Fabio Roversi Monaco due parole sull`Accademia Michel Iashine

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PRIMO
PIANO
Fabio Roversi Monaco
due parole sull’Accademia
Michel Iashine
intervista a Vladimir Ashkenazy
Angela Gidaro
intervista a Franco Scala
Piero Rattalino
diamo un’occhiatina alla storia
Riccardo Risaliti
edizioni originali, brutte abitudini, e vecchi maestri
PREFAZIONE
di Fabio Roversi Monaco
In ogni disciplina artistica possono manifestarsi talenti straordinari, uomini che rivelano creatività e
che riescono a interpretare e a trasmettere il mistero della vita, che catturano l’anima di chi li
incontra conducendola su strade inesplorate.
Ma il talento, che è una dote naturale, permette di raggiungere l’eccellenza solo se viene
tenacemente coltivato.
Talento e formazione: questo binomio, elementare ed insolito, riassume magistralmente la
vocazione dell’Accademia Pianistica Internazionale “Incontri col Maestro” di Imola e la sua
funzione strategica nel panorama dell’educazione e del perfezionamento musicale in Italia.
L’Accademia, fondata nel 1989 a seguito di una felice intuizione del maestro Franco Scala,
interpreta in modo del tutto innovativo il rapporto tra docente e allievo. Infatti, a differenza della
maggior parte dei conservatori italiani e delle grandi scuole pianistiche, ove il docente si illude di
poter formare egli stesso i giovani talenti, sperando anzi che questi conservino nel tempo la sua
impronta espressiva e interpretativa, nell’Accademia di Imola l’allievo è il fulcro attivo di un lavoro
didattico attento e scrupoloso ad opera di diversi insegnati. Coltivare un talento, infatti, non
significa solo impartire nozioni o competenze tecniche - peraltro indispensabili - e neppure
orientare arbitrariamente l’indole dell’allievo, bensì stimolare una posizione di apertura alla realtà,
lasciare che la creatività emerga e con essa le specifiche potenzialità in tutte le possibili sfumature.
Nell’Accademia Pianistica di Imola, l’allievo è il protagonista di un percorso che coinvolge più
docenti; segue un maestro nel corso di lezioni individuali, accoglie i suoi consigli e le sue critiche in
merito agli aspetti artistici e tecnici delle opere esaminate e confronta poi con altri i risultati del
proprio lavoro. Il talento così curato, alimentato e stimolato a crescere, produce nel tempo risultati
sorprendenti.
Non è un caso dunque che una cittadina di provincia come Imola abbia dato vita ad una scuola che
ha cresciuto alcuni tra i talenti musicali più famosi nel mondo come Gianluca Cascioli, Alexander
Romanovsky, Yoko Kikuchi, Jin Ju e tanti altri che hanno conseguito i primi premi nei più
importanti concorsi pianistici internazionali.
Pertanto, come Presidente dell’Accademia, sono lieto di rilevare la consolidata e crescente
affermazione di un Centro che ancora intende la cultura nel suo originario senso etimologico, cioè
come vera opera di coltivazione dell’uomo.
Fabio Roversi Monaco
INTERVISTA A VLADIMIR ASHKENAZY
di Michel Iashine
Cosa ricorda dell’Accademia pianistica di Imola?
Ricordo che il maestro Scala mi ha chiesto di venire a Imola e di aiutarlo a creare l’Accademia. Ho
tenuto un concerto, il Maestro è stato molto gentile e mi ha regalato un fortepiano in segno di
gratitudine. Ricordo che in occasione di quella visita ho ascoltato due o tre studenti. So che
l’Accademia ha un’immagine eccezionale, e che ha fatto moltissimo per la musica e per i giovani.
Altrimenti non avrebbe una tale fama. Mi fa molto piacere che abbia questo successo. Mi sembra
che ciò sia dovuto alla persona del Maestro Scala, perché è un uomo, secondo me, con l’indole
dell’idealista, una persona piena di altruismo: questa è l’impressione che ho ricavato dall’aver fatto
la sua conoscenza. L’altruismo del Maestro è autentico, naturale, e viene avvertito dalle persone che
lavorano con lui. [...]
