Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music
Autunno 2008
PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC
WE
ALL
LOVE
ENNIO
WHAT BACHARACH UNA CANTATINA TRA
NEEDS ROSSINI E MARTINEZ
di Valentina Giosa
di Romina Ciuffa
Emme come
Morricone,
Ennio, senza bisogno di presentazioni. Si dice
sia burbero e scostante. Pensi sia impossibile
avvicinarlo e che ti darà risposte secche e svogliate. Mentre stai lì che fai i tuoi calcoli mentali (se uno ha scritto più di 500 colonne sonore, avrà risposto a un migliaio di interviste,
ognuna delle quali conteneva una decina di
domande, cioè diecimila risposte, vuoi vedere
che si sarà stancato di rispondere proprio quando tocca a me?), Ennio-il-Genio viene in tuo
soccorso e accetta l’intervista. E scopri che non
è così schivo come vuol far sembrare e che,
come tutti gli Scorpioni, sotto un’apparente
riservatezza cova il fuoco della passione.
Quella per la musica prima di tutto, e poi l’amore per il cinema, l’arte, la moglie Maria, (...)
Compositore di brani indimenticabili come
Trains And Boats And Planes, Walk On By, I’ll
Never Fall In Love Again, Are You There With
Another Girl, What The World Needs Now Is
Love, I Say A Little
Prayer, Raindrops
Keep Falling On
My Head e centinaia di altre perle
musicali,
Burt
Bacharach
non
smette mai di emozionarci senza mai
ripetersi regalandoci colonne sonore
traboccanti di passione. Nonostante i
suoi oltre cinquant’anni di carriera
(in cui ha collezionato 3 Oscar e 6
Grammy), (...)
Non ci sarà giorno
che passerà senza che
io, in cuor mio, non
ringrazi il maestro
Miguel Martinez per
avermi fatto ascoltare
- parlo a nome di tutta
l’umanità e non mi
preoccupo delle conseguenze - questa
Cantatina 22 luglio
1832 in cui ritrovo
Amore e Imene, e il
primo lo guardo in
faccia mentre vedo questo spagnolo, che è ormai
un romano, parlare del manoscritto dei conti
Catanzano che è nelle sue mani; la seconda resta
un’estasiante rottura da quello che era ieri (vivevo anche senza Rossini) e quello che è oggi (esattamente come perdere la verginità). Oggi, infatti,
io - che sono l’umanità - ho Rossini nel cuore e
lui, Martinez, lo ha nelle mani. (...)
CONTINUA NELLA PAGINA SOUNDTRACKING
CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES
CONTINUA NELLA PAGINA CLASSICA-MENTE
di Roberta
Mastruzzi
Ppop&rock
OPCK
PAOLO CONTE
J AZZ
& blues
LIZA MINNELLI
Direttore
ROMINA CIUFFA
Direttore Responsabile
SALVATORE MASTRUZZI
Redazione
Romina CIUFFA [email protected]
Flavio FABBRI [email protected]
Rossella GAUDENZI [email protected]
Valentina GIOSA [email protected]
Roberta MASTRUZZI [email protected]
Corinna NICOLINI [email protected]
Progetto grafico
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Impaginazione
Cristina MILITELLO
Logo Caterina MONTI
Redazione
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Tipografia
Ferpenta Editore Srl
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Contributi
Elisa Angelini, Lorenzo Bertini
Nicola Cirillo, Cristina D’Eramo
Alessandra Fabretti, Gianluca Gentile
Paolo Romano, Eugenio Vicedomini
Anno II n. 7
Autunno 2008
Registrazione presso il Tribunale di Roma
n. 349 del 20 luglio 2007
STEFANO
MASTRUZZI
EDITORE
Ppop&rock
OPCK
CLAUDIO BAGLIONI
FEED
back
ENZO PIETROPAOLI
CONSERVATOPI
È molto probabile che la scure della Ministero dell’Istruzione si abbatterà prossimamente sui Conservatori, e noi appoggeremo finalmente
un’iniziativa governativa: ad oggi, l’arretratezza del sistema di istruzione
musicale statale è imbarazzante, un disagio che riguarda sia il profilo
organizzativo e strutturale, sia la preparazione di certi docenti, assunti con
il tipico contratto indeterminato italiano «non so come ho fatto ad entrare, ma in ogni caso ci rimango».
Il discorso è molto lungo e articolato e lo svolgerò a più riprese su queste colonne, cominciando da un’analisi del sistema attuale comparato ai
migliori sistemi europei e statunitensi. Dopo decenni, con il tentativo
ancora in atto di introdurre la laurea in musica - non musicologia, che
c’era già, ma quella di musicista vero e proprio, il vecchio strimpellatore
per capirci - trasformando i Conservatori in Università, si è compiuto un
passo in avanti nel tentativo di elevare la considerazione verso questa
categoria, per antonomasia ricca di venditori di fumo. Chiaramente lo si
è fatto all’italiana, guai a verificare se gli stessi docenti di Conservatorio
che prima insegnavano nei corsi di diploma avessero preparazione e titoli adeguati a diventare docenti di rango universitario.
Quindi, tutti nel calderone. Non cambia la sostanza, perché i docenti sono
gli stessi, nel bene e nel male soprattutto; cambia solo la dicitura sul pezzo
di carta: non più diploma di musica, ma «laurea». Ed ecco subito che tutti i
vecchi diplomati (me compreso) potrebbero trasformare il proprio diploma
in una laurea: come? Frequentando altri due anni, certamente con gli stessi
docenti con cui si erano diplomati dopo 10 anni di studio. Cosa mai avrà da
insegnare quel docente ad un allievo cui ha impartito lezioni per dieci anni
per trasformarlo ora da diplomato in un laureato? E soprattutto, perché non
gliel’ha insegnato prima durante quei dieci anni? Non aveva tempo?
La verità, che piaccia a destra o a sinistra, è che in Italia al momento non
esiste un omologo privato del Conservatorio che possa fare sana concorrenza e contribuire a superare le tipiche inerzie che frenano lo sviluppo di
qualsiasi ente che si trovi, come i Conservatori, ad operare in regime di
monopolio; in sostanza, l’unico titolato a rilasciare un titolo avente valore
legale non ha alcun interesse a verificare che il proprio sistema di formazione funzioni. E alla fine sforna tanti titolati e pochi(ssimi) professionisti.
Il Saint Louis, ad esempio, che è frequentata da oltre 1.500 allievi, è una
scuola che non rilascia al momento titoli equipollenti, ma che curiosamente
forma e sforna musicisti di livello; una scuola di musica moderna che sta
seguendo per prima un percorso di riconoscimento universitario e ciò infastidisce molte illustri personalità del settore. Anche se ritengo che la soluzione
più rapida ed efficace, peraltro già adottata da molti Paesi europei, sia quella
di togliere valore legale a qualunque titolo universitario. In tal modo, l’allievo potrà scegliere l’ateneo o la scuola dove formarsi in base alle concrete possibilità didattiche che questa offre, al numero di professionisti che sforna ogni
anno, ai docenti qualificati che vi lavorano e non in base alla carta filigranata del diploma rilasciato. E molta gente che oggi vive sulle nostre spalle dovrà
cercarsi un lavoro, finalmente.
Stefano Mastruzz i
J AZZ
& blues
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
Music In Autunno 2008
CHAT NOIR Luca, Michele,
Giuliano: chiamali gatti neri.
Che attraverseranno la strada
LIZA MINNELLI Voglio svegliarmi nella città che non dorme
mai. Oggi mi sveglio a Roma
LE SETTE VITE
DEGLI CHAT NOIR
Fa venire la pelle d’oca anche a me.
Che sia solo l’idea di fermare una delle loro vite mentre le altre sei impazzano
Il
ricordo dolce che si è fissato in maniera
indelebile nella mente di Giuliano fa venire la pelle d’oca anche a me - ed abbiamo appena commentato un sole settembrino incredibilmente caldo, goduto dalla terrazza di un hotel
nel centro di Roma: nel momento in cui gli
chiedo di «regalarmi una fotografia», un’istantanea, un ricordo del suo gruppo, gli Chat Noir,
Giuliano Ferrari, batterista del trio, rievoca il
momento dell’arrivo del pacco del disco
Découpage, prodotto dalla Universal.
In un momento di frenesia, di forte lavoro, di
nervosismi, i tre musicisti si trovano a scartare
il «loro disco» e tutto si scioglie magicamente,
in una cena a base di vini e formaggi e come
sottofondo, ripetutamente, la loro creazione.
Non senza difficoltà, storcendo un po’ la
bocca, così riesce a definire i tre musicisti: Luca
è la mente, Michele l’anima, Giuliano il cuore.
Per quanto la creatività sia ben distribuita tra
loro e renda giustizia definire collettive le loro
composizioni.
Universal Music si accorge di te e produrrà
Découpage (2007) e Difficult To See You (uscito il 22 settembre e presentato il 29 settembre
all’Auditorium Parco della Musica).
Accadeva dell’altro nel frattempo, perché
la vostra storia è fatta anche di cinema…
Il disco è stato spedito anche ad alcuni registi,
tra cui Cristina Comencini, che girava all’epoca
La Bestia nel Cuore; le è piaciuto, ha scelto e
utilizzato Noir 451 tratto da Adoration che è
entrato a far parte della colonna sonora.
Il film è stato candidato agli Oscar, quindi per
noi c’è stato un ritorno importante. Per il film
successivo, Bianco e Nero, abbiamo composto
tre inediti: Conversation in Blue, Talkin’
Slowly, You can Teach.
Poi c’è stata la collaborazione con Francesca
Comencini per un meraviglioso documentario
sul lavoro in fabbrica, fatto con immagini di
repertorio strepitose dagli anni ‘50 ad oggi. La
nostra cover di Via del Campo è stata molto convincente.
BURT BACARACH «Non voglio un
disco ricco di pezzi facili da mandare in
radio»: ed esce At This Time.
VERA DIVA VERA LIZA
Incarna la New York che fu, sognante e sensuale, fatta di
lustrini e paillettes, tendoni da palcoscenico, rossetto
rosso e giarrettiere. We wanna be a part of it.
Dell’unica, vera figlia del mago di Oz.
rue Diva. A ben riflettere, difficilmente si troverebbe
una migliore definizione per Liza Minnelli. Diva vera,
e tra le poche in circolazione oggigiorno. Solo per il
fatto di incarnare la New York che fu, sognante e
sensuale, fatta di lustrini e paillettes, di tendoni da palcoscenico, rossetto rosso e giarrettiere. Diva vera per
essere nata e cresciuta tra star, da buona figlia d’arte:
l’indimenticabile Judy Garland - incantevole
Dorothy del mago di Oz - era una mamma celebre
ad Hollywood, cantante di successo, tanto quanto
il padre, lo stimato regista cinematografico
Vincente Minnelli. I primi passi si muovono
non sulla strada ma sul palcoscenico: confondere vita e finzione è inevitabile. Danza,
recitazione e canto sono vita reale quanto
la scuola ed i giochi con gli altri bambini. Quasi sembra segnato il destino
della piccola Liza che darà il meglio di
sé in scena, nello specifico nel musical, ma una volta deposti i costumi
dovrà fare i conti con rapporti personali
complessi, storie sentimentali turbolente.
Non a caso, il titolo di uno dei suoi maggiori successi è Life is a cabaret. All’età di 16
anni prende parte a New York allo spettacolo di
successo Best Foot Forward: è la gavetta necessaria
al grande salto che avverrà nel 1964, con l’esibizione
accanto alla madre al concerto del London Palladium.
Vince nel ‘65 un Tony Award, nel 1967 debutta al cinema e nel ‘69 viene già nominata all’Oscar.
La consacrazione è legata al musical Cabaret (1972) e questa volta l’Oscar la premia meritatamente.
Di nuovo alla ribalta nel ‘76 nel musical New York, New York di Martin Scorsese, nel quale interpreta una cantante di jazz innamorata perdutamente di uno scorbutico Robert De Niro che veste i panni
del musicista. Tutto ciò inframmezzato da duetti con Frank Sinatra, che la portano in giro per il
mondo. E accompagnato da alcool, droghe, amori, divorzi. Dopo quindici anni di assenza la Diva
torna in Italia. Tra ottobre e novembre toccherà con il suo tour Roma, Torino, Firenze, Bari, Milano.
Auditorium Parco della Musica di Roma, 29 ottobre.
