuso, ma profondamente erroneo, è che l’ordinamento europeo sia completamente avulso dall’ordinamento nazionale e ancor più da quello regionale e
locale, ma l’Italia, al contrario, fa parte dell’Unione europea e non è possibile oramai prescindere da questa
realtà.
Tra le varie sessioni del convegno, la prima, tenutasi a Rovigo, dal titolo «Il diritto dell’Unione europea è
fatto per i servizi sociali (377)?», offre uno degli approfondimenti più interessanti, poiché tenta una ricostruzione generale delle regole europee esistenti in materia di s.s.i.g., senza tuttavia trascurare le problematiche di coordinamento esistenti tra diritto europeo, nazionale e regionale. Mi soffermerò, in particolare,
su alcune riflessioni prospettate dal primo relatore, Dottor Manuel Paolillo, consigliere giuridico presso il
Ministero della Sicurezza Sociale del Belgio. Il titolo del contributo è «Concorrenza, Mercati e…Protezione
Sociale. Aspetti surrealisti del diritto europeo».
Nella slide di apertura, un osservatore attento potrà notare la presenza di una «pipa (378)», tale immagine
assume un significato importante se si segue con attenzione il filo logico della presentazione. Del resto,
lo stesso titolo della prima sessione «Il diritto dell’Unione europea è fatto per i servizi sociali?» è, di per
sé, particolarmente curioso ed apre la strada a numerose riflessioni ed interrogativi. Innanzitutto, perché il
diritto dell’Unione europea sarebbe o non sarebbe fatto per i servizi sociali?
Ebbene, la materia trova la sua scarna e a volte non chiara regolamentazione in un sistema giuridico di
«soft-law»: fondamentali sono al riguardo le Comunicazioni della Commissione europea che si sono susseguite nell’ultimo quindicennio (379). Sono pressoché inesistenti normative europee aventi carattere vinco 
 
 
 
 
 
(374)
(375)
(376)
(377)
(378)
(379)
Il Prof. Gian Guido Balandi è ordinario di Diritto del Lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
Dottoranda in Diritto dell’Unione europea presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, e-mail: erika.bertazzo@unife.
it
http://www.unife.it/centri/centro/cde/; il Prof. Aurelio Bruzzo è ordinario di Politica Economica presso il Dipartimento di Economia e
Management dell’Università di Ferrara.
Per quanto concerne il contenuto delle altre due sessioni ferraresi, «Le diverse prospettive del diritto nazionale» e «Esperienze dagli enti
locali», e per quanto riguarda eventuali approfondimenti sul convegno si veda il materiale pubblicato nel sito dell’evento: http://www.
unife.it/centri/centro/cde/news/14-15-febbraio-2013-convegno-servizi-sociali-di-interesse-generale-in-europa-e-in-italia.
Si tratta di una delle opere più famose di René Magritte (1898-1967), pittore belga, considerato uno dei maggiori esponenti del Surrealismo.
COM/1996/443 def., dell’11 settembre 1996, I servizi di interesse generale in Europa; COM/2000/580 def., del 9 settembre 2000, I servizi
di interesse generale in Europa; COM/2001/598 def., del 17 ottobre 2001, Relazione al Consiglio europeo di Laeken su I servizi di interesse
generale; COM/2003/270 def., del 21 maggio 2003, libro verde sui servizi di interesse generale; COM/2004/374 def., del 12 maggio 2004,
Librobianco sui servizi di interesse generale; COM/2006/177 def., del 26 aprile 2006, Attuazione del Programma comunitario di Lisbona: i
servizi sociali d’interesse generale nell’Unione europe; COM/2007/725 def., del 20 novembre 2007, Comunicazione che accompagna la
comunicazione «Un mercato unico per l’Europa del XXI secolo», i servizi di interesse generale, compresi i servizi sociali di interesse
generale: un nuovo impegno europeo.
A r t i c o l o 3 6 - Acc e s s o a i s e r v i z i d ’ i n t e r e s s e e c o n o m i c o g e n e r a l e
99
lante nel settore (380), anche se non è mancata una proposta di direttiva orizzontale in materia di servizi di
interesse economico generale (s.i.e.g) da parte del Partito Socialista del Parlamento europeo (381). A seguito
dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, i riferimenti normativi più importanti in materia di s.i.g/s.i.e.g./
s.s.i.g. restano i seguenti: articolo 14 TFUE, articolo 106 TFUE, articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali
e Protocollo n. 26 (382).
Per delineare il concetto di s.s.i.g. è necessario partire dal presupposto che i s.s.i.g. sono una «sottocategoria» della più ampia categoria dei s.i.g. e, al pari di questi, possono essere dotati o meno del requisito
della «economicità». La nozione di s.s.i.g. comprende, da un lato, i cd. sistemi pubblici o privati di sicurezza
sociale che coprono i rischi fondamentali dell’esistenza, quali quelli connessi alla salute, alla vecchiaia,
agli infortuni sul lavoro, alla disoccupazione, al pensionamento e alla disabilità e, dall’altro, i servizi sociali
direttamente prestati al cittadino, nonché i cd. servizi socio-sanitari. I servizi sociali prestati direttamente
al cittadino forniscono, in particolare, un aiuto personalizzato e favoriscono l’inclusione nella società di
persone che affrontano un problema o un disagio personale, un periodo di crisi, nonché garantiscono il
godimento dei diritti fondamentali. Esempi concreti di s.s.i.g. sono: i servizi per la formazione, per la cura
dei tossicodipendenti, i servizi offerti agli anziani o ai disabili, gli alloggi popolari, in generale tutto ciò che
può rientrare nella generica categoria «servizi del welfare» (383).
Il relatore ha precisato che l’Unione europea rappresenta un’integrazione politica che si attua in primis tramite l’economia e il mercato. In realtà, anche se l’obiettivo originario del trattato istitutivo della Comunità
economica europea europea è sempre stato l’integrazione economica degli Stati membri, non va trascurata e sottovalutata una tensione all’integrazione effettiva anche in termini sociali, per il raggiungimento di
«un’unione sempre più stretta tra i popoli europei (384)».
Dall’intervento del Dott. Manuel Paolillo emerge chiaramente la difficoltà di trovare un giusto bilanciamento tra le regole europee del mercato e della libera concorrenza e i principi, altrettanto importanti, di tutela e
protezione sociale. Il pericolo è quello di un mercato che egoisticamente guarda al massimo profitto, senza
indagare quelle che sono le reali esigenze e bisogni sociali del consumatore/utente. Un mercato di questo
tipo, portato alle estreme conseguenze, peraltro, non dovrebbe nemmeno esistere, soprattutto alla luce
delle significative modifiche apportate dal trattato di Lisbona del 2009, che ha aperto la strada al concetto
di «economia sociale di mercato» a livello europeo (385).
Quando si parla di s.s.i.g. è imprescindibile un’analisi che tenga conto delle regole giuridiche in proposito,
ma anche degli aspetti sociologici; lo studio della norma non è di grande utilità, se non si comprende l’effetto che la stessa ha nella società. Lungi, dunque, dal considerare un approccio di studio e analisi astratto,
il convegno ha visto la partecipazione anche di esperti del settore, di coloro che affrontano quotidianamente le problematiche poste dall’attuazione del diritto europeo nel campo dei servizi sociali.
I s.s.i.g, essendo una «sottocategoria» dei s.i.g., possono, al pari di questi, essere dotati o meno di un
requisito di «economicità». La distinzione tra attività economiche e attività non economiche è tutt’altro
che chiara a livello europeo, tutto si riduce in primis ad una scelta che viene fatta discrezionalmente dagli
Stati membri e che potrà subire in seconda battuta il dictat della Corte di Giustizia dell’Unione europea che,
giudicando a seguito di un «rinvio pregiudiziale» o utilizzando la tecnica dell’«errore manifesto (386)», determinerà nel concreto la natura dell’attività esercitata.
 
 
 
 
 
 
 
(380)
(381)
(382)
(383)
(384)
(385)
(386)
Del resto, è facile capire la ratio dell’assenza di una regolamentazione vincolante in materia, soprattutto se si pensa che una totale
integrazione europea in un settore così delicato appare veramente difficile e, per usare il termine del relatore, «surrealista». L’Unione
europea, a seguito dell’ingresso di Bulgaria e Romania avvenuto nel primo gennaio 2007, consta della presenza di ben 27 Stati membri e
ciascuno, è innegabile, con una storia, delle tradizioni, una cultura, un’organizzazione così dissimili da quelle degli altri. Qualche studioso
euroscettico ha parlato al riguardo di «integrazione negativa».
Socialist Group in the European Parliament, Proposal for a Framework Directive on Services of General Economic Interest, November 2006.
Il Protocollo sui servizi di interesse generale allegato al trattato di Lisbona fornisce alcune precisazioni sulla protezione dei s.i.g.,
introducendo per la prima volta nel diritto primario tale nozione (il trattato CE prima vigente faceva riferimento esclusivamente ai s.i.e.g.).
Questo documento vuole essere un punto di riferimento per tutte le governance e rendere visibile, trasparente e chiaro l’orientamento
dell’Unione europea nel settore dei s.i.g.. Già in apertura (art. 1), il Protocollo evidenzia alcuni principi comuni in materia, in particolare, si
ribadisce il ruolo e l’ampia discrezionalità delle autorità nazionali, regionali e locali nella regolamentazione, organizzazione e finanziamento
di tali servizi, nel rispetto ancora una volta dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, ponendo come unico limite il cd. «errore manifesto».
Nella regolamentazione della materia, inoltre, non debbono tralasciarsi alcuni fattori: in primis le diversità esistenti tra i vari s.i.g., in
secondo luogo le diverse esigenze e preferenze degli utenti, infine, ma non meno importante, la necessità di garantire un alto livello di
qualità, sicurezza e accessibilità dei servizi, la parità di trattamento dei beneficiari, la promozione dell’accesso universale e dei diritti
dell’utente e la previsione di prezzi abbordabili. Questi concetti sono presenti in tutte le Comunicazioni della Commissione in materia
(cfr. ad esempio COM(2004)374 def., paragrafo 3.2).
Per una disamina più dettagliata si veda in particolare COM/2006/177 def., paragrafo 1.1.
Preambolo del trattato C.E.E.
L’economia sociale di mercato mira ad una piena integrazione tra valori di mercato «market economy» e valori sociali «social economy»,
cfr. articolo 3 TFUE.
Anche se non risulta del tutto chiaro il concetto di errore manifesto; la stessa giurisprudenza europea non è d’aiuto cfr., ad esempio,
sentenza 12 febbraio 2008, British United Provident Association Ltd (BUPA), BUPA Ireland Ltdc. Commission of the European Communities,
T-289/2003, paragrafo 166-170.
100
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Il considerare una certa attività come economica o meno non è affatto indifferente, poiché le attività economiche saranno assoggettate alle normative europee in materia di concorrenza, aiuti di Stato, appalti e
alla direttiva servizi; le attività non economiche, invece, saranno escluse dal loro campo di applicazione. La
mancanza di normative vincolanti comporta delle difficoltà pratiche per gli Stati membri nel distinguere tra
servizi economici e non economici e nel determinare la missione di «interesse generale» che contraddistingue i s.i.g. da qualsiasi altro servizio.
Il relatore, dunque, ha delinaeato il concetto di attività economica secondo l’orientamento della Corte di
Giustizia dell’Unione europea, pur tenendo presente che il concetto di «economicità» è amplio e dinamico,
in continua evoluzione, lo stesso varia a seconda delle regole di riferimento (regole sugli appalti, sulla concorrenza, sugli aiuti di Stato, direttiva servizi ecc.). Secondo la Corte di Giustizia è economica ogni attività
consistente «nell’offrire beni o servizi in un determinato mercato» (387), inoltre, qualsiasi attività svolta da
un’impresa è dotata per definizione del requisito della «economicità». Anche gli enti che agiscono per
scopi non lucrativi possono comunque svolgere un’attività che acquista rilevanza economica in un dato
mercato, quindi, la natura non lucrativa di un ente non comporta a priori la «non economicità» dell’attività
dallo stesso esercitata (388). In pratica, un’associazione senza scopo di lucro o un’organizzazione caritativa
che esercita un’attività economica costituisce un’«impresa», ma solo per la parte economica dell’attività. È
chiaro, dunque, che la dicotomia servizi di interesse economico generale e servizi non economici di interesse generale, oltre ad essere poco chiara, è alquanto instabile e mutevole; del resto, tutto può rientrare nel
concetto di attività economica o non economica in base all’angolo di osservazione favorito dall’interprete.
Gli stessi s.s.i.g. possono consistere nell’espletamento di attività economiche. Gli esempi citati dal Dott.
Paolillo sono i seguenti: attività di collocamento svolte dagli uffici pubblici per l’impiego (389), regimi di assicurazione facoltativa di protezione sociale (390), servizi di trasporto d’urgenza e di trasporto dei malati (391),
servizi medici prestati in un contesto ospedaliero o in altri ambiti (392), assegnazione di fondi a comuni e
associazioni di volontariato per alloggi con affitti a costi contenuti e fornitura di infrastrutture ausialiarie
nel campo dell’edilizia popolare. Esempi, invece, di servizi che sono considerati «non economici» e quindi
«puramente sociali» sono i seguenti: regimi di assicurazione obbligatoria con obiettivo esclusivamente
sociale (393) e prestazioni di insegnamento pubblico (394).
Un cambiamento rilevante in materia di s.s.i.g. si è avuto con la modifica dell’art 14 TFUE ad opera del
trattato di Lisbona, che ha previsto una base giuridica per regolamenti quanto alla fissazione di «principi
e condizioni, in particolare economiche e finanziarie», che consentano ai s.i.e.g. l’assolvimento dei propri
compiti. Tale disposizione, almeno per adesso, non ha trovato attuazione. Il relatore, dunque, ha considerato i s.s.i.g. in relazione alle regole europee della concorrenza, degli aiuti di Stato e in riferimento alla
direttiva servizi (395).
Non vi è dubbio, comunque, che il ruolo dei s.i.e.g. e dei s.s.i.g. si sia rafforzato in seguito al riconoscimento
di un nuovo valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, a seguito del trattato di Lisbona, viene ad essere equiparata al diritto primario (art. 6, paragrafo 1, TUE). Fondamentale è, infatti, l’art. 36 della stessa che, in perfetta sintonia con l’art. 14 TFUE, sancisce il rispetto da parte dell’Unione
del diritto di accesso delle persone ai s.i.e.g, tenendo conto dei trattati, ma anche delle prassi e disposizioni
interne agli Stati membri (396). Si è sempre parlato di «diritto» anche nella formulazione originaria della Carta
di Nizza del 2000, ma l’approccio amplio non comportava conseguenze immediate e dirette, visto il carattere non vincolante della stessa: la Carta rappresentava unicamente uno strumento di soft law ed era più
che altro indicativa di criteri di indirizzo generale. L’approccio amplio degli artt. 34 (Protezione della salute),
35 (Sicurezza sociale e assistenza sociale) e 36 (Accesso ai servizi d’interesse economico generale) non
destava quindi preoccupazione, dato che si trattava di principi guida generali e non certo di «fully justiciable
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(387)
(388)
(389)
(390)
(391)
(392)
(393)
(394)
(395)
(396)
Cfr. sul concetto di attività economica C-35/96, Commissione c. Italia; cause riunite da C-180/98 a C-184/98 Pavel Pavlov e a. c. Stichting
Pensioenfonds Medische Specialisten, paragrafo 75; C-309/99, J.C.J. Wouters e a c. Algemene Raad van de Nederlandse Orde van
Advocaten, paragrafo 47; C-205/03, Fenin c. Commissione, paragrafo 24.
Cause riunite C-209/78, 215/78 e 218/79, Van Landewyck e C-244/94, FFSA.
C-41/90, Höffner e Elser
C-244/94, FFSA.
C-475/99, Firma Ambulanz Glöckner c. Landkreis Südwestpfalz.
V. ex plurimis T- 167/04, Asklepios Kliniken.
C-218/00, Inail c. Cisal.
V. Guida Commissione europea, SEC(2010) 1545 final.
Al riguardo si rinvia ai materiali presenti nel sito della conferenza (cfr. nota n. 5).
Art. 36 della Carta dei diritti fondamentali: «Al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione, questa riconosce e rispetta
l’accesso ai servizi d’interesse economico generale quale previsto dalle legislazioni e prassi nazionali, conformemente ai Trattati».
A r t i c o l o 3 6 - Acc e s s o a i s e r v i z i d ’ i n t e r e s s e e c o n o m i c o g e n e r a l e
101
rights (397)»; l’Unione europea, quindi, doveva più che altro promuoverne il rispetto. A seguito del trattato di
Lisbona, invece, la Carta acquisisce un nuovo status giuridico ed i diritti e principi in essa sanciti diventano
pilastri fondamentali nelle scelte politiche dell’Unione europea.
Determinante è in materia l’art. 34 della Carta, rubricato «Sicurezza sociale e assistenza sociale», che così
recita: «1. L’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi
sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto
dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali. 2. Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno
dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto
dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali. 3. Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà,
l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal
diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali».
Da una semplice lettura degli artt. 36 e 34 della Carta emerge un chiaro rinvio a quanto previsto, a livello
attuativo, dalle legislazioni e dalle prassi nazionali. Questo perché, in materia di servizi sociali, l’attuazione,
l’organizzazione e l’implementazione dei servizi viene assicurata e disciplinata a livello nazionale. Spetta
infatti agli Stati membri e alle autonomie locali, nel caso dell’Italia, la determinazione delle modalità di fornitura e di accesso ai servizi. In Italia la divisione delle competenze tra Stato ed autonomie locali emerge
dal contenuto dell’art. 117 della Costituzione, come risultante dalla riforma del Titolo V (398).
In particolare, per i servizi sociali la disciplina di riferimento è data dalla l. 328/2000. Tale legge ha il merito
di aver definito una nuova «governance» in materia di servizi sociali, con il coinvolgimento concreto ed effettivo delle autonomia locali e del terzo settore. L’idea è quella di un welfare attivo e pluralistico, fondato
sulla piena attuazione di un principio di sussidiarietà e sul coinvolgimento di una pluralità di attori in ambito
sociale, con una partecipazione attiva di tutti i pilastri dell’economia: Stato, mercato, terzo settore e da ultimo, ma non meno importante, società/collettività. Senza soffermarsi nella ripartizione delle competenze
in materia di servizi sociali nel diritto italiano, basti qui evidenziare che l’ente territoriale finale erogatore
del servizio sociale al cittadino viene a coincidere nella maggioranza dei casi con il Comune.
Il relatore termina la propria esposizione con l’analisi degli SWOT (Strengths, Weaknesses, Opportunities,
Threats) in materia di s.s.i.g., evidenziando le sfide che si dovranno affrontare in futuro. Tra i punti di forza
(Strengths), vi è l’acceso dibattito esistente in Europa sul concetto, spesso sfuggente, di «interesse generale» e le modifiche, a seguito del trattato di Lisbona, degli artt. 14 e 9 TFUE (399). Tali articoli permettono una
maggiore riflessione sulle necessità di bilanciamento tra obiettivi economici e sociali nella determinazione
e attuazione delle politiche europee. Tra le debolezze (Weaknesses), la «(non) governance», ossia la farraginosa divisione delle competenze in materia (400); le difficoltà riscontrate nel proporre interventi e riforme
in questo settore; la scarsa incisività degli strumenti di intervento in materia sociale a livello europeo (401);
il fatto che i servizi sociali vengono paragonati giuridicamente a servizi postali, di trasporto, alle telecomunicazioni o ai servizi di fornitura di luce e gas (servizi prettamente commerciali); il fatto che i concetti
giuridici europei sono vaghi; la forte tecnicità delle normative di riferimento (402). Infine, non si comprende
se un cambiamento positivo in materia si debba prospettare come mero adeguamento normativo o se
occorra un più complesso e ampio intervento di carattere politico, essendo tra l’altro evidente uno scarso
interesse degli Stati membri a promuovere qualsiasi riforma in materia (403). Tra le opportunità (Opportunities), l’adozione di una agenda sul no-profit a livello europeo e la necessità di ridefinire il concetto di
solidarietà (artt. 2 e 3 TUE). Tra le minacce (Threats), l’avvicinare troppo le politiche sociali ai meccanismi
del mercato; l’adottare politiche sociali solo per la tutela di certi target di soggetti svantaggiati; l’eccessiva
macchinosità burocratica; il nuovo ruolo degli operatori privati in ambito sociale che potrebbero avere di
mira il mero profitto. Il relatore, tra gli aspetti negativi, parla anche di «puzzle effect», ossia della mancanza
 
 
 
 
 
 
 
(397)
(398)
(399)
(400)
(401)
(402)
(403)
Cfr. Damjanovic D., De Witte B., Welfare Integration through EU Law: The Overall Picture in the Light of the Lisbon Treaty, in Neergaard U.,
Nielsen R., Roseberry M. L., Integrating Welfare Functions into EU Law — from Rome to Lisbon, Copenhagen 2009, pagg. 78-84.
La legge che ha attuato la riforma del Titolo V della Costituzione è la l. cost. 3/2001.
Il trattato di Lisbona introduce all’art. 9 del TFUE una «clausola sociale orizzontale». L’Unione, in pratica, deve tener conto nell’attuazione
di tutte le sue politiche ed azioni delle esigenze connesse con la promozione di un alto livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata
protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana.
La distinzione tra attività economiche e non economiche viene ad essere fatta «case by case» dalla C.G.U.E.; il concetto di s.i.e.g. e di
«interesse generale» è determinato discrezionalmente dagli Stati membri e dalle autorità pubbliche; in materia di aiuti di Stato vi è una
competenza primaria della Commissione; in materia di appalti vi è un ruolo determinante del «legislatore europeo» e degli Stati membri e
così per quanto concerne la direttiva servizi.
Tutto si fonda su meccanismi di soft-law e sul cd. metodo aperto di coordinamento (MAC).
Ciò si comprende, ad esempio, da una semplice lettura del «Pacchetto Almunia» in materia di aiuti di Stato : cfr. comunicazione 2012/C
8/02, decisione 2012/21/UE, comunicazione 2012/C 8/03 e reg. (UE) n. 360/2012.
Vi è un forte timore da parte degli Stati membri di perdere competenze in materia sociale.
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di una «global picture» a livello giuridico sui s.s.i.g. e di «effetto denuncia», ossia il fatto che le problematiche concernenti i s.s.i.g. vengono alla luce grazie a singole denunce presentate da privati che appunto
contestano situazioni considerate illegali.
Queste conclusioni del relatore permettono di comprendere quale sia effettivamente il «Surrealismo» del
diritto europeo. Non vi è dubbio che la difficoltà maggiore sia quella di tradurre le categorie giuridiche del
diritto europeo in corrispondenti categorie giuridiche per gli Stati membri. I concetti s.i.g./s.i.e.g./s.s.i.g.,
infatti, non trovano una terminologia corrispondente nel diritto italiano e così negli altri Stati membri, ecco
dunque uno dei maggiori problemi da superare. Il relatore parla espressamente del «bisogno di tradurre il
linguaggio giuridico europeo in una realtà istituzionale nazionale o regionale». Il «Surrealismo» del diritto
europeo sta proprio in questo, nel considerare categorie giuridiche che non trovano una piena corrispondenza nel diritto degli Stati membri. Quindi, se la «pipa di Magritte» non è in realtà «una pipa», così i
s.s.i.g., oltre a non esistere nelle categorie giuridiche degli Stati membri, non possono essere paragonati
semplicisticamente ad un qualsiasi altro tipo di s.i.e.g.. Si deve quindi tener conto della loro peculiarità: il
paragonare i s.s.i.g. ai comuni servizi offerti nel mercato rappresenta forse illogicità, sogno, follia o secondo le parole di Magritte un andare «oltre» la realtà.
Articolo 35 - Protezione della salute
103
CDE
Università degli Studi di Sassari
Articolo 35
Protezione della salute
Articolo 37
Tutela dell’ambiente
Articolo 35
Ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle
condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le
politiche ed attività dell’Unione Ë garantito un livello elevato di protezione della salute umana
Articolo 37
Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati
nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.
La gestione dei rifiuti radioattivi e la protezione della
salute e dell’ambiente nell’azione dell’Unione europea:
sintesi (404)
 
di Silvia Sanna
(405)
 
Uno degli obiettivi dell’Anno europeo dei cittadini 2013 è la diffusione della conoscenza dell’insieme dei
valori, dei principi e degli strumenti che devono guidare le istituzioni europee e gli Stati membri al fine di
assicurare un’efficace tutela dei diritti umani fondamentali a beneficio dei cittadini e di tutte le persone alle
quali si applichi il diritto dell’Unione europea.
Il principale strumento che riunisce in un documento unico, coerente e giuridicamente vincolante i diritti
umani fondamentali vigenti nell’Unione europea è la Carta dei diritti fondamentali (406), che, con l’entrata
in vigore del trattato di Lisbona, il 1o dicembre 2009, ha acquisito lo stesso carattere cogente dei trattati
istitutivi dell’Unione europea, perciò le sue disposizioni sono vincolanti, sia per le istituzioni europee, sia
per gli Stati membri, quando danno attuazione al diritto europeo.
La Carta si presenta come un documento innovativo, in particolare perché codifica alcuni principi, i quali,
seppur vigenti nelle fonti normative europee, non erano in precedenza espressamente consacrati a livello
 
(404)
(405)
(406)
Evento del CDE dell’Università degli Studi Sassari organizzato il 17 maggio 2013 in occasione del Progetto nazionale dei CDE Diritti
fondamentali e cittadinanza europea http://www.cdeita.it/node/57
Docente associato e responsabile accademica del CDE dell’Università degli studi di Sassari
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea http://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
104
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
di diritti fondamentali in documenti analoghi. Tra questi rientrano sia il diritto alla protezione della salute,
sancito dall’art. 35 (cfr. in particolare la seconda frase), sia la tutela dell’ambiente, affermata all’art. 37.
Entrambe le disposizioni concepiscono la garanzia della salute e della qualità dell’ambiente come obiettivi
imprescindibili dell’Unione europea che devono guidare le istituzioni e gli Stati membri nella definizione e
nell’attuazione di tutte le politiche dell’Unione, in modo trasversale.
L’attenzione al tema della gestione dei rifiuti pericolosi, in particolare quelli radioattivi, consente di indagare se ed, eventualmente, come, e in che misura, i diritti fondamentali citati siano tenuti debitamente in
considerazione e garantiti nella formulazione e applicazione della legislazione e della politica europea in
relazione a un fenomeno che ha gravi ripercussioni sulle condizioni ambientali e sulla salute umana. A tal
fine è di indubbia rilevanza l’esame del caso del «Poligono di Quirra» in Sardegna, alla luce degli obblighi
in materia di tutela della salute e dell’ambiente, vigenti nell’ordinamento europeo.
La gestione dei rifiuti radioattivi nel diritto dell’Unione
europea
di Harry Post
(407)
 
La disciplina relativa alla gestione dei rifiuti radioattivi nel diritto dell’Unione europea ricade esclusivamente nell’ambito delle norme del trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (TCEEA o
Euratom), dotato di propria «autonomia» nel settore. Il trattamento di simili sostanze non rientra, infatti,
nell’ambito di applicazione degli strumenti normativi in materia di rifiuti adottati in virtù del precedente
trattato della Comunità europea (CE), ossia la direttiva sui rifiuti pericolosi e la direttiva quadro del 2008 sui
rifiuti. A tale materia si applicano, invece, il diritto primario contenuto nel trattato Euratom e la legislazione
da esso derivata.
Il rapporto tra il diritto dell’Unione europea e il diritto Euratom sembra aver trovato un nuovo quadro di
riferimento nel contenuto di due direttive Euratom, una del 2006 sul trasporto dei rifiuti radioattivi (il cui
termine di attuazione era fissato al 25 dicembre 2008) (408) e la più recente direttiva del 2011 che definisce
il contesto generale per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti
radioattivi (il cui termine di recepimento era fissato al 23 agosto del 2013) (409).
La direttiva 2011/70/Euratom ha introdotto la più ampia disciplina generale per la gestione sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi che sia mai stata posta in essere. Essa dispone l’applicazione dei basilari standard di sicurezza Euratom per la protezione dei lavoratori e della popolazione contro
le radiazioni (art. 1) (410).
La direttiva obbliga gli Stati membri ad adottare un quadro normativo nazionale relativo alle categorie di
rifiuti interessate (art. 5), ad istituire un’autorità di regolamentazione nazionale competente (art. 6) e a
sottoporre le attività di gestione dei rifiuti radioattivi ad appositi sistemi di licenza. La nuova direttiva si
occupa di tutte le fasi di gestione del combustibile nucleare esausto e dei rifiuti radioattivi (dalla generazione allo smaltimento) con una importante eccezione: essa si applica solo ai rifiuti (e carburanti esausti)
derivanti da attività civili (art. 2.1) (411).
Adeguati finanziamenti per i tempi di gestione, spesso lunghi e costosi, devono essere assicurati, con il
possibile coinvolgimento dell’industria nucleare (art. 9). L’art. 10 prevede un regime speciale di trasparenza sulle attività condotte nel settore.
Sebbene l’UE abbia già una normativa separata sulla sorveglianza e sul controllo delle spedizioni dei rifiuti
radioattivi, la nuova direttiva del 2011 trova parzialmente applicazione anche con riguardo al trasporto di
tali sostanze.
La disciplina della direttiva del 2006 sopra citata è stata modellata sulla base della regolazione dei rifiuti
 
 
 
 
(407)
(408)
(409)
(410)
(411)
Docente a contratto dell’Università Cattolica di Lille.
Direttiva 2006/117/Euratom, in GUUE L 337/27 del 20/11/2006.
Direttiva 2011/70/Euratom, in GUUE L 199/48 del 2/8/2011.
La direttiva non si applica ai rifiuti provenienti dalle industrie estrattive che possono essere radioattivi e che rientrano nell’ambito di
applicazione della direttiva 2006/21/CE.
In proposito la direttiva conferma la posizione sostenuta dalla Corte di Giustizia nella sua sentenza del 12 aprile 2005 (C-61/03, Commissione
c. Regno Unito).
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
105
pericolosi secondo la convenzione di Basilea, non applicabile in sé ai rifiuti radioattivi (per es. ogni trasporto richiede notifica e permesso), e sulle decisioni prese nel contesto dell’OCSE (l’Agenzia per l’energia
nucleare — NEA), dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) e dell’Organizzazione internazionale marittima (IMO). Diversamente dal passato il combustibile nucleare esaurito destinato ad essere
ritrattato rientra ora nel campo di applicazione della direttiva del 2006 (art. 1.2). Gli Stati membri di transito
possono rifiutare il consenso se ritengono il trasporto contrario agli obblighi internazionali, europei o nazionali (art. 9.3.a). Anche gli Stati membri di destinazione possono invocare la legislazione sulla gestione
dei rifiuti radioattivi e il combustibile nucleare esaurito (art. 9.3.b). Ad ogni modo le condizioni poste per
acconsentire al trasporto non devono essere discriminatorie, ossia non possono essere più restrittive dei
requisiti richiesti per spedizioni simili nello Stato membro interessato.
Così come il trattato sull’Unione europea (TUE) e il trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)
costituiscono fonti di diritto primario vincolanti per gli Stati parti, lo stesso vale per il trattato Euratom. I
rapporti tra questi trattati sono regolati secondo una classica regola di interpretazione dei trattati, quella
della primazia della lex specialis (Euratom) rispetto alla lex generalis (TUE/TFUE) (412). Tuttavia, non sarebbe corretto sostenere che esiste una relazione gerarchica tra i trattati nel senso che il trattato Euratom
prevalga sui trattati generali riguardo allo specifico settore ivi regolato. Sarebbe piuttosto maggiormente
appropriato affermare che UE ed Euratom sono due entità autonome. Nel 1996 la Corte di Giustizia ha affermato che, laddove un trattato settoriale (in questo caso il trattato istitutivo della Comunità europea del
carbone e dell’acciaio — CECA) regola in maniera esaustiva una materia, non c’è spazio per l’applicazione
del TCE (413). Probabilmente la questione più rilevante, meritevole di ulteriore approfondimento in futuro, è
stabilire in che misura il TUE e il TFUE attualmente vigenti siano applicabili al settore dell’energia nucleare.
 