Cosa pensa delle possibilità dei giovani musicisti di oggi, della loro vita, della loro carriera che
inizia sempre più presto, del meccanismo dei concorsi: servono ancora come una volta?
Fare considerazioni su ciò che serve o non serve è, secondo me... che parola potrei usare? Come
dire in russo irrelevant? Ecco: inappropriato. Il fatto è che quando facciamo considerazioni sulla via
imboccata dalla vita in ambito culturale, politico, ecc, come si fa a dire cosa serva e cosa non serva?
Ci troviamo di fronte a una realtà. È andata così, così si è sviluppata la storia della nostra società. Il
risultato è che ci sono molti concorsi, molti dischi, molto di tutto, di pessimo e di buono. Si può
solo valutare la situazione: ciò che se ne può trarre, e non ciò che serve o non serve...
Altre possibilità ci sono. Kissin, per esempio, ha cominciato senza nessun concorso e ha
semplicemente preso il via...
Giusto! Il fatto è che lo svilupparsi di un talento è in generale un mistero, e cosa sia il talento, anche
questo non lo sappiamo. Chi determina se il talento sia grande o meno grande? E perché una
persona fa carriera e un’altra non la fa? Anche qui c’è un’enorme quantità di variabili. Per Kissin,
dotato di un talento davvero eccezionale, non sono stati necessari concorsi. D’altra parte, avrebbe
potuto partecipare a un concorso, e l’avremmo scoperto un po’ prima. O forse non molto prima: nel
suo caso non fa quasi differenza. Tutto, evidentemente, dipende dalla grandezza del talento e da ciò
che in quel determinato momento è adatto al mondo. E cosa sia adatto è un mistero. Di idioti al
mondo, naturalmente, ce ne sono tanti, e chi decide, alla fin fine? Decide una certa quantità
anonima di valutazioni. Chi può valutare tutto ciò, l’ascesa di un talento, la carriera, il successo nel
mondo intero o in una sua parte? È molto difficile...
Probabilmente anche il tempo, tutto sommato, ha un suo peso... Ci sono certe carriere
folgoranti che poi finiscono in niente...
Ci sono carriere di mediocri assoluti che hanno goduto di successo fino alla fine della loro vita. E ci
sono casi di talenti straordinari che pure hanno goduto di un grande successo fino alla fine della loro
vita. E, purtroppo, non è possibile dare una valutazione autentica. Lei sa benissimo che ci sono
persone mediocri che godono di un successo formidabile...
E anche di autorità…
Anche di autorità... E le persone che capiscono dall’interno, che valutano dall’interno ciò che
realmente ha valore e ciò che non ne ha affatto, non sono molte. Queste persone non possono farci
niente poiché, per qualche strana ragione, un mediocre, chissà come mai, riesce ad assecondare una
quantità colossale di persone che non distinguono cosa sia peggio e cosa sia meglio. Certo, un
talento della grandezza di Kissin è, naturalmente, eccezionale, questo è sicuro. Però, al contempo, ci
sono altre persone che stanno facendo una carriera formidabile e che... Lei sa in che cosa consiste il
senso della musica? Il senso della musica consiste nel trasmettere qualcosa di molto prezioso, vero?
Sì. E non sempre spiegabile.
Già, e non spiegabile. È per questo che esiste la musica. E quante sono le persone che veramente si
sforzano di farlo? Poche. E fra tutte le carriere stupefacenti che ci sono in giro, quelle che ci
trasmettono veramente qualcosa, che ci comunicano qualcosa di importante, sono estremamente
poche. E le esecuzioni pure. Mentre di carriere c’è una quantità gigantesca.
E da ciò scaturisce... Non tanto una domanda, quanto una considerazione sul rapporto fra la
parte tecnica e quella artistica dell’esecuzione musicale: abbiamo al giorno d’oggi
un’incredibile passione per la tecnica. Non le sembra che la tecnica sia diventata come fine a
se stessa?