Rossella Gaudenzi
T
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
di Valentina Giosa
WHAT BACHARACH NEEDS
L’avventura degli Chat Noir è quella di tre
musicisti colti, sobri e raffinati nati nel 1979:
Michele Cavallari, Luca Fogagnolo e
Giuliano Ferrari, rispettivamente pianista,
contrabbassista e batterista di un trio jazz
nato nel 2002 che con questa formazione prosegue, intraprende le sue scalate, fa le sue
scommesse.
Direi che siamo Chat Noir quasi dal primo
momento. L’antefatto è che Luca e Michele,
amici dai tempi del liceo, musicisti e appassionati di jazz, in duo si dedicano agli studi del piano
e del contrabbasso. Presto nasce l’esigenza della
batteria e mi unisco a loro: è un sodalizio di amicizia innanzitutto, di condivisione di passioni
senza particolari aspettative.
Si inizia pian piano a comporre; con lo studio
assiduo degli standards si diviene più solidi,
tanto da potersi avvicinare alle composizioni
moderne. E si osa. Ci siamo inoltrati in generi
diversi, senza perdere mai la bussola.
Il nome nasce per un’illuminazione casuale,
dopo pochi tentativi di ricerca. Ad agosto del
2002 esce il coinvolgente disco del suonatore di
liuto tunisino Anour Brahem, accompagnato da
piano e fisarmonica, dal titolo Le Pas du Chat
Noir. Quel disco lo abbiamo consumato; inoltre
la suggestione ulteriore proviene dall’ormai
famosa locandina del café francese di Toulouse
Lautrec. Siamo gli Chat Noir.
Si ironizza sul numero di vite dei gatti,
chiedo quante vite il trio abbia perso o guadagnato; Giuliano ribatte che si potrebbe
procedere a ritroso, partendo da zero ed
arrivando a sette. Un percorso fatto di tante
componenti, positive e negative: fatica molta,
ostinazione moltissima.
Mi sento di dare questo consiglio: i dischi
vanno spediti a decine, centinaia di copie. Su
cento spedizioni, si riceveranno a dir tanto dieci
risposte, e su dieci nove sono perdite di tempo.
Ne resta una buona. È così facendo che si possono ricevere critiche costruttive, e in questo modo
siamo arrivati all’etichetta Splasc(h) Records
che ha prodotto il primo disco, Adoration
(2006). Si riparte, stavolta con un biglietto da
visita in tasca, con una consapevolezza di sé
maggiore, con determinate recensioni all’attivo
e l’attenzione di determinati giornalisti su di te.
C’è il salto di qualità nel momento in cui la
Come definiresti, oggi, il vostro stile?
Potremmo sì definirci un trio jazz, ma non
classico, soprattutto dal punto di vista della
struttura dei brani. Sono composizioni dalla
struttura della canzone rock, con il tema sviluppato in più parti, echi derivanti dalla nostra passione per la scuola del Nord Europa, norvegese;
in più ci siamo alimentati di Beatles e Pink
Floyd. Quindi laddove è necessaria una ritmica
più rockeggiante, ammettiamo senza difficoltà di
esserci allontanati dal jazz. In noi c’è il Miles
Davis dei dischi degli anni ‘60, di quegli esempi
di ricerca di un nuovo linguaggio jazzistico. In
studio di registrazione si procede alla maniera
tradizionale, registrando insieme gli strumenti
principali. In più c’è la post-produzione: Luca
usa il theremin - strumento analogico - più effetti sul contrabbasso, Michele il lap con cui produce effetti che creano atmosfera ed interagiscono
con il sound e in più fa un uso del pianoforte filtrato (delay e distorsori). Io utilizzo percussioni
elettroniche che rendono particolari suoni, come
tappeto sonoro o piccoli interventi elettronici.
La vostra musica sembra la risultante di
componenti artistiche diverse: quali sono le
vostre ispirazioni?
Viviamo di stimoli non solo musicali; molto
scaturisce dai film e numerose sono le influenze
narrative. Ad esempio Trilogy, brano inserito in
Découpage, è nato dalla Trilogia di New York di
Paul Auster, al quale lo abbiamo peraltro spedito… Elefante, analizzando sempre lo stesso
disco, è nato innanzitutto dalla «sensazione»
procurata dall’immagine di un elefante in un
negozio di cocci.
Passando a Difficult to See You il brano
Rovine Circolari si rifà all’omonimo racconto di
Borges; To Build a Fire ad un racconto inusuale, surreale ed inquietante di Jack London.
La nostra chiacchierata volge al termine e
rimane in me la fissazione di ricapitolare: tre
dischi, più tre collaborazioni cinematografiche,
più una presentazione da capogiro con il marchio Auditorium Parco della Musica. Non potevo scegliere momento migliore per questa intervista. Gli Chat Noir hanno davvero guadagnato
sette vite.
Rossella Gaudenzi
(...) con l’uscita di At this Time, è riuscito a
tirar fuori forse uno dei suoi migliori lavori confermandoci ancora una volta che «la
classe non è acqua». Nato a Kansas
City nel 1928, Bacharach negli anni
50 e 60 è stato pianista, arrangiatore
e leader della band che accompagnava in tour Marlene Dietrich. Nel
1959, ancora semi-sconosciuto come
autore di canzoni, ha conseguito il
successo con Heavenly e
Faithfully, eseguite da
Johnny Mathis, che hanno
vinto entrambe il disco
d’oro.
È iniziata così la sua
fortunata collaborazione
con Hal David con cui ha
scritto gran parte del suo
intramontabile repertorio
che unisce il gusto raffinato per la melodia e la semplicità diretta e immediata
del pop ad influenze jazz ed
echi soul chiaramente individuabili nelle vocalist che
Bacharach ha scelto con il
tempo per i suoi brani,
prima fra tutte la straordinaria Dionne Warwick
(ben 21 pezzi sono stati
scritti soltanto per lei). Ha
collaborato inoltre con
Beatles, Elvis Costello, Tom
Jones, Aretha Franklin, B.J.
Thomas, Dusty Springfield,
Drifters e innumerevoli sono
gli artisti che ancora oggi
eseguono e riarrangiano i
suoi brani.
«Questo disco inaugura
per me un nuovo genere»,
spiega l’artista durante la
promozione di At this Time.
«Rob Stringer (proprietario
di SonyBMG e il primo a
legarlo alla casa discografica) mi ha chiesto di realizzare un album cercando di
espormi a qualche rischio in
più. Mi ha detto ‘Non voglio
un disco ricco di pezzi facili da mandare in
radio. Anche se scrivi canzoni splendide finirai
comunque per restare deluso perché la gente
dirà che non sono belle come quelle del passato’. Perciò mi sono impegnato in un progetto completamente nuovo».
Realizzato grazie alla collaborazione con
autorevoli artisti quali il re dell’hip-hop Dr.
Dre, Denaun Porter e Prinz Board dei Black
Eyed Peas, il disco include vere e proprie
mini-opere della durata di 7 minuti con
arrangiamenti ricercati e messaggi
politici piuttosto espliciti. Rufus
Wainwright e Elvis Costello gli
ospiti d’onore che prendono parte
rispettivamente ai brani Go Ask
Shakespeare e Who Are These
People?.
Nato dopo anni di silenzio, At
This Time è il suo primo album
dal contenuto dichiaratamente
politico. «Odio quello che sta
succedendo nel mondo», confessa Bacharach.
«Voglio provare a raccontare
quello
che
penso.
Dobbiamo porre fine alla violenza perché ne stiamo perdendo il controllo. Ho due
bambini piccoli e uno di 19
anni, mi chiedo che ne sarà
del loro futuro».
In un mondo dominato dall’onnipotenza dell’apparenza,
è senza dubbio rassicurante vedere
che esistono ancora artisti che utilizzano la musica come puro messaggio e non come semplice esibizione o virtuose dimostrazioni di
bravura, ma d’altronde musicisti
talentuosi e «ricchi» come lui forse
ce ne sono un po’ pochi in circolazione.
E nelle sue parole sembra quasi
di riascoltare le note di What the
world needs now is love.
28/10 ORE 21 AUDITORIUM
DELLA CONCILIAZIONE Via della
Conciliazione, 4 - Roma
J AZZ
& blues
Music In Autunno 2008
FRANK GAMBALE Ogni quanti giorni cambi corde? Usi
la corda di sol di dimensione pari al mi cantino visto che il
tuo bending lo effettui quasi sempre sul si? E poi e poi?
JIMI HENDRIX FESTIVAL Un selvaggio della chitarra, il primo
ad usare distorsioni in forma di fuzz, a sfruttare il pedale wah wah e
a conferire dignità melodica al feedback, oggi compirebbe 66 anni
È
SOLO
GAMBALE
Frank Gambale - guitar hero trasversale e musicista talentuoso - è stato scritto tutto e il
contrario di tutto; molti i detrattori di una tecnica esacerbata a tutto danno della musica e
molti (forse i più) coloro che seguono la carriera di questo fantasista delle sei corde. Certo
è che un suo concerto non può passare inosservato e sotto silenzio, e per questo nella sua recente data
romana all’Auditorium Parco della Musica ci si è trovati di fronte a un protagonista importante della
musica contemporanea, in grado di suonare rock, jazz, fusion o classica (sì, classica...) con la stessa
intensità e con un mood di volta in volta adeguato allo spirito del genere di riferimento.
Né d’altro canto Chick Corea, tanto per dire una delle centinaia di collaborazioni prestigiose di
Frank Gambale, l’avrebbe voluto al fianco nella sua Elektrik Band per tanti anni se non vi avesse
riconosciuto un talento davvero fuori dall’ordinario. In più, credo, la sorpresa di ascoltarlo con una
formazione tutta acustica (Otmaro Ruiz al piano, Alain Caron alla chitarra acustica) con la quale ha
presentato il suo ultimo lavoro Natural High, una delle piccole perle discografiche dell’anno alle
spalle e del quale si è parlato troppo poco.
L’album e il tour di promozione comprendono una elegante rivisitazione di standard riarrangiati
e pertanto ironicamente ri-titolati da Have you met Tom Jones a You are all the things; in particolare quest’ultima rilettura è una delle più convincenti che da tempo si ascoltassero, dall’inversione
del tema ad un’improvvisazione lucida, ispirata e armonicamente originalissima. Il tutto supportato dalla tecnica che, al di là di tutto, Gambale sfoggia sul suo strumento che tiranneggia in modo
illuminato e che recentemente sempre di più riesce a piegare ad esigenze espressive convincenti.
Lontano da un virtuosismo che alle volte - è vero - è risultato fine a se stesso e privo di comunicatività, Gambale è oggi un chitarrista, compositore ed arrangiatore maturo.
Per l’angolo dell’aneddotica, in un recente seminario svolto a Perugia mi trovavo in mezzo a tanti
altri più o meno giovani aspiranti chitarristi, tutti protesi a rubare briciole di mestiere a Gambale,
persona nota per il tratto umile, mite e sorprendentemente garbata nei modi. E lì, dopo i primi minuti di imbarazzo che sempre prelude a questo genere di seminari, si è trovato subissato dalle domande più bizzarre: ogni quanti giorni cambi corde? Usi la corda di sol di dimensione pari al mi cantino visto che il tuo bending lo effettui quasi sempre sul si (sic)? E poi ancora pickup, effetti, modulatori, pedali, rack, pickup, plettri, ponti, truss rod, insomma il tutto trasformatosi in un sequel di
ingegneria del suono e meccanica applicata.
Dopo aver risposto pazientemente a tutto, lui allarga il viso in un sorriso luminoso e dice: «Hey
guys, it’s just music, play it!». Ragazzi, è solo musica.
Paolo Romano
DI
HENDRIX DRITTO
IN FACCIA
P
er festeggiare una delle leggende della storia della musica che il
27 novembre avrebbe compiuto 66 anni, tutti a Stazione Birra
per la IV edizione del Festival Jimi Hendrix! Il 27 e il 28
novembre, dopo selezioni musicali e videolive dedicati al musicista di
Seattle, «James Marshall» Hendrix, saliranno sul palco alcuni fra i
migliori chitarristi hendrixiani. Prima Tm Stevens, bassista e cantante
(la cui voce viene spesso paragonata a James Brown) che vanta collaborazioni con Steve Vai, Cindy Lauper, Little Steven, Tina Turner e
Billy Joel, Pretenders, Joe Cocker ma anche Miles Davis, Mahavishu
e John McLaughlin durante i suoi esordi jazz. È qui con un sound
heavy metal funk contaminato da elementi percussivi, afro e reggae.