 
La gestione dei rifiuti radioattivi nella giurisprudenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea
di Stefano Silingardi
(414)
 
Finora non sono molti i pronunciamenti della Corte di giustizia europea concernenti le regole materiali del
trattato Euratom e, in particolare, il trattamento dei rifiuti radioattivi. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha una
giurisprudenza in materia e questo non è un dato scontato laddove si consideri che la totalità delle convenzioni internazionali sulla sicurezza nucleare e sullo smaltimento dei residui radioattivi sono per lo più
fondate su un sistema di peer review e sull’assenza di effettivi ed efficaci strumenti di coercizione.
La scelta fatta dall’Unione europea di intervenire nel normare la materia della sicurezza nucleare e dello
smaltimento dei residui radioattivi scegliendo lo strumento della direttiva rende, invece, gli obblighi internazionali assunti dagli Stati membri «esecutivi». La Commissione, infatti, può dare avvio ad una procedura
di infrazione e, qualora lo Stato non dia volontariamente esecuzione al contenuto della direttiva, può
chiedere l’intervento della Corte di giustizia, che dunque si erge a un garante sanzionatorio del contenuto
della direttiva. Al contempo, bisogna però osservare che, tra tutti quelli a disposizione delle istituzioni, la
direttiva è lo strumento normativo «più leggero», in quanto conferisce agli Stati un certo margine di discrezionalità nella fase di attuazione. Inoltre, il testo di queste direttive è stato scritto in maniera tale da
costituire quello che da parte della dottrina è stato definito «un quadro normativo per la cooperazione che
include linee guida generali anziché regole rigide e chiari standard di sicurezza». Ne consegue che senz’altro l’efficacia dell’intervento della Commissione prima, e della Corte poi, vengono in tal modo subordinate
in maniera essenziale alla trasparenza e completezza dei dati forniti dagli Stati membri.
Alla luce di tali attribuzioni è utile soffermarsi sulle poche sentenze della Corte che hanno avuto un peso
specifico significativo nella materia in oggetto. La prima sentenza è quella del 10 dicembre 2002 (Causa
C-29/99), in un caso concernente l’adesione della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA) alla con-
(412)
(413)
(414)
L’ex articolo 305.2 TCE affermava che «Le disposizioni del presente trattato non derogano a quanto stipulato dal trattato che istituisce la
Comunità europea per l’energia atomica».
Cfr. sentenza della Corte di giustizia del 2 maggio 1996, C-18/94, § 22 e decisione della Commissione europea 94/285/Euratom del 21
febbraio 1994, in GUCE L 122/30 del 17 maggio 1994: «…la Comunità europea per l’energia atomica e la Comunità economica europea sono
state fondate come due comunità indipendenti sul piano giuridico, organizzativo e istituzionale, i cui atti giuridici non sono subordinati agli
atti giuridici dell’altra comunità» (§ 22).
Docente a contratto dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
106
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
venzione sulla sicurezza nucleare.
Nella sentenza del 2002 la Corte ha affermato che la Comunità non solo gode di una certa competenza
esterna nei settori coperti dalle disposizioni del capo 3, intitolato «Protezione sanitaria», del trattato Euratom, ma inoltre dispone in ogni caso, in forza degli articoli 30-32 Euratom, di una competenza normativa nel
settore della sicurezza nucleare al fine di istituire, per la protezione sanitaria, un sistema di autorizzazione
che deve essere applicato dagli Stati membri.
In tal modo la Corte ha fornito la copertura giuridica necessaria affinché l’Euratom potesse aderire alla
convenzione dell’AIEA sulla sicurezza nucleare e ha tolto ogni possibile giustificazione in punto di diritto
all’empasse politica degli Stati membri, «costringendoli» ad intervenire. Non è un caso, dunque, che nel
2007 sia iniziata la normazione di quel «pacchetto nucleare» che in pochi anni ha condotto all’emanazione
di tre direttive fondamentali (415).
La seconda sentenza che vale la pena menzionare è quella del 12 aprile 2005 (C-61/03), con cui la Corte, in
un caso concernente il ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione contro il Regno Unito per
non aver rispettato gli obblighi ad esso incombenti in forza dell’art. 37 Euratom, ha affermato che l’applicazione di tale disposizione alle installazioni militari sarebbe tale da compromettere gli interessi essenziali
della difesa nazionale degli Stati membri.
La terza sentenza, emessa dalla Corte il 27 ottobre 2009, riguardava il caso della centrale nucleare di Temelin (C-115/08), un impianto di proprietà dell’impresa ceca di fornitura elettrica Cez, situato in territorio
ceco, a 50 km dalla frontiera austriaca, e accusato dal Land Oberosterreich di mettere a repentaglio, a
causa della radioattività generata dal suo abituale funzionamento, il normale uso di fondi ad esso appartenenti situati a circa 60 Km dalla centrale. Nella sua decisione, la Corte ha affermato che una volta che
le attività nucleari di uno Stato rispettano i criteri stabiliti nelle misure della propria legislazione nazionale
per la protezione sanitaria «efficace e coerente» della popolazione contro i pericoli derivanti da radiazioni
ionizzanti (art. 33 Euratom), e una volta che tali criteri abbiano passato il giudizio di controllo da parte delle
istituzioni UE, segnatamente della Commissione (art. 35) e la stessa abbia ricevuto i dati generali relativi
allo smaltimento di residui radioattivi prima che tali smaltimenti siano autorizzati dalle autorità competenti
(art. 37), attesi tali controlli lo Stato membro non può pretendere di escludere la validità di autorizzazioni di
altri Stati membri ai fini della tutela della salute della propria popolazione. In questo modo, la Corte ha inteso indirizzare, se non persino risolvere, con lo strumento del diritto una questione che è in ultima istanza
di natura prettamente politica: e cioè a chi spetti di fissare la soglia di protezione dalle radiazioni.
Parte della dottrina ha evidenziato, in un’ottica invero critica della sentenza, che la Corte con questa sua
pronuncia sembrerebbe, una volta che la Commissione abbia certificato il rispetto di determinati standard
tecnici di sicurezza, relegare a dato del tutto ininfluente la volontà della popolazione degli Stati. Questa
sentenza costituirebbe, dunque, un ulteriore elemento di scoraggiamento per le popolazioni e le ONG
di paesi confinanti ad imbarcarsi in lunghe dispute, considerato che eventuali ricorsi dovrebbero tenere
in debito conto non solo le pertinenti disposizioni dell’Accordo CEEA, alla quale è stata riconosciuta una
competenza normativa nel settore della sicurezza nucleare; quanto pure l’esito dei controlli condotti dalla
Commissione in forza del capo 3 Euratom, con il risultato, secondo alcuni, di depotenziare la funzione della
politica rispetto a quella del diritto.
Attualmente, l’art. 263 TFUE definisce i limiti di tale potere nella misura in cui si tratta di ricorsi presentati
da una persona contro atti adottati «nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente,
e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d’esecuzione». E qui si apre una porta di indagine che da tempo (caso Plaumann 1962) anima i dibattiti nella
dottrina, e che ora si arricchisce delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona (ad es. maggior coinvolgimento del PE e progressivo slittamento dei poteri dagli Stati alle istituzioni dell’UE): in che misura i privati
hanno un effettivo potere di ricorso, soprattutto in una materia particolarmente «sensibile» quale è quella
della sicurezza nucleare, che impone la necessità di tutelare la vita, la sanità pubblica, l’ambiente o il diritto
di proprietà?
 
(415)
La 117/2006, relativa alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti radioattivi e di combustibile nucleare esaurito; la 71/2009 che
istituisce un quadro comunitario per la sicurezza nucleare degli impianti nucleari; e la 70/2011 che istituisce un quadro comunitario per la
gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
107
Il caso del «Poligono di Quirra» alla luce della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sulla
tutela della salute e dell’ambiente
di Mario Odoni
 
(416)
Fin dalla metà degli anni ’50, nell’area della Sardegna sudorientale denominata «Salto di Quirra», è operativo un «Poligono Sperimentale di Addestramento Interforze» (PISQ). Dalla sua istituzione a oggi, nel
Poligono sono stati sperimentati e collaudati armamenti di vario tipo, che avrebbero diffuso nell’ambiente
sostanze (anche radioattive, come il torio) sospettate di aver favorito l’insorgere di patologie tumorali
letali in numerose persone che vivevano nelle zone limitrofe. Al riguardo, i mezzi di informazione hanno
parlato di una vera e propria «Sindrome di Quirra». I sospetti e i timori per la salute delle persone operanti
nell’area militare, o nelle sue vicinanze, si sono di recente rafforzati in seguito alle indagini condotte dalla
Procura di Lanusei, che nel 2012 si sono concluse con la richiesta di rinvio a giudizio per venti indagati, tra
i quali sei ex comandanti del Poligono. Nel quadro delle indagini si è, fra l’altro, scoperta l’esistenza di una
vera e propria discarica di rifiuti pericolosi all’interno dell’area coinvolta. Ciò evidenzia ulteriormente il collegamento fra i fatti relativi al PISQ e la materia della tutela della salute e dell’ambiente.
A ben vedere, il «caso Quirra» è emblematico di un settore nel quale l’azione dell’Unione europea stenta
ancora a inserirsi. Tra le tante aree nelle quali il diritto dell’Unione europea è riuscito a imporsi e a sottolineare la primaria esigenza di tutelare la salute e l’ambiente, sono tuttavia rimaste alcune «zone d’ombra», per lo più connesse con interessi tradizionalmente «sensibili» degli Stati Membri, come quelli che
riguardano la difesa nazionale. Ciò sembra sostanzialmente emergere anche dalle risposte fornite dalla
Commissione europea a due interrogazioni parlamentari relative allo specifico caso in oggetto. In particolare, la Commissione ha dichiarato che essa «non ha il potere di chiedere all’Italia di effettuare uno studio
epidemiologico sulla comparsa di effetti nocivi sulla salute nelle vicinanze di un sito sperimentale militare
nazionale» (3 marzo 2011) e che «la direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di
prevenzione e riparazione del danno ambientale (fondata sul principio «chi inquina paga») […] non è applicabile all’inquinamento causato dalle attività militari che si svolgono nelle aree limitrofe al poligono di
Quirra», in quanto «le attività militari non rientrano nelle attività professionali pericolose per l’ambiente, di
cui all’allegato III della direttiva […], che riguardano la responsabilità oggettiva. Inoltre la direttiva esclude
espressamente le attività “il cui scopo principale è la difesa nazionale o la sicurezza internazionale” […]»
(19 luglio 2012).
La stessa osservazione che il «caso Quirra» sembra implicare la violazione di diritti fondamentali dell’individuo giustifica la scelta di valutare i fatti anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo. Del resto, viste le circostanze del caso in questione, non si può escludere che esso venga
sottoposto proprio all’esame della Corte, magari per iniziativa di un gruppo di abitanti nelle zone limitrofe al Poligono, secondo il modello di diversi ricorsi già presentati in passato, definiti in dottrina come
esempi di «azione collettiva per violazioni plurioffensive della CEDU», alcuni dei quali sono appunto in
materia di inquinamento ambientale. Basti ricordare, per esempio, il caso Guerra e altri c. Italia (sentenza
del 19.2.1998), proposto da 40 abitanti di Manfredonia, che in particolare lamentavano di non esser stati
adeguatamente informati dalle autorità nazionali, né sui rischi che essi correvano per il fatto di vivere in
prossimità di uno stabilimento industriale particolarmente pericoloso per l’ambiente, né sulle procedure da
seguire in caso di incidenti durante lo svolgimento dell’attività produttiva. La Corte di Strasburgo ha finito
per riconoscere che lo Stato convenuto aveva violato l’art. 8 della CEDU (diritto al rispetto della vita privata
e familiare) proprio per non aver fornito ai ricorrenti le informazioni essenziali per valutare i rischi ai quali
erano esposti.
Com’è noto, nella convenzione europea dei diritti dell’uomo non esiste una norma che tuteli specificamente in via generale l’ambiente in quanto tale. La Corte di Strasburgo ha nondimeno cercato di assicurare un
certo grado di protezione ambientale in via interpretativa, in particolare facendo leva sul già citato articolo
8 e in altri casi, relativamente più recenti, anche sull’art. 2 CEDU, che tutela il diritto alla vita. Certamente,
il «caso Quirra» ruota attorno all’accusa di un grave e, in certi casi, forse irreparabile inquinamento ambientale, nonché sul fondato sospetto che tale inquinamento sia all’origine di seri danni alla salute degli
individui, addirittura letali per diverse persone. Tanto nella prospettiva di una violazione dell’art. 8, quanto
in quella di una possibile violazione dell’art. 2 della CEDU la giurisprudenza di Strasburgo non manca di
(416)
Ricercatore dell’Università degli Studi di Sassari
108
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
offrire esempi utili per una valutazione. Soprattutto nell’ottica degli obblighi di informazione al pubblico
circa situazioni potenzialmente nocive per la salute, già menzionati a proposito del caso Guerra, si può
citare anche il caso L.C.B. c. Regno Unito (sentenza del 9.6.1998), che pare particolarmente pertinente per
la vicenda di Quirra. Si trattava della figlia di un militare che alla fine degli anni ’50 aveva prestato servizio
in un’isola in cui il governo britannico aveva effettuato alcuni test nucleari. La ricorrente lamentava di essersi ammalata di leucemia a causa dell’esposizione del padre alla radioattività. Alla luce dell’art. 2 CEDU,
la Corte ha riconosciuto che il governo avrebbe dovuto adempiere obblighi di informazione nei confronti
della ricorrente, se soltanto le conoscenze scientifiche disponibili all’epoca avessero consentito di ipotizzare possibili rischi per la sua salute, conseguenti all’irradiazione del genitore.
In definitiva, nella vicenda del Poligono di Quirra è proprio il punto degli obblighi di informazione a sembrare cruciale. Soltanto un’indagine di tipo epidemiologico e sistematico sull’intera area coinvolta, con
caratteristiche di ampiezza e terzietà idonee ad accertare l’eventuale nesso di causalità tra i vari fattori di
inquinamento e l’insorgenza di certe patologie nella popolazione, potrebbe soddisfare quegli obblighi di
informazione al pubblico circa i rischi potenziali connessi a situazioni di degrado ambientale, che la Corte
europea dei diritti dell’uomo tende a far discendere in capo agli Stati dall’art. 8 o dall’art. 2 della CEDU.
Il regime europeo di gestione dei rifiuti radioattivi alla
luce dell’obbligo internazionale di ’due care’
di Erik Koppe
(417)
 
L’obbligo di adeguata protezione dell’ambiente, sancito dall’Articolo 55 del I Protocollo del 1977, addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, e riconosciuto come norma di diritto internazionale
consuetudinario, trova applicazione non solo in tempo di guerra, ma anche in tempo di pace.
Si possono osservare, infatti, obblighi analoghi, specialmente di natura precauzionale, in molti ordinamenti
giuridici nazionali. Di solito, simili obblighi richiedono una valutazione di impatto ambientale prima che
attività potenzialmente dannose, quali il trattamento e il deposito di rifiuti radioattivi, siano intraprese.
Il dovere di adeguata protezione dell’ambiente può essere anche definito come un principio generale di
‘ambituity’ (ambientalità), termine coniato effettuando un parallelismo con la parola ‘humanity’ (umanità),
utilizzata per riferirsi al bene protetto dagli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani. Tale principio
è largamente incorporato in numerosi strumenti internazionali concernenti la protezione dell’ambiente e
dà origine non solo a obblighi sinallagmatici tra due Stati direttamente coinvolti in una situazione che metta
a repentaglio l’ambiente e la salute, ma è fonte di obblighi nei confronti della comunità internazionale nel
suo complesso. Di conseguenza, il carattere erga omnes di tale principio consente ad ogni Stato di invocarne il rispetto, sebbene non direttamente leso da potenziali attività dannose.
(417)
Docente dell’Università di Leiden
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
109
CDE e Biblioteca E. Tarantelli
Università della Calabria
Articolo 37
Tutela dell’ambiente
Articolo 37
Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati
nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.
Aspetti ecologici, economici, giuridici e politici (418).
Tutela dell’ambiente e rule of law nei paesi europei
 
di Janna Smirnova, Concetta Castiglione e Davide Infante
 
(419)
Premessa
La criticità delle condizioni ambientali ha portato la società a sviluppare la cosiddetta consapevolezza ambientale: l’accettazione del degrado provocato dall’attività dell’uomo e la volontà di intervenire per rimediare al danno. Lo scopo dello sviluppo sostenibile, cioè dello sviluppo che soddisfa i bisogni attuali senza
compromettere le possibilità delle generazioni future nel soddisfare i propri bisogni (World Commission on
Environment and Development, 1987) diventa, in tale, modo una priorità.
La tutela ambientale rappresenta, pertanto, una questione complessa dato che incorpora nella società un
conflitto di interessi. Da una parte, chi produce sfrutta e danneggia l’ambiente e dall’altra, chi consuma
vuole vivere in un ambiente pulito. Lo sviluppo sostenibile sottolinea la necessità di trovare un equilibrio
tra questi interessi contradittori il che diventa possibile solo attraverso la creazione di un forte contesto
istituzionale chiamato a riconciliare la crescita economica e la qualità dell’ambiente tramite l’enforcement
delle politiche ambientali (Castiglione e al., 2012a). In questo modo, per raggiungere uno sviluppo sostenibile è necessario approfondire i legami esistenti tra ambiente, istituzioni e crescita economica.
L’impatto della rule of law sulla protezione dell’ambiente
Le istituzioni sono definite da North (1997) come vincoli formali e informali condivisi dalla società che strutturano le interazioni tra gli uomini. Di conseguenza, il loro impatto sull’ambiente può essere espresso in
diversi modi, sia sulla qualità dell’ambiente sia sull’adozione e diffusione delle nuove tecnologie ambientali
o sull’implementazione delle politiche ambientali. Infatti, sono stati registrati effetti positivi sull’ambiente
raggiunti attraverso la protezione dei diritti, la democratizzazione, l’apertura verso l’estero ed una governance efficiente (Baek e al., 2009; Lovely e Popp, 2008); mentre effetti negativi si sono riscontrati a causa
di corruzione, eccessiva burocrazia e dittatura (Infante e Smirnova, 2009; Leitão, 2010).
Una delle istituzioni più importanti per la protezione ambientale è quella della rule of law definita come
la percezione che gli agenti economici hanno delle regole della società, in particolare dell’enforcement
di contratti, diritti di proprietà, fiducia nelle forze dell’ordine, funzionamento della giustizia, così come
del crimine e della violenza (Kaufmann e al., 2010). Dato che la protezione ambientale di solito necessita
dell’intervento dello Stato, un favorevole contesto istituzionale definito dalla rule of law costituisce la base
(418)
(419)
L’iniziativa si è svolta il 9 maggio 2013 presso la sala multimediale della Biblioteca interdipartimentale di scienze economiche e sociali «E.
Tarantelli», Università della Calabria, nell’ambito del Progetto della rete italiana dei CDE 2013 «Diritti fondamentali e cittadinanza Europea»
con la collaborazione della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Di seguito riportiamo le relazioni dei docenti che hanno
partecipato al convegno e successivamente contribuito alla stesura di questo e-book.
Janna Smirnova, Concetta Castiglione e Davide Infante, Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza, Università della Calabria.
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di funzionamento delle politiche del regolatore, determinando la funzionalità e l’applicabilità delle politiche
ambientali (Castiglione e al., 2012a).
Interazione tra reddito, istituzioni e ambiente
L’andamento del reddito pro capite è fortemente influenzato dalla qualità del contesto istituzionale. Nello
stesso tempo, con l’avanzare dello sviluppo economico, il rafforzamento delle istituzioni comporta un
incremento della domanda di tutela ambientale e, di conseguenza, una migliore qualità dell’ambiente. In
questo modo, nelle economie sviluppate, forti istituzioni creano un doppio vantaggio: contribuiscono ad
aumentare il livello del reddito pro capite e migliorano la qualità dell’ambiente; mentre nelle economie in
via di sviluppo, dove il contesto istituzionale è debole ed i vincoli allo sviluppo sono molteplici, è difficile
introdurre ed applicare le politiche ambientali.
La presenza della curva ambientale di Kuznets (confermata empiricamente in letteratura per i paesi europei), che descrive come l’inquinamento cresce all’aumentare del reddito pro capite nella fase iniziale
dello sviluppo economico e decresce con aumentare del reddito nella fase di sviluppo avanzato, indica il
miglioramento della qualità dell’ambiente come risultato delle politiche ambientali. In molti paesi europei,
tra queste politiche la tassazione ambientale gioca un ruolo decisivo (Ekins, 1999). L’esperienza dei paesi
eco-leaders (Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) dimostra come sia possibile ottenere un doppio
vantaggio (double dividend) nell’applicare le tasse ambientali: migliorare la qualità dell’ambiente ed ottenere dei benefici per la performance economica (Bosquet, 2000; Bovenberg e Moouj, 1997). Infatti, in
seguito all’introduzione della tassazione ambientale in questi paesi si sono ridotte le emissioni, mentre le
entrate provenienti dalla tassazione sono state utilizzate per diminuire le tasse sul reddito e aumentare gli
investimenti «verdi».
Tassazione ambientale e la rule of law
Sulla base dell’esperienza positiva dei paesi eco-leader, l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) propone
nel 2005 la riforma della tassazione, spostando la tassazione ambientale dai «beni», quali lavoro e reddito,
ai «mali», ossia quelle attività che danneggiano l’ambiente (EEA, 2005), allo scopo di riconciliare la crescita
economica e la qualità dell’ambiente. Questa riconciliazione può essere raggiunta tramite efficienti politiche ambientali sorrette da un forte contesto istituzionale.
Figura 1: La curva di tassazione ambientale di Kuznets
Fonte: Castiglione, Infante e Smirnova (2012)
Il ruolo che hanno le istituzioni, in particolare, la rule of law, sulla tassazione ambientale è quello di rafforzare l’introduzione e l’applicazione della politica di protezione dell’ambiente. Solo in un forte contesto
istituzionale il sistema di tassazione ambientale diventa efficiente e implica nel tempo la diminuzione della
tassazione stessa grazie alla diminuzione della base imponibile. In questo caso l’andamento della relazione
tra reddito pro capite e tassazione ambientale assume la forma di una U-rovesciata. La tassazione ambientale cresce all’aumentare del reddito e, quindi, dell’inquinamento nella fase iniziale e, dopo aver raggiunto
un massimo, decresce all’ulteriore aumento del reddito insieme alla diminuzione delle emissioni. Questo
andamento, denominato da Castiglione e al. (2012b) Environmental Taxation Kuznets Curve (si veda figura
1), dipende fortemente dal ruolo delle istituzioni: il rafforzamento della rule of law implica che il punto di
svolta nella riduzione dell’inquinamento avvenga a livelli più bassi del reddito pro capite. Di conseguenza,
l’avanzamento dello sviluppo economico non è una condizione sufficiente per ottenere dei miglioramenti
ambientali, per essere virtuosi nel migliorare la qualità dell’ambiente è necessario introdurre anche politiche economiche volte a rafforzare il contesto istituzionale.
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Considerazioni finali
La crescita economica non è una condizione sufficiente per realizzare politiche in difesa dell’ambiente. Il
contesto istituzionale dentro il quale può avvenire tale difesa deve essere tenuto in forte considerazione
quando si disegnano le politiche ambientali. Dai policy-makers ci si attende un’allocazione di risorse aggiuntive per assicurare il funzionamento della rule of law e creare un contesto adeguato per il rafforzamento di tale istituzione.
Anche nelle economie Europee, dove la rule of law risulta fortemente eterogenea, per migliorare la qualità
dell’ambiente, diventa necessario non solo promuovere la crescita economica, ma anche concentrare l’attenzione sullo sviluppo istituzionale. Mentre la tassazione ambientale in Europa può essere uno strumento
efficiente nell’abbattimento dell’inquinamento, il suo effetto non è omogeno tra i paesi e dipende dal grado di rule of law. Solo in presenza di istituzioni forti la politica economica potrà spostare la tassazione dai
«beni» ai «mali», assicurando il double dividend, riconciliando crescita economica e qualità dell’ambiente.
BIBLIOGRAFIA
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Bosquet, B., 2000. Environmental tax reform: does it work? A survey of the empirical evidence. Ecological Economics. 34, 19-32.
Bovenberg, A.L., De Mooij, R.A., 1997. Environmental tax reform and endogenous growth. Journal of Public Economics, 63, 207-237.
Castiglione, C., Infante, D., Smirnova, J., 2012a. Rule of law and the Environmental Kuznets Curve: evidence for carbon emissions.
International Journal of Sustainable Economy, 4, 254-269.
Castiglione C, Infante D, Smirnova J, 2012b, Rule of law and its implications for the environmental taxation-income path across European Countries, WP 39433, Munich Personal RePEc Archive, Germany.
Ekins, P., 1999. European environmental taxes and charges: recent experience, issues and trends. Ecological Economics, 31, 39-62.
European Environment Agency (EEA), 2005. Market-based instruments for environmental policy in Europe. Technical Report No. 8,
Copenhagen, Denmark.
Infante, D., Smirnova, J., 2009. Rent-seeking under weak institutional environment. Economics Letters, 104, 118-121.
Kaufmann, D., Kraay, A., Mastruzzi, M., 2010. The worldwide governance indicators: A summary of methodology, data and analytical
issues. World Bank Policy Research.
Leitão, A., 2010. Corruption and the Environmental Kuznets Curve: Empirical evidence for sulphur. Ecological Economics, 69, 2191-2201.
Lovely, M., Popp, D., 2008. Trade, technology and the environment why have poor countries regulated sooner?, WP 14286, National
Bureau of Economic Research, Cambridge, MA.
North, D.C., 1997. The Contribution of the New Institutional Economics to an Understanding of the Transition Problem, WIDER Annual
Lectures 1, March.
World Commission on Environment and Development, 1987. Report «Our Common Future», Oxford University Press.
La sfida ambientale dell’Unione europea
di Donatella M. Viola
 
(420)
Introduzione
Con oltre 500 milioni di abitanti che vivono nei vari Stati Membri, divenuti ventotto da luglio 2013 con
l’ingresso della Croazia, l’Unione europea (UE) rappresenta una delle comunità più vaste al mondo sia per
densità di popolazione sia per concentrazione industriale. Negli ultimi decenni la cosiddetta ‘questione
ambientale’ ha attirato sempre più l’attenzione delle istituzioni europee, preoccupate di salvaguardare
l’ecosistema e di tutelare la salute pubblica.
Fra i responsabili del degrado ecologico spiccano le industrie, che operano in un regime di sfrenata concorrenza, ma anche i governi nazionali, che avallano tale comportamento temendo di limitare l’espansione
economica, ed infine i consumatori con le loro incessanti richieste di prodotti innovativi.
Considerando che l’inquinamento oltrepassa ogni barriera geografica, ignorando qualsiasi frontiera statale,
è opportuno favorire il ruolo sovranazionale dell’Unione europea per disciplinare la legislazione in materia
ambientale e per individuare e ripartire equamente i costi. Occorre ridurre la quantità di agenti inquinanti,
imponendo alle industrie nei vari Paesi l’applicazione di provvedimenti comuni al fine di evitare problemi
di concorrenza sleale con gravi ripercussioni a livello occupazionale.
(420)
Donatella M. Viola, PhD, London School of Economics, Relazioni internazionali, Università della Calabria.
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Percorrendo, in questa breve relazione, le tappe salienti dello sviluppo della politica europea ambientale
sarà possibile risalire alle ragioni che hanno portato alla sua stessa formulazione (421).
 