Non ritengo che sia così. Per un mediocre sarà anche fine a se stessa, certo, poiché per lui è difficile
o talvolta impossibile sentire perché stia poi eseguendo quella tal cosa. La tecnica è decisamente
importante, perché senza la tecnica non si può fare niente. Ma tantissime persone mediocri non
fanno che insistere su questo perché, evidentemente, non hanno... spina dorsale. Niente su cui
appoggiarsi. Pensano che se suoneranno molto bene, in modo fine, virtuoso, mettendo ogni cosa al
proprio posto, avranno quasi fatto tutto. E, spesso, vanno in cerca di questo, ma ciò non vuol dire
passione per la tecnica, è soltanto un segno di mediocrità.
Il livello tecnico generale è, fortunatamente, molto aumentato, eppure talvolta rimane
l’impressione che ci siano tanti a suonare in modo assolutamente identico, e che distinguere
l’uno dall’ altro diventi impossibile.
È sempre stato così. I mediocri suoneranno sempre in modo uniforme e monotono perché hanno
semplicemente poco da dire.
Ma lei non pensa che abbiano un ruolo, e quasi essenziale?
Beh, qui si va sul filosofico. Se abbiano o meno un ruolo mi è difficile dirlo. Non so. In un certo
senso un ruolo forse ce l’hanno: per esempio – ma quello che dirò la farà ridere –, visto che suonano
in modo uniforme hanno sicuramente un ruolo positivo, poiché se c’è qualcuno che ha qualcosa da
dire non suonerà come fanno tutti, e così spiccherà la differenza... Ma non è una cosa del tutto seria.
Lei capisce cosa voglio dire. In generale ritorniamo allo stesso estremo, allo stesso postulato per cui
di geni ce ne sono sempre stati, e sempre ce ne saranno, pochi. Di Einstein o Hopkins, ce ne sono al
massimo uno o due in un secolo. Beethoven o Richard Strauss ecc. – anche questi sono avvenimenti
rari, giusto? Poi ci sono persone, diciamo, di talento, persone dotate, e poi, naturalmente, un numero
enorme di mediocri. Così è fatto il nostro mondo di uomini, con il suo bagaglio genetico e chissà
che altro... Forse, però, posso anche sbagliarmi... Ma voglio pensare che l’autentico genio, che può
dare molto all’umanità, verrà sempre fuori. Cosa sia il genio, anche questo è molto difficile da
definire... Molto difficile. È qualcosa di speciale e di idiomatico, che prima non c’era e che ha
un’importanza eccezionale, che ha da comunicarci qualcosa di straordinario, un dono per tutti noi.
Come si può definire il genio? È impossibile. Forse, talvolta, perfino per noi varia da individuo a
individuo. E tuttavia deve essere una nozione oggettiva, benché, a mio parere, questa non esista.
Una persona dotata in modo semplicemente formidabile. Vai a capirci qualcosa... Io mi perdo in
tutte queste nozioni, in questi concetti e in questi significati delle parole ecc., è tutto talmente vago,
e spesso sfuggente, che è molto difficile generalizzare.
CONSIDERAZIONI DI UN INSEGNANTE DI PIANOFORTE
Intervista a Franco Scala
di Angela Maria Gidaro
Può narrare i primi passi dell’Accademia?
Sono stati passi difficili. Si parla di quasi trent’anni fa, quando c’era ancora il culto delle grandi
scuole pianistiche. In quel periodo insegnavo al Conservatorio “Rossini” di Pesaro; gli studenti
manifestavano i primi malesseri per le incoerenze nei Conservatori, e su questa base mi giunse
naturale l’idea di fondare, nello studio di casa mia, l’Associazione “Incontri col Maestro”. In dieci
anni gli studenti diventarono oltre cento, provenienti da varie scuole italiane. Il passo successivo
dell’Associazione fu l’apertura dell’Accademia Pianistica Internazionale “Incontri col Maestro”.
La filosofia di base dell’Accademia di Imola è che lo studente studi e si confronti con vari
insegnanti. Ma non pensa che ciò possa creare confusione nel giovane pianista?