Quindi, Vinnie Moore: uno dei pochi chitarristi ad adottare il cosiddetto stile «neoclassico» traendo ispirazione da Yngwie Malmsteen, senza
limitarsi però ad emularlo ma introducendo nel genere uno stile del
tutto personale che lo rende uno dei più grandi shredder (guitar hero
«veloci») di tutti i tempi. Poi Ulrich Roth, in arte Uli Jon Roth, da molti
considerato l’erede più diretto di Hendrix: famoso per il suo passato
insieme agli Scorpions (il live Tokyo Tapes ha venduto un milione di
copie), che ha abbandonato nel 1978 per fondare gli Electric Sun.
Un’intera serata, quella di mercoledì, è invece dedicata a uno dei
musicisti più rappresentativi e carismatici del blues mondiale, capace
di innovarne il linguaggio e di contaminarlo con i generi più moderni:
Popa Chubby.
Il rock sanguigno, la voce sporca e grintosa e una Fender
Stratocaster affilata e swingante hanno fatto di Popa Chubby un punto
di riferimento fra i chitarristi di ultima generazione. La sua alchimia
musicale si è evoluta durante i suoi primi cinque album raggiungendo
la sua massima potenzialità con Brooklyn Basement Blues, che abbraccia blues, soul, rhythm’n blues, rock, jazz, funk e rap e riflette l’atmosfera multietnica del blues tipica di New York. Ha detto: «Il blues a
New York è una cruda musica urbana che ti colpisce direttamente in
faccia. È la personificazione dell’onestà e della realtà, che non mente
e non ha pretese».
Valentina Giosa
Tm Stevens, Vinnie Moore, Uli Jon Roth,
Popa Chubby: sono tutti insieme
a festeggiare il 66esimo compleanno
di un Foxy-man
PALCO APERTO AL CHARITY CAFÈ
Nel cuore del Rione Monti il Charity Cafè, punto di riferimento per gli appassionati del jazz che gira a Roma festeggia, con la stagione 2008-2009, otto anni di musica live.
L’iniziativa Palco Aperto & SLMC riveste particolare rilievo: due martedì al mese è Palco Aperto per i giovani talenti del Saint Louis College of Music. La nuova collaborazione prevede inoltre degli appuntamenti mensili con i «big»
del Saint Louis Management - Italian Jazz e Beyond - tra
cui: Paolo Recchia, Chat Noir, Susanna Stivali, Claudio
Filippini. La programmazione, da settembre a maggio, prevede più spazio alle voci femminili ogni mercoledì sera,
jam session il giovedì, appuntamento fisso per molti musicisti della capitale che si esibiscono in tributi ai grandi del
jazz improvvisando su standards e originals; concerti il
venerdì e il sabato. Inoltre rassegne tematiche dedicate agli
strumenti tipici e più cari del jazz e progetti dedicati a musicisti che hanno fatto la storia della musica. Tra le novità
della stagione: la Sala da tè, l’Aperitivo, il Palco Aperto
tutti i pomeriggi per suonare e blues due volte al mese per
risalire alle origini del jazz. (RG)
PO
PCK
pop&rock
a cura di CORINNA NICOLINI
Music In Autunno 2008
MARCO CONIDI Aveva aper- CLAUDIO BAGLIONI
to una porta del cielo anni fa e Un gancio in mezzo al cielo
oggi ha fatto un miracolo
e tutta la strada che ha fatto.
ELIO E LE STORIE TESE Esiste da sempre un
paese pro-Elio. Esiste un paese pronto alla contaminazione. Esiste un’Italia che non ha voglia di piangere.
MARCO CONIDI GIGANTE BUONO
Ti da di sé la voglia che non muore, le sue parole nuove, valigie e una vacanza, l’estate in una stanza, un vecchio carnevale, lo sguardo suo animale,
le storie che sapeva, i giorni in cui credeva. Il buio delle chiese, la spesa in un mercato, la chiave in un portone, un fiore ed un guantone.
a cura di Corinna Nicolini
dischi all’attivo, quasi venti anni di
carriera alle spalle e un fan club di
«angeli» che lo segue da sempre. Se
lo incontri per strada non farti intimidire dalla sua altezza, dal suo sguardo spesso
cupo e dai tatuaggi che gli vestono le braccia.
Marco Conidi è un irrimediabile romantico,
forse ferito, a tratti impaurito, di certo riservato.
Miracoli non se ne fanno è il titolo del suo
ultimo lavoro: ancora una volta ha scelto di fondere un’anima rock al suo cuore morbido, e
questa volta lo ha raccontato anche a Music In.
7
Hai baciato i marciapiedi scambiandoli per
stelle. Qual è il tuo angolo di cielo sulla terra,
il posto in cui ti rifugi?
Nonostante questo lavoro mi conceda il lusso
di girare l’Italia e mi permetta quindi di sentirmi
familiari i portici di Bologna, le nebbie padane,
i vicoli di Napoli, le distese della Puglia, lo sterrato siciliano e i bar di Milano, nonostante questi posti restino indelebili nella mia mente e nella
mia scrittura, sono fondamentalmente un animale stanziale, quindi certi colori di Roma, certi
profumi del mio quartiere, rimangono il punto di
eterno ritorno al quale non manco.
La familiarità di certi volti sono il mio rifugio,
mi piace andare in un bar e vedere che sanno
cosa prendo, ho bisogno di respirare storie, vite,
piccole e grandi sconfitte e piccole grandi vittorie di storie popolari.
Hai una foto in tasca dove sembri migliore e
un sorriso da parte per sembrare un attore.
L’impegno costante per non deludere il tuo
pubblico ti porta a migliorarti o ti schiaccia?
Il bisogno di migliorami lo sento soprattutto
nei confronti di me stesso. Non riesco a trovarmi
interessante riproponendo gli schemi che ho già
adottato precedentemente e credo che il mio stile
si nutra anche di questo. Alcuni miei colleghi
riescono a costruire carriere grandiose riproponendo sempre le stesse formule che li hanno resi
famosi, forse riescono a trovare sempre nuove
energie nello stesso recinto. Io non sono così e
appena scrivo qualcosa che mi sembra di aver
già scritto ne perdo interesse.
Le tue canzoni sembrano album di fotografie. Sono immagini di vite reali o sono la tua
fantasia?
Ho sempre scritto per immagini ed ho sempre
amato che il sapore di certe storie, di certi temi
uscissero fuori dalla descrizione di un’immagine. Ma so scrivere solo di quello che conosco,
che ho vissuto in prima persona o che al massimo ho visto molto da vicino.
Non è un caso che la mia vita sia stata costantemente inquieta, è un dazio che ho pagato involontariamente, e forse tutta la sincerità che mi
riconoscono nasce da questa fusione tra ciò che
sono e ciò che scrivo e canto.
Qual’è la parte della tua vita che assomiglia di
più ai tuoi sogni e quale quella più lontana?
I miei sogni sono riuscito a trasportarli nella
mia vita professionale. Quando scrivo o mi esibisco trovo un senso ad ogni cosa. Durante il
giorno spesso mi sento a disagio e fuori posto,
ma quando salgo sul palco, con i miei amici
musicisti accanto, tutto cambia.
La parte della mia vita più
lontana dai miei sogni è quella
sentimentale: senza amore perdiamo il meglio di noi stessi e
vedermi senza impronte importanti mi addolora. Ho avuto
qualche amore e uno che mi ha
cambiato gli occhi. Non so se
avrò la fortuna di innamorarmi
ancora ma mi piacerebbe più di
ogni altra cosa.
I tatuaggi sulla tua pelle sono:
velleità, il segno di momenti
importanti o i pensieri che
non sei riuscito a zittire?
Sono quanto di più lontano ci
sia dalle velleità. Alcuni sono
addirittura mal fatti, imperfetti,
distanti tra loro decenni, ma ci
sono impressi i miei momenti, le
mie grida, le mie voglie, sono
impresse le mie sconfitte e la
inesauribile voglia di riscatto.
Cosa ha di diverso questo
tour dagli altri?
Ogni nostro tour è diverso in
tutto: dagli arrangiamenti alla
formula con la quale ci presentiamo. Ma il segreto dei nostri
live sta nelle loro meravigliose
imperfezioni. Chi viene a vederci sa che a un certo punto succede qualcosa che rende unica e
magica l’atmosfera.
QUESTO PICCOLO GRANDE BAGLIONI
È salito su un autobus e si è esibito, ha preso una camionetta gialla ed è andato in tour nella periferia di Roma. Questo ragazzo di Centocelle è ancora nostro.
C
antava «strada facendo troverai
un gancio in mezzo al cielo», e
lui il suo gancio l’ha trovato, ci si è
attaccato ed è riuscito ad arrivare in
alto, lì, da dove non si scende più.
Ancora oggi Claudio Baglioni raccoglie sotto il palco migliaia di persone
ed è dai loro cori che si capisce quanto sia ancora vivo.
Eppure sono passati più di trent’anni dal giorno in cui l’RCA decise
di scommettere su di lui, su quel
ragazzo di Centocelle che gli amici
chiamavano «Agonia» per via di quei
maglioni scuri a collo alto e di quei
suoi occhiali spessi, dal
giorno in cui quel
bravo ragazzo uscì dalla sua stanza con quella
che poi sarà proclamata a San Remo «canzone
italiana del secolo»: Questo Piccolo Grande
Amore.
Nel ricordarla scorre davanti agli occhi il
nostro passato: un disco di vinile o il nastro di
una musicassetta consumati mentre intorno
ad un falò cantavamo a squarciagola
quel dolce-amaro
ritornello.
Impossibile
lasciarlo fuori dal
cuore: è così che
Baglioni è diventato il cantautore dei
buoni sentimenti e la sua carriera un’autostrada
che lo ha portato lontano. Ha corso, è cresciuto
sotto i riflettori di palchi montati sugli stadi più
emozionanti e, commosso da struggenti storie
d’amore, è diventato un uomo e ha iniziato ad
esprimere le sue riflessioni mature.
C’è stato anche un tempo in cui si è dovuto
fermare. Quando al concerto-evento di Amnesty
International del 1988, il pubblico lo accolse con
fischi e insulti non ritenendolo adatto all’evento,
quando anche la donna che aveva sposato e che
gli era sempre stata accanto si allontanò, quando
un brutto incidente lo ferì alle mani e alla lingua,
incassò i colpi, tutti insieme, e se ne restò a casa
sua, se ne andò a lavarsi i panni, lontano dal suo
pubblico che lo aveva lanciato per strada alla
massima velocità e ad un tratto lo aveva lasciato
schiantare. Ma il silenzio scuote più di un fragoroso applauso. Così quando torna è profondamente rinnovato: i suoi versi sono diventati giochi di parole e la musica si è accesa di ritmi
diversi. Era forse già nato il Claudio di oggi.
Alcuni tratti di strada li ha divisi con colleghi
di fama internazionale come Youssou
N’Dour, Didier Lockwood e Louis
Bacalov; i suoi tour sono stati originali e curiosi.
Nel 1991, per Oltre salì su un
camion giallo assieme alla sua
band improvvisando un concer-
to on the road nella periferia di Roma, e prima di
partite per il tour Da me a te salì sull’autobus 51
e si esibì in un live davanti a poche decine di passeggeri stupefatti; Viaggiatore sulla coda del
tempo venne presentato sugli hangar di quattro
aeroporti italiani.
Nel 1985 il suo concerto al Flaminio di Roma
fu il primo ad essere trasmesso in diretta tv, e
qualche anno più tardi, sempre lì, Claudio decise
di spostare il palco al centro dello stadio per un
evento che una rivista inglese definì «miglior
concerto dell’anno nel mondo».
Oggi ci stupisce ancora in un’impresa completamente nuova che lo mette alla prova come artista a tutto tondo. Parole da ascoltare e da leggere, immagini suggerite e rappresentate, suoni di
voci e di note. Questi gli ingredienti dello spettacolo che si terrà al Gran Teatro di Roma dal 26
novembre al 6 dicembre.
Q.P.G.A. è un film, un album, un libro, un
concerto. Fondamentalmente una storia degli
anni 70 raccontata per l’invidia di chi non li ha
mai visti e per la nostalgia di chi li ha vissuti. Ora
che i falò sono vietati dalle delibere comunali, lui
resta aggrappato al suo gancio in mezzo al cielo.
E da quaggiù qualcuno di noi con l’ accendino in
alto riesce ancora a commuoversi nel ricordo di
un amore che asciugava il mare.