Cenni sull’evoluzione della politica europea ambientale
Le origini del diritto comunitario in materia di tutela dell’ambiente risalgono alla conferenza di Parigi
dell’ottobre del 1972, nel corso della quale i Capi di Stato e di governo dei sei Paesi fondatori della Comunità
europea — Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo — espressero l’intenzione di tracciare le linee generali ponendo il progresso industriale e tecnologico al servizio dell’uomo. Questo risveglio
della coscienza ambientale europea si inserì perfettamente nel contesto internazionale che aveva ispirato
la Prima conferenza mondiale sull’ambiente, svoltasi a Stoccolma nel giugno 1972, inaugurando l’attività
istituzionale delle Nazioni Unite nel settore.
Nel novembre del 1973 furono delineati i tratti della politica ambientale comunitaria fra cui risaltò il principio ‘chi inquina paga’, già formulato in sede OCSE, secondo cui le spese per la soppressione dei danni
ecologici spettano all’inquinatore. Qualche anno dopo, a causa del persistere di vecchi problemi ambientali
e dell’insorgere di nuovi si fece strada fra i Paesi Membri della Comunità europea — a cui si erano aggiunti
nel frattempo Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca — la consapevolezza che non fosse sufficiente adottare
misure per arginare il dilagante degrado ecologico, ma che fosse indispensabile ricorrere ad azioni preventive mediante tecnologie efficaci per la gestione razionale del territorio e delle risorse naturali.
Nell’ambito giuridico e politico comunitario ambientale un passo decisivo fu compiuto con l’Atto unico europeo (AUE), firmato nel febbraio del 1986 ed entrato in vigore nel luglio del 1987, che introdusse il Titolo
VII dedicato all’ambiente ed in particolare l’articolo 100 che prevedeva misure relative al Mercato Unico
inteso come «uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci,
dei servizi e dei capitali». Ne risultò che la politica europea dell’ambiente, originariamente concepita come
attività complementare o supplementare, cominciò ad essere integrata con le altre politiche comunitarie,
come quella industriale, agricola, energetica e dei trasporti.
Nel maggio del 1990 il Consiglio adottò il regolamento n. 1210 che istituiva l’Agenzia europea dell’ambiente quale organo centrale comunitario avente funzione di raccogliere informazioni utili per la definizione e
l’attuazione di politiche ambientali idonee.
Il trattato sull’Unione europea (TUE), firmato nel febbraio 1992 ed entrato in vigore nel novembre 1993
dopo un lungo e complesso processo di ratifica, conferì alla tutela ambientale rango di vera e propria
‘politica’ mediante l’attribuzione di una base giuridica negli articoli 130R-130T. «La Comunità ha il compito
di promuovere (…) una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente», e tale attività
«comporta una politica nel settore dell’ambiente».
Nei programmi di sviluppo assistiti dai fondi Strutturali europei fu introdotto l’obbligo della valutazione ambientale strategica (VAS) come conditio sine qua non per accedere a qualsiasi finanziamento. (regolamento 2081/93 CEE). L’evoluzione della politica comunitaria ambientale proseguì con il trattato di Amsterdam,
firmato nell’ottobre del 1997 ed entrato in vigore nel maggio del 1999, che elaborò il concetto di sviluppo
sostenibile integrandolo fra gli obiettivi prioritari dell’Unione europea. Inoltre, conformemente al principio
di sussidiarietà stabilito dall’art. 3B, secondo comma, del trattato CE, fu ribadito che la Comunità potesse
intervenire per risolvere i problemi ambientali soltanto nella misura in cui tale intento potesse essere raggiunto meglio a livello comunitario, piuttosto che a quello nazionale o regionale.
Ad oggi, oltre ai sette Programmi di Azione per l’Ambiente (PAA) diretti a garantire un alto grado di tutela
dell’ecosistema, l’Unione europea ha lanciato i Programmi LIFE e LIFE Plus, quali strumenti finanziari per
contribuire all’attuazione della legislazione comunitaria ambientale, per sollecitare l’integrazione dei principi ecologici nelle altre politiche e per favorire lo sviluppo sostenibile nell’Unione europea. Infine il Programma LIFE-Paesi terzi ha contribuito alla creazione di capacità e di strutture amministrative necessarie al
settore ambientale nei Paesi rivieraschi del Mar Mediterraneo e del Mar Baltico che hanno stipulato accordi
di associazione con l’Unione europea.
Nel corso degli anni l’ingresso di nuovi Membri nell’UE ha comportato un mutamento di indirizzo in materia
di politica ambientale, passando da un sistema di «command-and-control»’, con divieti ed autorizzazioni,
ad un sistema più flessibile orientato al mercato e fondato su strumenti fiscali. Un clima di tensione è emerso fra i cosiddetti «Paesi Verdi» che propongono criteri ambientali più severi e gli altri Membri restii ad
attuare invece tali misure. In tale contesto appare quanto mai auspicabile il ruolo dell’UE come mediatore
capace di dirimere le controversie tra i vari Stati e come protagonista in consessi internazionali. In virtù del
suo carattere transfrontaliero, la questione ambientale rappresenta una priorità dell’UE che richiede una
(421)
Sull’evoluzione storica della politica europea ambientale cfr. Viola, D.M. (2004). Per un’analisi approfondita dell’applicazione della normativa
comunitaria in materia ecologica, cfr. Hedemann-Robinson, M. (2012, 2007).
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reale volontà di cooperare da parte di tutti gli attori a livello politico, economico e sociale.
Ai sensi del trattato di Lisbona, firmato nel dicembre del 2007 ed entrato in vigore nel dicembre del 2009,
l’Unione europea si impegna a raggiungere uno sviluppo sostenibile, una crescita economica diretta al
raggiungimento della piena occupazione e del progresso sociale, garantendo un alto grado di protezione
e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Per far fronte alle minacce dell’inquinamento transfrontaliero nonché ai rischi e agli effetti negativi del cambiamento climatico, interventi comuni dovranno essere
realizzati a livello dell’Unione europea che, dopo che la ratifica del trattato di Lisbona, gode di personalità
giuridica e può pertanto firmare convenzioni, protocolli ed accordi internazionali, ergendosi a difensore
dell’ambiente.
Tuttavia, condividendo ancora l’Unione europea e gli Stati Membri competenze in tale settore, è quanto
mai indispensabile raggiungere un accordo fra le parti per combattere gli effetti transfrontalieri dell’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo che non possono essere affrontati adeguatamente a livello
nazionale.
Conclusione
L’Unione europea è consapevole della grande sfida ecologica che l’attende, derivante dalla molteplicità
degli organi decisionali spesso in contrasto fra di loro, dal lento e complesso iter di recepimento della normativa comunitaria da parte degli Stati Membri e persino aggravata dalla difficile crisi economica e finanziaria globale. A tale scopo è d’uopo promuovere una serie di azioni dirette a semplificare la procedura di
armonizzazione legislativa in materia, ad ampliare il ruolo delle istituzioni europee, a rinvigorire i rapporti
fra politica ambientale e le altre politiche comuni nonché a creare un sistema di controllo più efficace. Indubbiamente, al di là e al di sopra di tutto, appare quanto mai necessaria la volontà comune dei vari attori
di superare le divergenze per far fronte alla questione ambientale ed in particolare all’emergenza relativa
al cambiamento climatico, evitando così una catastrofe senza ritorno.
Echeggiando la frase conclusiva del celebre discorso tenuto al vertice climatico di Copenaghen nel dicembre del 2009 dal recentemente scomparso presidente del Venezuela Hugo Chávez, «facciamo in modo che
questa Terra non diventi la tomba dell’umanità, facciamo di questa Terra un cielo, un cielo di vita, di pace,
e di pace e di fratellanza per tutta l’umanità, per la specie umana» (Chávez, 2009).
BIBLIOGRAFIA
‘Discorso del presidente Chávez alla XV conferenza sul mutamento climatico’, 16 dicembre 2009, Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici, 25
gennaio 2010, http://www.eurasia-rivista.org/discorso-del-presidente-chavez-alla-xv-conferenza-sul-mutamento-climatico/2821/.
Hedemann-Robinson, Martin (2007) Enforcing European Union Environmental Law, Routledge Cavendish, London.
Hedemann-Robinson, Martin (2012) ‘EU Enforcement of International Environmental Agreements: The Role of the European Commission’, European Energy and Environmental Law Review, 21 (1), pagg. 2-31.
Viola, Donatella M (2004) ‘Verso una politica comune europea dell’ambiente? Problematiche e Prospettive’, Il Diritto Dell’Economia,
2, pagg. 249-276.
La tutela dell’ambiente attraverso la consapevolezza di
essere natura
di Piero Gagliardo (422)
 
In questi pochi minuti che ho a disposizione, vorrei accennare ad alcune problematiche inerenti la grande e
complessa questione della tutela dell’ambiente.
Dopo la pubblicazione del famoso volume del MIT «I limiti dello sviluppo» del 1972, che mette in guardia
dal dimenticare la ben nota equazione di Malthus, si inizia a dialogare sulle risorse della Terra in termini
preoccupazione per la vita futura degli abitanti del nostro Pianeta. La curva esponenziale della crescita
della popolazione nei Paesi in via di sviluppo e in quelli sottosviluppati a confronto con la linearità della
produzione delle risorse alimentari rappresenta, di fatto, la sfida che il mondo occidentale avverte di dover
affrontare secondo tecniche operative e livelli di progettualità improntate non più alla logica dello sviluppo,
ma sulla base della razionalità che, in qualche misura, non è solamente afferente alla dimensione umana,
ma che compenetra la natura stessa.
(422)
Piero Gagliardo, Dipartimento di Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio e Ingegneria Chimica, Università della Calabria.
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L’occasione della diffusione di tale volume, tuttavia, mette in evidenza la mancata capacità di dialogo con
la natura sia a livello politico, che nell’ambito del mondo scientifico, capace, quest’ultimo, di approcciarsi in
modo sistematico ad alcuni eventi osservati in natura, ma totalmente insufficiente rispetto ad una concezione culturale, attenta alla globalità dell’esistente.
Soltanto trent’anni dopo, infatti, attraverso le Convenzioni quadro delle Nazioni Unite sull’ambiente, si riesce ad elaborare una metodologia di analisi e di interventi secondo una scala di osservazione planetaria,
superando enormi criticità iniziali e avvalendosi di iniziative diplomatiche nelle relazioni internazionali,
spesso difficilmente realizzabili su tematiche di altra natura: il clima, la biodiversità e la lotta alla desertificazione costituiscono, di fatto, l’elemento di coesione di quasi duecento Paesi del Pianeta, tutti consapevoli
che l’affinamento comune di tecniche di intervento per rendere più fruibile il Pianeta costituisca una modalità pacifica di dialogo al di là della politica, della religione e dell’ideologia. In altri termini sembra diventare
sempre più urgente la necessità di superare la visione del mondo antropocentrica a favore di una centralità
più evidente ed in fase di progressiva conoscenza, che consiste nella natura stessa e nelle sue regole, nei
suoi processi e nella sua consistenza strutturale.
È la fiducia incondizionata nella scienza e nella tecnologia a suggerire o, addirittura, ad imporre da un lato
l’antropocentrismo e dall’altro il governo nella competizione sull’uso delle risorse.
C’è qualcosa di malato in questo alimentarsi di tensioni per la vita futura degli abitanti della Terra, c’è qualcosa di logorante nel sottolineare costantemente i limiti delle risorse in un Pianeta fisicamente limitato. Si
rasenta ritmicamente lo sconforto, si percorrono itinerari alternativi alla concezione classica delle regole
economiche.
Ma non si vuole ammettere che i popoli più sviluppati della Terra, il 20% degli attuali sette miliardi consuma
l’80% delle risorse disponibili e, soprattutto non si vuole assimilare il concetto che proprio il consumismo
si accompagna ad un vero e proprio crimine contro quella parte di umanità che vive di povertà, di miseria,
di fame, di malattie, di apatia, di ignoranza, nella indifferenza agghiacciante dei popoli ricchi.
È assodato che nel cuore dell’uomo abiti la tentazione di impadronirsi di ciò che Dio gli dona, senza preoccuparsi di identificare l’origine stessa del dono ricevuto, mentre, per altri versi, si assiste ad un eccesso di
assunzione di responsabilità di fenomeni che sono sempre avvenuti sulla Terra e che, in alcuni casi, subiscono delle accelerazioni da parte dell’uomo, come nel caso di frane o di alluvioni.
È per questo motivo che, come afferma la Banini (Il cerchio e la linea, 2010) occorre una riabilitazione
metafisica della natura attraverso la fisica, a cui tanto i razionalisti che gli empiristi non avevano pensato,
ricordando che l’uomo è «quella fase della natura in cui prende coscienza di sé» come scriveva il geografo
anarchico Elisée Reclus nel 1850.
Kant sosteneva che il dominio della nostra conoscenza è limitato al campo dell’esperienza possibile e che
il puro ragionamento condotto oltre questo campo, non hanno giustificazioni. Nella «critica della Ragione
Pura» dove s’intitola «Dialettica Trascendentale» egli dimostrò che se cerchiamo di costruire un sistema
teorico a partire dalla pura ragione — volendo per esempio di dimostrare che il mondo in cui viviamo è
finito (idea, ovviamente, al di là dell’esperienza possibile) — possiamo farlo, ma troveremo sempre, con
costernazione, che, avvalendoci degli stessi argomenti, possiamo dimostrare altrettanto bene la tesi opposta.
La tutela dell’ambiente, dunque, passa, nell’attuale periodo storico, attraverso la formulazione del concetto di sviluppo sostenibile, che vede la coesistenza dell’integrità ecosistemica insieme all’efficienza economica e all’equità sociale, obiettivo, quest’ultimo, ancora molto difficile da perseguire.
Il concetto di sostenibilità è stato formulato in Europa nel 1987 attraverso la Commissione Bruntland secondo questi termini: «uno sviluppo che risponda alle esigenze del presente senza compromettere la capacità
delle generazioni future di soddisfare le proprie».
In altri termini, si sostiene che la crescita odierna non debba mettere in pericolo le possibilità di crescita
delle generazioni future. Le tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale)
devono essere affrontate in maniera equilibrata, prima di tutto a livello politico. La strategia per lo sviluppo
sostenibile, adottata nel 2001 e riveduta nel 2005, è completata, tra l’altro, dal principio dell’integrazione
della problematica ambientale nelle politiche europee aventi un impatto sull’ambiente.
Un po’ alla volta si percepisce che la tutela ambientale debba prevedere una revisione molto accurata dei
criteri d’uso delle risorse della terra, sia per quelle rinnovabili e, a maggior ragione per quelle non rinnovabili.
È soprattutto su questo versante che la ricerca scientifica in ambito ecosistemico deve abbandonare una
sorta di presunzione innata nei confronti della comprensione della realtà ed assumere, invece, un atteggiamento umile di fronte allo splendore del creato, che è la vera centralità dell’intero Universo.
Come afferma Antoine De Saint-Exupéry: «Il mistero non è un muro, ma un orizzonte, il mistero non è una
mortificazione dell’intelligenza, ma uno spazio immenso che Dio offre alla nostra sete di verità».
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Ordinamento comunitario e tutela dell’ambiente
di Alessandro Mazzitelli
(423)
 
In quest’ultima fase del processo (crisi) di integrazione comunitaria, la questione ambientale è posta dinanzi ad un bivio; da una parte, frammentarsi al servizio di una logica subordinata al contesto economico,
e quindi con questo assimilarsi senza produrre inefficienze al sistema di mercato; dall’altra, divenire guida
delle trasformazioni e dello sviluppo. Il processo formale di riconoscimento dell’ambiente è andato di pari
passo con le trasformazioni indotte dal processo d’integrazione comunitario. In ulteriore evidenza e in
termini specifici, la materia ambientale ha subito più di altre l’effetto provocato dalla prassi normativa,
rafforzata, quasi (424) di rimbalzo, dalla giurisprudenza comunitaria.
Il periodo intercorrente tra l’adozione del trattato di Mastricht ed il trattato di Amsterdam, è stato caratterizzato per il crescente impegno dell’UE nel settore ambientale. Il Parlamento europeo ha dato origine a
numerosi provvedimenti legislativi, quali la revisione della normativa sulla valutazione d’impatto ambientale, l’accesso all’informazione ambientale e il marchio per i prodotti ecologici.
È in riferimento a quanto premesso, a seguito delle valutazioni sullo stato d’attuazione degli obiettivi
prefissati, che nel 1996, il Parlamento europeo ed il Consiglio, attraverso una procedura di conciliazione,
convennero sull’opportunità di rivedere il Quinto programma d’azione in materia ambientale. Lo scopo consisteva nell’intensificare l’impegno dell’UE in alcuni settori prioritari e perseguire l’obiettivo dello sviluppo
sostenibile. Rafforzando le basi della politica ambientale, favorendo la produzione e i consumi sostenibili,
approfondendo il concetto di condivisione delle responsabilità, come pure, promuovendo iniziative regionali
e locali in tema ambientale, si riconciliavano gli obiettivi istituzionali con l’azione comunitaria in atto.
Occorre ricordare, inoltre, che il trattato di Amsterdam nasce in un contesto in cui l’UE si era prefissata di
rafforzare l’importanza della politica ambientale nell’Unione europea, consolidando le garanzie preposte
dall’Atto Unico e dal trattato sull’Unione europea.
Il trattato di Amsterdam, a riprova di quanto sostenuto, assume il principio dello sviluppo sostenibile fra i
principali obiettivi dell’Unione europea. Mediante le modifiche apportate sia nel preambolo, sia all’art. 2 (425)
del trattato, viene compiuto il grande salto. Cogliamo, inoltre, istintamente puntualizzato nell’art. 6 (426), l’integrazione della protezione dell’ambiente in tutte le politiche settoriali comunitarie. Questa disposizione,
di rilievo generale, inserita in una collocazione sicuramente strategica, quale è quella tra i primi articoli con
i quali si consacravano i principi del trattato, dimostra l’impegno dell’UE verso l’obiettivo dello sviluppo
sostenibile. La responsabilità del perfezionamento di tale obiettivo è, in conformità al principio di sussidiarietà, condivisa a tutti i livelli e da tutte le parti (427).
Con la definitiva consacrazione della tutela dell’ambiente, tra i principi fondamentali della Comunità Europea, si stemperano le difficoltà d’interpretazione del ruolo e della responsabilità delle politiche ambientali
riguardo, specialmente, alle altre politiche comunitarie. La recente circostanza di crisi economica-istituzionale conferisce spessore all’obiettivo dell’unitarietà dell’ambiente, che perdura un traguardo non ghermito
negli ordinamenti interni.
La politica ambientale, nella sua dimensione trasversale agli altri settori, a conferma di ciò che è stato dif 
 
 
 
(423)
(424)
(425)
(426)
(427)
Alessandro Mazzitelli, Diritto dell’ambiente e del territorio, Università della Calabria.
Ci scusiamo con il lettore se, per motivi d’ampiezza, non riportiamo dettagliatamente, almeno in questo lavoro, a giustificazione di quanto
si sostiene, la giurisprudenza comunitaria.
L’art. 2 della versione consolidata del trattato che istituisce la Comunità europea sancisce che «La Comunità ha il compito di promuovere
nell’insieme della Comunità, mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione
delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche,
una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione
dell’ambiente e il miglioramento di quest’ultimo, un elevato livello d’occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e
della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri». Con l’Art. 3 si afferma che la Comunità per i
fini enunciati nell’art. 2 svolge «una politica nel settore dell’ambiente».
L’art. 6 della versione consolidata del trattato che istituisce la Comunità europea, stabilisce che «Le esigenze connesse con la tutela
dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all’art.3, in particolare
nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile».
Secondo la valutazione dell’efficacia ripresa da Pinelli, op. cit., 5 del documento in rete.
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fusamente deplorato (428) rispetto al diritto vivente ambientale (429), si offrirebbe ad essere stemperata nelle
politiche di settore. In altri termini, questo indurrebbe a dimostrare, malgrado lo sforzo di riconoscerne il
valore fondamentale, che la sua capacità di condizionare le altre politiche è inversamente proporzionale
alla stessa integrazione nelle politiche comunitarie.
Il contrasto si riferirebbe all’esercizio di comporre l’autonomia della politica comunitaria in materia ambientale con l’integrazione di questa nelle altre politiche, soprattutto nelle politiche economiche. La ricerca di
una formula ideale, che consente alla legislazione ambientale, senza svilirsi, di fondersi in primo luogo con
quei settori, quali la concorrenza, la libertà dell’impresa e la circolazione dei prodotti, che tradizionalmente
hanno e rappresentano il fulcro dell’azione comunitaria, diviene argomento centrale nel dibattito giuridico
del nuovo millennio.
Lo snodo fondamentale, da osservare attentamente, è pertanto il concetto di sviluppo sostenibile; il modo
di dargli rilievo e di assumerlo come parametro di riferimento nella costruzione di nuovi assiomi giuridici.
 
(428)
(429)
 
V. Jans, Objective and Principles of EC Environmental Law, in European Environmental Law,- A comparative perspective, Winter G. (a cura
di), Dordrecht 1996, 277.
In relazione al quale ci pare particolarmente significativa, rispetto agli indirizzi di partenza, una decisione della Corte di Giustizia che, in base
alla necessaria considerazione della protezione ambientale nelle altre politiche comunitarie, afferma che «gli artt. 130 R e 130 S mirano a
conferire alla Comunità una competenza per iniziare un’azione specifica in materia di ambiente. Questi articoli lasciano tuttavia
impregiudicata le competenze di cui dispone la Comunità in forza di altre disposizioni del trattato, anche se i provvedimenti da adottare in
virtù di queste ultime perseguono al tempo stesso uno degli obiettivi di tutela», sentenza del 29 marzo 1990, C-62/88, Racc. 90/I, 1527; ci
pare evidente che da queste affermazioni emerga una posizione futura della Corte di Giustizia, la quale si prepara ad una giurisprudenza
prudente e bilanciata, soprattutto mediante il ricorso al principio di ragionevolezza/proporzionalità.
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
117
CDE
Università degli Studi del Molise
Articolo 37
Tutela dell’ambiente
Articolo 37
Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati
nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.
La politica europea per le energie sostenibili a tutela
dell’ambiente
di Angela Di Nocera
(430)
 
Il cambiamento climatico ed i sistemi energetici
Il clima della Terra sta cambiando: secondo l’International Panel on Climate Change (IPCC) la temperatura
media del pianeta è attualmente superiore di 0.76 gradi ai livelli del periodo pre-industriale. Per il futuro
le previsioni non sono affatto rassicuranti dal momento che si attende un incremento ulteriore, compreso
tra i 2 e i 4 gradi centigradi- un margine di variazione in realtà piuttosto ampio, che dipende dalle scelte di
politica economica ed energetica e dall’evoluzione del progresso tecnico (Commissione europea, 2008).
Su questo tema, in sede internazionale, l’Unione europea ha assunto una ferma posizione volta a contenere il più possibile gli effetti del riscaldamento del pianeta, limitando le emissioni di gas serra e l’aumento
della temperatura entro i 2 gradi.
Per fare questo l’Europa, in maniera unilaterale, si è posta l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del
20%, impegnandosi anche a fare meglio, a diminuirle fino al 30%, qualora altri paesi prendano la stessa
decisione.
Nella Comunicazione della Commissione «Due volte venti per il 2020» (431) del gennaio 2008 si è definita la
strategia futura per la tutela del clima e per un’energia sicura, sostenibile e competitiva. Espressa in sintesi
nel principio 20-20-20, essa si articola in tre punti essenziali, attraverso i quali per la prima volta, si fissano
obiettivi in termini quantitativi, vincolanti per gli Stati membri:
• riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020 e del 50% entro il 2050;
• miglioramento dell’efficienza energetica attraverso la riduzione del 20% dei consumi;
• incremento del contributo delle energie rinnovabili fino al 20% del fabbisogno complessivo.
Incentivare le fonti rinnovabili rappresenta la via più efficace verso il traguardo di un sistema energetico
sostenibile sotto il profilo economico e ambientale. Le rinnovabili sono fonti pulite, «emettono una quantità ridotta di gas serra o non ne emettono affatto e la maggior parte di esse apportano notevoli benefici in
termini di qualità dell’aria». Rappresentano, pertanto, la base su cui fondare il nuovo modello economico
sostenibile, a basso consumo di carbonio, e sostanzialmente realizzare una nuova rivoluzione industriale
(Commissione europea, 2007) (432).
Questa strategia ha molti elementi di flessibilità.
 
 
(430)
(431)
(432)
Responsabile documentalista del Centro di documentazione europea dell’Università degli Studi del Molise
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni,
COM(2008), 30 def.
Comunicazione della Commissione al Consiglio Europeo e al Parlamento europeo, del 10 gennaio 2007, dal titolo «Una politica energetica
per l’Europa», COM(2007) 1 def.
118
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Ad esempio, le aziende che hanno cicli produttivi ad elevata intensità energetica e che trovano troppo
oneroso innovare radicalmente i loro processi produttivi potranno beneficiare di un sistema di quote di
emissione trasferibili. Esse riceveranno gratuitamente un certo numero di quote che corrispondono ad altrettante quantità di carbonio. Se intenderanno aumentare le emissioni in atmosfera dovranno acquistarne
altre, magari scambiandole con imprese più pulite che rilasciano quantità minori di carbonio; potranno in
alternativa investire in progetti per la riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo.
La politica per le energie sostenibili è diventata sempre più importante in Europa dal momento che il sistema energetico ha un ruolo fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico, è, infatti, responsabile dell’80% delle emissioni di gas serra (fonte: Agenzia europea dell’ambiente).
Il consumo energetico dell’Unione europea è molto elevato, circa 1,7 miliardi di tonnellate equivalenti di
petrolio (Mtep), ed è soddisfatto in gran parte dalle fonti fossili — per il 35% circa dal petrolio e per il 17%
circa da combustibili solidi — e dal gas naturale (24%) (Eurostat, 2011).
Fig. 1- Consumo interno lordo di energia, valori% — UE27, 2011
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat
Le fonti rinnovabili hanno un peso ancora modesto, che solo nel 2010 ha raggiunto l’incidenza del 10% del
consumo interno lordo di energia (Eurostat, 2011) (433).
Tale traguardo avrebbe dovuto essere raggiunto già in passato, tuttavia, secondo la stessa Commissione
europea, la politica di promozione delle fonti rinnovabili non è stata fino ad oggi abbastanza efficace né
si sono definiti obiettivi vincolanti per i paesi membri. È stato inoltre particolarmente difficile rimuovere
alcuni vincoli forti che si frappongono allo sviluppo di nuove fonti energetiche, in primo luogo un quadro
normativo e amministrativo dai contenuti poco chiari e talvolta contraddittori. Basti pensare alle norme
inerenti le procedure di autorizzazione per la costruzione e la gestione degli impianti, le certificazioni di
conformità, l’effettiva libertà di accesso alle reti di distribuzione (Commissione europea, 2007) (434).
I miglioramenti ottenuti negli ultimi anni sono dunque essenzialmente il risultato dell’impegno significativo
di alcuni paesi membri e hanno interessato i diversi settori in misura disuguale: a fronte dei successi conseguiti nella produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, pochi passi in avanti si sono compiuti nei
settori del raffreddamento e del riscaldamento (435).
 