Certamente si crea smarrimento e confusione, ma non bisogna per questo spaventarsi: chi ha le
qualità per realizzarsi, riesce a formare la propria personalità proprio mediante le perplessità e le
esitazioni; chi invece resta nella confusione è destinato a modesti risultati. Questa è la realtà della
vita e non soltanto del musicista.
Allora deve studiare pianoforte soltanto chi ha talento?
Non voglio dire questo. Sarebbe come dire che devono fare attività sportiva soltanto quei giovani
che vogliono partecipare alle Olimpiadi. Se un musicista non ha talento e pretende di vivere con la
musica, diventa un frustrato. Noi insegnanti abbiamo la fortuna di poter intuire presto il talento
musicale. Usiamo questa sensibilità prima di creare false prospettive negli studenti! Anche questa è
una legge di vita applicabile a ogni altra disciplina di studio.
Cos’è per lei il talento?
È una forza che bisogna preservare da ogni forma di limitazione. Va soltanto esplorato per coglierne
qualità ed essenza. E quando lo si è capito, allora lo si può aiutare a rivelarsi. È un’energia che si
aggiunge a ciò che viene insegnato: permette di svelare cose al di fuori della realtà, al di là delle
note e al di là del pensiero. È una creatività della quale è impossibile definire i confini. Se un solo
docente s’illude di poter sviluppare da solo questa personalità, credo che non abbia capito fino in
fondo la missione dell’insegnante.
Ci sono qualità diverse di talenti: il talento che mantiene la tradizione ed il talento che la modifica.
Quest’ultimo ha le caratteristiche del genio.
Ha adoperato il termine missione. Pensa che il lavoro di un insegnante sia davvero una
missione?
Credo di si. Nella didattica difficilmente si trovano delle certezze. Le uniche verità che riconosco
sono il testo musicale e l’interprete. Tra queste due entità esiste un mare di parole, vere, false, fatue,
nate spesso con lo scopo di attrarre l’allievo e portarlo a una verità che a volte è utile solo
all’insegnante. Bisogna che il docente sia consapevole dei propri mezzi, perché può accadere che un
ragazzo di dieci anni abbia più talento di lui. Per questo motivo deve farsi prendere per mano
dall’allievo e sostenerlo nella realizzazione di se stesso. Inoltre, l’etica della professione didattica
comporta il coraggio di farsi aiutare.
Che sbocco professionale ha oggi lo studio del pianoforte?
Il pianoforte è sicuramente lo strumento più ingrato per le prospettive di lavoro. La prima difficoltà
è non poter entrare nell’organico stabile di un’orchestra. È per questo motivo che in Accademia
seguiamo il principio di dedicarci ai talenti espliciti. I risultati ottenuti con le carriere realizzate dai
nostri allievi ci incoraggiano a proseguire su questa strada.
A proposito degli “Incontri col Maestro”, quali sono le Master Class che ricorda come più
notevoli e fruttuose?
L’equilibrio di uomo nasce da varie esperienze. L’uomo è un misto di negativo e positivo, di bello e
brutto. È come una foresta da esplorare che, vista da lontano, dà l’impressione di essere molto bella
ma, quando esplorata, mostra la sua vastità: ci sono piante che hanno trovato la luce del sole
insieme a miseri cespugli, ma tutto contribuisce a creare la bellezza dell’insieme. Ecco perché
ritengo che tutti gli incontri siano stati positivi. Tutti i docenti invitati hanno contribuito a
migliorare gli allievi e un buon musicista è un insieme di molte esperienze, sia positive sia negative.
Quali sono le qualità che più apprezza in un giovane?
L’entusiasmo, la curiosità e il rispetto per gli altri.
E quali sono invece i giovani che non apprezza?
Chi tende a sottovalutare tutti e che coltiva il culto della propria personalità. Perchè, se questo
giovane non fa una carriera in relazione alle proprie aspettative, diventa un insoddisfatto.
Qual è per lei l’allievo ideale?