Corinna Nicolini
LA TERRA DEGLI ELIIIHCAC IED ARRET AL
l’ha detto che la musica seria non possa far ridere? Ci abbiamo messo solo vent’anni
per capire che Elio e le Storie Tese sono un vero e proprio gruppo musicale. Mentre i
critici di settore digerivano mollica su mollica un cibo a loro sconosciuto i ragazzi già
cantavano a squarciagola Cara ti amo e Urna. Mentre i discografici cercavano di capire perché «questi imbecilli» riuscissero a vendere sottobanco migliaia di dischi autoprodotti i
furbacchioni della Gialappa’s se li portavano su
Italia Uno a Mai dire Gol.
Abbiamo solo dovuto aspettare che dai primi
bootleg spacciati dagli adolescenti, gli Elii arrivassero al palco dell’Ariston per riconoscere
che non si trattava di musicisti improvvisati.
E se Baudo concede un minuto e mezzo per
mettere in vetrina il proprio pezzo basta raddoppiare il bpm per farcelo entrare tutto e,
vabbè, per passare alla storia. E se dà loro l’occasione di esibirsi fuori concorso, basta indossare costumi settecenteschi per poter intonare a
chi
corde vocali tese l’aria di Figa-ro, allungando la a e facendo una bella pausa prima di finire la parola, lasciando al puro caso ogni eventuale riferimento.
La verità è che, nonostante tutto, esiste da sempre un paese pro-Elio. Esiste un paese pronto alla
contaminazione. Esiste un’Italia che non ha voglia di piangere davanti a tutto ciò che da sempre
affligge la sua mente, le sue tasche, e gli impedisce di spiccare il volo. Perché preferisce
riderci su. Esiste un paese che inorridisce quando gli Elii vengono censurati al Primo Maggio
in Rai perché la loro versione di Ti amo sui politici è troppo corrosiva. «Come Jim Morrison»,
gridava in quell’occasione il sopraccigliato
Elio. «Come sempre», pensavamo noi. Perché
non resistiamo all’irriverenza, è vero, ma solo
da quando ci hanno convinti che è l’unico
mezzo per attirare l’attenzione. Abbiamo ancora voglia di ridere nella terra dei cachi.
Corinna Nicolini
PO
PCK
pop&rock
Music In Autunno 2008
TRACY CHAPMAN Talking
about the revolution lei l’ha
fatta, la rivoluzione.
TRACY
LA BURBERA
«Ci
sono persone che stanno nel
mondo della musica solo perché vogliono diventare famose, mentre ce
ne sono altre che vogliono semplicemente fare musica: ecco, io appartengo a
questa seconda categoria.»
Molti sostengono che Tracy Chapman
sia una persona introversa, dal carattere
chiuso e spesso burbero, atteggiamento
che l’avrebbe tenuta sempre lontana dai
riflettori dei mass media.
Probabilmente, dopo gli 8 milioni di
copie vendute del primo album omonimo
(1988), nessuno si sarebbe aspettato che
la cantautrice di Cleveland, allora poco
più che ventenne, avrebbe percorso la sua
strada prediligendo esclusivamente la
propria musica.
La voce ruvida e profonda, la fusione
tra blues, gospel, soul, r&b, jazz fusion e
la sensibilità per i duri temi sociali trattati le hanno fatto guadagnare, oltre che
vari premi e riconoscimenti, la definizione di una delle più intense e raffinate
cantautrici folk afroamericane viventi.
PAOLO CONTE Beviti ‘sto
cielo azzurro e alto che sembra di smalto e corre con noi
JOAN AS POLICEWOMAN Non voglio più creare
nulla urlando come facevo da ragazzina quando credevo che il punk era dire e fare tutto ciò che mi pareva
VIA
CON LUI
Entra e fatti un bagno caldo.
Intanto, lui scrive per te
la più romantica pagina della storia
della musica italiana.
Ora puoi asciugarti
di Gianluca Gentile
apita a tutti, per forza di cose, di
essere spettatori della propria vita.
Ma essere spettatori, interpreti e
testimoni di vite, sogni, speranze,
ambizioni, delusioni che evolvono
col mutare dei tempi non è da tutti.
Descrivere con linguaggio del tutto originale, ricco di significative trame
testuali e poetiche, tipi, luoghi, situazioni, storie, atmosfere dell’immaginario
del nostro tempo è prerogativa assoluta
di un grande artista quale è Paolo Conte.
Il suo apporto in campo musicale
costituisce sicuramente una delle esperienze cardinali della canzone italiana e
il peso culturale della sua figura è
rimarcato dai numerosi premi e onorificenze ricevuti nel corso della carriera. Nato da una famiglia di legali appassionati di musica, fin da ragazzino imparerà il rispetto per le diverse culture e per il proprio luogo
d’origine, tramite due grandi passioni: il jazz americano e le arti figurative. E una volta conseguita quella laurea in legge che gli spettava, inizia a vivere le prime esperienze in campo musicale nel segno del jazz
con il Paul Conte Quartet, dando sfogo a quella irrefrenabile passione
per la canzone italiana, napoletana e per la chanson francese.
Ad un tratto sembra che il destino gli assegni il compito di scrivere alcune tra le più romantiche e ampie pagine della storia della musica italiana.
Inizia - prima insieme al fratello Giorgio e poi da solo - a scrivere canzoni, sulla scia di suggestioni assorbite dalla vita, dal cinema, dalla letteratura e dall’arte. Restando dietro le quinte sforna, uno dopo l’altro, tutti i più
grandi successi dell’epoca: La coppia più bella del mondo e Azzurro
(Adriano Celentano), Insieme a te non ci sto più (Caterina Caselli), Tripoli
‘69 (Patty Pravo), Messico e nuvole (Enzo Jannacci), Genova per noi,
Onda su onda (Bruno Lauzi) e molte altre. Più tardi l’avvocato astigiano
inizia ad uscire dall’ombra e, oltre che autore di testi e musica, diventa esecutore ed arrangiatore dei brani, nei quali una voce casuale e come distrat-
C
ta tratteggia piccole storie private o
quasi. Finalmente, con Un gelato al
limon (1979) e Paris Milonga (1981),
Paolo Conte viene consacrato al grande
pubblico, prima italiano e poi francese. I
suoi concerti, registrati nei due dischi
Concerti e Paolo Conte Live, regalano
emozioni e registrano una serie infinita di
sold out in Italia e all’estero.
Un posto singolare nella sua discografia è occupato da Parole d’amore scritte
a macchina (1990), che racconta episodi
decisamente atipici rispetto al corpus del
suo repertorio. Con questo disco e il successivo Novecento (1992), Conte si
dedica maggiormente a una sua personalità più intima, alle emozioni spicciole, assestando la propria poetica su
narrazioni e confessioni del proprio io sognante. Il 1995 ci regala forse
il suo disco più maturo di sempre, Una faccia in prestito, che raccoglie
gli elementi tipici della canzone alla Paolo Conte: la grazia plebea della
musica e il gusto per il pastiche fra epoche e stili diversi.
Dopo aver fatto sognare il suo pubblico, un successo ormai indiscusso
gli regala la possibilità di realizzare il progetto più ambizioso della sua
vita: quello di vedere inscenato il proprio musical Razmataz. Ambientato
nella Parigi degli anni 20, nel periodo e nel luogo che Conte vede come
il fermento culturale di tutte le avanguardie del Ventesimo secolo, la storia narra l’incontro tra la vecchia Europa e la nuova musica nera e la
scena è illuminata dai circa 1800 bozzetti e disegni di straordinaria efficacia che testimoniano il grande eclettismo dell’artista.
Oggi l’avvocato con il vizio del jazz torna con un nuovo album in uscita, Psiche, e una nuova serie di concerti. Il suo pianoforte e la sua voce
roca, profonda, sferzante e anti retorica torneranno al Teatro Sistina di
Roma in una sei giorni (dal 18 al 23 novembre) da non perdere per
poter continuare a vivere e a sognare tra passioni sfrenate e malinconie
di memorie passate; tutto sulle ali della musica di Paolo Conte.
NON VOGLIO COMUNICARE
URLANDO
Durante la sua quasi ventennale carriera mai sono stati stravolti lo stile e i racconti descritti, molti dei quali dipingono
un vivido quadro di povertà (morale ed
economica) della società americana nei
confronti della gente di colore.
Di certo il presunto carattere schivo
non le ha impedito di farsi portabandiera
di tutti gli artisti socialmente impegnati,
tanto da cantare al Tour Human Rights di
Amnesty International e al Nelson
Mandela Freedomfest, tra il 1988 e il
1989, nonché al concerto-tributo a Bob
Marley nel 2000. E proprio gli stessi
valori in cui ha sempre creduto le hanno
permesso di rinunciare alla partecipazione al Live 8 del 2005 organizzato da Bob
Geldof.
«Ci sono molte ragioni per cui questo
evento è sembrato, ai miei occhi, propaganda. Per esempio, gli artisti africani
sono stati in qualche modo estromessi.
Non si può parlare dell’Africa senza sentire la voce degli africani».
IL SUO OTTAVO ALBUM IN USCITA IL 10
NOVEMBRE.
Torna la newyorkese
Joan As Policewoman «per sopravvivere»
a
due anni da Real Life, la «poliziotta» torna con
To Survive, album intimista e ricercato, frutto di
un periodo di riflessione e cambiamento. «Non
voglio più comunicare urlando», dice Joan Wasser
riferendosi ai suoi esordi punk-rock. «Il mondo è già
troppo pieno di violenza». La newyorkese Joan as
Policewoman, multistrumentista e collaboratrice,
tra gli altri, di Nick Cave, Rufus Wainwright,
Antony and the Johnson e Jeff Buckley (nonché sua
ex compagna), ci racconta com’è nato il suo ultimo
album, ricco di sfumature soul, folk, elettronica e
musica classica.
JOAN
AS
POLICEWOMAN
Cosa ascoltava Joan Wasser da bambina?
Judy Garland e «Free to be you and me»!
E adesso?
Tanti, da Marvin Gaye a Radiohead, da The Knife a
Dolly Parton, da Devo a Elbow, Sly and the Family
a cura di Valentina Giosa
Stone, Elliott Smith, Astor Piazzolla, Nina
Simone, Joni Mitchell, Billie Holiday, Siouxsie
and The Banshees, The Pixies.
All’epoca del tuo primo album usavi lo slogan «Beauty is the new punk rock» che
ancora possiamo trovare sulla tua pagina
Myspace. Cosa intendevi dire esattamente?
Volevo rivisitare l’idea del punk rock. Credo
che in fondo musica punk, soul e rock siano
molto simili tra loro. Sono tutte espressioni di
emozioni molto naturali, «schiette», e utilizzano una modalità molto semplice e diretta di
comunicare. Ci sono tante brutte cose oggi al
mondo e non voglio più creare nulla «urlando»
come facevo da ragazzina quando credevo che il
punk era dire e fare tutto ciò che mi pareva
senza nessuna conseguenza, ma trovare il modo
di comunicare con quante più persone possibili
realizzando le cose più belle di cui sono capace.
Come mai hai scelto di realizzare il
video di «Christobel» cercando gente sconosciuta su Myspace e non ti sei affidata
ad un videomaker professionista?
Non sono una video maker e so che ce ne sono
tantissimi in giro su Myspace, così ho pensato
di usare quella ricchezza infinita di talento e
creatività. Ne è venuto fuori un video animato
che mi ha fatto ridere moltissimo!
Cosa pensi del ruolo della musica in quest’epoca «Myspace/Youtube»?
Che è così piena di informazioni! Ma che, fin
quando non ne diventi dipendente, è bello poter
vedere i vecchi video di Steve Wonder o Neil
Young.
Perché hai scelto di chiamare il tuo ultimo
cd «To survive»?
Il titolo si riferisce al mio modo di sentire
degli ultimi tempi, a livello personale ed universale, dovuto soprattutto alla perdita di mia
madre che mi ha insegnato a fare i conti con la
realtà. Ma con «To survive» ho voluto far riferimento anche alle condizioni della scoraggiante situazione politica che ci circonda. Mi auguro che la gente vincerà togliendo il potere dalle
mani dei maniaci.
Hai viaggiato molto durante i tuoi tour.
Qual è il posto che ti piace di più?
Roma ovviamente... e non sto mentendo!
EDGE
and back
a cura di VALENTINA GIOSA
Music In Autunno 2008
UFOMAMMUT Ufo perché psiche- THE CRANES Alison DARK TRANQUILITY
delici come l’ignoto, Mammut perché Shaw è la Lolita del dream- Per un genere in declino, ci
hanno il passato nella loro musica
pop, noi negligenti peccatori vuole questa oscura pace
SUPERNATURALMENTE UFOMAMMUT
in
sieme a Lento e Morkobot, gli Ufomammut rappresentano uno
dei pochi orgogli nazionali in ambito rock. La band di Urlo, Poia
e Vita - progetto parallelo di Malleus, collettivo artistico conosciuto e apprezzato ormai in tutto il mondo che ha appena pubblicato il
libro The Blood of the Mountain is the Hammer of God - sarà in tour a
novembre in Europa e a maggio negli Stati Uniti. Abbiamo parlato con
Vita, batterista dell’ipnotica e lisergica band piemontese.