 
 
(433)
(434)
(435)
Commissione europea, direzione generale dell’Energia (2011): Key Figures.
Comunicazione della Commissione del 10 gennaio 2007, intitolata «Tabella di marcia per le energie rinnovabili», COM 848 def.
I settori del riscaldamento e del raffreddamento rappresentano circa metà dei consumi finali d’energia.
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
119
Fig. 2: Incidenza percentuale di energia rinnovabile su consumo lordo finale (2011)
Fonte: Eurostat
L’impiego delle fonti di energia rinnovabili in Europa
Fig. 3 — Produzione di energia primaria da FER (000 tep) — UE 27, 2011
Fonte: elaborazione su dati Eurostat
Non tutte le fonti rinnovabili hanno uguale sviluppo e non tutte sono competitive nella stessa misura. Gran
parte della produzione di energia primaria da rinnovabili è dovuta alla biomassa (67%) (436), che risulta particolarmente importante per il riscaldamento. Seguono, per rilevanza, l’energia idrica, l’eolica, la geotermica
e la solare (fig. 4).
Le fonti eolica e solare sono quelle che hanno avuto negli ultimi anni il più rapido sviluppo, legato alla produzione di energia elettrica, e hanno le migliori prospettive di crescita nel breve periodo. Nelle previsioni
delle Istituzioni comunitarie, considerando che i margini di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili (FER)
nel settore dei trasporti sono molto stretti e che i settori dell’industria e del riscaldamento raggiungeranno
 
(436)
Per biomassa si intende «la parte biodegradabile di prodotti, rifiuti, residui provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura (comprendente
sostanze animali e vegetali) e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani» (Commissione
europea, 2005).
120
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con ogni probabilità l’obiettivo del 20%, si prefigura un ulteriore notevole incremento delle FER nella produzione di elettricità che compenserà i minori progressi nei trasporti.
L’eolico è, come detto, una delle fonti più promettenti: grazie all’innovazione tecnologia, che ha reso più
efficace la produzione d’energia, ha conosciuto un incremento di gran lunga superiore alle attese, raggiungendo nel 2010 una capacità cumulativa degli impianti di circa 84 GW. L’Associazione europea dei Produttori, pertanto, stima che nel 2020 l’eolico sarà in grado di soddisfare il 20% della domanda di elettricità,
grazie ad una capacità che si prevede sarà pari a oltre 230 GW (fonte: CE, Energy snapshots, 2011).
Anche il settore dell’energia solare fotovoltaica ha avuto una crescita ben superiore alla previsioni al punto
che nel 2010 ha una capacità di 29 GW, ben 10 volte maggiore di quanto stimato nel 1997, nel libro bianco
«Energia per il futuro, le fonti energetiche rinnovabili» (437). Alla luce degli sviluppi più recenti l’Associazione
europea delle industriali del settore ritiene ragionevole porsi un obiettivo ambizioso: far sì che nel 2020 il
12% dell’energia elettrica prodotta in Europa sia ottenuta dal solare fotovoltaico.
Al contrario non si attende un incremento ulteriore della capacità delle grandi centrali idroelettriche, anzi
non è certo che le risorse idriche oggi disponibili rimarranno stabili in futuro, considerando gli effetti del
cambiamento climatico, mentre si ritiene sostenibile investire in piccoli impianti che soddisfino bisogni
locali (fonte: CE, Energy snapshots, 2011).
 
Fig. 4 — Produzione di energia primaria da FER, 2011 (incidenza% di ciascuna fonte su totale FER)Europa 27
Fonte: elaborazione su dati Eurostat
La politica europea per le energie sostenibili
Nel 2009 la direttiva n. 28 della Commissione europea e del Consiglio sulla incentivazione delle fonti rinnovabili ribadisce che la percentuale delle FER sul totale dei consumi finali nel 2020 non potrà essere inferiore
al 20% e impone a ciascuno Stato membro l’adozione di piani d’azione nazionali che definiscano obiettivi
per settori (elettrico, riscaldamento e trasporti) e misure d’intervento a livello statale.
Per raggiungere questi obiettivi sarà necessario dare impulso a tutti i settori di impiego delle energie
sostenibili e rinnovabili: il settore elettrico, il settore del riscaldamento/raffreddamento, il settore dei trasporti, promuovendo un’azione concertata tra governi, industrie e consumatori, che preveda ancora regimi
di sostegno e incentivi ad investimenti in ricerca e sviluppo.
I piani d’azione nazionali prenderanno in esame gli effetti delle misure volte a migliorare l’efficienza energetica (maggiore sarà il risparmio di energia, minore sarà la quota di rinnovabili da conseguire) e conterranno interventi per migliorare l’accesso alle reti elettriche a favore delle energie rinnovabili.
Sarà molto importante la cooperazione tra stati: ad esempio più paesi potranno decidere di cofinanziare un
parco eolico e ciascuno di essi potrà contabilizzare una quota parte dell’energia prodotta. Non sono invece
imposti dall’UE specifici meccanismi di incentivazione uniformi sull’intero territorio europeo, tuttavia nel
medio periodo l’attuazione di un mercato unico dell’energia efficiente renderà necessaria una maggior
convergenza nella determinazione di prezzi e sussidi.
(437)
Tale capacità aumentata di oltre l’80% nel solo anno 2010.
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
121
Per raggiungere gli obiettivi definiti dalla Strategia 20-20 sarà importante valorizzare anche il ruolo dei
biocarburanti, il cui impiego dovrà crescere fino a rappresentare il 10% del consumo di benzina e di gasolio
per autotrazione.
Lo sviluppo del settore dei biocarburanti dovrà avvenire nel rispetto del principio di sostenibilità, definendo un quadro normativo che includa criteri vincolanti sulla tutela della biodiversità e vieti alcuni cambi di
destinazione dei suoli. Affinché i biocarburanti possano beneficiare di incentivi pubblici sarà necessario
verificare che le loro emissioni siano inferiori almeno del 35% rispetto a quelle dei carburanti di origine
fossile, percentuale che salirà al 50% nel 2017. Le colture energetiche inoltre non potranno occupare suoli
situati in zone ricche di biodiversità (foreste primarie, praterie, aree potette) o terreni che contengano
importanti stock di carbonio (zone umide, torbiere e foreste). Questo sistema di norme una volta adottato
sarà il più completo al mondo e si applicherà sia ai biocarburanti di produzione interna che a quelli importati
per garantire che i benefici ambientali superino i relativi costi.
La sfida del clima rappresenta anche una straordinaria opportunità per i paesi europei: il settore delle
energie rinnovabili è ad elevata intensità di manodopera e non comporta investimenti di grande scala,
può dunque creare numerosi posti di lavoro in tutte le regioni dell’Unione. Le aziende europee dominano
il settore manifatturiero per le energie rinnovabili (438), generano un fatturato di 50 miliardi e occupano un
milione e mezzo di persone. Qualora si raggiungesse l’obiettivo del 20%, il giro d’affari potrebbe raddoppiare e i posti di lavoro potrebbero aumentare di un altro milione entro il 2020, dando un grande slancio
all’economia del vecchio continente (439).
Questa strategia sarà attuata nella massima flessibilità chiedendo a ciascun paese un costo equo, dal
momento che, come è evidente, non tutti sono in grado di sostenere in misura analoga lo sforzo dovuto
all’investimento iniziale. Ciascuno inoltre potrà impegnarsi nel settore in cui può vantare un vantaggio
competitivo, in modo da diversificare a livello europeo il mix delle fonti, minimizzando, d’altro canto, il
relativo costo.
 
 
La politica europea per le energie sostenibili: le sfide future
In futuro la politica europea per le energie sostenibili sarà ancora incentrata sulla promozione delle rinnovabili e tenderà a rimuovere i maggiori vincoli che ne ostacolano lo sviluppo attraverso un ampio pacchetto
di misure che la Commissione ha illustrato nella Comunicazione «Energie rinnovabili: un ruolo di primo
piano nel mercato energetico europeo», pubblicata il 6 giugno 2012.
Le misure proposte intendono realizzare finalmente un mercato unico dell’energia elettrica, armonizzando
le norme di funzionamento nei diversi paesi. Ciò consentirà un più facile accesso alle infrastrutture e alle
reti da parte di tutti produttori, e ai consumatori permetterà di scegliere le aziende che privilegiano il ricorso a fonti sostenibili. Il mercato unico dell’energia, effettivamente aperto, dovrà regolare i prezzi in modo
efficiente, adeguando l’offerta alle reali esigenze della domanda in tempi reali.
Si propone inoltre di conservare, nei limiti in cui sarà necessario, regimi di sostegno per le tecnologie non
ancora mature, eliminandoli, tuttavia, quando non siano ritenuti più utili (440). Sarà necessario, in ogni modo,
renderli più efficaci, semplificando le procedure di autorizzazione dei progetti e rendendo più trasparente
e stabile il quadro normativo: i timori di cambiamenti della disciplina giuridica, di provvedimenti che aboliscano i regimi di sostegno con effetti retroattivi, come è accaduto in alcuni paesi europei, fanno sì che
l’ambiente in cui operano gli investitori sia instabile e rischioso.
Tra le strategie proposte si ritiene di fondamentale importanza investire in un sistema integrato di infrastrutture energetiche che rinnovi gli impianti obsoleti e integri una quota crescente di energia eolica e solare. A questo fine si ipotizza anche lo stanziamento di un contributo finanziario ingente da parte dell’UE —
oltre 9 miliardi per il periodo 2014-20.
Sarà necessario, inoltre, adeguare una rete di distribuzione pensata per portare energia ai consumatori e
non per assorbirla dal sistema capillare di micro produttori/consumatori, che utilizzano fonti rinnovabili per
autoconsumo, cedendo sul mercato i loro surplus.
Sarà dunque ancora più importante investire nella ricerca per promuovere l’innovazione tecnologica nel
settore delle rinnovabili proseguendo lungo un percorso già intrapreso: i paesi europei negli ultimi dieci
anni hanno investito 4.5 miliardi di euro in ricerca nel settore delle FER, l’UE ne ha destinati 1.7 nell’ambito
del Sesto e del Settimo programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico e del Piano di ripresa
 
(438)
(439)
(440)
L’Associazione europea dell’industria fotovoltaica e stima che il 55% del valore aggiunto dei moduli e il 70% del valore aggiunto dei sistemi
fotovoltaici è prodotto in Europa.
Commissione europea, DG Energia (2011): Le rinnovabili per fare la differenza.
Dopo il 2020 si prevede infatti una caduta degli investimenti nel settore delle FER qualora i sussidi fossero aboliti totalmente e
repentinamente.
122
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economica, aggiungendo risorse a quelle già previste dalla politica di coesione. Tra i programmi dedicati
alla ricerca, Energia intelligente — Europa (EIE), con una dotazione di 727 milioni di euro, intende favorire
l’eliminazione delle barriere — soprattutto amministrative — che rendono più difficoltosa la realizzazione
dei progetti. Ciò ha consentito di fare grandi passi in avanti, portando a maturità alcune fonti, il solare e
l’eolico, in primo luogo.
Il piano strategico per le tecnologie energetiche (piano SET) (441), presentato dalla Commissione, si propone di coordinare le azioni nel settore della ricerca applicata alle energie sostenibili, definendo obiettivi di
breve e lungo termine. Nel breve termine si intende potenziare la ricerca per ridurre i costi e migliorare le
prestazioni delle tecnologie esistenti, favorendone l’impiego commerciale. Si potrebbe ad esempio investire sui biocarburanti di seconda generazione oppure su impianti e processi per la cattura, il trasporto e lo
stoccaggio del carbonio.
Nel lungo periodo l’UE intende promuovere tecnologie per lo stoccaggio dell’energia, la sostenibilità dell’energia di fissione e di fusione, nonché lo sviluppo delle reti transeuropee dell’energia. La realizzazione del
piano SET implica uno sforzo collettivo e iniziative a livello del settore privato, degli Stati membri e dell’UE,
nonché a livello mondiale.
Il costo delle FER si sta riducendo e in futuro sarà ancor più basso quando si renderanno ancor più evidenti
i costi ambientali, inesorabilmente in crescita, e quelli economici, segnalati da prezzi volatili e tendenzialmente in rialzo. Sarà tuttavia necessario continuare a monitorare gli effetti sull’ambiente del settore delle
energie rinnovabili, valutando l’impatto diretto e indiretto delle infrastrutture e della fase di produzione per
assicurarsi che conservino il loro carattere di sostenibilità.
In alcuni casi il tema è già stato affrontato, almeno in parte, è tuttavia necessario continuare a vigilare
considerando il continuo sviluppo e i tassi di crescita elevati del settore.
 
BIBLIOGRAFIA
Commissione europea, direzione generale dell’Energia (2011): Key Figures.
Commissione europea, DG Energia (2011): Le rinnovabili per fare la differenza.
Commissione europea (2008): L’azione dell’UE contro il cambiamento climatico.
European Commission, DG Joint Research Centre, Institute for Energy and Transport (2011): Renewable Energy snapshots.
European Environmental Agency (2008): Maximising the environmental benefits of Europe’s bioenergy potential, Copenhagen.
European Environmental Agency (2006): How much bioenergy can Europe produce without harming the environment? Copenhagen.
European Environmental Agency (2005): How much biomass can Europe use without harming the environment? Copenhagen.
Riferimenti normativi
Direttiva 2009/28/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.
Direttiva 2006/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 concernente l’efficienza degli usi finali dell’energia e
i servizi energetici.
Direttiva 2003/30/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell’uso dei biocarburanti e di altri carburanti rinnovabili nei trasporti, GU L 123 del 17.05.2003.
Direttiva 2003/96/CE del Parlamento europeo e del Consiglio che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, GU L 283 del 31.10.2003.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni, del 6 giugno 2012, dal titolo «Energie rinnovabili: un ruolo di primo piano nel mercato energetico europeo», COM(2012) 271
final.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni del 26.5.2010, dal titolo «Analisi delle ipotesi di intervento per una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra superiore al
20% e valutazione del rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio».
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni, del 10 novembre 2010, intitolata «Energia 2020 — Una strategia per un’energia competitiva, sostenibile e sicura» COM(2010)
639 def.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni intitolata «Investire nello sviluppo di tecnologie a basse emissioni di carbonio (Piano SET)» COM(2009) 519 def.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale e al Comitato delle regioni,
COM(2008), 30 def.
Comunicazione della Commissione al Consiglio Europeo e al Parlamento europeo, del 10 gennaio 2007, dal titolo «Una politica energetica per l’Europa» COM(2007) 1 def.
Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni — Un piano strategico europeo per le tecnologie energetiche (piano SET) — Verso un futuro a bassa emissione di carbonio
(441)
Si veda Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo, al Comitato delle
regioni — Un piano strategico europeo per le tecnologie energetiche (Piano SET) — Verso un futuro a bassa emissione di carbonio —
COM(2007) 723 def.
A r t i c o l o 3 7 - T u t e l a d e l l’a m b i e n t e
123
COM(2007) 723 def.
Comunicazione della Commissione, del 10 gennaio 2007, «Tabella di marcia per le energie rinnovabili. Le energie rinnovabili nel 21o
secolo: costruire un futuro più sostenibile» COM(2006) 848 — Non pubblicata nella Gazzetta ufficiale.
Comunicazione della Commissione, dell’8 febbraio 2006, intitolata «Strategia dell’UE per i biocarburanti» COM(2006) 34 def. — Gazzetta ufficiale C 67 del 18.3.2006.
Comunicazione della Commissione del 7 dicembre 2005 — «Piano d’azione per la biomassa» COM(2005) 628 def. — Gazzetta ufficiale
C 49 del 28.2.2006.
Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni Relazione sui progressi nel campo delle energie rinnovabili, COM(2013) 175 final.
Relazione della Commissione, del 10 gennaio 2007, sui biocarburanti — Relazione sui progressi compiuti nell’uso dei biocarburanti e di
altri combustibili provenienti da fonti rinnovabili negli Stati membri dell’Unione europea, COM(2006) 845 def.
124
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Articolo 39 - Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
125
CDE
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Articolo 39
Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo
Articolo 40
Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali
Articolo 39
1. Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello
Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.
2. I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto.
Articolo 40
Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in
cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.
La costruzione della cittadinanza europea attraverso i
diritti di voto e di eleggibilità (artt. 22 del TFUE, artt. 39 e
40 della Carta dei diritti fondamentali)
di Ennio Triggiani
(442)
 
1.L’istituzione della cittadinanza europea con il trattato di Maastricht (1992) ha fatto emergere con maggiore chiarezza una profonda innovazione rispetto al diritto internazionale e cioè che protagonisti dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea sono, accanto agli Stati membri ed alle istituzioni, anche e soprattutto
i cittadini; essi fanno parte della nuova «comunità» quali soggetti di diritto in «posizione egualitaria»
rispetto ai primi due. Siamo, quindi, di fronte ad un sistema di integrazione che ha come perno la persona
in quanto «cittadino/a» con il suo corredo di pretese.
Tale innovazione non è improvvisa in quanto va collocata nel quadro delle profonde modifiche prodotte nel
concetto di cittadinanza nell’era della globalizzazione. I grandi flussi migratori e la sempre più mondializzata attività delle persone stanno progressivamente mutando le definizioni di appartenenza e di cittadinanza.
Quest’ultimo concetto si evolve acquisendo una crescente dimensione internazionale e rendendo sempre
meno consistente, di conseguenza anacronistica, la corrispondenza tra «nazionalità» e «cittadinanza». La
prima identifica una posizione passiva rispetto all’ordinamento statale, la cui utilità consiste nel distinguere
un membro dello Stato da uno straniero, la seconda è invece un «fattore di coesione sociale» che implica
una partecipazione consapevole alla vita politica e l’adesione ad una comunità di intenti quale è, nel nostro
(442)
Docente ordinario e responsabile accademico del CDE dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro
126
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caso, l’esperienza europea; per cui la cittadinanza europea costituisce ulteriore fattore in tale direzione.
Viene a delinearsi, almeno rispetto a scenari futuri, una cittadinanza cosmopolita, con un attenuato rilievo
della nazionalità, soprattutto in considerazione della difficoltà in cui versa la democrazia contemporanea
costretta appunto a ripensare i propri modelli istituzionali, costruiti in chiave puramente nazionale, alla luce
di oggettive valenze universali. Il c.d. «deficit democratico», per anni giustamente identificato con l’assenza di poteri legislativi nel Parlamento europeo, presenta in realtà anche una dimensione «globale» e va
pertanto affrontato e risolto proprio partendo dall’individuazione di strumenti istituzionali e partecipativi
all’interno dell’esperienza europea ed attraverso «strategie creative». Il nesso tra nazionalità e diritti va
necessariamente riconsiderato nella misura in cui, nell’ambito dei grandi flussi migratori, rischia di produrre esclusioni e conseguenze antidemocratiche. Tale nesso è rafforzato dalla circostanza che la Comunità
internazionale contemporanea, come costruita giuridicamente a partire dalla Carta delle Nazioni Unite, si
fonda progressivamente sul protagonismo dei diritti fondamentali della persona indipendentemente dalla
sua cittadinanza. Essi limitano il potere assoluto degli Stati nel determinare le proprie normative in materia
di attribuzione e di negazione o privazione della cittadinanza; atti e strumenti che inoltre riconoscono comunque allo straniero un corpus sempre più significativo di diritti. Si produce, in altri termini, una crescente
contraddizione, da un lato, fra tali diritti, i quali sono universali, uniformi e definiti globalmente, e, dall’altro,
le identità sociali, che sono particolaristiche e territorialmente definite.
D’altronde, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 all’art. 13 colloca il diritto di immigrare
tra i diritti universali; ed i successivi articoli 28 e 29 delineano un sistema internazionale dei diritti umani per
il quale ciascuno, indipendentemente dalla nazionalità, possa prendere parte attiva alla vita pubblica della
comunità in cui ha scelto di vivere. Il che non comporta certamente il riconoscimento di un vero e proprio
diritto alla cittadinanza piena, ma comunque evidenzia un obbligo di non discriminare e, perlomeno, di
operare al fine di evitare l’esclusione da qualsiasi forma di godimento dei diritti politici laddove esista un
effettivo radicamento della persona nella società in cui vive.
La partecipazione degli stranieri residenti alla vita politica locale, soprattutto attraverso il riconoscimento
del diritto di voto, è quindi intesa come un’importante forma di realizzazione del principio di democrazia,
peraltro sollecitata dal Consiglio d’Europa proprio nel 1992 con l’adozione della convenzione europea sulla
partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale (Capitolo C), per quanto dotata di uno scarso numero
di ratifiche (443).
Con l’istituzione della cittadinanza europea l’appartenenza ad un territorio, ad una comunità e ad una cultura definiti da confini nazionali è per la prima volta riferita anche ad una entità di tipo sovranazionale, facendo formalmente venir meno la nazionalità quale connotazione ideologica esclusiva a base del concetto di
cittadinanza. I cittadini europei non possono che avere nazionalità differenti, non essendo unificati su base
etnica; ma, in un contesto di lenta pur se progressiva «compressione» della sfera propria dello Stato nazionale, elementi unificanti divengono allora i comuni «valori fondativi» ed il comune «progetto politico».
Ed allora la cittadinanza europea, purché resa patrimonio comune, diviene l’unico status in grado di «aggregare» nella logica per cui il concetto di «appartenenza» non si riferisce agli orientamenti etnico-culturali
prevalenti ma ai principi sui quali si basa lo Stato di diritto. Questi diventano il «comune orizzonte interpretativo» fondato su di un preciso legame fra diritti umani ed esercizio della sovranità.
Tale importante evoluzione si è, appunto, tradotta, dopo Maastricht, nell’individuazione di un primo catalogo di diritti di cittadinanza che ne concretano la nascita formale e soprattutto la loro natura squisitamente
politica. La relativa base giuridica è rintracciabile nel principio della «eguaglianza dei cittadini» (art. 9 TUE)
e si tratta, come sanciti nel TFUE, del diritto alla libera circolazione ed al soggiorno (art. 21), di voto ed eleggibilità al comune di residenza ed al Parlamento europeo anche nello Stato membro di residenza (art. 22),
di protezione diplomatica (art. 23), di «prossimità» alle istituzioni comunitarie (petizione al Parlamento
europeo, richieste al Mediatore europeo ed a tutte le istituzioni e gli organi comunitari) (art. 24). A questi
diritti vanno ovviamente aggiunte altre posizioni soggettive delle quali il cittadino dell’Unione gode in
quanto beneficiario del complessivo insieme di situazioni giuridiche costituite dai trattati comunitari.
Tali diritti assumono, in parte, rilevanza nel momento in cui una persona risiede in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la nazionalità e si legano al proprio grado d’integrazione nel suo territorio; in altri casi
essi hanno quali interlocutori il proprio Stato di appartenenza o le istituzioni comunitarie. I diritti di mobilità
rappresentano, d’altronde, un aspetto essenziale della cittadinanza europea perché anche tangibilmente
esprimono l’abbattimento delle frontiere e la possibilità di trasferire il centro del lavoro, degli interessi e
degli affetti in un qualsiasi Paese membro dell’Unione.
 
(443)
Adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 5 febbraio 1992 ed entrata in vigore il 1º maggio 1997, è stata ratificata al
1º giugno 2013 da 8 Stati. In precedenza l’art. 25 del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 aveva sancito
analoghi diritti.
Articolo 40 - Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali
127
2. In questo contesto, la più significativa «innovazione» prodotta dall’istituto in esame si ha con l’estensione, sulla base del principio della «democrazia rappresentativa» (art. 10 TUE), dei veri e propri diritti politici,
quelli che già secondo Aristotele caratterizzano la nozione di cittadinanza (444) e che completano nei termini
più significativi la c.d. «triade di Marshall» insieme con quelli civili e sociali.
a) Anzitutto, l’elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo è di per sé evidente espressione della cittadinanza europea in quanto posto alla base della istituzione democratica per eccellenza dell’ordinamento
comunitario. E, comunque, la stretta connessione con la libertà di circolazione e di soggiorno consente l’esercizio del diritto in questione anche in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza consentendo per di più la candidatura e l’eventuale elezione dello straniero dell’Unione nella quota di parlamentari
assegnata al Paese in cui egli sia residente. Peraltro, la circostanza stessa che i parlamentari europei, una
volta eletti, possano aggregarsi solo per affinità politica e non su base nazionale risulta del tutto coerente
con tale regolamentazione giuridica.
La previsione di tale diritto è attualmente contenuta negli artt. 22, paragrafo 2 TFUE e 39 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione e la relativa attuazione è avvenuta attraverso la direttiva 93/109/CE del
Consiglio, del 6 dicembre 1993 (445). In essa si precisa, anzitutto, che all’elettore dell’Unione è lasciata l’opzione di esercitare il diritto di voto nello Stato membro di residenza o in quello d’origine; è peraltro evidente
che nessuno può votare più di una volta né presentarsi come candidato in più di un Paese membro nel
corso delle stesse elezioni (art. 4); va, comunque, sottolineato che lo scambio di informazioni in proposito tra gli Stati, anche considerata la non perfetta coincidenza delle giornate elettorali fra gli stessi, non è
ancora del tutto efficiente. Lo Stato di residenza, inoltre, può accertare che il cittadino dell’Unione il quale
abbia espresso la volontà di esercitarvi il diritto di voto non sia decaduto per effetto di una decisione
individuale in materia civile o penale, da tale diritto nel Paese d’origine (art. 7). In particolare, i candidati
devono presentare un attestato delle autorità di quest’ultimo che ne certifichi la non decadenza dal diritto
di eleggibilità.
Una precisa deroga al principio di non discriminazione, oggetto di apposita disciplina normativa, è altresì
prevista per particolari situazioni nelle quali la percentuale dei cittadini dell’Unione che risiedano in altro
Stato membro senza averne la cittadinanza, ed abbiano raggiunto l’età per essere elettori, superi la percentuale del 20% rispetto al totale degli aventi diritto al voto: in tal caso l’elettorato attivo può essere
riservato ai residenti da un periodo minimo, non superiore a 5 anni, e quello passivo ai residenti da un
periodo minimo, non superiore ai 10 anni (art. 14).
In Italia la direttiva è stata recepita con il decreto-legge 24 giugno 1994, n. 408, recante disposizioni urgenti
in materia di elezioni al Parlamento europeo, convertito in legge 3 agosto 1994, n. 483 (446), successivamente
modificato dalla legge 24 aprile 1998, n. 128, articolo 15 (447). I cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, residenti in Italia, che vi intendono esercitare il diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo,
devono presentare, entro e non oltre il 90° giorno antecedente la data fissata per le elezioni, una domanda
di iscrizione in un’apposita lista aggiunta istituita presso il Comune di residenza (448).
Un primo bilancio effettuato dalla Commissione nel 2010 (449) non ha tuttavia registrato risultati incoraggianti
quanto all’utilizzazione di tale diritto. Infatti, a fronte di un numero crescente di cittadini dell’Unione che, in
età per essere elettori, vivono in uno Stato membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza, non è
alto il livello di iscrizione nelle liste elettorali. Il che è dovuto soprattutto alla scarsa conoscenza dei propri
diritti politici da parte dei cittadini, condizione essenziale per partecipare alla vita politica nello Stato membro di residenza; ed il basso coinvolgimento nell’elettorato passivo appare di ciò l’ulteriore conseguenza.
Inoltre, le normative degli Stati membri che riservano ai propri cittadini la possibilità di aderire a un partito
politico impediscono ad altri cittadini dell’Unione di candidarsi alle elezioni europee come membri di partiti
politici. Di conseguenza, tali stranieri dell’Unione possono candidarsi alle elezioni soltanto come indipendenti o proposti da organizzazioni diverse dai partiti politici, conformemente alle disposizioni nazionali. Ciò
 
 
 
 
 
 
«Da ciò è chiaro chi si debba considerare come cittadino: tale è quello che ha la possibilità di adire alle cariche deliberative e giudiziarie»
(Aristotele, Politica, libro III).
(445)
GUCE L 329 del 30 dicembre 1993.
(446)
GURI n. 183 del 6 agosto 1994.
(447)
GURI n. 104 del 7 maggio 1998.
(448)
La possibilità di candidarsi in Italia era già stata concessa con la L. 18 gennaio 1989, n. 9. Successivamente il D.L. 408/94, dando attuazione
alla direttiva 93/109, ha dichiarato eleggibili al Parlamento europeo (come espressione dell’Italia) anche i cittadini degli altri Paesi membri
dell’Unione che risultino in possesso dei requisiti di eleggibilità al Parlamento previsti dall’ordinamento italiano e che non siano decaduti
dal diritto di eleggibilità nello Stato membro d’origine. In ogni caso, pur se la legge n. 128/98 ha soppresso l’obbligo per il cittadino
dell’Unione di dichiarare l’assenza di provvedimenti giudiziari che comportino, in Italia, la perdita dell’elettorato attivo, il comune di
residenza è tenuto, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del citato decreto-legge n. 408/94, a verificare tale requisito mediante tempestiva
istruttoria presso il casellario giudiziale.
(449)
Relazione sull’elezione dei membri del Parlamento europeo e sulla partecipazione dei cittadini dell’Unione europea alle elezioni del
Parlamento europeo nello Stato membro di residenza (direttiva 93/109/CE) {COM(2010) 605 definitivo}.
(444)
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U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
significa che, in forza di questa normativa, le condizioni per l’esercizio del diritto in esame non sono uguali
per i cittadini nazionali e per quelli originari di altri Paesi membri; questi ultimi, se non hanno il diritto di
fondare un partito politico ma possono soltanto aderire a uno già istituito, si vedono negare la possibilità
di proporre piattaforme eventualmente non rappresentate dai partiti esistenti.
b) L’elettorato attivo e passivo alle amministrative costituisce a sua volta una novità di grandissima portata. È vero che tale riconoscimento a favore degli stranieri stabilmente residenti da alcuni anni era già
autonomamente avvenuto in alcuni Paesi di più datata immigrazione; ma un vero e proprio obbligo generalizzato fra gli Stati membri quale espressione di una precisa nozione giuridica di cittadinanza europea
ha ben altro significato politico. Non va dimenticato, in proposito, che il primo organo di governo europeo
è il sindaco, perché fonda la sua legittimazione elettorale sul «popolo europeo»; e proprio la circostanza
di legare l’elettorato attivo e passivo ai residenti dell’Unione consente di contribuire progressivamente a
costruire l’identità europea.
Il diritto in questione è attualmente sancito dagli artt. 22, paragrafo 1 TFUE e 40 della Carta dei diritti fondamentali. La relativa disciplina di attuazione è avvenuta attraverso la direttiva 94/80/CE del Consiglio, del 19
dicembre 1994 (450), attuata in Italia con il decreto legislativo 12 aprile 1996, n. 197 (451), con delega contenuta
nell’art. 11 della legge 6 febbraio 1996, n. 52. In base al decreto legislativo, i cittadini di uno Stato membro
che intendono partecipare alle elezioni per il rinnovo degli organi del comune e della circoscrizione in cui
sono residenti devono presentare al sindaco domanda d’iscrizione nella lista elettorale aggiunta, istituita
presso lo stesso comune (452).
La direttiva (art. 5, paragrafo 3) consente agli Stati membri di riservare ai propri cittadini l’eleggibilità alle
funzioni di vertice dell’organo esecutivo di un ente locale, o di capo, di supplente o di membro dell’organo
direttivo collegiale esecutivo di un ente locale. Alcuni Stati membri non si sono avvalsi di tali deroghe, altri
le hanno applicate, in tutto o in parte; l’Italia, ad esempio, ha scelto di limitare l’eleggibilità a consigliere e
l’eventuale nomina a componente della giunta, con esclusione della carica di sindaco e vice-sindaco (art. 1,
comma 5, del decreto legislativo n. 197/1996).
Inoltre, restano impregiudicate le disposizioni di ciascuno Stato membro che subordinano l’esercizio del
diritto di voto e di eleggibilità per qualsiasi elettore o eleggibile in un determinato ente locale di base al
compimento di un periodo minimo di residenza nel relativo territorio, ad espressione della richiesta di adeguato radicamento sociale (art. 4, par. 3).
Anche per queste elezioni è, inoltre, prevista la deroga legata al superamento da parte degli stranieri «comunitari» della percentuale del 20% rispetto al totale degli aventi diritto al voto (art. 12).
A segnare un netto distinguo con diritti elettorali legislativi nazionali, la direttiva consente agli Stati membri
di «disporre che i cittadini dell’Unione che sono eletti membri di un organo rappresentativo non possano
partecipare alla designazione degli elettori di un’assemblea parlamentare né all’elezione dei membri di
tale assemblea» (art. 5, paragrafo 4).
È invece possibile, non essendo vietato, che la stessa persona voti e si candidi in entrambi i Paesi (di
appartenenza e di residenza) anche se lo Stato potrebbe fissare l’incompatibilità del mantenimento della
medesima carica ufficiale comunale in altro Paese membro.
La conquista del diritto appena esaminato è stata indubbiamente anticipata dal «valore sociale» che la Corte di giustizia si è costantemente preoccupata di attribuire alla libera circolazione dei lavoratori attraverso
circostanze e situazioni giuridiche di alto significato anche «politico» come le pari opportunità, i diritti sindacali e di «cittadinanza» in fabbrica, e così via. In altri termini, le sentenze e le norme che hanno accompagnato il perfezionamento del mercato unico hanno progressivamente perseguito l’obiettivo di inserire a
pieno titolo lo straniero comunitario nel contesto sociale del Paese di immigrazione. È quindi ovvio che tale
inserimento non poteva rimanere «amputato» del pieno coinvolgimento altresì nel contesto politico-amministrativo del comune di residenza onde evitare che tali lavoratori fossero «economicamente inclusi» e
«politicamente esclusi». D’altronde, il divieto di discriminazione implica non solo la soppressione formale
della nazionalità quale requisito imposto ai cittadini dell’Unione per candidarsi o per votare alle elezioni
comunali o europee, ma altresì l’eliminazione di qualsiasi misura che possa impedire loro di esercitare tale
diritto in condizioni di parità.
 