Non certamente quello che asseconda le mie idee. Preferisco l’allievo che mi prende per mano e mi
conduce su strade ignote. Se riesco a capire cosa cerca, provo ad aiutarlo nel lungo cammino che
vuole condividere con me. Quando qualcuno mi dice che ha identificato come mio allievo un
pianista di cui ha ascoltato un concerto, non mi fa un favore. Per me, infatti, è esattamente il
contrario: un pianista che ha una personalità non deve portare su di sé l’impronta del maestro.
Purtroppo ci sono insegnanti che pensano esattamente il contrario.
Qual è invece l’allievo peggiore?
Non esiste l’allievo peggiore. Lazar Berman, che ha insegnato nell’Accademia di Imola fin dagli
inizi, diceva che dietro ad ogni pianista c’è un uomo, e che tutti vanno aiutati. Questo è un concetto
molto bello e nobile. Quando l’allievo non ha un adeguato talento e quindi risulta “peggiore”, non
bisogna giudicare lui, ma le persone che lo hanno indirizzato verso una professione sbagliata.
A cosa dà più importanza nella preparazione di un allievo?
Scoprire se l’allievo è dotato delle qualità per affrontare la difficile carriera del concertista: capacità
di trasformare il suono in musica, facilità di apprendimento del testo, equilibrio psico-fisico sul
palco, grinta e determinazione.
Quali sono le soddisfazioni più grandi per un insegnante?
Sono felice quando sento che un mio ex allievo ha realizzato una carriera che gli permette di vivere
con dignità la professione del musicista: per un attimo mi fermo a pensare che ho contribuito al
futuro di una persona. Poi... bisogna ricominciare a lavorare: ci sono altri che attendono.
DIAMO UN’OCCHIATINA ALLA STORIA
di Piero Rattalino
Alla storia dell’interpretazione pianistica, intendo. I nostri vecchi ammonivano che la storia è
maestra di vita. E siccome la vita concertistica di oggi, la vita degli interpreti, mostra qualche crepa
senza minacciare ancora il crollo, ma tuttavia qualche crepa la mostra, dare un’occhiatina alla storia
dell’interpretazione può essere un modo non inutile di ricevere qualche ammaestramento, o per lo
meno qualche dritta.
Il pianoforte viene inventato all’inizio del Settecento ma per circa sessant’anni rimane rintanato
nelle catacombe. Quando ne esce è ormai abbastanza forte da poter dichiarare guerra al
clavicembalo e al clavicordo. È la nostra guerra dei trent’anni e si conclude con la completa vittoria
del pianoforte: il clavicembalo e il clavicordo si rifugiano a loro volta nella catacombe, da cui
usciranno solo dopo più d’un secolo. Alla fine del Settecento comincia così la storia
dell’interpretazione pianistica, e noi, tanto per fissare una data, mettiamo il 1791 perché nel 1791 un
grande pianista come Muzio Clementi pubblica, adattandole al pianoforte, dieci sonate di Domenico
Scarlatti, che era scomparso trentaquattro anni prima e che faceva solo più la gioia degli eruditi. Nel
1801, data memorabile per la cultura in generale e per la cultura pianistica in particolare, viene
pubblicato per la prima volta, e quindi messo a disposizione di tutti, il Clavicembalo ben temperato
di Bach. Abbiamo dunque dietro di noi duecentosedici anni di storia dell’interpretazione pianistica.
Non sono pochi, e di avvenimenti memorabili ne hanno visti parecchi.
Di questi duecentosedici anni, centododici sono documentati soltanto attraverso le carte, e
centoquattro sono documentati anche attraverso il suono. Dobbiamo dunque distinguere nettamente
due epoche storiche. Ma ciascuna delle due dev’essere ulteriormente suddivisa in due periodi. Dal
1791 al 1839, primo periodo, si eseguono per un pubblico pagante soltanto i concerti per pianoforte
e orchestra, dal 1839, secondo periodo, si esegue per un pubblico pagante anche la musica per
pianoforte solo. Nella seconda epoca troviamo un primo periodo, dal 1903 a circa il 1950, in cui il
suono riproducibile meccanicamente, cioè il disco, non fa concorrenza al suono dal vivo ma, anzi,
rappresenta per esso un forte veicolo pubblicitario, ed un secondo periodo, da circa il 1950 ad oggi,
in cui prima l’LP, poi il CD ed infine il DVD offrono al pubblico convenienza economica e
condizioni d’ascolto migliori di quelle offerte dal live.