Perché Ufomammut?
Il nome Ufomammut è nato per caso. In realtà è diventata una sorta
di leggenda: si racconta che «Ufomammut» sia stato scritto da Poia in
una lettera a Urlo, ma neppure il creatore ricorda da dove sia saltato
fuori. Questo nome è piaciuto così tanto che avevano pensato di utilizzarlo per «Malleus», progetto che era appena nato; poi, invece, è stato
utilizzato per la band e credo che calzi proprio bene con la musica che
proponiamo: Mammut si può abbinare al passato e noi abbiamo preso
tanto dai vecchi gruppi (certamente non da
quelli contemporanei), mentre Ufo rimanda
all’ignoto, alla psichedelia. E credo sia perfetto.
Come è nato il vostro progetto?
Poia, Urlo ed io ci conosciamo dal ’95.
Loro suonavano in una band che si chiamava «Judy Corda» ed era già molto all’avanguardia per l’epoca. Ci vedemmo per la
prima volta una sera in cui si esibivano in
un locale che frequentavo spesso. Quando è
uscito il loro batterista, dopo circa un anno
in cui ci eravam persi di vista, Urlo mi chiamò per farmi gli auguri di compleanno e ci
incontrammo. Appena arrivato in sala
prove, mi dissero: «Cosa fai lì in piedi, siediti alla batteria!». Così è iniziato
Ufomammut. Il prossimo anno, il 6 febbraio, sarà il decimo anno degli
Ufomammut... e il mio compleanno.
Quali sono state le vostre influenze?
Ci sono tre band che ci accomunano: Pink Floyd, Beatles (non il primo
periodo, quello di «She loves You yeah yeah yeah» (canta), ma il periodo
più acido) e i Black Sabbath. Forse anche i Blue Cheer. In generale la
psichedelia e il primo hard rock della seconda metà degli anni 60.
E lo Stoner Rock?
Si, forse qualche influenza potrebbe anche essere arrivata da lì. I Kyuss
sono grandiosi con queste chitarre cupe, con i riff che non sono mai macchinosi, sempre fluidi; poi ci sono gli Sleep e i Fu Manchu (i loro primi
quattro dischi sono bellissimi). Poia e Urlo sono amanti dei Melvins.
Come trascorrono gli Ufi le loro giornate?
Urlo e Poia, assieme a Lu, sono molto presi dal progetto Malleus e gran
parte del loro tempo libero lo dedicano a Ufomammut. Io (ride) passo la
vita alla giornata cercando di guadagnarmi da vivere: sono modellista
orafo, ho fatto l’imbianchino, sto facendo il fonico. Mi piace variare.
Avete individuato altri Ufi nel nostro pianeta?
Sinceramente, la musica contemporanea non mi entusiasma molto; mi
piace più ricercare cose vecchie perché non finiscono mai. Mi piacciono
molto i Morkobot dal vivo, che fanno parte della nostra famiglia. Sono
innovativi, strani, hanno influenze di rock progressivo anni 70. Mi piacciono anche i Lento e, per come mischiano l’hard rock e le tastierine beat
anni 60, i Monster Magnet.
L’esperienza più «ufo» che avete vissuto?
Nel 2001, durante un tour in Europa con i That’s All Folks, in una
serata di neve suonammo in Francia in uno di quei bar anonimi tutti
bianchi, dalle pareti spoglie, il bancone vuoto, il barman coi capelli
grigi. Non c’era il palco e abbiamo suonato per qualche signore di mezza
età che ci guardava. Anche il Roadburn di due anni fa ha costituito in
modo diverso un’esperienza incredibile, poiché c’erano gruppi come
Hawkwind, Orange Goblin, Solace, Ozric Tentacles e Leaf Hound.
Siete molto amati all’estero: dov’è che vi sentite più a casa?
Sicuramente in Belgio. Quando andiamo lì
abbiamo sempre un buon seguito e le serate
che ci organizzano gli amici di Orange
Factory sono sempre molto sentite, sia da noi
che dal pubblico. All’estero siamo più seguiti
perché c’è più interesse per il rock, ma anche
più organizzazione. I gruppi italiani fanno
fatica oggi a venire fuori perché in Italia si è
malati di «esterofilia», che è sempre stato un
nostro grande difetto. Negli anni 70 molti
gruppi facevano rock progressive, grandi
band che nessuno conosce oggi. Tanto che,
all’estero, è capitato che musicisti stranieri
mi parlassero dei New Trolls o dei Pfm.
Come è nata la collaborazione con i
Lento?
È nata tramite Myspace. I Lento avevano
mandato i loro pezzi alla Supernaturalcat (n.d.r.: Supernaturalcat è
un’etichetta e un centro divulgatore in cui le diverse attività di Malleus si
riuniscono: dal poster, alle installazioni video, fino ad arrivare alla musica)
e da lì è nata un’ amicizia, oltre al primo disco. Io li ho conosciuti dopo,
nel corso di una pausa di riflessione degli Ufomammut. Loro avevano già
registrato Supernatural Record One. Cinque mesi dopo abbiamo inciso
altri pezzi nella nostra saletta con Urlo e Poia ai due bassi, io alla batteria e Lorenzo e Beppe dei Lento alle chitarre.
Cosa farete nei prossimi mesi?
Un tour a fine novembre ci porterà il 21 a Innsbruck, il 22 a Berlino, il
23 a Zittau (Germania), il 25 a Manchester, il 26 a Swansea (UK), il 27 a
Londra, il 28 a Deventer (Olanda) e il 29 a Saint Niklaas (Belgio). A
dicembre per l’uscita del libro dei Malleus stiamo lavorando con Ufo,
Morkobot e Lento a delle serate «Supernaturalcat». Per ora è confermata
Ravenna, al Bronson, il 19 dicembre. A febbraio dovremmo essere in
Spagna e in Portogallo, ad aprile e maggio proveremo il Nord Europa e,
speriamo presto, gli Stati Uniti.
CARILLON ELETTRONICO
Niente paura: tornano la voce diafona di Miss Shaw, le cupe linee del basso,
l’onnipotenza dell’elettronica usata come carillon o potente tappeto di suono.
C
ome fare a non innamorarsi della suadente voce della Lolita del dream-pop?
Alison Shaw ti abbraccia dolcemente
come fosse la madre dei sogni lasciandoti immergere nell’angolo più profondo della
notte. Sussurra come una sirena ninna nanne
languide che a volte ci incantano, altre ci
inquietano un pò come l’ignoto, tanto impercettibile quanto maledettamente seducente.
Ma la magia dei Cranes non è certo solo
merito della voce diafana e trasognata di Miss
Shaw. Le cupe linee del basso, l’onnipresenza
dell’elettronica usata o come carillon o come
potente tappeto di suono, l’utilizzo frequente di
riverberi e effetti atmosferici, le dissonanze e i
riff tipici dello shoegaze fanno della band ingelse un gruppo di culto, l’unico che è riuscito ad
unire l’anima dell’art rock anni 80, l’industrial
tipico di Swans e Young Gods e il dark sound di
Joy Division, Dead Can Dance e Cocteau
Twins.
a cura di Valentina Giosa
Forever, uscito nel 1993, consacra la band di
Portsmouth come una delle più significative
della scena indie britannica. Brani come Far
Away, Cloudless, Rainbows, Jewel (che subirà
vari remix da parte di Robert Smith dei Cure, di
Jim Foetus e del responsabile della 4AD, Ivo
Watts-Russell), Everywhere (con atmosfere
dark stile Siouxsie), Golden, sono autentiche
perle di ispirazione, tecnica, eleganza, ovattate
parentesi sonore a volte glaciali e spettrali ma
così
meravigliosamente
malinconiche.
Impossibile non assuefarsi al mood etereo dei
Cranes.
Nel frattempo la band si fa notare anche nel
Wish Tour dei Cure del 1994 dove suona come
gruppo spalla. Esce Loved, il loro capolavoro
nonché uno dei lavori più riusciti dell’intero
movimento dream-pop. Costruito come concept-album attorno ai temi della solitudine e
dell’angoscia esistenziale, il disco ospita ballate ricercate e raffinate avvolte da riverberi
ossessivi e claustrofobici.
Dopo quattro pubblicazioni meno fortunate e
una lunga pausa la band ritorna nel 2004 con
Particles And Waves, disco meno acclamato
soprattutto per chi già ha apprezzato i
dischi precedenti, che sembra voler ricercare uno stile più classicheggiante.
Seguono ben quattro anni di silenzio, che
allarmano i fans più affiatati convinti
ormai che l’avventura Cranes si è spenta
così. Niente paura. La band ha annunciato l’uscita di un nuovo album seguito da
un lungo tour europeo. Si vocifera che
sarà un lavoro più elettronico e sperimentale dei precedenti ma sempre coerente al
clima onirico e distintivo della band.
Valentina Giosa
TURISAS Calano
i vichinghi
OSCURA
TRANQUILLITÀ
Si inizia nel 1989 con il sound thrash degli
svedesi Septic Broiler che cambieranno subito
nome in Dark Tranquillity già nel ‘90, avvicinandosi al melodic death. I primi successi arrivano con Anders Friden (In Flames) alla voce,
ma lascerà la band nel 1993 spingendo il chitarrista Mikael Stanne ad assumere il ruolo di
vocalist. Nel ’95 pubblicano il loro capolavoro
The Gallery. Le strutture progressive dei pezzi,
i riff intrecciati delle due chitarre e gli assoli
melodici sono i tratti più caratteristici del genere. Con gli album successivi e con l’aggiunta di
una tastiera, le strutture dei brani divengono più
accurate, la voce pulita si alterna al tradizionale growl sempre più spesso, gli arrangiamenti si
fanno più complessi, i testi più introspettivi e
quasi filosofici.
Durante i 19 anni di attività i Dark
Tranquillity hanno costantemente cercato di
espandere il loro orizzonte musicale ma senza
mai dimenticare il loro marchio di fabbrica: la
melodia tipica della scuola di Gothenburg. Una
certezza oggi, per un genere ormai in declino.
2/11 – Alpheus, Roma
Gianluca Gentile
METAL
VICHINGHI
orda di vichinghi si riversa nella bruUn
’
ghiera brandendo le proprie armi e
urlando «metal metal», e la battaglia ha inizio.
È un attacco potente, energico, magico. Foreste
misteriose e sacri cerchi di pietre fanno da sfondo alla potenza travolgente di guerrieri che
combattono, urlano, danzano e trionfano a
ritmo di musica, quella dal sapore vichingo e
suggestivo dei Turisas, band symphonic folk
metal fondata nel 1997 da Mathias Nygård e
Jussi Wickströ, che prende nome da Iku-Turso,
antico dio della guerra finlandese. Capace di far
riversare giù dalle colline orde di barbari pronti ad uccidere con riffs di chitarra potentissimi,
e nello stesso tempo di cullarli, farli sognare e
ballare sulle dolci note del flauto e del violino:
è il videoclip Battle Metal 2008, capolavoro
realizzato a seguito di un concorso in cui la
band chiedeva ai propri fans di girare un video
vestiti da vichinghi. Ecco l’appello di Warlord:
«Negli ultimi anni abbiamo notato un numero
sempre crescente di fan ai nostri show truccati,
vestiti e decorati da guerra. La cosa ci piace
molto, è ovvio che questi ragazzi ci mettono un
sacco di tempo a prepararsi per lo show, e questo non è qualcosa che qualsiasi band riceve
dai propri fan. Succede ovunque! E per questo
vogliamo dare ai nostri fan l’opportunità di
partecipare al nostro prossimo video». Esso fa
parte del dvd A Finnish Sumer With Turisas,
una raccolta di live, interviste e molto altro. I
vichinghi sono, per definizione, esploratori e
marinai, e il nuovo lavoro dei Turisas merita, di
fatto, una spedizione. Se non un saccheggio.