 
 
(450)
(451)
(452)
GUCE L 368 del 31 dicembre 1994.
GURI n. 88 del 15 aprile 1996.
È interessante segnalare che l’attribuzione di questo diritto politico era stata ipotizzata già nel corso del vertice di Parigi dei capi di Stato e
di governo del 1972 quando l’allora presidente del Consiglio italiano Andreotti auspicò che si potesse decidere di «stabilire una cittadinanza
europea che si aggiungerebbe alla cittadinanza che gli abitanti dei nostri Paesi già possiedono. Essa potrebbe consentire ai cittadini dei
paesi comunitari, dopo una permanenza di un certo lasso di tempo in uno dei nostri Paesi, di esercitare alcuni diritti politici come quello di
partecipare alle elezioni comunali». Di analogo avviso era anche il Primo ministro belga Eyskens che indicava tale periodo minimo in cinque
anni (Boll. CE, 1972, pagg. 39-46).
Articolo 40 - Diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali
129
L’effettività nel godimento di tali diritti è tuttavia legata anche al sufficiente grado d’informazione sull’esistenza degli stessi ed alla adeguata incentivazione all’iscrizione nelle liste elettorali locali, registrata in
misura non superiore al 10% degli aventi titolo (453).
In conclusione, grazie all’esercizio dei diritti politici di cittadinanza europea viene per la prima volta rotto
il «sacro» vincolo tra cittadinanza, Stato, nazionalità, per cui le persone sono prese finalmente in considerazione come tali ed in quanto cittadini e non come mero «fattore di produzione» o «consumatori». Il
riconoscimento di una serie di diritti economici ha perciò trovato una trasformazione di natura politica ed
ha assunto una nuova dimensione proprio grazie alla lettura degli stessi espressa in chiave europea.
3. I diritti appena descritti non soddisfano, tuttavia, alcune circostanze riguardanti da un lato i cittadini dei
Paesi membri, dall’altra quelli appartenenti a Paesi terzi ma soggiornanti di lunga durata nell’Unione.
a) Per il primo profilo, va ricordato che sono esclusi i livelli più significativi di partecipazione politica, cioè
quello legislativo nazionale e, negli Stati membri in cui le regioni esercitano poteri legislativi, il livello
regionale. Ne consegue che cittadini dell’Unione ormai saldamente radicati nella comunità di altro Stato
membro non possono esprimersi su materie e questioni di competenza della legislatura nazionale che pur li
riguardano direttamente. In proposito, peraltro, la circostanza più grave è legata alla discutibile legislazione
di alcuni Stati (come la Danimarca) per i quali la possibilità di rimanere iscritti nelle liste elettorali nazionali
è subordinata all’impegno di ritornare a risiedere in patria entro un arco di tempo determinato (due anni
nell’esempio fatto) (454), presumendo, a torto, che i legami con la società di origine si possano rapidamente
allentare. Si tratta di un approccio del tutto opposto a quello adottato in Italia in cui il diritto elettorale viene
riconosciuto pure a nostri cittadini da sempre residenti all’estero. Viene così, in maniera palesemente contradittoria, negato un diritto politico fondamentale a seguito dell’esercizio di un altro diritto fondamentale
e cioè quello della libera circolazione. Sarebbe, invece, di gran lunga preferibile lasciare al cittadino dell’Unione che risieda in un altro Paese dell’UE di decidere, in rapporto all’intensità che lo lega a quest’ultimo, in
quale dei due Stati avvalersi del proprio diritto di partecipazione alle elezioni politico-legislative.
Inoltre, sarebbe auspicabile determinare a livello europeo alcune regole minime, o almeno di procedere ad
un’armonizzazione, in tema di requisiti per ottenere la cittadinanza dell’Unione o di criteri di attribuzione
delle cittadinanze nazionali, legando questa possibilità ad un’applicazione estensiva del principio di non
discriminazione posto dall’art. 18 TFUE. Se, infatti, è tuttora evidente il carattere prevalente della sovranità
degli Stati, per cui la cittadinanza europea discende da quella nazionale, i diversi criteri e le modalità attraverso i quali i singoli ordinamenti nazionali attribuiscono quest’ultima si ripercuotono sulla possibilità di
ottenere con minore o maggiore facilità quella europea con conseguenze a volta contraddittorie (455).
b) Per quanto concerne il secondo profilo, è opportuno considerare soprattutto due circostanze. La prima
concerne i diritti fondamentali di carattere universale dei quali ogni persona in quanto tale comunque gode,
grazie a numerosi atti internazionali a partire dalla Dichiarazione Universale del 1948, indipendentemente
dalla nazionalità di appartenenza. In particolare, la Dichiarazione all’art. 15 stabilisce che «Ogni individuo
ha diritto ad una cittadinanza» e continua affermando che «Nessun individuo potrà essere arbitrariamente
privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza».
Ebbene, per molti stranieri che da anni hanno lasciato il Paese d’origine, la loro cittadinanza appare ormai
di fatto inesistente o non più effettiva considerata spesso l’impossibilità o comunque l’enorme difficoltà di
tornare in Patria. Il diritto, in questi casi, di «mutare cittadinanza» difficilmente riesce a concretizzarsi sul
piano dei singoli Stati membri; sarebbe, invece, meno complesso e più giusto almeno attribuire direttamente la cittadinanza europea se venisse slegata da quelle nazionali. Ciò risulterebbe coerente con la stessa natura dell’Unione quale primo tentativo di governo istituzionale e democratico della globalizzazione
che fonda la propria ragion d’essere sul paradigma delle libertà e dei diritti prima che su quello dei poteri.
Si tratterebbe quindi di «completare» il riconoscimento dei diritti di cittadinanza che la Carta già estende ai
non cittadini in alcune materie (art. 41, Diritto ad una buona amministrazione; articolo 42, Diritto d’accesso
ai documenti; articolo 43, Mediatore; articolo 44, Diritto di petizione) oltre agli altri diritti fondamentali in
essa sanciti.
 
 
 
(453)
(454)
(455)
Cfr. in proposito la Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio riguardante l’applicazione della direttiva 94/80,
Bruxelles, 9.3.2012 COM(2012) 99 final
L’esempio è contenuto nella Relazione 2013 della Commissione Cittadinanza UE: 12 nuove azioni della Commissione per i cittadini,
COM(2013) 269 final.
In tal senso, una conferma è derivata dalla sentenza resa dalla Corte di giustizia nel caso Rottmann, relativo ad una causa che coinvolgeva
un cittadino austriaco il quale aveva fraudolentemente acquisito la cittadinanza tedesca e che, in conseguenza di ciò, aveva perso sia la
prima sia la seconda cittadinanza, rimanendo quindi privo anche di quella europea. La Corte ha certo confermato che spetta ad ogni Stato
membro la determinazione dei criteri di acquisto e perdita della propria cittadinanza, da cui deriva l’europea, e che uno Stato membro ha
il potere di revocare ad un cittadino dell’Unione la cittadinanza di tale Stato acquisita per naturalizzazione, qualora questa sia stata
ottenuta in maniera fraudolenta; ha, tuttavia, indicato un limite a tale esito, consistente nella condizione che la decisione di revoca rispetti
la proporzionalità, che è uno dei principi fondamentali del diritto dell’Unione europea (Sentenza del 2 marzo 2010, Janko Rottman c.
Freistaat Bayern, causa C-135/08, Raccolta 2010, pag. I-01449).
130
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
La possibilità di tale ampliamento dei diritti è già espressamente prevista dal TFUE all’art. 25, paragrafo 2
che ne attribuisce il potere ad una deliberazione unanime del Consiglio su proposta della Commissione e
previa consultazione del Parlamento europeo; di seguito lo stesso Consiglio ne «raccomanderà l’adozione da parte degli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali». Si tratta di una
formulazione interessante in quanto, dato il particolare rilievo riconosciuto alla materia, si determina una
deroga rispetto alla tradizionale procedura di revisione del trattato disciplinata dall’art. 48 TUE e fondata
sulla convocazione di una apposita conferenza diplomatica.
Ad ogni buon conto, la ratio alla base della cittadinanza europea, con l’attribuzione di diritti elettorali ai residenti stranieri dell’Unione, si fonda proprio su questo complesso di considerazioni. Attualmente, invece,
l’esclusione degli stranieri provenienti da Paesi terzi non consente di realizzare l’identità fra governanti
e governati, producendo un risultato certamente criticabile sotto il profilo di una profonda concezione
della democrazia. La cittadinanza dell’Unione può pertanto divenire, acquisendo piena autonomia rispetto
a quella dei singoli Stati membri, uno status giuridico alternativo che, fondato su criteri e regole fissati
direttamente dal sistema unionale, potrebbe estendersi agli immigrati «extracomunitari» in possesso di
determinati requisiti. D’altronde la Corte sembra prefigurare questa prospettiva quando afferma più volte
che «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati
membri» (456).
In questa direzione è indubbio che un ruolo importante debba essere giocato dal Parlamento europeo. La
riforma di Lisbona ha finalmente attribuito all’istituzione direttamente rappresentativa dei cittadini dell’Unione ruolo e poteri che ad essa competono. Ed il suo ruolo politico, negli equilibri interistituzionali, potrà
sicuramente essere rafforzato, nelle nuove elezioni del 2014, dalla indicazione da parte dei partiti europei
dei propri candidati a presidente della Commissione (457).
È peraltro evidente che un obiettivo così ambizioso è raggiungibile solo in un quadro politico nel quale sia
stata tracciata, pur in tappe successive, la via che porta alla costruzione di un’Europa federata con gli Stati
che ci stanno, probabilmente quelli appartenenti all’attuale Eurozona. È il tempo, in altri termini, di riprendere a «costruire la storia», restituendo al «vecchio Continente» il ruolo nella Comunità internazionale che
gli compete. Solo così è sperabile che la cittadinanza europea diventi patrimonio consapevole, condiviso ed
amato da parte dei popoli europei, qualificando tale processo attraverso una democrazia partecipata nella
quale il voto venga espresso in termini quantitativamente maggiori ed in maniera molto più consapevole. L’obiettivo della progressiva legittimazione popolare delle istituzioni passa per la capacità, finalmente,
di «dare un volto riconoscibile» alla democrazia europea, una grande realtà in costruzione senza essere
necessariamente uno Stato, tale da potersi qualificare come una «Unione di valori». Schumann, quando
il 9 maggio 1950 aprì formalmente il processo d’integrazione europea, sembrò a molti un sognatore; per
fortuna non diede retta ai soliti professionisti del pragmatismo dalla vista corta e si dimostrò, nei fatti, il
politico più realista.
 
 
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE E RECENTE
P. GARGIULO, Le forme della cittadinanza, Ediesse, Roma, 2012, in particolare pag. 177 ss.;
I. INGRAVALLO, La Commissione e i diritti elettorali comunali dei cittadini europei, in Sud In Europa, aprile 2012, pag. 11 ss. (anche
www.sudineuropa.net);
G. MORGESE, Principi e strumenti della democrazia partecipativi, in E. TRIGGIANI (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza
europea, Cacucci, Bari, 2011, pag. 37 ss.;
C. MORVIDUCCI, I diritti dei cittadini europei, Giappichelli, Torino, 2012, in particolare pag. 225 ss.;
M. STARITA, Democrazia e partecipazione politica nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in E. TRIGGIANI (a cura di), Le nuove
frontiere della cittadinanza europea, cit., pag. 3 ss.;
J. SHAW, The PoliticalRepresentation of Europe’sCitizens: Developments, in Eu Const., 2008, pag. 162 ss.
(456)
(457)
A partire dalla sentenza 20 settembre 2001, causa C-184/99, Rudy Grzelczyk e centre public d’aide sociale d’Ottignies-Louvain-la-Neuve,
in Raccolta 2001, pag. I-6193.
Si ricorda, comunque, che il presidente della Commissione, ai sensi dell’art. 17 TUE è proposto sempre dal Consiglio europeo «tenendo
conto delle elezioni del Parlamento europeo» e comunque è eletto da quest’ultimo.
A r t i c o l o 4 2 - D i r i t t o d ’ a cc e s s o a i d o c u m e n t i
131
CDE
Scuola Nazionale dell’Amministrazione
Acireale, Caserta, Roma
Articolo 42
Diritto d’accesso ai documenti
Articolo 42
Ogni cittadino dell’Unione nonché ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno
Stato membro ha il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, a
prescindere dal loro supporto
Il diritto d’accesso: strumento di democrazia e di
partecipazione
di Antonio La Ferrara, Alessandra Cinquantaquattro e Maria Laura Viora
(458)
 
«D’una città non godi le sette
o settantasette meraviglie,
ma la risposta che dà
a una tua domanda»
(I. Calvino)
Introduzione
Tra i principi dell’attività amministrativa, quello che negli ultimi decenni ha conosciuto una crescita esponenziale e un’affermazione da parte di diversi ordinamenti democratici particolarmente significativa, è
senz’altro quello della trasparenza.
Naturale corollario di tale principio è il pieno riconoscimento del diritto di accesso agli atti e ai documenti in
possesso della Pubblica Amministrazione nell’ambito del procedimento amministrativo.
Negli ultimi anni l’organizzazione e l’attività dell’amministrazione pubblica hanno subìto un profondo cambiamento sia sotto il profilo delle funzioni sia sul versante di un rinnovato rapporto con i destinatari dell’azione dei pubblici poteri.
Il diritto d’accesso nell’orientamento comunitario e il mediatore europeo
Un segno tangibile dell’interesse per la «trasparenza» da parte delle istituzioni dell’Unione europea, è
stata l’attenzione da esse riservata al diritto d’accesso, al fine di consentire la realizzazione dell’accesso
ai documenti.
La convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma 1950) e il Patto
internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966) avevano già riconosciuto ampio diritto all’individuo
di accedere alle informazioni ufficiali.
Il diritto di accesso è stato riconosciuto anche in sede sopranazionale: il Consiglio d’Europa ne ha indicato
la portata come principio cardine dell’ordinamento comunitario.
Una svolta importante verso una maggiore attenzione alla trasparenza è avvenuta nel 1992 con la firma
del trattato di Maastricht. Nel trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 (ratificato dall’Italia nello stesso
anno), infatti, riconosciuto il principio di trasparenza come linea portante dell’impalcatura ordinamentale
(458)
Responsabili documentalisti rispettivamente del CDE di Acireale, Caserta e Roma della Scuola nazionale dell’Amministrazione
132
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comunitaria (art. 191 A, ora articolo 15 TFUE), si afferma che qualsiasi cittadino dell’Unione, ovvero qualsiasi
persona fisica o giuridica che vi risieda ha diritto ad accedere ai documenti degli organi istituzionali.
Concretamente il trattato di Maastricht considera il diritto d’accesso tra i principi generali dell’ordinamento europeo, come specifico profilo del diritto all’informazione e applicazione del principio di trasparenza
dell’azione amministrativa (art. 1 TUE).
Il trattato di Maastricht ha indotto il Consiglio e la Commissione ad adottare un codice di condotta sull’accesso del pubblico ai documenti.
Un momento importante nell’evoluzione del diritto di accesso in ambito comunitario è sicuramente rappresentato dal suo inserimento nell’articolo 255 del trattato che istituisce la Comunità europea, quale emendato dal trattato di Amsterdam; l’articolo 255 del trattato che istituisce la Comunità europea recita:
1. Qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale
in uno Stato membro ha il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della
Commissione, secondo i principi e alle condizioni da definire a norma dei paragrafi 2 e 3.
2. I principi generali e le limitazioni a tutela di interessi pubblici o privati applicabili al diritto di accesso ai
documenti sono stabiliti dal Consiglio, che delibera secondo la procedura di cui all’articolo 251 entro due
anni dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam.
3. Ciascuna delle suddette istituzioni definisce nel proprio regolamento interno disposizioni specifiche riguardanti l’accesso ai propri documenti.
Un’ulteriore evoluzione si ha proprio con il trattato di Amsterdam, sottoscritto il 2 ottobre del 1997 ed
entrato in vigore nel 1999 che dedica due disposizioni al diritto di accesso ai documenti delle istituzioni
comunitarie: l’art. 255 come modificato di cui si è già parlato e l’art. 207 paragrafo 3 del trattato, relativo al
regolamento interno del Consiglio che prevede che questa Istituzione abbia la facoltà di fissare, nel proprio
regolamento interno, le condizioni per l’accesso del pubblico ai suoi documenti. La norma sancisce che il
Consiglio, quando delibera in qualità di legislatore, deve consentire un maggior accesso ai documenti, garantendo contestualmente l’efficacia del processo decisionale, e dispone la pubblicazione dei risultati delle
sue votazioni, delle dichiarazioni di voto e delle dichiarazioni a verbale.
Anche la Carta dei diritti fondamentali, approvata dal Consiglio europeo di Nizza (2000), che racchiude i diritti fondamentali del cittadino europeo (diritti fondamentali della persona) espressi già nella Dichiarazione
europea dei diritti dell’uomo, ha apportato un grande contributo al diritto di accesso in quanto ha compreso
tra i diritti importanti quelli riferiti ai rapporti tra individui e P.A. comunitaria (459).
 
Principio fondamentale è il diritto alla buona amministrazione il quale trova espressa previsione nella rubrica dell’art. 41 della Carta dove sono indicati una serie di diritti riconosciuti in capo all’individuo destinatario
dell’azione amministrativa.
Il secondo comma dell’art. 41 prevede che il diritto ad una buona amministrazione comprende oltre il diritto
dell’individuo ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che lo riguarda, l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni; inoltre prevede soprattutto il diritto
di accedere al fascicolo che lo riguarda. Il successivo articolo 42 concerne il diritto di accesso ai documenti
di tutte le amministrazioni comunitarie, mentre l’art. 47 disciplina il ricorso all’intervento del Mediatore
europeo (che si rifà alla figura del difensore civico).
Anche la figura del Mediatore europeo risponde alla richiesta da parte del cittadino di un nuovo rapporto
con l’amministrazione pubblica; infatti il Mediatore europeo è la figura istituzionale dell’Unione europea cui
i cittadini possono rivolgersi per rappresentare e lamentare casi di cattiva amministrazione da parte delle
istituzioni ed organi dell’Unione europea.
L’origine di tale figura è da ritrovare nell’esperienza scandinava dell’Ombudsman quale organo ausiliario
del Parlamento con funzione ispettiva nei confronti del governo e delle amministrazioni dipendenti dall’esecutivo.
L’ordinamento italiano ha visto l’ingresso di tale figura nell’ambito della vita delle autonomie locali e per
questo è stata prevista la possibilità di denunciare tali situazioni al difensore civico il quale interviene analizzando i comportamenti della P.A. e richiedendo di porre fine a tali comportamenti che contrastano con
le norme.
Qualsiasi cittadino o persona che risieda nell’Unione può rivolgersi al Mediatore per posta, fax o e-mail. Un
modulo di denuncia è disponibile presso l’ufficio del Mediatore o in Internet.
Nel 2001, a garanzia della concreta applicazione del diritto di accesso, è stato adottato il regolamento (CE)
(459)
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea — articolo 42
A r t i c o l o 4 2 - D i r i t t o d ’ a cc e s s o a i d o c u m e n t i
133
n. 1049/2001, del 30 maggio 2001, sull’accesso pubblico ai documenti; detto regolamento fissa i principi
generali e i limiti che disciplinano l’esercizio di questo diritto.
Fin dall’entrata in vigore del regolamento la quantità di richieste di accesso a documenti ha avuto un incremento rilevante, palesando così un interesse concreto dei cittadini, ciò che si può ravvisare dalle relazioni
annuali del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, elaborate ai sensi dell’articolo 17,
paragrafo 1, del regolamento.
Inoltre, è da sottolineare che l’applicazione del regolamento ha comportato dei disaccordi relativamente a
talune questioni: singoli cittadini, organizzazioni e Stati membri si sono rivolti al Tribunale di primo grado
e alla Corte di giustizia, il Mediatore europeo ha pubblicato relazioni speciali e una serie di pareri relativamente a denunce che gli erano state presentate, mentre il Parlamento europeo ha evidenziato, nelle proprie relazioni, una serie di problemi da analizzare e ha altresì proposto delle soluzioni, come in particolare
la modifica del regolamento.
La Commissione europea da parte sua ha pubblicato un libro verde sull’accesso ai documenti (Com
185/2007) che contiene un questionario su vari temi cui l’istituzione attribuisce particolare rilevanza e
che dovrebbero essere riesaminati. Ha fatto seguito una consultazione pubblica conclusasi il 31 luglio. La
Commissione ha inoltre promosso il «Piano D per la democrazia, il dialogo e il dibattito» (Com 494/2005)
che intende coinvolgere i cittadini in un dibattito ad ampio raggio sull’Unione europea, le sue finalità, il suo
futuro e i compiti che dovrebbe svolgere.
Con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona il 1o dicembre 2009, la base giuridica per l’accesso del pubblico
ai documenti delle istituzioni è diventato l’articolo 15, paragrafo 3, del TFUE (già articolo 255 TCE).
L’esercizio della trasparenza e del diritto di accesso sono stati curati con attenzione nel trattato di Lisbona,
assumendo una portata di valore costituzionale, strettamente legata al principio di democrazia e di apertura del processo legislativo.
L’art. 15 TFUE prevede che: «qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro ha il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, a prescindere dal loro supporto». Il diritto di accesso viene dunque esteso, comprendendo non solo i documenti delle Istituzioni, anche degli organi,
uffici e agenzie dell’Unione. La Corte di giustizia dell’Unione europea, la BCE e la Banca europea per
gli investimenti sono soggette al dettato del trattato solo quando esercitano funzioni amministrative.
Permane invece la limitazione della titolarità del diritto al cittadini europeo e alle persone fisiche e giuridiche residenti in uno Stato membro.
Inoltre l’Unione europea, tramite la Commissione, si apre e si avvicina realmente ai cittadini europei con i
Relays. I relays vengono definiti «reti d’informazione», prima sotto l’egida della direzione generale Cultura,
oggi gestiti e diretti dalla direzione generale Comunicazione.
L’Europa oramai non è solo a Bruxelles, ma è a portata di mano. I cittadini che desiderano conoscere meglio
l’Europa, i suoi programmi, le opportunità, che vogliono ottenere le informazioni, oltre a cercarle sul sito
internet dell’Unione europea, le possono trovare anche nelle centinaia di centri d’informazione disseminati
in tutta Europa.
Per i cittadini, è attiva la nuova rete dei centri d’informazione «Europe Direct», che si propone di fornire
informazioni, materiale, consulenze a tutte le persone, organizzazioni, scuole o giornalisti interessati all’Europa.
Per i ricercatori o gli studenti universitari, è attiva da anni la rete dei Centri di documentazione europea, tra
i quali 51 si trovano in Italia e sono localizzati presso biblioteche universitarie o centri di alta formazione e
403 in Europa.
I giovani hanno a disposizione la rete Eurodesk (circa 100 sportelli in tutta Italia), oltre alle Agenzie nazionali dei programmi Socrates (programma rivolto alle scuole, alle università e al mondo dell’istruzione in
generale), Leonardo da Vinci (per la formazione professionale) e Gioventù (per il volontariato europeo e
gli scambi culturali tra associazioni).
Per le imprese operano gli EuroInfoCentres (o Eurosportelli) mentre per la realizzazione di eventi o dibattiti
sull’Europa sono disponibili circa 100 conferenzieri della rete «Team Europe».
Queste ed altre reti di informazione sono gestite e coordinate dalla DG Stampa e Comunicazione o da altre
Direzioni generali settoriali della Commissione europea.
L’obiettivo delle nuove strategie di comunicazione della Commissione, è da un lato quello di rafforzare la
presenza e l’efficacia di queste reti sul territorio, dall’altro di aumentare le sinergie tra i vari centri d’informazione.
Pertanto, la Commissione europea propone un approccio fondamentalmente nuovo; un passaggio decisivo
134
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dalla comunicazione a senso unico ad un dialogo consolidato, da una comunicazione basata sulle istituzioni
ad una comunicazione basata sui cittadini, da un approccio incentrato su Bruxelles ad un approccio più
decentrato.
In tempi di scetticismo dei cittadini nei confronti dell’Unione europea e dei suoi rappresentanti operanti
nelle istituzioni comunitarie, sarebbe opportuno assicurare non solo l’accesso ai documenti, ma anche promuovere attivamente la pubblicità delle attività legislative.
La diffusione in diretta su Internet di tutte le sessioni del Parlamento europeo e di parte di quelle del Consiglio sono mezzi adeguati e idonei per raggiungere tale obiettivo e per consentire ai cittadini di seguire le
attività legislative e amministrative.
È estremamente urgente assicurare che tutti i documenti siano inseriti nei registri ed esplorare mezzi tecnici per creare un portale comune per accedere ai documenti e migliorare gli strumenti di ricerca, in modo
che il diritto di accesso ai documenti non sia annullato da problemi «tecnici».
Nell’ambito della documentazione che attesta la reale volontà dell’Unione europea di aprirsi al cittadino,
troviamo senz’altro le Decisioni del Parlamento europeo del 13 novembre 2001 e del 14 maggio 2002 che
modificano il regolamento interno del Parlamento europeo e la decisione dell’Ufficio di presidenza concernente l’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, la decisione 2001/840/CE del Consiglio
del 29 novembre 2001 che modifica il regolamento interno del Consiglio e la decisione della Commissione
del 5 dicembre 2001 che modifica il suo regolamento interno [notificata con il numero C(2001) 3714].
Anche nel trattato che istituisce la Costituzione europea, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, è dedicato un
apposito richiamo al diritto di accesso ai documenti (art. II — 102).
Un ulteriore atteggiamento d’apertura è costituito dal documento di lavoro presentato al Parlamento europeo e concernente la relazione annuale 2006 sull’accesso del pubblico ai documenti dell’Unione europea
in cui si afferma che i cittadini hanno il diritto di conoscere le leggi che devono rispettare, mentre gli Stati
sono tenuti a renderle pubbliche, in modo da assicurare l’accesso ad esse; si afferma inoltre che il processo
decisionale che conduce alla creazione di norme vincolanti per i cittadini è aperto e pubblico. Pertanto i
singoli cittadini o le organizzazioni d’interesse possono far conoscere ai legislatori e alle autorità pubbliche
la propria opinione su una determinata proposta, prima che entri in vigore. In una democrazia questi elementi sono rilevanti e si possono riassumere nel concetto di trasparenza, apertura e accesso ai documenti.
Considerazioni finali: questioni aperte e irrisolte, luci e ombre
È utile ragionare su alcuni punti ancora di dubbia interpretazione o da definire per un’ottimale applicazione
dei provvedimenti vigenti sul diritto d’accesso.
Un punto su cui vale la pena riflettere è la mancanza di poteri ispettivi veri e propri e sanzionatori in capo
alla Commissione per l’accesso ai documenti, poteri che sarebbero necessari per superare il «muro di
gomma» che certe amministrazioni oppongono agli interventi della Commissione e consistente in mancato
rispetto di pareri, oppure in regolamenti adottati nonostante il parere contrario della Commissione ed in
accessi rifiutati nonostante pareri positivi della Commissione; tutte situazioni in cui la Commissione ha il
solo potere di denuncia a Parlamento e governo.
Inoltre un quesito rileva riguardo i documenti sottratti all’accesso, nel senso di comprendere se oltre ai
documenti sottratti all’accesso a tempo indeterminato le amministrazioni devono indicare anche quelli
sottratti all’accesso a tempo determinato, ovvero i cosiddetti casi di differimento.
La Commissione per l’accesso ai documenti (460) opta per l’indicazione della tassatività anche per i casi di
differimento anche se distingue all’interno due diversi casi di differimento, vincolato e discrezionale; recita
la summenzionata direttiva «la ratio dell’art. 25, comma 3, della legge 241/90 lascia chiaramente intendere
che il principio di tassatività riguarda sia i casi di esclusione che quelli di differimento», in effetti ciò risulta
evidente dall’art. 24, comma 5, «…A tale fine le pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di
documenti, anche l’eventuale periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all’accesso».
 