Il mercato discografico ha avuto un‘enorme espansione dopo il 1950, ed oggi ha raggiunto la
saturazione. Ma non è che i dischi abbiano perduto o stiano per perdere il mercato. Lo stanno
perdendo le nuove produzioni, mentre le ristampe dei dischi storici (rimasterizzati, s’intende) vanno
ancora come il pane. Un qualcosa di analogo era avvenuto nella creazione musicale alla fine del
Settecento. Anzi, era avvenuto proprio in coincidenza con la nascita della storia
dell’interpretazione. La società, che per secoli aveva chiesto ai compositori musica sempre nuova,
cominciava a mostrare interesse per la musica del passato, e questa sua passione culturale si
sviluppava in un modo sorprendente nel giro di pochi decenni. I compositori entravano così in
concorrenza non solo con i loro contemporanei ma anche con i grandi che li avevano preceduti.Liszt
compositore doveva vedersela non solo con Chopin e con Schumann ma anche con Beethoven e
con Weber, mentre Liszt pianista doveva vedersela soltanto con Thalberg e con il ricordo di
Beethoven e di Weber. Ancora due generazioni dopo Rachmaninov componeva in concorrenza con
una schiera potentissima che andava da Bach a Brahms, ma suonava in concorrenza con il solo
ricordo di Liszt e di Anton Rubinstein. Oggi il giovane concertista suona invece in concorrenza non
solo con Brendel e con Pollini ma con Paderewski, Rachmaninov, Cortot, Backhaus, e cento altri
colossi i cui dischi continuano ad essere in commercio ed ad essere acquistati. E si tratta di dischi
che costano meno del biglietto d’ingresso ad un concerto e che possono essere riascoltati fino a
farne indigestione e che permettono al fortunato possessore di starsene a casa sua in vestaglia e di
interrompere l’audizione per riprenderla dopo aver bevuto una birra, al caldo e in panciolle mentre
fuori piove e fa freddo.
Di fronte a questa situazione il rigore ascetico del lavoro, se l’interprete che non immette nel suo
progetto operativo il pubblico, è destinato secondo me a diventare – anzi, per molti versi è già
diventato – autoreferenziale. Come era stato un mezzo secolo addietro il lavoro del compositore.
Ripercorrendo la storia della creazione del Novecento, Alessandro Baricco scriveva nel 1992:
“Tanto in Puccini quanto in Mahler si abbassa la soglia del rigore e ampi spazi vengono concessi al
kitsch di una messa in scena che non teme ridondanti retoriche, astuti effetti speciali ed elementari
sistemi di significazione” (L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, Editore Garzanti). I
documenti sonori di storia dell’interpretazione che abbiamo non ci consentono di fare un discorso
analogo. Ma possiamo farlo a rovescio, cancrizante, e dire che dopo Rachmaninov e Cortot la soglia
del rigore si alza e gli spazi concessi al kitsch vengono annullati. Dopodiché possiamo proseguire
con Baricco: “Nell’orizzonte culturale della musica colta, quella di spettacolarità è una categoria
negletta, demonizzata e dimenticata. La si usa per lo più in senso spregiativo per sottolineare le più
dubbie concessioni alla retorica o all’effetto puro e semplice. Eppure, nella sua accezione primaria e
nobile, essa dimora nel cuore della creatività musicale”.
Sfruttando un brillante scrittore come Alessandro Baricco e la sua acuta e spregiudicata analisi
sostituiamo “creatività” con “interpretazione”, e abbiamo messo a fuoco il problema. E se lo studio
su Puccini e su Mahler poté essere salutare per i giovani compositori, lo studio su Rachmaninov e
su Cortot lo sarà per i giovani pianisti.