Cristina D’Eramo
Music In Autunno 2008
SEBASTIEN TELLIER Nel mio album sentirete il
canto di un cane, l’urlo di una donna, il rumore del crescere delle gambe, ma non la batteria... nessuna batteria
THE RESIDENTS Che
si nascondono dietro
giganteschi bulbi oculari
L’INSOSTENBILE
LEGGEREZZA DI ESSERE
SEBASTIEN TELLIER
Lui stesso raccomanda: ascoltatemi a luce di candela
Un
tizio barbuto, un po’ sovrappeso, l’aria
un po’ alla Demis Roussos, vestito
come il Lennon del periodo bianco, che si palleggia il microfono da un’inquadratura all’altra:
Sebastien Tellier, genialoide menestrello dell’elettropop francofona, tre dischi all’attivo tra
il 2001 e oggi nonché un passaggio, con il
brano Fantino, sull’Ost di
Lost in Translation di
Sofia Coppola, che li deve
amare questi francesi dato
che per il precedente
Virgin Suicides si era affidata agli Air (e si è inventata pure una glamourous
Maria Antonietta).
Air e Daft Punk sono
anche i due numi tutelari
entro cui si muove Tellier,
sempre con un’occhio alla
tradizione
chansonnier
francese. Per la stessa etichetta degli Air, la Record
Makers, produce il primo disco nel 2001,
L’Incroyable Verité. Sebastien fa tutto da sé,
suona pianoforte, chitarra, archi e basso.
Atmosfere dilatate, spleen crepuscolare. Tra
tutte spicca la dolente psichedelia di Universe,
tra la beatlesiana Blue Jay Way e Felt Mountain
di Goldfrapp.
«Nel mio album sentirete il canto di un cane,
l’urlo di una donna, il rumore del crescere delle
gambe, ma non la batteria... nessuna batteria»,
precisa. La batteria compare invece nel secondo
Politics del 2005 e a suonarla ci pensa Toni
Allen dei Fela Kuti. L’album segna il cambio di
rotta di Tellier verso un eclettismo fatto di sonorità funky e disco, con il crescendo di La
Ritournelle come leadtrack.
Passano altri quattro album, inframezzati da
collaborazioni (Mr. Oizo), riletture unplugged
(Sessions, 2006), tour al fianco di calibri come
Moby e Air, e approdiamo ai giorni nostri con
Sexuality.
L’eclettismo di Politics
sapientemente amalgamato
dalle mani di Guy-Manuel
de Homem-Christo, la
metà dei Daft Punk, Tellier
surfa leggero e libero tra
Serge Gainsbourg, erotismo e synth fine anni 70
(Sexual Sportwear: «Nelle
mie fantasie sessuali,
penso spesso a donne in
abbigliamento sportivo.
Preferisco abbassare degli
shorts piuttosto che alzare
delle gonne»).
Qua e là riaffiora la mai sopita vena malinconica (il piano di L’ Amour et la violence), mentre France Television lo impacchetta e lo spedisce a Belgrado come alfiere francese per
Eurovision 2008 (con relativa polemica in
patria e per il testo in inglese di Divine). Arriva
diciottesimo, addirittura dietro una boyband
russa e un duo canoro azerbaijano, ma la sua
Divine intanto seduce e scala le chart. Con leggerezza. L’insostenibile leggerezza dell’essere
Sebastien Tellier.
Lorenzo Bertini
RESIDENTI OCULARI
Q
uando si parla dei
Residents si pensa più
a un gruppo performativo avant-garde che a una
vera e propria band. Avulsi
da qualsiasi contesto commerciale, il gruppo assume la
connotazione di un gruppo
fantasma avvolto da un’impenetrabile aura di oscurità e
di mistero: niente volti, niente nomi, niente interviste.
I componenti si nascondono dietro enormi
maschere a forma di un gigantesco bulbo oculare.
Esordiscono nel 1974 con l’album Meet the
Residents (1974) con l’intento di risvegliare il
rock dalla fase di stallo che stava attraversando.
Alcuni dei suoi alfieri più rappresentativi (Brian
Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim
Morrison) erano caduti per sempre vittime sacrificali della grandezza del proprio mito. Da una
parte vi era un senso di disillusione postWoodstock acuito ulteriormente dalle stragi della
«famiglia Manson» e dai sanguinosi avvenimenti del concerto di Altmont del 1969. Dall’altra vi
era l’incedere sempre più invadente e nauseabondo dei pomposi capricci scolastici di stampo
«wakemaniano» e dei lustrini glam.
Di fronte a simili orpelli musicali, i Residents
rispondono destrutturandone i loro punti cardine. In netto anticipo rispetto ai gloriosi aneliti
indipendentisti post punk, rivendicavano il non
essere musicisti, ma artisti
tout court, come unica
garanzia di libertà creativa.
Ed ecco che, allo schema
classico «strofa-ritornellostrofa» si sostituiscono collages di frammenti sonori,
suoni campionati, ululati
beefheartiani e rumori
d’ogni sorta. Le partiture
bizzarre diventano lo spunto per una rilettura ironicogrottesca della realtà circostante.
Sospesi tra John Cage e Frank Zappa, non c’è
stile musicale standard che non venga riletto,
smantellato e dissacrato attraverso semplici
trame e jingle ipnotici. Non c’è spazio per melodie accessibili, ma solo cocktails micidiali di
rock, elettronica, noise, vaudeville, sperimentazione avant-garde ed elementi etnici. Tradotto in
termini pittorici l’effetto potrebbe essere come
quando si passi improvvisamente dal manierismo di Raffaello alla Pop Art di Andy Warhol.
Difficile che si canticchino mai le loro canzoni
sotto l’albero. Sicuramente saranno ricordati
come coloro che, in continua sfida con le regole
dei generi, hanno dato un decisivo impulso
all’evoluzione musicale traghettando la psichedelica di fine anni 60 fino alle porte del post punk e
della new wave ed anticipando la world music.
DIE! DIE! DIE! Energia post-punk anni
80 e frenesia post-core degli anni 90 da
uno scantinato qualunque a Chicago
EDGE
and back
TORNO POVERA
E BURLESQUE
Le follie dei poveri. Torniamo a quando non avevamo una lira, fumavamo cicche
e ci piaceva guardare queste donnacce nei loro sketch. Bei tempi.
Che il vintage fosse di moda in questi ultimi
tempi non è certo una novità. Lo stile retrò di
Amy Winehouse, che fra un «capriccio» e l’altro ha conquistato un po’ tutti, il grande successo della Vintage Fashion (sono uscite addirittura
delle guide per potersi districare fra gli ormai
innumerevoli negozi che ne sono nati), il grande
boom del jazz, ormai lontano
dall’essere un genere di nicchia e degli spettacoli di
cabaret anni 20 (vedi
Berlino, dove numerosi e
frequentatissimi sono persino i saloons specializzati in
acconciature dell’epoca),
fanno del vintage una vera e
propria mania. Forse per
mancanza di estro e nuovi
talenti, o forse per la pigrizia
che ormai ci appartiene da
quando
siamo
caduti nella rete (è
proprio il caso di
dirlo), ormai dominati dallo stra-uso
dei computer e dei
nuovi media, continuiamo a guardarci indietro ed
appropriarci, spesso anche male, di
pezzi dal caleidoscopico puzzle del
passato.
L’ultima «tentazione» (e anche
qui la parola mi sembra appropriata) è quella del
burlesque, spettacolo parodistico nato nella
seconda metà dell’Ottocento nell’Inghilterra vittoriana ed importato successivamente negli Stati
Uniti, dove riscuote grande successo soprattutto
fra gli strati di società meno abbienti (viene
infatti anche chiamato: the poor man’s follies, le
«foliès» dei poveri).
Il burlesque si era fatto strada grazie allo scalpore creatosi attorno alla compagnia delle
British Blondes di Lydia Thompson, a Little
Egypt e alle produzioni dei fratelli Minsky.
Consisteva in uno spettacolo variopinto di
danza, canto, illusionismo, sketch comici e
«anche» striptease (termine che in realtà è stato
coniato negli anni 50).
Con il tempo, come spesso accade quando si
segue una moda solo perché è moda e non per-
ché si sceglie uno stile, lo show ha perso vari
pezzi di «quel puzzle» finendo per essere «solo»
uno spogliarello, che per fortuna ha però mantenute inalterate le sue caratteristiche di ironia e
provocazione (striptease è infatti la crasi di due
verbi inglesi: to strip, spogliare; to tease, stuzzicare, provocare). Non è il caso di Miss Dirty
Martini, Julie Atlas Muz,
Pontani Sisters, Cecilia
Bravo e Dita Von Teese
che sono riuscite a portare avanti la tradizione
con grande maestria e
spiccato talento, divenendo le Dixie Evans, Gipsy
Rose Lee, Tempest
Storm, Blaze Starr, Ann
Corio dei nostri tempi. Il
burlesque ha con il tempo
ispirato, insieme al cabaret tedesco e al vaudeville, la nuova corrente
chiamata dark cabaret,
influenzata oltre che dall’estetica dei tre
generi teatrali,
anche da folk,
punk,
death
rock,
gothic
rock e darkwave, e dal genere
cinematografico noir.
Due appuntamenti imperdibili il 14 e il 15
novembre alle
ore 22 per tutti
gli amanti del
genere e per i
più curiosi. Il
Micca
Club,
primo locale a
Roma a proporre le originali esibizioni di burlesque nel corso delle serate musicali, porterà sul
palco in occasione della terza edizione del Roma
Burlesque Festival Missy Malone, Lily White,
Fancy Chance, The Bee’s Knees, Miss Beeby
Rose e il Micca Burlesque Combo. La serata
sarà presentata da Greg (Claudio Gregori) e,
direttamente da Parigi, dalla cantante ballerina
Lady Flo.
Valentina Giosa
Eugenio Vicedomini
D I E !
Tre
D I E !
D I E !
ragazzini neozelandesi: Andrew Wilson, Michael Prain e Lachlan Anderson. Look dal sapore indie-neo punk e
tanta vitalità e freschezza. Sono i Die! Die! Die!, nati circa due anni fa a Chicago in un seminterrato qualsiasi e già conosciuti e apprezzati in tutto il mondo tanto che il loro ultimo lavoro vede alla consolle uno dei più grandi della
produzione rock-alternativa degli ultimi anni, Steve Albini (Nirvana, Pixies, PJ Harvey). Promises, Promises, uscito per
la californiana S.a.f. Records, è un concentrato di energia post-punk anni ‘80 e frenesia post-core degli anni ‘90. Niente
pause a separare un pezzo dall’altro: si tratta di una corsa irrefrenabile dove spiccano l’ ossessiva e martellante Death
To The Last Romantic, la sconvolgente A.T.T.I.T.U.D., dove allo spelling urlato si alternano strofe dominate da un’impeccabile padronanza della melodia, fino alla violenta Throw a Fit e alla più introspettiva Blue Skies. Un mix di voci androgine e nervose, bassi pulsanti, chitarre incisive, ritmiche ossessive (così come la loro ossessione per la ripetizione dei
nomi…) che grazie alle lezioni di autentici maestri come Joy Division, Wire, Pixies e Black Flag coinvolge e diverte. I Die!
Die! Die! sono qui a riconfermare che la nuova generazione neo post punk, che unisce la venerazione per gli anni 80 a
ricordi noise rock e hardcore, non è ancora passata. (Valentina Giosa)
MUSICALL
a cura di ROMINA CIUFFA
L’ALTRO LATO DEL LETTO Una
commedia musicale che, dalla Spagna,
travolge Simone Alessandrini e noi
Music In Autunno 2008
DI’ A MIA FIGLIA CHE
VADO IN VACANZA Grazia Di
Michele, da cantautrice ad attrice
MAMMA MIA! Meryl Streep porta sul
grande schermo il musical più acclamato
di Broadway, insieme ai pezzi degli Abba
A LETTO CON SIMONE
a cura di Romina Ciuffa
chi
dorme dall’altra parte del nostro
letto? A volte non diamolo per
scontato, perché c’è tutto un
mondo da scoprire spostandosi
solo un po’ più in là. Si rigira nel lettone, allora, Simone Alessandrini, che suona il sassofono
nella trasposizione teatrale della commedia spagnola «El otro lado de la cama», degli spagnoli David Serrano e Robert Santiago, un tormentone in madrepatria, qui passato in cavalleria.
Innegabile la genialità della versione originale, dove il ritmo serrato delle vicende dei quattro protagonisti viene battutto da una colonna
sonora perfetta, spensierata, forte e immediata.
La storia, un classico intricato della commedia
spagnola: la fidanzata lo tradisce con il suo
migliore amico e la fidanzata del suo migliore
amico diventa la sua amante, in un turbinio di
coppie, etero e omosessuali, che nascono e
scoppiano nel giro di pochi minuti.