Quindi nei singoli regolamenti le amministrazioni devono: 1) indicare tassativamente le categorie di documenti inaccessibili individuandole con sufficiente certezza; 2) specificare per ciascuna categoria la durata
della sottrazione all’accesso che, solo se necessario, potrà essere a tempo indeterminato.
Si potrebbe inoltre rilevare che sembrano palesarsi due diversi tipi di differimento.
Il primo tipo di differimento lo potremmo fare rientrare all’interno del principio di tassatività in quanto vincolato e quindi esercitabile solo nei limiti previsti dai regolamenti delle singole amministrazioni.
(460)
Direttiva 26 marzo 1997, n. 4541/II/4.5.1.2
135
A r t i c o l o 4 2 - D i r i t t o d ’ a cc e s s o a i d o c u m e n t i
Il secondo è quello finalizzato ad assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all’art. 24, comma
6 della legge 241/90.
Il secondo potere di differimento sarebbe sottratto al principio di tassatività in quanto è un potere discrezionale esercitabile qualora se ne presenti la necessità, in quanto si tratta di ipotesi che non possono
essere sempre determinate a priori anche perché possono dipendere dalle più svariate contingenze che
impediscono di fatto l’accesso a documenti di regola accessibili.
È evidente, però, che mentre per il differimento cosiddetto vincolato è sufficiente richiamare in motivazione la norma regolamentare che lo prevede, per il differimento cosiddetto discrezionale è invece necessario
motivare sulle ragioni di impedimento o grave ostacolo all’azione amministrativa che non consentono di
soddisfare immediatamente una legittima istanza di accesso.
Peraltro, sulla natura discrezionale del differimento si è espresso anche il Consiglio di Stato sottolineando
che la P.A. può rinviare l’esercizio dell’accesso qualora enunci pregiudizi alla propria funzione in atto (461).
 
Tale decisione lascia intendere che si tratta di una facoltà discrezionale che la P.A. può esercitare a tutela
della funzione amministrativa e quindi al di fuori delle ipotesi di differimento tassativamente indicate.
Probabilmente, anche per questo secondo tipo di differimento, sarebbe opportuno che ciascuna amministrazione si sforzasse di prevedere in sede regolamentare le possibili ipotesi di esercizio ferma restando la
libertà di differire l’accesso a tutela della funzione amministrativa anche al di fuori dei casi regolamentati.
In conclusione deve ritenersi che in alcuni casi le amministrazioni devono indicare in modo tassativo i casi
di differimento dell’accesso per la tutela di interessi, mentre in altri casi hanno la facoltà di disciplinare i
casi di differimento a tutela della funzione amministrativa.
Un’altra questione rimasta insoluta riguarda il diritto d’accesso delle organizzazioni sindacali su cui si è
molto dibattuto.
Alcuni orientamenti provenienti dal Consiglio di Stato affermano che l’istanza di accesso delle Organizzazioni Sindacali deve essere motivata dall’esigenza di tutelare un interesse giuridicamente rilevante di cui
sia portatore il Sindacato per conto proprio e non per conto dei lavoratori; questo orientamento oltre tutto
si basa sul combinato disposto degli artt. 22 e 25 della L. 241/90 e dell’art. 2 del D.P.R. 184/2006 secondo
i quali l’accesso può essere esercitato «da chiunque abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso»; considerato che la personalità è stata definita come inerenza alla sfera giuridica dell’interessato e la
concretezza come tangibilità del concreto interesse, la titolarità del diritto d’accesso da parte del sindacato
viene fatta rientrare nella tematica della legittimazione all’accesso dei portatori di interessi collettivi e
diffusi in cui gli enti associativi sono legittimati all’accesso per la tutela della categoria rappresentata e
non per la tutela degli interessi propri dei singoli associati. Quindi probabilmente la ratio del Consiglio di
Stato è stata, data la personalità dell’interesse, quella di evitare che l’accesso si trasformi in una attività di
controllo generalizzato dell’azione della P.A.
È vero anche che, considerando l’obiettivo della normativa sull’accesso, e cioè il raggiungimento della
trasparenza e dello svolgimento imparziale dell’attività amministrativa, forse le OO.SS. potrebbero essere
legittimate dal fatto che la richiesta d’accesso nasce dall’interesse a conoscere gli atti dell’amministrazione
in quanto essi incidono sul personale tutelato e quindi tale conoscenza risulta necessaria per l’esercizio
delle attività sindacali di difesa dei diritti della categoria di lavoratori rappresentati.
Questa preoccupazione è stata avvertita dalla Commissione per l’accesso ai documenti nel senso di «non
limitare ingiustificatamente l’esercizio delle garanzie riconosciute agli stessi sindacati e che, di fatto, non
sia vanificato il rispetto del principio di trasparenza e conoscibilità delle Pubbliche Amministrazioni su cui
questa Commissione ha lo scopo di vigilare» come ricorda la dott.ssa Barbara Torrice.
Altra questione controversa riguarda la legge 205/2000; essa, prefiggendosi lo scopo di rendere più semplice e spedito il processo speciale previsto dall’art. 25 della legge 241/1990, ha eliminato l’obbligo della
difesa tecnica per il ricorrente e per l’amministrazione.
Con la legge 15/2005, tale norma è stata trasfusa con alcune modifiche nell’art. 25, comma 5-bis, della
legge n. 241.
La nuova normativa, da un lato, riguarda tutti i giudizi in materia di accesso, e dall’altro trova applicazione
nei confronti di tutte le parti private del processo.
La normativa succitata ha avuto finalità meritevoli, ma così com’è crea problemi di applicazione nelle fasi di
appello e di cassazione poiché in tali casi resta ferma la necessità del patrocinio di avvocato iscritto all’albo.
(461)
Consiglio di Stato, IV, 5 giugno 1995, n. 412.
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Anche il secondo periodo del comma 5-bis dell’art. 25 è formulato in maniera poco chiara poiché prevede
che l’amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente, purché in possesso
della qualifica di dirigente e autorizzato dal rappresentante legale dell’ente; sulla poca efficacia della norma si possono considerare alcune osservazioni:
•
l’espressione «amministrazione» è da estendere anche ai soggetti gestori di pubblici servizi, ciò che
pone problemi di interpretazione per la qualifica di dirigente nei suddetti enti che hanno una diversa
organizzazione amministrativa; quindi per tali soggetti, l’interpretazione probabilmente si intende nel
senso che la difesa personale è ammessa senza particolari limitazioni, nel rispetto delle regole interne
che governano la formazione della volontà dell’ente;
•
l’espressione dipendente è un po’ impropria in quanto con tale espressione potrebbe essere inteso anche un funzionario contrattualizzato dall’amministrazione con un rapporto di collaborazione autonoma,
contratto d’opera, ecc…;
•
la qualifica di dirigente non assicura una particolare garanzia di professionalità in relazione al giudizio di
accesso ai documenti; infatti la rappresentanza potrebbe essere affidata ad un funzionario in possesso
del diploma di laurea in giurisprudenza o dell’abilitazione professionale; la norma effettivamente non
prevede neanche la possibilità che il dirigente investito della rappresentanza processuale possa delegare il proprio compito ad altro funzionario privo della necessaria qualifica, nemmeno nelle ipotesi in
cui la subdelega sia indicata nell’atto di autorizzazione.
Oltretutto in tale ambito non si può intervenire con future leggi regionali visto che la giustizia amministrativa è materia esclusiva statale (una Regione non potrebbe con propria legge, prevedere la rappresentanza
di un funzionario piuttosto che di un dirigente).
La norma appare di difficile applicazione per le amministrazioni statali e per quelle che si avvalgono del
patrocinio dell’Avvocatura dello Stato; la valutazione sull’opportunità di assicurare la difesa tecnica sembra
riservata, in prima battuta, alla sola Avvocatura, la quale avrà il compito di decidere se assumere il patrocinio diretto o lasciare tale compito al dirigente competente.
Resta fermo il potere del legale rappresentante dell’amministrazione di fornire le opportune direttive.
Riguardo alla tutela penale ho riscontrato l’ennesimo nodo da sciogliere.
Tra i mezzi di tutela del diritto di accesso esiste anche la disciplina sancita dal Codice penale tramite
l’art. 328 che prevede sanzioni penali nei confronti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che «entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio, e non
risponde per esporre le ragioni del ritardo».
La norma ha il merito di avere delimitato temporalmente la possibilità di omettere o comunque ritardare
atti di ufficio per il tramite dell’imposizione al funzionario dell’obbligo dell’esposizione delle ragioni del
ritardo.
In parte della giurisprudenza di merito, però, si è negata la configurazione della responsabilità del funzionario in caso di silenzio protrattosi per trenta giorni sull’istanza di accesso, venendo in tal caso in rilievo un
provvedimento di diniego tacito (462).
 
Diversamente ha invece opinato la Corte di Cassazione, la quale, prendendo le mosse dal presupposto
che il silenzio in tema di accesso è un mero «congegno finzionistico» ha concluso per l’integrazione della
fattispecie di reato in parola allo spirare infruttuoso del termine di legge (463).
 
Anche il regolamento di attuazione suscita perplessità.
Nonostante la sua natura di fonte secondaria, tale provvedimento dovrà considerarsi o meno direttamente
vincolante anche per Regioni ed enti locali?
È ben noto che lo Stato esercita la propria competenza regolamentare esclusivamente in ordine alle materie ex articolo 117, comma 2 della Costituzione.
Nel caso si volesse considerare tale regolamento come diretta salvaguardia della tutela dei livelli essenziali
(art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione), peraltro già garantiti in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso dalla L. 241/90 rispetto a cui si costituirebbe, appunto, adeguata attuazione, allora
le disposizioni dello stesso vincolerebbero formalmente anche Regioni ed enti locali.
Nella giurisprudenza costituzionale due, tra le altre, sono le sentenze che maggiormente hanno concesso
di meglio interpretare le disposizioni costituzionali contenute nell’art. 117, comma 2: la sentenza 13, 27
(462)
(463)
Foro It. 1994, II, 266.
Cae segg. pen., Sez. VI, 8 gennaio1997, CAPUANO, in Cassa.pen., 1997, 3019.
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137
marzo 2003, n. 887 e la sentenza 26 giugno 2002, n. 282.
Nella prima si afferma come, nonostante «l’inserimento nel secondo comma dell’art. 117 del nuovo Titolo
V della Costituzione, fra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale» attribuisca al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di
un’adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto, lo Stato dovrebbe rispettare i
criteri secondo cui la determinazione di procedure e l’adozione di precisi atti formali per disporre interventi
che si rendano necessari nei vari settori, siano operate mediante la preventiva adozione di provvedimenti
legislativi ad hoc.
Nell’altra pronuncia della Corte, la sentenza n. 282/2002 era, invece, stato preventivamente chiarito come
la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non costituiscano
una «materia» in senso stretto, ma una competenza del «legislatore statale idonea ad investire tutte le
materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti,
sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle».
Nel caso del regolamento governativo di attuazione c’è in effetti una previa norma che ne legittima l’operatività ai sensi dell’art. 117, comma 2, ovvero l’art. 22, comma 2 della L. 241/90; dunque dovrebbe
confermarsi l’idoneità del regolamento de quo a dettare misure minime di tutela del diritto di accesso ai
documenti amministrativi anche nei confronti di Regioni ed enti locali.
In conclusione si può affermare che, con riferimento al diritto di accesso da parte dei soggetti portatori di
interessi diffusi, la novella della legge n. 241/90 non apporta significative modifiche allo status quo, ma
certamente fornisce un contributo di chiarezza in ordine a delicati problemi accogliendo le conclusioni già
formulate dalla giurisprudenza.
Altre incertezze o lacune legislative si registrano all’art. 26 relativamente all’obbligo di pubblicazione di
gran parte degli atti amministrativi a contenuto generale prevedendo forme di pubblicità dell’attività della
Pubblica Amministrazione.
Le difficoltà applicative e/o interpretative si riscontrano in quanto per la determinazione delle modalità
di pubblicazione degli atti la norma in esame rinvia ai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni senza
fissare né i criteri cui le medesime devono attenersi per assicurare effettivamente la più ampia pubblicità ai propri atti, né il termine entro il quale dotarsi di precise regole in materia, qualora ne siano ancora
sprovviste.
Alla disciplina lacunosa del comma 1 dell’articolo che si commenta si affianca, poi, quella del comma 2.
Dopo aver disposto la pubblicazione nelle forme indicate al comma 1, delle relazioni annuali della Commissione per l’accesso di cui al successivo articolo 27 della legge, si stabilisce che venga data «la massima
pubblicità a tutte le disposizioni attuative» della stessa legge n. 241 e così pure «a tutte le iniziative dirette
a precisare e a rendere effettivo il diritto di accesso».
In mancanza di più specifiche indicazioni, risulta invero assai problematico individuare gli strumenti attraverso i quali possa considerarsi realizzata la «massima pubblicità» delle disposizioni attuative della legge.
Tra le novità positive introdotte dal D.P.R. 184/2006 è importante rilevare l’eliminazione del pericolo, da
più parti lamentato, di possibili eccessi da parte dell’amministrazione, laddove è stato previsto che il differimento sia temporaneo e che nell’atto sia indicata anche la durata di esso (464).
 
Una perplessità suscita la posizione del controinteressato riguardo la possibilità di impugnare il silenzio accoglimento (assenso) dell’autorità disponente il provvedimento di diniego, nel caso in cui la Commissione
per l’accesso dichiari illegittimo appunto il diniego o il differimento.
In tal caso si applica la disciplina generale di cui al comma 5 che consente al terzo di agire «nel termine di
trenta giorni» evidentemente decorrenti dalla conoscenza, riferita al terzo dell’avvenuta formazione del
silenzio.
Per ciò che concerne la sussidiarietà, l’avvicinamento del cittadino alla P.A., ma soprattutto l’avvicinamento della P.A. al cittadino, molta strada è stata percorsa ma tanta ancora ne rimane da percorrere per poter
dichiarare con sicurezza che ci troviamo all’interno di un’amministrazione con pareti di vetro.
È difficile che il rapporto amministrazione-cittadino possa svolgersi mai su un piano paritario, almeno
nell’immediato, ma sicuramente un diverso atteggiamento e comportamento della P.A. sul piano della
(464)
Art. 9, commi 2 e 3, e articolo 10, comma 2, del nuovo regolamento
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disponibilità e dell’apertura può permettere al cittadino di conoscere cosa accade dietro un sipario rimasto
chiuso per decenni e ingenerare finalmente quella fiducia che, allo stato attuale delle cose non esiste: per
realizzare ciò è necessario continuare ad affermare quei principi di straordinaria rilevanza culturale, civile
e democratica oltreché di valenza giuridico-amministrativa che pongono la P.A. ed il cittadino su un piano
di reciprocità di situazioni giuridiche, di diritti e doveri di possibilità di intervento, di obblighi e di responsabilità.
A giudizio di chi scrive un ruolo strategico in tutto ciò è rappresentato anche dalla formazione; è su di essa
che deve puntare la P.A. se vuole che i propri dipendenti possano assimilare, oltre alla conoscenza delle
norme da applicare, la mentalità e la cultura giusta per potere gestire il cambiamento.
Lo sforzo legislativo da solo non è sufficiente a cambiare la realtà; ad esso deve seguire un reale impegno
di tutte le amministrazioni pubbliche affinché il processo di revisione dell’attività amministrativa possa
trovare nuovo impulso per lanciare la macchina burocratica spesso frenata da troppi lacci burocratici e non.
Bisogna dare un contributo più marcato, più forte al processo di modernizzazione avviato con la legge
241/90 e continuato con le leggi 15/2005, 80/2005 e con il D.P.R. 184/2006; processo tendente al miglioramento dell’efficienza e di una maggiore capacità di agire con celerità ed in maniera proficua per la tutela
degli interessi pubblici della comunità; questo è quello che, in un contesto socio-culturale profondamente
mutato, il cittadino pretende, e cioè una effettiva partecipazione e coinvolgimento nei procedimenti che
lo riguardano.
Articolo 44 - Diritto di petizione
139
CDE
Università di Bologna
Provincia autonoma di Trento
Articolo 44
Diritto di petizione
Articolo 44
Ogni cittadino dell’Unione nonché ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno
Stato membro ha il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo
Diritto di petizione
di Marina Marcorin
(465)
 
Presentazione
Il diritto di petizione è precedente all’iniziativa dei cittadini europei. È uno strumento che serve essenzialmente a sensibilizzare il Parlamento europeo su un determinato tema, mentre l’iniziativa dei cittadini
europei serve non solo a sensibilizzare, ma anche ad attivare l’istituzione dell’Unione europea e chiedere
di formulare iniziative legislative. Il diritto di petizione figurava già nel regolamento dell’Assemblea comune della CECA e del successivo regolamento Parlamento europeo, ma era riservato solo ai cittadini della
Comunità. Il trattato sul funzionamento dell’Unione europea amplia le categorie di soggetti che possono
formulare delle petizioni individuandone tre: i cittadini dell’Unione europea; le persone fisiche residenti
negli Stati membri, quindi anche i cittadini extra-comunitari residenti in uno degli Stati membri dell’Unione;
le persone giuridiche membri di una associazione, società o organizzazione con sede sociale in uno Stato
membro dell’Unione europea.
La condizione posta dal trattato per presentare una petizione è che l’oggetto deve rientrare nel campo di
attività dell’Unione europea e deve concernere direttamente il proponente. Questo ultimo limite è stato
inserito per limitare il numero di petizioni, spesso molto fantasiose, rivolte al Parlamento.
Destinataria della petizione è una commissione permanente del Parlamento, ovvero la «Commissione per
le petizioni», composta da 34 deputati e presieduta da un presidente e 4 vicepresidenti, che si riunisce circa
una volta al mese. Tale commissione analizza le petizioni, verifica quelle che sono ricevibili, ossia quelle
che rispettano i requisiti sia soggettivi che oggettivi, e decide cosa fare. È una commissione investigativa e
non legislativa, mira cioè a garantire ai cittadini l’accesso a mezzi di ricorso extra giudiziari qualora le loro
denunce risultino fondate. Può organizzare missioni d’informazione e riferire al riguardo in seduta plenaria.
Una petizione può vertere sui temi che riguardano l’Unione europea o sono di sua competenza, quali ad
esempio: i propri diritti in quanto cittadini europei ai sensi dei trattati; le questioni ambientali; la protezione dei consumatori; la libera circolazione di persone; merci e servizi e il mercato interno; l’occupazione e
la politica sociale; il riconoscimento delle qualifiche professionali; altre questioni connesse all’attuazione
della legislazione dell’Unione europea.
La petizione può essere redatta in una delle lingue ufficiali dell’Unione europea e inviata tramite invio postale o invio online mediante apposito formulario elettronico.
BASE GIURIDICA
(465)
Documentalista responsabile del CDE della Provincia autonoma di Trento
140
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
Trattato
sul
funzionamento
dell’Unione
europea
(TFUE)
<http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:083:0047:0200:IT:PDF>, articolo 24
... Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo conformemente all’articolo 227.
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), articolo 227 <http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:083:0047:0200:IT:PDF>
Qualsiasi cittadino dell’Unione, nonché ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, ha
il diritto di presentare, individualmente o in associazione con altri cittadini o persone, una petizione al Parlamento europeo su una
materia che rientra nel campo di attività dell’Unione e che lo (la) concerne direttamente.
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, articolo 44
<http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/combating_discrimination/l33501_it.htm>
Ogni cittadino dell’Unione nonché ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro ha il diritto
di presentare una petizione al Parlamento europeo.
Regolamento del Parlamento europeo, Titolo VIII: articoli 201, 202, 203
<http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//NONSGML+RULES-EP+20090714+0+DOC+PDF+V0//IT&language=IT>
SITOGRAFIA
I link sono stati verificati al 14 gennaio 2014.
Parlamento europeo: Petizioni http://www.europarl.europa.eu/aboutparliament/it/00533cec74/Petitions.html
BIBLIOGRAFIA
La presente bibliografia non ha pretese di esaustività, ma vuole essere un punto di partenza per approfondimenti. I link sono stati
verificati al 14 gennaio 2014.
Versione consolidata del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Unione europea, 2010
http://bookshop.europa.eu/en/consolidated-versions-of-the-treaty-on-european-union-and-the-treaty-on-the-functioning-of-theeuropean-union-pbQC3209190/
Benvenuti al Parlamento europeo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 2012.
http://bookshop.europa.eu/en/welcome-to-the-european-parliament-pbQA3111336/
Parlamento europeo: regolamento, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 1998.
Zanghì Claudio, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Giappichelli, 2010.
Diritto di iniziativa dei cittadini europei
di Massimo Caravita
 
(466)
Presentazione
Dal 2012, i cittadini degli Stati membri dispongono di un nuovo strumento di partecipazione democratica,
attraverso l’iniziativa dei cittadini possono chiedere alla Commissione europea di fare proposte legislative
su un determinato tema di competenza dell’Unione europea.
Base giuridica
Introdotto dal trattato di Lisbona (art. 8 b, paragrafo4), il diritto di iniziativa è stato inserito, su proposta
del Parlamento europeo, nel trattato costituzionale (trattato sull’Unione europea, articolo11, paragrafo 4),
dopo un’ampia consultazione pubblica avviata dalla Commissione europea con il libro verde Diritto di iniziativa dei cittadini europei (COM 2009/622 def.).
Il diritto di iniziativa è disciplinato dal regolamento n. 211/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio
dell’Unione europea.
Il regolamento di esecuzione n. 1179/2011 fissa i requisiti tecnici per i sistemi di raccolta elettronica delle
firme.
Testi dei trattati
Trattato sull’Unione europea, Titolo II Disposizioni relative ai principi democratici, articolo11 (versione consolidata) — GU C 326 del 26.10.2012:
(466)
Documentalista responsabile del CDE dell’Università degli Studi di Bologna
Articolo 44 - Diritto di petizione
141
1. Le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione.
2. Le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative
e la società civile.
3. Al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione, la Commissione europea procede ad ampie consultazioni delle parti interessate.
4. Cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l’iniziativa d’invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue
attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono
necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei trattati.
Le procedure e le condizioni necessarie per la presentazione di una iniziativa dei cittadini sono stabilite
conformemente all’articolo 24, primo comma del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, Pt. II Non discriminazione e cittadinanza dell’Unione,
articolo 24 (versione consolidata) — GU C 326 del 26.10.2012
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa
ordinaria, adottano le disposizioni relative alle procedure e alle condizioni necessarie per la presentazione
di un’iniziativa dei cittadini ai sensi dell’articolo 11 del trattato sull’Unione europea, incluso il numero minimo di Stati membri da cui i cittadini che la presentano devono provenire.
Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo conformemente all’articolo 227.
Ogni cittadino dell’Unione può rivolgersi al Mediatore istituito conformemente all’articolo 228.
Ogni cittadino dell’Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi di cui al presente articolo o all’articolo 13
del trattato sull’Unione europea in una delle lingue menzionate all’articolo 55, paragrafo 1, di tale trattato
e ricevere una risposta nella stessa lingua.
Provvedimenti nazionali
D.P.R. 18/10/12 n. 193 Regolamento concernente le modalità di attuazione del regolamento (UE) n. 211/2011
riguardante l’iniziativa dei cittadini (G.U. 15/11/12 n. 267)
Quando
Il diritto di iniziativa dei cittadini europei è entrato in vigore il 1o aprile 2012
Modalità
•
L’iniziativa deve riguardare un argomento di competenza della Commissione europea,
•
deve essere sostenuta da almeno un milione di firme di cittadini di almeno sette Stati diversi (1/4 dei
Paesi membri, numero minimo di firmatari per Stato: http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/
signatories) aventi diritto di voto per le elezioni del Parlamento europeo (18 anni in tutti i Paesi, 16
anni in Austria),
•
il periodo massimo di raccolta delle firme è un anno,
•
il comitato promotore deve essere costituito da almeno sette cittadini residenti in sette Stati diversi,
non può essere gestito da organizzazioni, che tuttavia possono sostenere l’iniziativa del comitato,
•
le firme possono anche essere raccolte online, le dichiarazioni di sostegno sono poi inviate alle autorità
nazionali competenti per la verifica,
•
se l’iniziativa è dichiarata ammissibile dalla Commissione europea, il comitato promotore incontrerà
la Commissione per illustrare l’iniziativa, successivamente avrà luogo un’audizione pubblica in Parlamento,
•
la Commissione deve pronunciarsi entro 3 mesi su quali azioni intende intraprendere in merito. Può
decidere di non dare seguito all’iniziativa, se emerge una valutazione negativa dall’analisi politica del
merito della proposta. L’iniziativa dei cittadini impone alla Commissione di esaminare un dato tema,
ma non la obbliga a legiferare,
•
per favorire la trasparenza e la partecipazione dei cittadini, la Commissione europea ha predisposto
un sito web dove poter reperire informazioni riguardanti le iniziative avviate, quelle concluse e come
avviare una nuova iniziativa: http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/welcome
142
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SITOGRAFIA
I link sono stati verificati al 14 gennaio 2014.
Sito istituzionale della Commissione europea: http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/?lg=it
Pagina web del Parlamento europeo sul diritto di iniziativa: http://www.europarl.europa.eu/aboutparliament/it/001eb38200/European-citizens’-initiative.html
Pagina web del Comitato economico e sociale sul diritto di iniziativa: http://www.eesc.europa.eu/?i=portal.en.civil-society-european-citizens-initiative
Regolamento che disciplina l’iniziativa: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:065:0001:0022:IT:PDF
Regolamento
di
esecuzione
1179/2011
della
Commissione:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:301:0003:0009:IT:PDF
Agenda per l’Italia Digitale: http://www.digitpa.gov.it/iniziativa-dei-cittadini-europei
Pagina web del portale Europa: Partecipa all’elaborazione delle politiche europee http://europa.eu/policies-activities/have-yoursay/index_it.htm
DOCUMENTI
Guida all’iniziativa dei cittadini europei: http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/guide
Libro verde: Diritto d’iniziativa dei cittadini europei: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0622:FIN:IT:PDF
BIBLIOGRAFIA
La presente bibliografia è limitata ai contributi pubblicati nelle principali riviste giuridiche italiane.
I link sono stati verificati al 13 gennaio 2014.
La presente bibliografia non ha pretese di esaustività ed è limitata ai contributi pubblicati nelle principali
riviste giuridiche italiane.
Ambrosi Irene, D’auria Marta, Il regolamento n. 211/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea riguardante
l’iniziativa dei cittadini, in «Famiglia, persone e successioni», 2011, n. 5, pag. 398.
Ferraro Fabio, Il diritto di iniziativa dei cittadini europei: uno strumento efficace di democrazia partecipativa?, in «Rivista italiana di
diritto pubblico comunitario» 2011, n. 3-4, pag. 727.
Ferri Delia, Dal libro bianco sulla governance al nuovo Registro per la Trasparenza: l’UE tra participatory engineering e democrazia
partecipativa, in «Rivista italiana di diritto pubblico comunitario», 2012, 3-4, 481.
Ingravallo Ivan Brevi note sull’iniziativa legislativa dei cittadini europei, in «La Comunità Internazionale», 2010, 2, 251.
Piroddi Paola, Il Parlamento europeo nel trattato di Lisbona tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, in «Rivista
italiana di diritto pubblico comunitario», 2011, 3-4, 801.
Raspadori Fabio, La democrazia partecipativa ed il diritto di iniziativa dei cittadii europei — Partecipative democracy and the european
citizens’initiative, in «Studi sull’integrazione europea», 2010, 3, 675.
Rubechini Patrizio, La regolamentazione dell’iniziativa dei cittadini europei, in «Giornale di diritto amministrativo», 2011, 7, 709.
Siclari Domenico, La democrazia partecipativa nell’ordinamento comunitario, in «Diritto Pubblico», 2009, 2, 589.
Zicchittu Paolo, Ancora sul diritto di iniziativa dei cittadini dell’Unione, in «Quaderni costituzionali», 2011, 1, 172.
Zicchittu Paolo, Il diritto di iniziativa dei cittadini: un nuovo strumento di partecipazione all’interno dell’Unione europea in «Quaderni
costituzionali», 2010, 3, 621.
Articolo 45 - Libertà di circolazione e di soggiorno
143
CDE
Università Kore di Enna
Articolo 45
Libertà di circolazione e di soggiorno
Articolo 45
1. Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri
2. La libertà di circolazione e di soggiorno può essere accordata, conformemente ai trattati, ai cittadini dei
paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio di uno Stato membro.
Profili critici della cittadinanza europea (art. 9 del
trattato sull’Unione europea, artt. 20 — 24 del trattato sul
Funzionamento dell’Unione europea e articolo 45 Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea)
di Alessandro Tomaselli
(467)
 