EDIZIONI ORIGINALI, BRUTTE ABITUDINI, E VECCHI MAESTRI
di Riccardo Risaliti
Da qualche tempo a questa parte - era l’ora – le edizioni cosidette Urtext degli autori barocchi,
classici e romantici, si stanno definitivamente affermando, grazie alla sparizione di molte edizioni
“revisionate”, grazie alla provvidenziale uscita di scena di vecchi maestri da esse dipendenti, e
grazie soprattutto a un cambio di mentalità storicistica, che dalla nuova classe di insegnanti è
passata agli allievi. Oggi è difficile che un giovane pianista si presenti a un concorso o a una
masterclass con certi testi di diffusione conservatoriale: che so, il Clavicembalo ben temperato
revisione Casella, o le sonate di Beethoven di Schnabel, o lo Schumann di Zecchi (con tutto il
rispetto, comunque, per questi musicisti); per non parlare delle famigerate “25 Sonate” di Scarlatti
revisione Longo!
Lavorare su di un’edizione Urtext significa lavorare su quello che l’autore ha effettivamente
scritto, a parte qualche aggiunta che di solito anche le edizioni Urtext fanno, ad esempio nella
diteggiatura. Ma basta studiare sull’Urtext per arrivare a un’interpretazione Urtext, a una UrAusführung? No, naturalmente, dato che non si può scrivere tutto (in epoca barocca poi non si
scrivevano che le note). Allora? Ecco che dovrebbero entrare in gioco altri fattori: la cultura, la
sensibilità, l’equilibrio, la fantasia, la creatività; che è poi quello che più conta, costituendo il vero
talento dell’interprete, difficilmente rimpiazzabile con tutta quella sovrastruttura che i revisori,
buoni o cattivi che siano, aggiungono al testo nelle edizioni da loro curate. Ma l’esperienza mi ha
convinto da tempo che un’alta percentuale di elementi interpretativi venga fuori o sia suggerita
semplicemente dal testo originale. E’ il testo che dovrebbe costituire la base iniziale del lavoro su
un pezzo, ma anche la base di ogni ripresa dello studio ogniqualvolta si decida di tornarvi sopra
negli anni. Purtroppo tutti i brani della letteratura pianistica, specie i più famosi, sono sommersi da
un sottobosco di brutte abitudini esecutive originate da un lavoro distratto e superficiale, abitudini
per lo più tramandate da un secolo di incisioni discografiche e di prassi concertistica la cui
tradizione interpretativa non è sempre pregevole. La tradizione spesso è un tradimento del testo,
anche nei migliori esempi, e solo i più grandi interpreti riescono a trarre nuove idee, musicalmente
convincenti, da tali tradimenti. La storia dell’interpretazione, che è anche storia della prassi
esecutiva (che non è la stessa cosa) dimostra che vi sono vari modi di interpretare un pezzo, ma il
testo dovrebbe sempre costituire il binario su cui ci si muove. Ovviamente non sono tutti d’accordo
su questa mia affermazione, subordinando il valore di un’esecuzione al gradimento del pubblico: il
ché vale, a mio parere, e come ho già detto, per interpretazioni meno obbedienti al testo ma
particolarmente creative e immaginative. Penso comunque che un vero grande interprete dovrebbe
riuscire a dare un senso – ammesso che ci sia – ad ogni prescrizione voluta dall’autore. Noto
continuamente sia nel mio studio personale, sia nella mia attività didattica, che molti piccoli
particolari, molte indicazioni di colore, di movimento, di fraseggio, di pedale, etc. vengono ignorati.
Prendiamo come esempio un pezzo celeberrimo, la Quarta Ballata, in fa minore, di Chopin, ed
esaminiamone alcuni elementi in base al testo originale:
Sul tempo. Andante con moto è un’indicazione che, a differenza di quel che si verifica nelle prime
due ballate, resta valida per tutto il pezzo, compresa tutta l’ampia coda. Ferme restando alcune
logiche oscillazioni della velocità determinate dall’incremento dello stato di eccitazione della
musica, non ci si dovrebbe mai buttare in corse pazze e scalmanate.