Nell’altro lato del letto della Sala Umberto,
con traduzione, adattamento e regia di
Marioletta Bideri e Stefano Messina, ci sono
Vittoria Belvedere, Michele La Ginestra e
Augusto Fornari ad esprimere, con parole e
musica, il proprio punto di vista.
Lui, Simone Alessandrini, è là sopra. Classe
83, inizia lo studio del sassofono all’età di dieci
anni. Ha suonato colonne sonore inedite per
vari spettacoli teatrali: Storie…di Musica e A
spasso con la musica di Daniela Remiddi. Oggi
approfondisce la ricerca e lo studio del jazz
presso il Saint Louis College of Music, ed è su
questo palco.
El otro lado de la cama è un film che in
Spagna ha riscosso un grande successo perché ha saputo mescolare la musica al film
senza cadere nelle vecchie critiche sul genere. In Italia è invece passato in cavalleria
come un film da videocassetta per pochi
amatori: anche perché esso fa un tutt’uno
con i testi delle canzoni, che sono in spagnolo. Nella vostra commedia in che modo le
canzoni si amalgano con la storia?
Logicamente la trasposizione da un film a una
commedia teatrale richiede un totale cambiamento dei tempi recitativi e non solo: in questo
caso lo spettacolo, essendo straniero, è stato
«italianizzato» nei testi in modo da renderlo più
diretto e divertente possibile. Si tratta di uno
spettacolo dinamico dai ritmi molto serrati, e si
passa nella maniera più naturale dalla scena
recitata alla parte musicale. Come nel film, il
personaggio continua il suo discorso attraverso
la musica non creando divario tra i momenti.
Qual è il tuo ruolo nello spettacolo?
Sono il sassofonista della band dello spettacolo, un sestetto che accompagna i personaggi
nelle loro performance canore. Ovviamente tutti
i brani sono eseguiti dal vivo.
Chi sono i tuoi compagni di viaggio?
Ippolito Pingitore alle percussioni, e i
«Kandelabrum», felice realtà del rock pontino:
Marco Trapanese alla chitarra, Stefano Milani
alle tastiere, Stefano Valenti alla batteria e
Giacomo Valenti al basso. La particolarità di
questo spettacolo è che i musicisti si trovano sul
palco assieme agli attori e con un gioco di luci
appaiono nei momenti musicali.
Simone, tu chi sei?
Sono un musicista di Roma, ho iniziato a suonare il sax all’età di 10 anni e da allora mi sono
trovato in varie e differenti esperienze musicali:
classica, contemporanea, jazz, rock, world music
fino ad approdare nel mondo del teatro grazie a
Pino Cangialosi, mio ex insegnante di musica
d’insieme al Conservatorio «Ottorino Respighi»
di Latina dove mi sono diplomato, con il quale
lavoro in vari progetti da qualche anno. Faccio
parte della Libera Orchestra di cui lui è il direttore: un organico di circa 20 elementi che passa
con molta disinvoltura dalla musica barocca a
Duke Ellington fino ad arrivare ai Led Zeppelin,
collaborando con molti musicisti ed attori di
fama nazionale come Tosca, Pino Ingrosso,
Paola Minaccioni, Marzouk Mejiri etc. È lui
l’autore delle musiche di questo spettacolo, in
cui mi ha coinvolto.
Che futuro ha in Italia, per te, un cd prodotto nell’ambito di una commedia teatrale?
Purtroppo il teatro in Italia non sta attraversando un bel periodo: con il passare degli anni è
frequentato sempre meno, ma credo che la pubblicazione del cd di un musical possa suscitare la
curiosità della gente invogliandola a vedere lo
spettacolo dal vivo.
Si tratta di pezzi che possono essere ascoltati
«a se stante» ovvero di qualcosa che non può
prescindere dalla teatralità dello spettacolo?
Perché ovviamente, nel secondo caso, il cd sarà
più un esperimento che una raccolta di brani.
In ogni musical ci sono sempre stati brani che
hanno avuto un seguito a sé, molti di questi
hanno fatto il proprio cammino negli anni quasi
svincolandosi totalmente. Mi viene in mente la
famosa «Over the rainbow» tratta dal Mago di
Oz, della quale molta gente non conosce la provenienza.
Che genere di musica troviamo ne «L’altro
lato del letto»?
Fondamentalmente musica pop, con influenze
latino americane in alcuni brani; in altri swing,
comunque melodie semplici e molto orecchiabili.
Per un musicista c’è differenza suonare in un
musical rispetto ad un normale concerto?
Sono due modi totalmente differenti di affrontare il brano da eseguire: in un concerto si è protagonisti assoluti, ci si prendono a volte molte
libertà. Suonare in un musical anche se all’apparenza può sembrare più semplice, ha delle difficoltà: viene messa a dura prova la concentrazione perché, con tempi e pause da rispettare, tra
un intervento e un altro può scendere la tensione
e quindi si fa più fatica a «scaldarsi».
MAMMA MIA MERYL!
S
e il tuo nome è Meryl Streep, hai alle spalle
una brillante carriera nel mondo del cinema,
hai vinto due premi Oscar e sei universalmente
riconosciuta come una delle attrici più eleganti e
raffinate, puoi permetterti di fare ciò che vuoi.
Anche toglierti qualche sfizio, come quello di
portare sul grande schermo il musical del
momento, Mamma mia!, e interpretare la colonna sonora composta dall’intero repertorio degli
Abba, il gruppo svedese che tra il ‘72 e l’82, conquistò la popolarità presso il nascente popolo
della disco music, grazie a brani semplici e orecchiabili, come quello che dà il titolo al musical.
Phyllida Lloyd e Catherine Johnson, rispettivamente regista e sceneggiatrice dello spettacolo - e ora anche del film tratto da esso - sembrano aver scoperto la ricetta giusta per il successo: Mamma mia!, grazie a una trama costruita
intorno alle canzoni più famose degli Abba, ha
imperversato sui palcoscenici di tutto il mondo,
arrivando a incantare più di 30 milioni di spettatori entusiasti. Il tutto è avvenuto con il benestare degli stessi Bjorn Ulvaeus e Benny
Anderson, vale a dire la metà maschile degli
Abba, coloro che scrivevano testi e musica.
Sulla scia del successo delle rappresentazioni
teatrali, le autrici del musical ora tentano la via
del cinema, scegliendo come protagonista
Meryl Streep, la quale accetta un ruolo per lei
insolito. L’attrice ha tutte le carte in regola per
interpretare un musical, avendo tra l’altro studiato canto da ragazza, ed inoltre è stata lei stessa affascinata come spettatrice in un teatro di
Broadway dallo spettacolo, tanto da scrivere
una lettera di complimenti come farebbe
un’ammiratrice qualsiasi.
Mamma Mia! è la storia di una madre single
e di sua figlia, che alcuni giorni prima del suo
matrimonio vuole scoprire chi è il padre che
non ha mai conosciuto. La figlia spedisce un
invito ai tre possibili candidati, perché il vero
padre la accompagni all’altare e tutti e tre si
presentano all’appuntamento. Sull’isola greca
in cui gestisce un piccolo albergo, la madre si
ritrova così a fare i conti con il passato, incontrando dopo vent’anni non solo i suoi vecchi
amori ma anche le sue migliori amiche dell’epoca.
Per la trasposizione cinematografica del
musical non si è badato a spese. Nel cast infat-
g
razia Di Michele, cantautrice e
musicoterapeuta, debutta in teatro
nell’insolita veste di attrice. Lo
spettacolo, che la vede coprotagonista
insieme ad Alessandra Fallucchi, è
risultato vincitore del premio Molière
in Francia ed è stato tradotto in Italia
col titolo Di’ a mia figlia che vado in
vacanza.
La cantautrice romana non è nuova
sul palcoscenico teatrale: nel 2004,
insieme con Maria Rosaria Omaggio,
ha portato in tournée le canzoni di Italo
Calvino in un recital che univa letteratura e musica, ma
mentre in quel contesto si limitava a
suonare e a interpretare i brani musicali, in questo caso
per la prima volta
dovrà affrontare
una vera e propria
prova d’attrice.
Di’ a mia figlia
che vado in vacanza è una storia
ambientata in prigione: due detenute
di diversa estrazione sociale dividono
lo spazio esiguo di
una cella.
Entrambe portatrici di un segreto, col
tempo vinceranno la reciproca diffidenza e impareranno a volersi bene, unite
da una solidarietà che sa trasformare in
comica anche la situazione più tragica.
Lo spettacolo, scritto da Denise
Chalem, scrittrice francese di tradizioni
ebraiche, è diretto da Maddalena
Fallucchi ed è prodotto dalla compagnia «Il carro dell’Orsa»; le musiche di
scena e i brani musicali sono composti
dalla stessa cantautrice.
Grazia Di Michele, in oltre 30 anni di
carriera attraverso le sue canzoni è riuscita a raccontare la fragilità e la forza
delle donne: adesso proverà a farlo
anche da attrice. (A Roma, al Teatro
Due dal 17 ottobre al 16 novembre)
Nicola Cirillo
ti, oltre a Meryl Streep, ci sono Pierce Brosnan
e Colin Firth, anch’essi alle prese con ruoli ben
distanti dall’Agente 007 e dal Mark Darcy di
Bridget Jones. Le riprese sono ambientate in
una splendida isola greca immaginaria:
Kalokairi. Sembra di entrare in un paesaggio da
favola, una di quelle classiche cartoline con
distese di mare circondate da case bianche e
blu. I buoni sentimenti sono al centro della storia: il rapporto madre-figlia, l’amicizia tra
donne, vecchi amori che non si dimenticano e
seconde occasioni da prendere al volo.
La regia punta tutto sulla nostalgia - come
poteva essere altrimenti per un musical che
PURIFICAZIONE HAIRSPRAY
Il Teatro Sistina ha ospitato il musical Hairspray-Grasso... è bello! per
la regia di Massimo Romeo Piparo, riproponendo il film-musical americano in una versione tutta italiana. Scritto da John Waters nel 1987, inizialmente fu un’esilarante commedia cinematografica nemmeno a
farlo apposta senza canzoni, ma ben presto l’opera divenne un musical teatrale per poi ritornare al cinema, lo scorso anno, in un film di
successo, grazie anche allo straordinario cast di attori, tra cui spicca,
nel ruolo della simpatica cicciona ‘en travestì’, John Travolta.
Nel cast di Piparo (Jesus Christ Superstar, Evita, Tommy, My
Fair Lady, La Febbre del Sabato Sera, Lady Day e Alta Società)
troviamo Stefano Masciarelli nei panni della triste Edna, che solo
grazie alla figlia e al ballo riacquista fiducia in se stessa. Le musiche di Marc Shaiman arrangiate e dirette da Emanuele Friello
(Cats, La Febbre del sabato Sera, Lady Day, Alta Società) rievocano i fasti e l’allegria del rock’n
roll anni 60 con incursioni rhythm&blues e gospel su cui il coreografo americano Bill Goodson
GRAZIA VA
IN PRIGIONE
invece di proporre brani originali si limita a far
rivivere vecchie hit degli anni 70? - e se scommetti sulla nostalgia, sentimento sempre di
moda che non tramonta mai, non puoi sbagliare. Sia per chi allora era ragazzo, sia per chi
quegli anni li ha vissuti di riflesso, non c’è
scampo: che lo vogliate o no le canzoni del
gruppo svedese entrano in testa prima che voi
possiate opporre resistenza e restano lì. Tanto
vale ballarci su, come fa Donna, la protagonista, che coinvolge le sue amiche e tutta la popolazione femminile dell’isola in una danza collettiva sulle note di Dancing Queen.
Il segreto di Mamma Mia! è quello di proporre con semplicità un tuffo nei ricordi e di far
vivere allo spettatore una breve vacanza dalla
quotidianità. Allora, staccate il cervello e seguite il ritmo. Soprattutto, non sentitevi in colpa se
battete il tempo con il piede e il giorno dopo
fischiettate The Winner Takes It All: in fondo,
quella che avete visto sgolarsi e saltellare sullo
schermo è pur sempre Meryl Streep.
Roberta Mastruzzi
di Elisa Angelini
muove il suo chorus di 16 ballerini, in un equilibrio pop-jazz.