Le recenti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea (di seguito, CGUE) in materia di libertà di
circolazione e soggiorno all’interno del territorio dell’UE sembrano avere rappresentato i passaggi decisivi
con riguardo all’emersione di una nuova e più forte idea di cittadinanza europea, e ciò in ragione, da un
lato, dell’ermeneutica sviluppatasi relativamente alle innovazioni normative apportate in tema dal trattato
di Maastricht (468), e, dall’altro, dell’incessante espandersi dei fenomeni migratori caratterizzanti anche e
soprattutto il territorio del Vecchio Continente: se, infatti, sulla base dell’art. 17 del trattato istitutivo dell’Unione europea (adesso articolo 20 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, di seguito TFUE),
a norma del quale «È istituita una cittadinanza dell’Unione» ed «È cittadino dell’Unione chiunque abbia la
cittadinanza di uno Stato membro» (in tal ultimo senso, anche l’art. 9 del nuovo trattato sull’Unione europea, di seguito TUE), già a partire dalla sentenza Grzelczyk (C-184/99) è noto come i giudici di Lussemburgo
non abbiano mancato occasione di ribadire che «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo
status fondamentale dei cittadini degli Stati membri», e come, di conseguenza, gli stessi abbiano negli anni
provveduto a specificare i contenuti ed i limiti di tale affermazione, appare fuor di dubbio l’influenza esercitata al riguardo anche dall’evoluzione caratterizzante i rapporti tra Stati ed individui così come riconducibile
alla mobilitazione di masse di disperati in cerca di condizioni di vita migliori, o comunque di soggetti cittadini dell’odierno mondo globalizzato, e dunque non più indissolubilmente radicati nel proprio paese d’origine.
Nella prospettiva da ultimo indicata, in particolare, appare necessario fin d’ora specificare come la categoria della cittadinanza, anche in sede dell’accennata normativa primaria europea, abbia subìto la determinante influenza dell’ideologia dei diritti umani, costringendo a riformularne i caratteri costitutivi, ma
 
(467)
(468)
Assistant Professor e corresponsabile del Centro di documentazione europea presso l’Università Kore di Enna.
La dottrina in tema è sconfinata: cfr. tra gli altri Adam, Prime riflessioni sulla cittadinanza dell’Unione, in Rivista di Diritto Internazionale,
1992, pag. 622 e segg.; Celotto, La cittadinanza europea, in Il Diritto dell’Unione europea, 2005, pag. 379 e segg.; Lippolis, Cittadinanza
dell’Unione, in Cassese (dir.), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 925; Logroscino, La cittadinanza dell’Unione: la crisi dei
concetti tradizionali, in Il Diritto dell’Unione europea, 2006, pagg. 407 e segg.; Panella, L’affermarsi della cittadinanza europea, in Zanghì,
Panella (a cura di), 50 anni di integrazione europea. Riflessioni e prospettive, Torino, 2007, pag. 221; Condinanzi, Lang, Nascimbene,
Citizenship of the Unione and Free Movement of Persons, Bruxelles, 2008; Rossi, La cittadinanza dell’Unione europea, in Tizzano (a cura
di), Il processo di integrazione europea: un bilancio 50 anni dopo i Trattati di Roma, Torino, 2008; Sinagra, La cittadinanza nella evoluzione
del diritto interno, del diritto internazionale e del diritto comunitario, in Lanchester, Serra (a cura di), «Et si omnes…». Scritti in onore di
Francesco Mercadante, Milano, 2008; Mengozzi, La cittadinanza dell’Unione e il contributo della Corte di Giustizia alla precisazione
dell’identità europea, in Baruffi (a cura di), Cittadinanza e diversità culturale nello spazio giuridico europeo, Padova, 2010, pagg. 3 e segg.;
Morviducci, I diritti dei cittadini europei, Torino, 2010; Spinaci, Libertà di circolazione, cittadinanza europea, principio di eguaglianza, Napoli,
2011; Triggiani (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Bari, 2011.
144
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prima ancora imponendo una sostanziale rivisitazione del concetto di sovranità statale, perlomeno avuto
riguardo ad alcune delle proprie peculiarità. E in tal ultimo senso sembra innanzitutto potersi sostenere
come non possa più argomentarsi nel senso di una corrispondenza assoluta tra cittadinanza e nazionalità, i due elementi che tradizionalmente hanno valso a contraddistinguere il senso e la ragione ultima di
appartenenza ad una comunità statale. Come è stato al riguardo efficacemente osservato «L’innovazione
introdotta da Maastricht (…) non è improvvisa in quanto va collocata nel quadro delle profonde modifiche
prodotte nel concetto di cittadinanza nell’era della globalizzazione. I grandi flussi migratori e la sempre più
mondializzata attività delle persone stanno progressivamente mutando, per alcuni addirittura rendendo
obsolete, le definizioni di appartenenza e di cittadinanza. Quest’ultimo concetto si sta evolvendo e diventando progressivamente internazionale e rendendo sempre consistente, quindi anacronistica, la corrispondenza tra “nazionalità” e “cittadinanza”. La prima identifica una posizione passiva rispetto all’ordinamento
statuale, la cui utilità consiste nel distinguere un membro dello Stato da uno straniero, la seconda è invece
un fattore di coesione sociale che implica una partecipazione consapevole alla vita politica e l’adesione ad
una comunità d’intenti (…). E ciò è dovuto soprattutto alla progressiva affermazione di atti e di strumenti
internazionali relativi ai diritti umani fondamentali, che limitano il potere assoluto degli Stati nel determinare le proprie normative in materia di attribuzione e di negazione o privazione della cittadinanza; atti
e strumenti che inoltre riconoscono comunque allo straniero un corpus sempre più significativo di diritti
(…). Il nesso tra nazionalità e diritti (…), fino ad oggi perno della società democratica va necessariamente
riconsiderato nei termini per i quali, nell’ambito dei grandi flussi migratori, rischia di produrre esclusioni e
conseguenze antidemocratiche» (469).
Insomma, per quanto sopra sommariamente esposto, in nome di una riscoperta della centralità dell’individuo, perlomeno in linea teorica pare potersi ormai argomentare nel senso di un vero e proprio diritto
fondamentale alla cittadinanza (470) ascrivibile al soggetto in quanto tale, e cioè a prescindere da un legame
effettivo con il singolo Stato nei cui confronti lo stesso rivendica uno o più diritti attribuiti ai tradizionali citizens, tali per ius sanguinis o ius soli. E a tale rinnovata riflessione sui caratteri costitutivi della cittadinanza
con particolare riguardo al contesto ordinamentale europeo sembra decisamente ispirasi, come accennato, l’azione della giurisprudenza della CGUE nella sua evoluzione ermeneutica relativamente ai contenuti
dell’istituto da ultimo richiamato (471), le cui conclusioni peraltro non sembrano convincere appieno.
Al riguardo, pare, tuttavia, opportuno premettere alcune considerazioni critiche relative alla categoria concettuale in oggetto, così come caratterizzata ed elaborata a far data dal trattato di Maastricht.
Segnatamente, ciò che suscita più di una perplessità è rappresentato dalla stessa possibilità di intendere
la cittadinanza europea al pari di quello status politico e giuridico, 1) insieme composito di diritti e doveri,
nonché 2) sinonimo di partecipazione ed inclusione, che il singolo Stato, nell’esercizio della propria sovranità, attribuisce ai propri cittadini con riferimento all’articolazione e disciplina dei rapporti con lo stesso
intercorrenti e dallo stesso originanti, e questo a dispetto della «solenne» investitura ricevuta dall’istituto
in esame all’interno dei trattati UE nei termini in precedenza richiamati (artt. 9 TUE e 20 TFUE): 1) da un
lato, infatti, l’ordinamento dell’Unione europea non può certamente intendersi come caratterizzato da un
sufficiente grado di originalità ed autonomia rispetto ai contesti ordinamentali dei propri Stati membri tale
da potere allo stesso ascrivere (anche) il carattere della sovranità, com’è noto condizione imprescindibile
ai fini della reale individuazione della categoria in oggetto; dall’altro, dall’analisi delle disposizioni dei trattati relative alla cittadinanza, per quanto sia possibile individuare più di un diritto dalla stessa conseguente,
eguale affermazione non sembra possa valere con riguardo a doveri, obblighi e/o responsabilità di sorta,
che, a loro volta, contraddistinguono il naturale legame instaurantesi tra Stato — collettività ed individuo,
la cittadinanza appunto: così come statuito dallo citato articolo 20 TFUE e come specificamente disciplinato,
infatti, dalle disposizioni allo stesso susseguenti il (presunto) cittadino europeo è titolare (solo) dei diritti
di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (art. 21 TFUE), del diritto di voto
attivo e passivo al Parlamento europeo e alle elezioni comunali dello Stato membro in cui risiede (art. 22
TFUE), del diritto di godere, nel territorio di un Paese terzo nel quale lo Stato membro di cui possiede la
cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato
membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (art. 23 TFUE), il diritto di petizione al Parlamento europeo (art. 24, c. II TFUE), il diritto di ricorrere al Mediatore Europeo (art. 24, c. III TFUE) ed il diritto
 
 
 
(469)
(470)
(471)
Così Triggiani, La cittadinanza europea per la «utopia» sovranazionale, in Studi sull’integrazione europea, 2006, 3, pag. 435 e segg.. Al
riguardo cfr. anche De Pasquale, Problemi interpretativi della nazione giuridica di cittadinanza: un concetto «europeizzato» di diritto
pubblico interno? La controversa relazione tra cittadinanza dell’Unione europea e cittadinanze nazionali degli Stati membri, in Rivista
italiana di diritto pubblico comunitario, 2012, 3-4, pagg. 454-455.
In tal senso cfr. l’illuminante lavoro di Panella, La cittadinanza e le cittadinanze nel diritto internazionale, Napoli, 2008, in particolare pagg.
50 e e segg..
V. al riguardo le sentenze Micheletti (C-369-90), Bidar (C-209/03), Bressol (C-73/08), Rottmann (C- 135/08), Zhu e Chen (C-200/02),
Zambrano (C-34/09), Garcia Avello (C-148/02), McCarthy (C-434/09), Dereci (C-256/11) e Maahanmuuttovirasto (C-356-357/11).
Articolo 45 - Libertà di circolazione e di soggiorno
145
di rivolgersi alle Istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere
una risposta nella stessa lingua (art. 24, c. IV TFUE), mentre traccia alcuna all’interno dei trattati non pare
rinvenibile con riferimento a doveri od obblighi nel senso suindicato, e ciò a dispetto della lettera dello
stesso articolo 20 TFUE che al proprio punto 2 sancisce come i cittadini dell’Unione siano soggetti (anche)
«ai doveri previsti nei trattati» (472). 2) Oltretutto, non può certamente considerarsi una novità la «cronica»
carenza di partecipazione alla vita ed alla evoluzione delle Istituzioni europee da parte dei cittadini degli
Stati ad esse appartenenti, non potendo certamente considerarsi in tal ultimo risolutivi i testé indicati diritti
di cui all’art. 20 e alle norme successive: al riguardo, è noto, infatti, come il corretto funzionamento delle
Istituzioni di Bruxelles, e dunque l’intero processo d’integrazione, sia inficiato dall’irrisolto problema del
c.d. deficit democratico, autentica causa di privazione di legittimità democratica nei confronti delle stesse.
Ancora, non può né deve trascurarsi che, sempre ai sensi del contenuto di cui agli artt. 20 TFUE e 9 TUE,
la discrezionalità in ordine all’individuazione di coloro da considerarsi cittadini sia da considerarsi prerogativa esclusiva degli Stati membri, con ciò fugando qualunque residuo dubbio in ordine ad una presunta
legittimazione dell’UE in tale direzione: le disposizioni da ultimo richiamate, infatti, secondo la novella del
trattato di Lisbona, oltre a quanto già in precedenza richiamato, stabiliscono che «la cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima». Al riguardo, e volutamente
tralasciando ogni commento in merito alla discutibile inutile duplicazione del disposto di cui alle due norme
appena citate, è utile specificare come la statuizione testé richiamata in realtà confermi la precarietà dell’istituto in questione proprio attraverso il rinvio alla competenza statale in materia, e dunque il proprio carattere eteronomo ed indiscutibilmente derivato. E, compiendo un passo indietro, ciò, a ben ragionare, non
potrebbe essere diversamente, atteso il carattere non certo originario e le peculiarità dell’attuale impianto
ordinamentale europeo che, sorto sulla base della spontanea iniziativa statale al fine specifico della gestione comune di determinate materie, ed ancora contraddistinto dal mancato compimento di ogni velleità
federalista, perdura nella propria anomala condizione di ibrido organismo interstatale e transnazionale; in
altri termini, ed anche con specifico riferimento all’istituto della cittadinanza europea, «Che piaccia o meno,
l’Unione europea non è uno Stato. La Comunità europea è più che una mera area di libero scambio, più che
una semplice unione doganale, più di un mercato comune con le sue quattro libertà ed il suo principio di
non discriminazione in ragione della nazionalità. Esiste una forma di cittadinanza dell’Unione — conseguente all’entrata in vigore del trattato di Maastricht — ma questa non trasforma l’Unione o la Comunità europea in uno Stato: l’esercizio delle loro competenze è sempre stato assoggettato innanzitutto al principio di
attribuzione, così coma accade in tutte le organizzazioni intergovernative, ivi compresa l’Organizzazione
delle Nazioni Unite. I trattati che istituiscono la Comunità europea e sull’Unione europea non stabiliscono
alcuna competenza in materia di attribuzione della nazionalità (…) «L’Unione europea non è uno Stato:
essa non ha popolazione — le sue istituzioni non hanno alcuna competenza per attribuire la cittadinanza,
che deriva automaticamente da una decisione dei suoi Stati membri e che essa non può contestare — né
territorio: le istituzioni dell’Unione non hanno alcun titolo per ammettere un cittadino proveniente da uno
Stato terzo nel territorio dell’Unione — più correttamente nel territorio dei suoi Stati membri — né tantomeno per rifiutargli l’accesso o per procedere all’espulsione« (473).
Tutto ciò premesso, l’affermazione in forza della quale «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad
essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri», che, come già specificato, la CGUE non ha
mancato in più di un’occasione di ribadire, in realtà non pare potersi condividere, e ciò proprio in ragione
della carenza genetica caratterizzante l’istituto della cittadinanza europea nei termini appena descritti;
in altri termini, considerato che la categoria in questione nasce come inevitabilmente contraddistinta da
strutturali quanto insuperabili elementi di precarietà, come accennato direttamente riconducibili al carattere derivato non semplicemente proprio ma dell’ordinamento europeo genericamente inteso, individuare
nella stessa l’appiglio ideologico-normativo su cui fondare la posizione del cittadino europeo, per tal via
specificamente rafforzata e garantita, secondo i giudici lussemburghesi, da un plus di diritti e vantaggi,
sembra rappresentare un’insanabile contraddizione, e prima ancora un nonsenso giuridico ben difficilmente superabile.
Cioè, che un apparato ordinamentale ancora alla ricerca di sé quale quello caratterizzante l’architettura
istituzionale e normativa del Vecchio Continente sia però già titolare di un sufficiente grado di sovrana legittimazione tanto che la posizione dei cittadini appartenenti a suoi Stati membri, solo perché tali, vedano
significamente arricchita la propria condizione rappresenta una tesi che lascia spazio a più di una perplessità, e ciò anche considerato che allo stato attuale non è ancora del tutto chiaro in cosa consista quel «nucleo
essenziale di diritti» direttamente riconducibile, nell’opinione della Corte, allo status di cittadino europeo,
 
 
(472)
(473)
Al riguardo cfr., tra gli altri, Valvo, Lineamenti di diritto dell’Unione europea, Amon, 2011, pag. 102.
Così Ziller, Il diritto di soggiorno e di libera circolazione nell’Unione europea, alla luce della giurisprudenza e del trattato di Lisbona, in Diritto
amministrativo, 4, 2008, pagg. 946 e 957.
146
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come già indicato più volte dalla stessa richiamato con riferimento al mancato o meno godimento reale ed
effettivo dei medesimi. A tal ultimo riguardo, infatti, appare tutt’ora oscuro se i diritti cui la CGUE fa riferimento in occasione delle sentenze innanzi richiamate siano riconducibili ai trattati o (anche) alla Carta dei
diritti fondamentali, e dunque alla convenzione europea per i diritti dell’uomo: se ci sofferma, ad esempio,
sul contenuto delle sentenze Dereci e McCarthy, infatti, il dubbio che i diritti in essa richiamati non coincidano con quelli di cui alla Carta di Nizza è suffragato dal doppio binario argomentativo seguito in tale sede
dalla Corte. In particolare, «Colpisce che la Corte nell’esplicazione del proprio ragionamento abbia ritenuto
di mantenere separate le due prospettive di analisi, fondate l’una sulle norme del trattato in materia di
cittadinanza dell’Unione e l’altra sul diritto al rispetto della vita privata e familiare. Quest’ultimo — come la
maggior parte dei diritti contenuti nella Carta — è affermato in termini generali, rispetto a tutte le persone,
ma ciò non dovrebbe escludere la possibilità di utilizzarlo nel contesto della riflessione sui contenuti della
cittadinanza europea. I diritti connessi allo status di cittadino europeo sarebbero dunque diversi dai diritti
fondamentali che l’Unione ha riconosciuto con la scrittura della Carta di Nizza come espressione della propria identità (costituzionale)? Questa domanda — a mio parere — riveste oggi, dopo l’entrata in vigore del
trattato di Lisbona, un ruolo essenziale per comprendere il significato della formula utilizzata dalla Corte di
giustizia secondo cui “lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei
cittadini degli Stati membri”. Le sentenze McCarthy e Dereci e al., pur mettendo al centro la cittadinanza
europea, sembrano ancora legate nella definizione dei suoi contenuti ai diritti espressamente riconosciuti
nei trattati e in particolare alla libertà di circolazione e soggiorno. Non solo, nel momento in cui prende
in considerazione i diritti fondamentali la Corte appare interessata soprattutto a circoscriverne la portata,
insistendo sulle limitazioni poste dall’art. 51 all’efficacia della Carta. In forza di tale previsione, come è noto,
le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri solo nell’ambito dell’attuazione del diritto dell’Unione e, in ogni caso, non incidono sulle competenze dell’Unione, né estendono l’applicazione del diritto
europeo al di là di tali ambiti materiali» (474).
D’altra parte, è da aggiungere come l’utilizzo di formule dal contenuto vago ed indefinito non rappresenti
certamente una novità nel lessico delle Istituzioni europee: anche il linguaggio del legislatore di Bruxelles,
ad esempio, si contraddistingue sovente per il ricorso a espressioni contornate da una non indifferente
aura d’incertezza, senza oltretutto indicare criteri di sorta ai fini dell’individuazione dell’esatto significato
da attribuire alla lettera delle stesse. Tuttavia, il dubbio, peraltro già in altre sedi sollevato (475), è che in casi
quali quello in esame l’incertezza ermeneutica rappresenti il fine ultimo perseguito dalla normativa europea, specificamente all’interno di una prospettiva di evidente favor per l’apparato ordinamentale europeo
nei confronti dei singoli Stati nazionali, e che dunque il rifarsi ad espressioni ondivaghe ed eccessivamente
generiche non costituisca di certo un accidente o una causalità all’interno dello stesso.
In altri termini, esiste il sospetto che l’estrema aleatorietà che non di rado, come detto, caratterizza anche
il contenuto di disposizioni dei trattati rappresenti l’esito di una precisa strategia volta a riempire di significato una determinata formula normativa a seconda delle necessità del singolo frangente e, quindi, della
«convenienza» del legislatore e dell’interprete dell’Unione al fine specifico di riaffermare costantemente
la presunta posizione di preponderanza dell’ordinamento UE nei confronti dei singoli apparati statali allo
stesso appartenenti.
Non di rado, tuttavia, e non potrebbe essere diversamente, una diretta conseguenza riconducibile alla
sostanziale prassi appena accennata consiste nell’emersione di veri e propri impasse interpretativi difficilmente superabili, fonti più di ulteriori dubbi che di esaustive risposte. Un riflesso piuttosto immediato
di quanto testé sostenuto, anche per la prossimità di senso e contenuti con l’oggetto del presente studio,
sembra essere rappresentato dalla (in)felice perifrasi delle «tradizioni costituzionali comuni» che, come
noto, il punto 3 dell’art. 6 TUE richiama con riguardo all’appartenenza al diritto UE dei diritti fondamentali
come principi generali («I diritti fondamentali, garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali») e che ha con ogni probabilità costituito il principale, se non unico, riferimento letterale da cui i giudici lussemburghesi hanno tratto ispirazione
proprio ai fini della statuizione con riguardo all’innanzi richiamato supposto «nucleo essenziale di diritti».
Al riguardo, innanzitutto non è dato capire in cosa consistano tali famigerate tradizioni costituzionali comuni, ma prima ancora ci si chiede se la comunanza debba necessariamente riguardare tutti gli Stati
facenti parte dell’Unione europea o, considerato l’ormai non indifferente numero di membri della stessa,
quelli dotati di maggior peso politico all’interno dell’UE. Ma in tale secondo, e certamente più realistico
caso, si finirebbe, però, per tracciare un’inevitabile gerarchia di fatto tra gli Stati stessi, conseguentemente
 
 
(474)
(475)
Così, Montanari, Quali diritti per i cittadini europei: la complessa definizione dei contenuti della cittadinanza europea tra interventi della
Corte di Giustizia e ruolo dei giudici nazionali, in www.diritticomparati.it.
Sia consentito rimandare a Tomaselli, Corte di Giustizia, primato del diritto e direttive dell’Unione europea, Roma, 2012.
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Articolo 45 - Libertà di circolazione e di soggiorno
integrante anche gli estremi di una seppur indiretta forma di discriminazione ordinamentale, oltretutto
all’interno di un contesto astrattamente ispirato ad uguaglianza e parità di diritti quale quello afferente al
contesto dei diritti fondamentali (476). Se poi ai fini in esame si decidesse di richiamare l’art. 2 dello stesso
TUE, secondo la cui lettera «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata
dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra
donne e uomini», gli ostacoli alla soluzione dei dubbi ermeneutico — logistici di cui sopra aumenterebbero,
e ciò specificamente in considerazione dell’appartenenza all’Unione europea anche di Stati perfino costituzionalmente improntati a principi ed ideali in assoluta antitesi con quanto contenuto proprio nel disposto da
ultimo richiamato: esemplificativo in tal ultimo senso il caso della Costituzione Ungherese, sostanzialmente
del tutto indifferente alla tematica dei diritti fondamentali ed ispirata ad un pericoloso estremo nazionalismo (477).
Insomma, il disinvolto ricorso ad espressioni dal significato estremamente variabile da parte delle Istituzioni europee sembra potersi intendere come la diretta ricaduta in termini di diritto positivo dell’obiettivo
ultimo dalle stesse perseguito, segnatamente consistente in un sempre maggiore rafforzamento dell’ordinamento UE nei confronti dei singoli apparati statali dello stesso facenti parte, in ultima analisi rispondente
quindi a logiche essenzialmente politiche, contestualmente ed inevitabilmente generanti tuttavia ulteriori
interrogativi ermeneutico — applicativi.
Al di la di quanto appena indicato con specifico riguardo al momento interpretativo, sembra comunque fuor
di dubbio che le pronunce della CGUE non di rado esulino i confini della logica strettamente giuridica, al contrario ispirandosi a ragioni strategico — politiche in ottica di continua legittimazione dell’ordinamento europeo, ma facilmente incappando in vere e proprie violazioni dei trattati (ad esempio, l’avallo prestato alle
direttive c.d. auto applicative) o nella costruzione di quanto meno ardite tesi prive di un reale fondamento
logico e giuridico (una su tutte, la teoria del primato del diritto UE nei confronti dei singoli ordinamenti
nazionali (478))$$$. Ed operazione sostanzialmente analoga pare compiuta dalla Corte anche con riferimento
alla cittadinanza europea, astrattamente priva, come accennato, di quei caratteri necessari al fine di un’autentica configurazione come categoria giuridica tout court, ma artificiosamente riempita di significato dalla
originale giurisprudenza lussemburghese in combutta, affannosa e confusa, con il «temerario» legislatore
di Bruxelles: la configurazione in un primo tempo, cioè, della cittadinanza come un istituto apparentemente
contraddistinto, al pari delle singole cittadinanze nazionali, di un sufficiente grado di legittimazione ed autonomia al fine specifico del riconoscimento di determinati diritti, successivamente completata attraverso
lo svelamento dell’asserita propria reale natura di status fondamentale di cui il cittadino europeo sarebbe titolare, pare anch’essa rispondere più alle accennate ragioni di matrice (auto) legittimante da parte
dell’ordinamento europeo che fondarsi su rationes di puro diritto, giungendo oltretutto per tal via ad una
sfrontata ed incontestabile sostanziale violazione del principio di attribuzione.
E le pronunce in precedenza sommariamente richiamate sembrano potersi pienamente inserire all’interno
della prospettiva appena indicata: già in occasione della citata sentenza Micheletti, infatti, la Corte non
ha perso l’occasione di sancire il principio in forza del quale l’attribuzione ad un individuo della cittadinanza non può essere messa in discussione da un altro Stato membro, che anzi dovrà adeguare il proprio
concetto di cittadinanza in chiave «comunitaria», e ciò proprio al fine di sancire la preminenza del diritto
dell’Unione in tale materia, limitando la discrezionalità tradizionalmente ascrivibile ad una delle possibili
forme di estrinsecazione della sovranità statale. Concetto, quest’ultimo, sostanzialmente ribadito anche
con riguardo al caso Garcìa Avello ed in quelli più recenti Rottmann, Zambrano, Dereci e McCarthy, ove
la CGUE non ha mancato si ribadire come gli Stati membri, anche nell’esercizio delle proprie competenze
esclusive, devono pur sempre rispettare il diritto dell’Unione, invocabile, sempre a detta della Corte, da
parte dei cittadini europei anche qualora la materia interessata o la prestazione richiesta non siano dallo
stesso disciplinate («In altri termini, pur se la perdita della cittadinanza europea non costituisce tout court
un limite alla perdita della cittadinanza di uno Stato membro, la Corte ha aperto le porte al possibile verificarsi di ipotesi in cui a cittadinanza dell’Unione è in grado di limitare in tal senso il potere discrezionale
degli Stati membri di determinare le condizioni per l’acquisto e la perdita della cittadinanza nazionale» (479)),
arrivando perfino a vincolare l’azione del giudice nazionale al rispetto dei principi generali del diritto dell’U 
 
 
 
(476)
(477)
(478)
(479)
Né ai fini indicati pare potere soccorrere il ricorso al principio maggioritario, atteso che anche per tal via sembra inevitabile giungere ad
una distinzione classificatoria tra diversi apparati statali.
Al riguardo, cfr. tra gli altri Vecchio, Teorie costituzionali alla prova. La nuova Costituzione ungherese come metafora della crisi del
costituzionalismo europeo, Padova, 2012.
A tal proposito, cfr. ad esempio Aguilar Calahorro, La primacía del derecho europeo y su invocación frente a los Estados: una reflexión sobre
la constitucionalización de Europa, in KorEuropa, 2012, 1, http://www.unikore.it/index.php/home-koreuropa.
Così ancora De Pasquale, op cit., pag. 473.
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nione europea anche con riguardo al momento della revoca della cittadinanza acquisita in modo fraudolento (sentenza Rottmann), in ultima analisi giungendo ad anteporre quindi il diritto UE anche alla singola
legislazione penale nazionale.
Articolo 46 - Tutela diplomatica e consolare
149
Centro di Documentazione e Ricerche sull’Unione europea
Università di Modena e Reggio Emilia
Articolo 46
Tutela diplomatica e consolare
Articolo 46
Ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di
cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di
qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato.
La protezione diplomatica e consolare dei cittadini UE
di Stefano Silingardi
(480)
 
Origini storiche
Il diritto alla tutela diplomatica e consolare, cui si riferisce l’articolo 46 della Carta dei diritti fondamentali,
rientra nel ristretto gruppo dei diritti «classici» legati alla cittadinanza europea, assieme a quello di libera
circolazione e soggiorno e ai diritti politici di elettorato attivo e passivo (481). Le origini storiche di questo
gruppo di diritti risalgono alla proposta su «un’Europa dei cittadini» trasmessa dal Comitato Adonnino al
Consiglio il 20 giugno del 1985. Per quanto riguarda la tutela diplomatica e consolare, nel 1985 le ambasciate e gli uffici consolari degli allora dieci Stati membri delle Comunità europee erano difatti rappresentati
soltanto in limitate aree geografiche del globo (482), per cui, anche da un punto di vista pratico, la proposta
del Comitato Adonnino intendeva predisporre una forma di protezione effettiva per i cittadini europei,
creando diritti speciali che rafforzassero l’identità degli stessi davanti al resto della comunità internazionale (483).
La proposta rimase tuttavia congelata per vari anni, conoscendo un suo espresso riconoscimento soltanto
all’interno del trattato di Maastricht del 1992, il cui articolo 8C recita, in maniera non dissimile dal contenuto
dell’articolo 46 della Carta, che: «Ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un paese terzo nel quale
lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato» (484).
A seguito della revisione apportata dalla conferenza intergovernativa di Amsterdam del 1997, questa disposizione ha mantenuto inalterato il suo contenuto e si è trasformata nell’articolo 20 del trattato che
istituisce la Comunità europea (TCE) (485).
Sia l’articolo 8C, sia l’articolo 20 TCE si chiudevano però con una disposizione che imponeva agli Stati membri di stabilire tra loro le disposizioni necessarie e avviare i negoziati internazionali richiesti per garantire
detta tutela (486). L’articolo 46 della Carta non ha replicato quest’ultima parte della disposizione, aprendo
così la strada a quella che sarà la formulazione del diritto di assistenza diplomatica e consolare all’interno
 
 
 
 
 
 
Docente a contratto dell’Università di Modena e Reggio Emilia
Cfr. Commentary of the Charter of Fundamental Rigths of the European Union, Giugno 2006, pag. 356, disponiible nel sito web: http://
ec.europa.eu/justice/fundamental-rights/files/networkcommentaryfinal_en.pdf.
(482)
Cfr. Ianniello Saliceti, The Protection of EU Citizens Abroad: Accountability, Rule of Law, Role of Consular and Diplomatic Services, in
European Public Law (17), 2011, pag. 92.
(483)
Cfr. A People’s Europe, Reports from the ad hoc Committee, Boll. CE Suppl. 7/85, pag. 21, disponibile nel sito web: http://aei.pitt.edu/992/.
Sul punto, in dottrina cfr. Shaw, Citizenship of the Union: Towards Post-National Membership, in Collected Courses of the Academy of
European Law (vol. VI, book 1), The Hague, 1998, pag. 280.
(484)
Trattato sull’Unione europea, Gazzetta ufficiale n. C 191 del 29 luglio 1992.
(485)
Versione consolidata del trattato sull’Unione europea, Gazzetta ufficiale n. C 340 del 10 novembre 1997.
(486)
Nel caso del trattato di Maastricht, era inoltre indicato il termine («Entro il 31 dicembre 1993») entro il quale gli Stati membri avrebbero
dovuto svolgere tali attività.
(480)
(481)
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dell’articolo 20, paragrafo 2, lettera c, e dall’articolo 23 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE).
Il valore giuridico del diritto sancito nell’articolo 46 della Carta
Da un’interpretazione strettamente letterale del testo dell’articolo 46 della Carta discendono due considerazioni di carattere preliminare.
La prima riguarda l’ambito di applicazione ratione personarum. La platea dei soggetti cui tale articolo si
riferisce non coincide, infatti, con tutti i titolari della cittadinanza europea, ma è limitata a quei soli cittadini europei i cui Stati nazionali non hanno rappresentanze diplomatiche o consolari nello Stato terzo (487).
Sotto questo punto di vista, la recente proposta di direttiva del Consiglio sulla tutela consolare dei cittadini
dell’Unione all’estero, del 14 dicembre 2011, fornisce importanti precisazioni. La proposta indica, infatti,
che il cittadino dell’Unione si considera non rappresentato se lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non
ha un’ambasciata o un consolato accessibili in un paese terzo (488). Il concetto di accessibilità viene definito
nell’articolo 3, paragrafo 2, nel senso che il cittadino dell’Unione «deve quanto meno poter raggiungere
l’ambasciata o il consolato e ritornare nel luogo di partenza lo stesso giorno, utilizzando i mezzi di trasporto comunemente usati nel paese terzo, a meno che l’urgenza del caso richieda un’assistenza più rapida.
L’ambasciata e il consolato — prosegue l’articolo — non sono accessibili se temporaneamente non sono
in grado di garantire una tutela efficace, in particolare in caso di chiusura temporanea a seguito di una
crisi» (489). Infine, il paragrafo 3 del medesimo articolo si preoccupa di affrontare la figura del console onorario, il quale viene assimilato all’ambasciata o al consolato accessibile «nei limiti delle sue competenze,
conformemente alle normative e pratiche nazionali».
 