Sul colore. Nel pezzo troviamo vari crescendo e alcuni (non molti) punti culminanti, ma vi sono
anche diversi pianissimo e momenti liricamente concentrati. Siamo sicuri di svolgere in modo
logicamente plausibile la curva dinamica del brano?
Sulla punteggiatura. Si è notato, ad esempio, che ogni volta che Chopin conclude la prima frase
(prima volta alla batt.11) mette un punto sopra la prima nota? La frase è legata, è vero, ma il punto
definisce il modo di attacco di quella nota, che deve comunque risultare staccata. Pignoleria? No,
ben applicato ha un senso musicale, per quanto concerne il colore di quella nota, in posizione
melodicamente critica, al confine fra un crescendo e un diminuendo.
Sull’armonia. A battuta 171 un do bemolle alla sinistra (pedalizzato da Chopin) dà una svolta
fascinosissima all’armonia, creando un accordo che resta fino alla metà della battuta 174. Sfido
chiunque a trovare un’esecuzione che lo rilevi!
Sulle note. Punto dolente. Spesso la correzione di celebri errori trova forti reazioni negli interpreti,
abituati a versioni ormai cristallizzate: vedi – una per tutte – i due bequadri (do e fa) alla fine della
battuta 124.
Tutta la musica andrebbe riletta in modo che da una nuova verginità filologica venga fuori una
“nuova” interpretazione: ché nuova sarebbe di certo, visto che quella tradizionale molto spesso è
“inquinata”. Il “nuovo” in questo caso è – verdianamente – un “ritorno all’antico”, quindi “un
progresso”. La storia recente dell’interpretazione ci ha dimostrato che il grande interprete trae
proprio da un’attenta lettura del testo nuovi effetti immaginifici: si pensi al finale dell’op.31 n.2 di
Beethoven eseguito da Sokolov!
E veniamo ai “vecchi maestri”. Che tali non sono anagraficamente (mi darei la zappa sui piedi!)
ma metaforicamente: i vecchi maestri per me sono quelli che ho già detto attaccati alle vecchie
edizioni e alle brutte abitudini interpretative, quelli che non si sono mai informati sul divenire della
musica, dell’interpretazione, della filologia, quelli che vivono di rendita su quello che hanno a suo
tempo imparato dai loro ancor più vecchi maestri, che non hanno mai visto manoscritti e prime
edizioni, che non hanno mai letto scritti e lettere di compositori, che non si sono mai arrovellati su
qualche piccolo particolare, che non hanno mai dovuto o voluto scegliere l’edizione buona da
studiare e da consigliare; e che magari per giunta giudicano negativamente ogni “correzione”, ogni
variazione di segno o di nota. Una celebre pianista italiana in un concorso prese per un lapsus di
memoria (sia pure “prontamente riparato”) la famosa variante di Chopin nel primo movimento della
Sonata in si minore.
Ricordo che qualche anno fa una lettera dell’Istituto Chopin di Varsavia mi comunicava che
nell’allora imminente edizione del concorso si richiedeva l’uso della recente edizione critica
polacca a cura di Jan Ekier (come si sa, oggi decisamente la migliore, dato che ha cercato – nei
limiti del possibile – di rimettere le cose a posto nel casinum magnum dei manoscritti e delle prime
edizioni). Risposi che personalmente la conoscevo e la consigliavo agli allievi, ma che prima di
consigliarla o imporla ai candidati di quel prestigioso concorso bisognava rinunciare a molti degli
abituali giurati di quella competizione, vecchi baroni, vecchie cariatidi della didattica e del
concertismo internazionale, che quella edizione (come tutte le altre Urtext) non la conoscono,
oppure per gelosia o per pigrizia non sono interessati a conoscerla.
C’è un rimedio? Sediamoci – come consiglia il saggio cinese – sulla riva dello Yangtze, e
aspettiamo: prima o poi passeranno anche loro!
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