 
 
La seconda considerazione concerne la terminologia utilizzata all’interno dell’articolo 46. Come opportunamente sottolineato da parte della dottrina, l’articolo 46, a differenza di altre disposizioni della Carta, non
utilizza infatti il termine «diritto», ma si riferisce al concetto di tutela declinato nelle sue diverse formulazioni linguistiche (es. bénéficie/geniessen/entitled) (490). Ciò però non toglie, come osservato dalla stessa
Commissione, che da un punto di vista giuridico quello alla tutela diplomatica e consolare debba oggi
essere considerato come uno dei diritti specifici garantiti dalla cittadinanza europea, nel quale si esprime
la solidarietà a livello dell’Unione e l’identità dell’Unione nei paesi terzi, nonché i vantaggi pratici derivanti
dalla cittadinanza europea (491).
 
 
Tenuto conto della sua formulazione all’interno degli articoli 20, paragrafo 2, lett. c, e 23 del TFUE, si tratterebbe inoltre di un diritto dal quale senz’altro discendono effetti diretti: sia perché esso fissa obblighi
sufficientemente chiari e precisi nei confronti degli Stati membri, sia per effetto dell’inciso («alle stesse
condizioni dei cittadini di detto Stato») che richiama il principio di non discriminazione sulla base della
nazionalità del cittadino europeo che fa richiesta di assistenza (492). Infine, a differenza di quanto avveniva
nel caso dell’articolo 8C del trattato di Maastricht e in quello dell’articolo 20 del TCE, l’obbligo di rispettare
tale diritto non è, nel quadro normativo del trattato di Lisbona, subordinato allo spirare di una scadenza.
 
Dal fatto che con il trattato di Lisbona la Carta abbia assunto valore di strumento giuridico vincolante al
pari dei trattati (493), deriva poi una serie di importanti conseguenze giuridiche circa il valore che a tale diritto
potrà essere riconosciuto in futuro.
Innanzi tutto, il fatto che sul piano formale e della gerarchia delle fonti le sue disposizioni siano messe sullo
 
(487)
(488)
(489)
(490)
(491)
(492)
(493)
Dal beneficio di questo diritto sono inoltre escluse le persone morali, a differenza di quanto avviene, per esempio, all’interno della
convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari (cfr. articolo 5, lett. g). Sul punto, cfr. Poirat, Comment on Art 46 of the EU Charter,
in Traité etablissant une Constitution pour l’Europe, Commentaire article par article (a cura di Burgogne-Larsen, Levade, Picod), vol. 2,
Bruxelles, 2005, pag. 582.
Cfr. Proposta di direttiva del Consiglio sulla tutela consolare dei cittadini dell’Unione all’estero, Bruxelles, 14 dicembre 2011, COM(2011) 881
definitivo, considerando 8, pag. 11. A tal riguardo, il Progetto di risoluzione legislativa del parlamento europeo sulla proposta di direttiva
del Consiglio sulla tutela consolare dei cittadini dell’Unione all’estero ((COM(2011)0881 — C7-0017/2012 — 2011/0432(CNS) ha proposto
l’adozione di un emendamento al considerando 8 nel senso di aggiungere che il cittadino dell’Unione si considera non rappresentato anche
qualora «l’accesso all’ambasciata o al consolato comporterebbe per il cittadino di un dato Stato membro un uso non necessario di tempo
prezioso e risorse finanziarie in casi di emergenza».
Cfr. COM(2011) 881 definitivo, p.15.
Touzé, Aspects récents (et choisis) de la protection consulaire des citoyens de l’Union européenne, in Revue des affaires européennes
(2011, vol. 1), pag. 83.
Cfr. COM(2011) 881 definitivo, pag. 2. In dottrina, cfr. Moraru, Protection of EU citizens abroad: A legal assessment of the EU citizen’s right
to consular and diplomatic protection, in Perspectives on Federalism (vol.3, issue 2), 2011, pag. 75.
Al riguardo, cfr. Vigni, Diplomatic and Consular Protection in EU Law: Misleading Combination or Creative Solution?, EUI LAW Working Paper
2010/2011, 1 giugno 2010, pag. 8, disponibile nel sito web: http://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/14354/LAW_2010_11.pdf.
Ciò significa che il suo ruolo non sarà più limitato, come avveniva in passato, ad un semplice utilizzo quale strumento interpretativo
privilegiato per riconoscere la portata dei diritti fondamentali protetti nell’ambito dell’ordinamento UE. Sul punto, cfr. Daniele, Diritto
dell’Unione europea, 4 ed., Milano, 2010, pag. 178.
Articolo 46 - Tutela diplomatica e consolare
151
stesso piano delle altre fonti di diritto primario significa che esse potranno essere utilizzate per inquadrare
il contenuto dei diritti sanciti dai trattati. Da ciò consegue che ogni decisione assunta dalle autorità degli
Stati membri in ordine ad una richiesta di assistenza diplomatica e consolare da parte dei cittadini europei
non rappresentati potrebbe essere oggetto di revisione da parte dei giudici nazionali al fine di garantire
tutela effettiva ad un diritto sancito dal diritto UE (494).
In secondo luogo, il nuovo valore giuridico della Carta apre un importante spazio di intervento per la Corte
di giustizia dell’Unione europea qualora si tratti di decidere su questioni inerenti all’interpretazione e all’applicazione di tale disposizione (495). In particolar modo, implica per gli Stati membri la possibilità di presentare
un ricorso per infrazione e per gli individui di far valere la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni
(oppure degli Stati membri, limitatamente a quelle sfere di attività che ricadono sotto l’ambito di applicazione del diritto dell’UE).
In terzo luogo, il riconoscimento come diritto fondamentale all’interno della Carta fa sì che eventuali limitazioni all’esercizio della tutela consolare e diplomatica da parte dei cittadini europei non rappresentati
possano essere ammesse solo ed esclusivamente nel rispetto delle condizioni fissate nell’articolo 52 della
Carta (496): vale a dire, qualora esse siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di detti
diritti e libertà, qualora rispettino il principio di proporzionalità, e, infine, nel caso in cui siano necessarie e
rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
Il contenuto del diritto all’assistenza diplomatica e consolare
La Carta dei diritti fondamentali si limita a sancire il diritto all’assistenza diplomatica e consolare, senza
preoccuparsi di definirne al meglio il contenuto. Una più precisa definizione del contenuto di tale diritto non
può essere rintracciata neppure all’interno delle fonti di diritto derivato dell’UE, dato che fin dall’epoca del
trattato di Maastricht le istituzioni comunitarie hanno dimostrato scarsa attenzione per questa materia. Al
riguardo, è sufficiente notare che la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di protezione consolare
e diplomatica è nulla; mentre l’acquis è molto limitato. Fino all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, esso
comprendeva, infatti, soltanto due decisioni adottate dai rappresentanti dei governi degli Stati membri (497).
Si tratta della decisione 96/409/PESC relativa all’istituzione di un documento di viaggio provvisorio e la
decisione 95/553/CE riguardante la tutela dei cittadini dell’Unione europea da parte delle rappresentanze
diplomatiche e consolari, il cui contenuto è risultato alquanto insoddisfacente e che è entrata in vigore
soltanto nel maggio 2002 a causa del ritardo con il quale gli Stati membri hanno risposto alle gravose procedure amministrative richieste per la sua adozione (498).
Questa scarsa attenzione dimostrata dalle istituzioni ha avuto ripercussioni, innanzi tutto, sulla percezione
di questa materia presso la cittadinanza europea (499), e si è inoltre accompagnata ad un periodo nel quale,
a causa soprattutto dei successivi allargamenti, la presenza di rappresentanze consolari e diplomatiche
degli Stati membri presso i Paesi terzi è, nel suo complesso, sensibilmente diminuita. Nel piano d’azione
2007-2009, il dato riportato è quello secondo cui tutti gli (allora 27) Stati membri erano rappresentati solo
in tre paesi terzi: nella Repubblica popolare cinese, nella Federazione russa e negli Stati Uniti d’America. A
ciò, si aggiunge che vi sono 18 paesi in cui non è rappresentato nessuno Stato membro, 17 paesi in cui è
rappresentato un solo Stato membro e 11 paesi in cui ne sono rappresentati due (500). A fronte di questo dato,
si stima che il numero di cittadini dell’UE non rappresentati che viaggiano ogni anno all’estero sia almeno di
7 milioni, e che è di circa 2 milioni il numero degli espatriati che vivono in un paese terzo in cui il loro Stato
 
 
 
 
 
 
 
(494)
(495)
(496)
(497)
(498)
(499)
(500)
Cfr. Battini, The Impact of EU Law and Globalization on Consular Assistance and Diplomatic Protection, in Global Administrative Law and EU
Administrative Law (a cura di Chiti e Mattarella), Berlino, 2011, pag. 179.
Cfr. Wouters, Duquet, Meuwissen, The European Union and Consular Law, Leuven Centre for Global Governance Studies, Working Paper No.
107, giugno 2013, pag. 7, disponibile nel sito web: https://ghum.kuleuven.be/ggs/publications/working_papers/new_series/wp101-110/
wp107-wouters-duquetmeuwiss en-sd.pdf.
Cfr. Moraru, cit. pag. 80.
A queste, si possono aggiungere una serie di linee guida non vincolanti stilate dagli Stati membri in sede di Consiglio con lo scopo di fornire
un quadro per la cooperazione consolare, soprattutto nelle situazioni in cui la sicurezza dei cittadini dell’UE è minacciata in un paese terzo.
Cfr. Consiglio dell’Unione europea, Linee direttrici in materia di tutela consolare dei cittadini dell’UE nei paesi terzi (10109/06), Bruxelles, 2
giugno 2006.
Cfr. decisione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, del 19 dicembre 1995, riguardante la tutela dei
cittadini dell’Unione europea da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari, (95/553/CE), Gazzetta ufficiale n. L 314 del 28
dicembre 1995, pagg. 73-76. L’articolo 8 stabiliva, infatti, che la decisione sarebbe entrata in vigore soltanto quando tutti gli Stati membri
avessero notificato al segretariato generale del Consiglio il completamento delle procedure richieste dal loro ordinamento giuridico per
l’applicazione della presente decisione».
Un’indagine Eurobarometro del 2006 ha, ad esempio, mostrato che solo il 23% delle persone intervistate era al corrente delle possibilità
offerte dall’articolo 20 TCE. Cfr. Flash Eurobarometer No. 118, Consular Protection — Analytical Report, Luglio 2006, pag. 9, disponibile nel
sito web: http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl188_en.pdf. Una successiva indagine, cfr. Flash Eurobarometer No. 294, European
Union Citizenship — Analytical Report, Marzo 2010, pag. 33, ha poi evidenziato come nonostante la tutela consolare concessa vari da uno
Stato membro all’altro, la maggioranza dei cittadini dell’UE (62%), si aspetta di ricevere la medesima assistenza a prescindere dallo Stato
membro cui si rivolge, e un terzo (28%) si aspetta che tutti gli Stati membri prestino un minimo di assistenza.
Cfr. COM(2007) 767 definitivo, pag. 3. Tra i paesi privi di rappresentanze diplomatiche e consolari, o con esiguo numero, molti sono popolari
mete turistiche per i cittadini dell’Unione. Nella comunicazione, si stima in particolare che l’8,7% dei cittadini dell’Unione europea che
viaggiano al di fuori dell’UE si rechino in paesi terzi in cui il loro Stato membro non ha una rappresentanza consolare o diplomatica.
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membro non è rappresentato (501).
Dal punto di vista giuridico, un primo sintomo della scarsa attenzione delle istituzioni verso il diritto di assistenza consolare e diplomatica è legato alla confusione circa la stessa portata della protezione da offrire.
Sia nel testo dell’articolo 46, sia in quello dell’articolo 23 del TFUE, come pure nelle precedenti formulazioni
di detto diritto all’interno del trattato di Maastricht e del TCE, il riferimento è, infatti, sia alla protezione
diplomatica, sia a quella consolare. Invece, le (sia pur limitate) fonti di diritto derivato (come la decisione
96/409/PESC e la decisione 95/553/CE) trattano esclusivamente della protezione consolare. Lo stesso
avviene nelle linee guida elaborate dal Consiglio dell’Unione nel 2006 (502), nel piano d’azione 2007-2009
«Per un’efficace tutela consolare nei paesi terzi» elaborato dalla Commissione (503), nella comunicazione
della Commissione al parlamento europeo e al Consiglio del 2011 (504), e, infine, nella più recente proposta
di direttiva del Consiglio del 14 dicembre 2011, che appunto si limita alla sola tutela consolare dei cittadini
dell’Unione all’estero (505).
Da un punto di vista pratico, secondo il diritto internazionale esistono differenze chiare ed evidenti tra le
due forme di assistenza. Mentre la prima riflette un interesse prettamente politico dello Stato di nazionalità dello straniero danneggiato e comporta un suo intervento del tutto discrezionale volto a far valere la
responsabilità internazionale di uno Stato che ha violato le norme applicabili al trattamento degli stranieri,
la protezione consolare viene invece esercitata in nome e per conto degli interessi del cittadino che si trova
in territorio straniero ed è dunque una forma di assistenza che coinvolge in modo più stretto la relazione
tra uno Stato e i suoi cittadini. Detto altrimenti, mentre la natura della protezione diplomatica è di tipo
politico e internazionale, quella della protezione consolare è essenzialmente amministrativa (506), dal che
se ne deduce che tutti gli atti e le decisioni adottate in questo secondo caso sono di norma sottoponibili a
controllo giurisdizionale (507).
Alla luce di queste differenze è dunque comprensibile il motivo per il quale l’Unione europea, nello sviluppare il tema della cittadinanza europea, abbia preferito porre l’accento sulla dimensione della protezione
consolare anziché su quella della protezione diplomatica. Si è così osservato, da parte della dottrina, che
probabilmente l’espressione impiegata all’interno dell’articolo 46 della Carta e dell’articolo 23 del TFUE
valga a significare una forma di protezione soltanto consolare che può però essere resa sia dalle autorità
consolari, sia da quelle diplomatiche (508).
 
 
 
 
 
 
 
 
Il tentativo di definizione del contenuto del diritto nella proposta di direttiva del Consiglio
Con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona vengono finalmente chiarite le basi giuridiche per la legislazione UE nell’ambito dell’assistenza consolare e diplomatica. Il trattato di Lisbona abbandona, infatti, la
logica previgente del processo decisionale intergovernativo sui generis, secondo il quale gli Stati erano
tenuti a stabilire tra loro le disposizioni necessarie, e attribuisce alla Commissione il diritto di iniziativa legislativa, ossia di proporre direttive che stabiliscono le misure di coordinamento e cooperazione necessarie
per facilitare tale tutela. Il paragrafo 2 dell’articolo 23 TFUE prevede, infatti, che il Consiglio, deliberando
secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, potrà adottare
direttive che stabiliscono le misure di coordinamento e cooperazione necessarie per facilitare tale tutela.
Come ulteriore segnale della rinnovata forza impressa a tale materia dal trattato di Lisbona, è utile evidenziare che l’articolo 35, paragrafo 3, del TUE, impone non soltanto alle missioni diplomatiche e consolari
degli Stati membri, ma anche alle delegazioni dell’Unione nei paesi terzi e nelle conferenze internazionali,
nonché alle loro rappresentanze presso le organizzazioni, l’obbligo di contribuire «all’attuazione del diritto
di tutela dei cittadini dell’Unione nel territorio dei paesi terzi … e delle misure adottate in applicazione
dell’articolo 23 di detto trattato» (509).
Il primo frutto del potere di iniziativa legislativa attribuito alla Commissione è costituito dall’elaborazione
 
(501)
(502)
(503)
(504)
(505)
(506)
(507)
(508)
(509)
COM(2007) 767 definitivo, pag. 3.
Cit. supra, nota 17.
Cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle
regioni, «Per un’efficace tutela consolare nei paesi terzi: il contributo dell’Unione europea», piano d’azione 2007-2009, COM(2007) 767
definitivo, Bruxelles, 5 dicembre 2007
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Tutela consolare dei cittadini dell’Unione nei paesi terzi, Bilancio
e prospettive, COM(2011) 149 definitivo, Bruxelles, 23 marzo 2011.
COM(2011) 881 definitivo.
Cfr. Wouters, Duquet, Meuwissen, cit., pag. 4 e 14.
Al riguardo, cfr. CARE Project, Consular and Diplomatic Protection, Legal Framework in the EU Member States, Dicembre 2010, pag. 28.
Cfr. Wouters, Duquet, Meuwissen, cit., pag. 4.
Al riguardo, cfr. anche la decisione del Consiglio del 26 luglio 2010 che fissa l’organizzazione e il funzionamento del servizio europeo per
l’azione esterna (2010/427/UE), Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 201/30 del 3 agosto 2010, articolo 5, paragrafo 10, secondo il quale:
«Le delegazioni dell’Unione, che agiscono conformemente all’articolo 35, terzo comma, TUE e su richiesta degli Stati membri, assistono gli
Stati membri nelle loro relazioni diplomatiche e nella loro funzione di protezione consolare dei cittadini dell’Unione nei paesi terzi su base
neutra dal punto di vista delle risorse».
Articolo 46 - Tutela diplomatica e consolare
153
di proposta di direttiva del Consiglio del 14 dicembre 2011 sulla tutela consolare dei cittadini dell’Unione
all’estero, la quale, in considerazione del quadro giuridico istituito dal trattato di Lisbona, intende sostituire
la decisione sui generis 95/553/CE. La proposta interviene su vari punti del diritto di assistenza consolare,
colmando alcune lacune lasciate dalla disciplina previgente, chiarendo il significato preciso di alcuni concetti chiave per un’efficace assistenza nei confronti dei cittadini (come ad esempio il concetto di «accessibilità» degli uffici diplomatici e consolari, cfr. supra pag. 2), e individuando alcuni punti di impatto sui diritti
fondamentali.
In primo luogo, la proposta di direttiva prende in considerazione sia l’ipotesi della tutela consolare locale
nella vita quotidiana (ad esempio in caso di arresto o detenzione, in caso di incidente o malattia grave, o
ancora qualora il richiedente sia vittima di reato, o in caso di decesso), sia la tutela consolare in situazione
di crisi. In quest’ultimo caso, la proposta crea un quadro in virtù del diritto dell’UE che permetterà agli Stati
membri di accordarsi sul fatto che, in un determinato paese o zona, uno Stato membro agirà in veste di
«Stato guida» e coordinerà l’attività consolare, con esplicito riferimento alle operazioni di assistenza, di
raccolta e, se del caso, di evacuazione dei cittadini non rappresentati verso un luogo sicuro (510).
 
La proposta sottolinea, inoltre, che in linea generale i cittadini dell’Unione non rappresentati possono scegliere l’ambasciata o il consolato dello Stato membro cui chiedere assistenza consolare; stabilendo tuttavia
la possibilità per gli Stati membri di concludere accordi specifici in materia di rappresentanza permanente e
di ripartizione degli oneri, a condizione che siano garantiti il trattamento efficace dei dati e la trasparenza
(mediante pubblicazione sul sito web della Commissione). La proposta precisa poi che, essendo il diritto
alla cittadinanza un diritto conferito direttamente dal diritto dell’Unione, i documenti di identità hanno un
valore puramente dichiarativo, per cui il richiedente che non sia in grado di presentare un documento di
identità valido dovrebbe poter dimostrare la sua identità con qualsiasi altro mezzo, se necessario previa
verifica con le autorità dello Stato membro di cui si dichiara cittadino.
Una lacuna importante della decisione 95/553/CE che la proposta ha inteso colmare riguarda la possibilità
di includere nella categoria dei beneficiari del diritto di assistenza consolare anche i cittadini di paesi terzi
che siano familiari di cittadini dell’Unione. Alla luce dell’inclusione all’interno dell’articolo 23 TFUE del principio di non discriminazione, e conformemente agli articoli 7 («Rispetto della vita privata e familiare») e 24
(«Diritti del bambino») della Carta dei diritti fondamentali, la proposta della Commissione prevede, infatti,
che la tutela sia accordata anche ai cittadini di paesi terzi familiari di cittadini dell’Unione, e che ciò avvenga
alle stesse condizioni a cui viene accordata ai cittadini di paesi terzi familiari di cittadini dello Stato membro
che presta l’assistenza (con l’esclusione dell’emissione di documenti di viaggio provvisori e della possibilità
per i familiari detenuti che sono cittadini di paesi terzi di ricevere visite in carcere solo ed esclusivamente
se le autorità del paese terzo non vi si oppongono).
Nella valutazione di impatto che accompagna la proposta, si legge poi che un intervento della Commissione che stabilisce misure di coordinamento e cooperazione, quali quelle presentate all’interno della proposta di direttiva, andrebbe inoltre nel senso di rafforzare diversi diritti sanciti all’interno della Carta dei
diritti fondamentali (511). Oltre ai diritti alla vita familiare e i diritti del minore (articoli 7 e 24) che sarebbero
rafforzati per effetto dell’estensione della tutela ai familiari cittadini di paesi terzi (cfr. supra), sarebbero
altresì rafforzati il diritto alla vita, il diritto all’integrità della persona, i diritti di difesa e il diritto a un giudice
imparziale (articoli 2, 3, 21, 47 e 48 della Carta). Più in generale, sarebbe l’intera disposizione contenuta
all’interno dell’articolo 46 della Carta a beneficiare comunque di tale intervento, in quanto ne verrebbe
precisato il contenuto, verrebbero semplificate le procedure di cooperazione e coordinamento necessarie
e verrebbe quindi garantita l’effettiva attuazione e rispetto del diritto.
 
In conclusione, occorre sottolineare che nonostante la proposta assicuri senz’altro un sicuro contributo ad
una migliore definizione sia del contenuto del diritto, sia delle modalità per un suo esercizio che garantisca
un’efficace ed effettiva tutela dei cittadini europei non rappresentati, la proposta di direttiva ha tuttavia
incontrato alcune critiche. Sia da parte della dottrina, sia da parte della Commissione per gli affari esteri
del parlamento europeo, si è infatti lamentata la scarsa ambizione di un progetto che non sfrutta appieno
tutte le possibilità offerte dal trattato di Lisbona, in particolare per quanto riguarda il ruolo delle delegazioni
dell’UE di cui all’articolo 35 del TUE, per quanto riguarda l’accesso dei cittadini non rappresentati alla tutela
consolare (articolo 4 della direttiva), e, infine, in merito alle misure di cooperazione e coordinamento in
caso di assistenza locale (articolo 14) (512).
 
(510)
(511)
(512)
Nello specifico della protezione consolare cui un cittadino europeo ha diritto in caso di crisi, cfr. Forni, The Consular Protection of EU Citizens
during Emergencies in Third Countries, in International Disaster Response Law (a cura di de Guttry, Gestri, Venturini), The Hague, 2012,
pag. 155 e segg.
Commissione europea, Sintesi della valutazione d’impatto che accompagna il documento, Proposta di direttiva del Consiglio sulla tutela
consolare dei cittadini dell’Unione all’estero, SEC(2011) 1555 definitivo, Bruxelles 14 dicembre 2011, pag. 6.
Cfr. Wouters, Duquet, Meuwissen, cit., pag. 11; e Parere della commissione per gli affari esteri destinato alla commissione per le libertà
civili, la giustizia e gli affari interni sulla proposta di direttiva del Consiglio sulla tutela consolare dei cittadini dell’Unione all’estero
154
U E - D I R I T T I E C I T T A D I N A N Z A : L’ E - B O O K A D A C C E S S O A P E R T O D E I C D E I T A L I A N I
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(COM(2011)0881-C7-0017/2012-011/0432(CNS)), 26 settembre 2012, pag. 39.
Indice degli Autori
Bertazzo, ErikaArt. 34, Art. 36
Calaprice, Vittorio Introduzione
Caravita, MassimoArt. 44
Castiglione, Concetta Art. 37
Cattari, MassiminaArt. 23
Ciaburri, EmilioArt. 22
Cinquantaquattro, Alessandra Art. 42
Dassi, Tiziana Art. 17
Di Nocera, AngelaArt. 37
Diverio, DavideArt. 11
Gagliardo, Piero Art. 37
Garza, FrancescoArt. 11
Infante, DavideArt. 37
Iovane, LuigiArt. 16
Koppe, ErikArt. 35, Art. 37
La Ferrara, Antonio Art. 42
Liberati, MatteoPreambolo della Carta
Lollo, Andrea
Art.21, Art. 39
Marchetti, GloriaArt. 11
Marcorin, MarinaArt. 44
Mazzitelli, Alessandro Art. 37
Migliorelli, GiorgiaArt. 13
Musselli, Luciano Art. 11
Odoni, MarioArt. 35, Art. 37
Orofino, MarcoArt. 11
Parisi, NicolettaArt. 15
Peraro, CinziaArt. 24
Post, HarryArt. 35, Art. 37
Quadranti, IsoldeLa Carta
Ranchino, Maria AdelaideArt. 13
Ravo, Linda Maria Art. 18
Sanna, Magda Premessa
Sanna, SilviaArt. 35, Art. 37
Sassi, SilviaArt. 11
Senatore, MariaArt. 22
Silingardi, StefanoArt. 37, Art. 46
Smirnova, Janna Art. 37
Tallevi, AndreaArt. 16
Tassani, ThomasArt. 16
Tesser, Stefania Art. 22
Testoni, Laura Art. 11
Tirozzi, Marco Art. 24
Tomaselli, AlessandroArt. 45
Triggiani, EnnioArt. 39, Art. 40
Vaglio, Anna Art. 17
Viarengo, IlariaArt. 11
Viola, Donatella M. Art. 37
Viora, Maria Laura Art. 42
IE-03-13-584-IT-N
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