Lo spettacolo, al limite tra il cartoon e la fiaba, racconta di un mondo assolutamente ideale dove
la bellezza morale trionfa sulla caducità «del dover apparire a tutti i costi» e dove una ragazza «paffutella» riesce a farsi notare e a trionfare solo grazie alla sua simpatia e audacia, lottando contro la
discriminazione e la diffidenza nei confronti del diverso in una società troppo attenta all’aspetto
fisico. Centrale nel musical è il tema del razzismo e della diversità; su pregiudizi e preconcetti trionfa la capacità di essere se stessi ad ogni costo, sfidando i benpensanti e gli ipocriti. Insomma, vincono la solidarietà, il rispetto e la comprensione.
Questo musical non si fa mancare proprio nulla: dalla colonna sonora rock’n roll (come non rimpiangere Grease?) ai costumi color pastello, alle acconciature laccate e, ciliegina sulla torta, l’atmosfera dei «mitici» anni 60. Ciò che stupisce veramente è che proprio dal mondo dello spettacolo emerge questo moralismo esasperato che continua a dirci «Dai! Non esistono diversità!». È la
voglia di «purificarsi» dalle tante Veline e vallette, è la continua ricerca di quella bellezza che esula
completamente dal corpo, ma che ha molto a che vedere con quello che una persona trasmette: il
trionfo della personalità.
BALLET
Music In Autunno 2008
SANTASANGRE Non cadere nella
tentazione di definire i Santasangre una
compagnia di danza. Troppo facile.
FETHON MIOZZI È un coreografo romano
a insegnare Danza Classica nello storico istituto Agrippina Vaganova di San Pietroburgo.
BHARATA NATYAM
Purificare il genere umano
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
SANTASANGRE: L’APOCALISSE
Con l’aumento di un grado della temperatura atmosferica il mare sommergerebbe una parte del Golfo del Bengala,
con quattro Venezia e Saint Tropez, con sei sarebbe desertificazione. I Santasangre reagiscono così.
on cadere nella tentazione di definire i
Santasangre una compagnia di danza.
Sta infatti avvenendo di recente, e con
una certa frequenza, che li si contatti,
cerchi e intervisti partendo dal presupposto
fuorviante che essi siano sostanzialmente
un gruppo di danza. Così non è.
Diana Arbib, Luca Brinchi, Maria Carmela
Milano, Dario Salvagnini, Pasquale Tricoci e
Roberta Zanardo stanno tracciando un percorso che indaga le tensioni e le possibili vie
di fuga del corpo. Si decide di lavorare sul
corpo e si prende una direzione al fine di
arrivare ad una riscrittura: c’è una ricerca,
che porterà a formalizzare dei gesti, e questi
gesti verranno ripetuti. Questo sarà il punto
di arrivo, che non si riusciva neppure a
intravedere, al momento della partenza.
Lo spettacolo Seigradi. Concerto per voce e
musiche sintetiche fa l’apparizione sulle scene
nel dicembre 2007 per la festa di chiusura
del RomaeuropaFestival: si tratta della
prima tappa del lavoro, venti minuti ben
confezionati, dalla struttura autonoma. È un
progetto prezioso, che può crescere, e del
quale il suddetto festival si fa produttore.
L’estate ha visto i Santasangre portare il
N
secondo studio dello spettacolo in tutta
Italia, dal nord al sud, e a Groningen, in
Olanda, al Noorderzone Festival. Quindi, al
Palladium di Roma uno spettacolo di circa
50 minuti. Sulla scena Roberta, sola e avvolta da un tridimensionale apparato scenotecnico e video che utilizza l’ologramma a
riflessione. La proiezione non ha nessun
piano su cui appoggiarsi. Si agisce dall’interno, ci si muove entro una figura evanescente che permette di entrare ed uscire.
Il tutto, per affrontare con la trilogia Studi
per un teatro apocalittico l’Apocalisse nel
senso del termine scisso dalla religione,
quello legato al concetto di «rivelazione».
Dopo aver squarciato il velo su un futuro
politico e sociale con gli spettacoli 84/06
(ispirato a George Orwell) e Spettacolo sintetico per la stabilità sociale irrompe il tema dell’emergenza climatica. Se la temperatura
della Terra si alzasse di sei gradi, saremmo
destinati senza speranza all’estinzione.
Nessun lavoro didascalico, ma un forte interesse nel lanciare l’allarme e scatenare la
riflessione; Seigradi. Concerto per voce e musiche sintetiche si pone l’obiettivo di rivelare
un possibile futuro prossimo. In scena la
ricerca sul ciclo vitale dell’acqua, affidata ad un surreale
minimalismo, giochi di voci e
di effetti ad accompagnare
immagini che vanno dall’abbondanza alla desertificazione.
Sola sul palco, sempre di
spalle e in posizione centrale
(limiti spaziali serrati che
sono stati di grande stimolo
nello svilupparsi del progetto: il risultato è uno spettacolo del tutto strutturato),
Roberta Zanardo sarà corpo,
voce
ed
anima
dei
Santasangre.
Centro di uno spettacolo di
teatro-danza sperimentale e,
per cinquanta minuti, centro
del nostro mondo. Cinquanta
efficaci minuti per ricordarci
che respiriamo e sospiriamo
tutti sotto lo stesso cielo.
Rossella Gaudenzi
ITALIAN BALLET IN FUGA FETHON MIOZZI
all’algida San Pietroburgo arriva finalmente la conferma.
Dopo il vociferare che per tutta l’estate ha solleticato la
curiosità e le riflessioni di coreografi, ballerini e appassionati di danza nostrani, oggi la notizia è certa: il coreografo romano Fethon Miozzi (di madre greca e padre italiano), definito dalla critica internazionale «il più bel talento della sua generazione», ha ottenuto la cattedra di Danza Classica presso lo storico istituto coreografico Agrippina Vaganova di San Pietroburgo, diretto
da Altynaj Asylmuratova. Accademia presso la quale, con una borsa
di studio tra le mani, dopo essersi diplomato nel ‘90 a Roma, ha portato a compimento i propri studi, potendo confrontarsi con maestri
del calibro di K. Seergheev, N. Dudinskaia, V. Semionov, M.
Daukaev, T. Fesenko, L. Kovaliova, N. Pavlova, M. Vazhiev.
Trattasi stavolta di Italian Ballet in fuga; il riconoscimento presti-
gioso va ad un’arte antichissima e proviene dalla severa e accademica Russia, patria indiscussa del balletto classico. Il ballerino dalle
morbide linee e dal salto leggero è prepotentemente presente da
tempo nei teatri di San Pietroburgo; unico italiano a calcare le scene
dal Teatro Marijinski ed unico italiano a ricevere un’approvazione
totale, da parte degli addetti ai lavori e da parte di un pubblico che
non perdona, tanto è preparato ed appassionato.
Nessuna traccia di questo talento su due grandi vetrine che quotidianamente catturano il nostro tempo: Youtube e Myspace. Un peccato per chi avrebbe voluto ammirarne la maestria per la prima
volta, ma va accettato come dato di fatto il punto di vista di molti
artisti, che spesso sfuggono al grande pubblico per rimanere protetti, al sicuro, nella loro nicchia.
Rossella Gaudenzi
D
Fl a me nQueVive
P I N T U RAS
L’OMAGGIO DEL FLAMENCO
A PABLO PICASSO
flamenco come celebrazione
dell’arte geniale e folle di Pablo
Picasso: questa l’ultima scelta artistica della compagnia italo-spagnola
FlamenQueVive, in cartellone al
Teatro Italia di Roma dal 28 al 30
novembre. Ritmi di danza flamenca
ad interpretare quelle Pinturas dal
forte impatto che il maestro andaluso ha consacrato all’eternità.
IL
Un linguaggio che per sua natura
oscilla tra allegria e dramma, tra passione struggente, sfrenata e manifestazione della sensualità lenta, serpeggiante. A tinte forti, si narrano il
mondo e la vita del pittore, con il supporto di luci, proiezioni e colori.
Fusione di arti, per uno spettacolo
che vuole esplodere come un’esaltazione della vita. AL TEATRO ITALIA, VIA
BARI, 18 - ROMA - TEL. 06 44239286
ESPRESSIONE-MELODIA-RITMO
BHA-RA-TA
legante, sofisticata, emozionante,
tanto complessa quanto affascinante,
Bharata Natyam è una delle più antiche forme di teatro-danza indiano. Fu
creata - si crede - da Brahma per purificare e
sensibilizzare il genere umano, portare pace e
bellezza al mondo. Nasce nel sud dell’India, nel
Tami Nadu, come preghiera danzata, per essere
eseguita nelle principali festività religiose
all’interno dei templi ed è giunta nei palcoscenici di tutto il mondo solo nel ‘900.
La struttura coreografica è composta da tre
momenti fondamentali, Nritta, Nritya e
Abhinaya, che caratterizzano i due aspetti tipici
del Bharata Natyam, una forma astratta di
danza pura, basata su ritmi scanditi dal battito
potente dei piedi a terra che disegnano radiose
successioni di forme geometriche con saltelli
veloci e graziosi movimenti delle articolazioni
e una parte recitata. Nritta, la danza astratta,
comprende Karana, la posizione e il movimento del corpo e Adavu, la posizione dei piedi in
riferimento al suolo, che insieme danno vita a
movimenti eterei e superbe pose scultoree.
Nritya e Abhinaya fanno invece riferimento
al racconto di episodi della mitologia indiana
attraverso le Mudra (movimenti delle dita delle
mani utilizzati come alfabeto narrativo) e il linguaggio emozionale dell’espressione del volto
con gli occhi, le sopracciglia, la bocca.
Amore, Umore, Compassione, Collera,
Coraggio, Paura, Rifiuto, Sorpresa, Pace
d’Animo sono i Nava Rasa, i sentimenti base
contemplati nella tradizione dell’India e che nel
Bharata Natyam vengono magnificamente narrati. Un inno alla bellezza e all’armonia fisica e spirituale dove mito, rito e arte, espressione (Bha),
melodia (Ra) e ritmo (Ta), si fondono armonicamente in uno spettacolo che costitusce una vera e
propria «esperienza spirituale» per il pubblico,
che si troverà immerso in un’ affascinante dimensione fuori dal tempo e fuori dal comune.
E
JOHANNA DEVI
Come una superba scultura vivente, con energia, forza e precisione nel ritmo e un’ ineguagliabile grazia, delicatezza ed eleganza nei
movimenti accompagnati da una recitazione
carismatica, Johanna Devi disegna con la sua
danza antica, armonici e incredibili scenari che
sembrano racchiudere secoli e secoli di vita.
Perché hai scelto questa insolita e affascinante forma di danza, Bharata Natyam?
Amo da sempre le storie dell’antica India, e
durante il mio viaggio in India ho imparato
molto della cultura e dei simboli della tradizione
indiana. La cosa che mi piace è che il Bharata
Natyam unisce tecnica e ritmi complessi ad un
aspetto narrativo e per me è essenziale trasmettere un messaggio al pubblico. La
mitologia indiana è così ricca di
significati e di insegnamenti per la
vita e tradurre questo in danza è
stupefacente, regala sempre qualcosa di molto speciale sia all’esecutore che al pubblico.
Due parole per descrivere
Bharata Natyam…
Geometrico, equilibrato, ritmico, lirico, intenso.
Come definiresti il tuo stile?
Vario. Ho studiato con diversi
insegnanti di Kalakshetra: con
Rajyahsree Ramesh da cui ho
appreso lo stile «Pandanallur», e
con Lata Pada, che mi ha insegnato lo stile «Tanjavur».
Quando mi occupo di coreografia mi piace molto combinare elementi di Bharata Natyam e la tecnica contemporanea e questo è
molto interessante per esplorare la forza creativa di ogni singolo genere e linguaggio.
Qual è il tuo prossimo progetto?
Una coreografia a cui sto lavorando insieme a
due grandi musicisti, Kilian Herold (clarinetto) e
Alpesh Moharir (tabla) e ad un’altra straordinaria artista, Nicole Wendel.
Sarà una produzione multi-sensoriale che
unirà elementi della musica, della danza e dell’arte dell’est e dell’ovest. Sono molto entusiasta
di questo progetto.
Qual è il tuo suggerimento per le persone che
vogliono imparare il Bharata Natyam?
Avere tanta pazienza e resistenza. È una tecnica molto difficile che richiede anni di dedizione
e pratica ma - una volta superata la prima fase e
capito le posizioni, il ritmo e i passi base - avrai
solo da divertirti.
Valentina Giosa
CLASSICA
MENTE
a cura di FLAVIO FABBRI
MIGUEL MARTINEZ Cantatina
22 luglio 1832 Riporta in vita
Rossini come da una marea basca
Music In Autunno 2008
ARTE Domenica Regazzoni
Un modo diverso di ascoltare
musica: scolpirla.
GIOACCHINO ROSSINI La sua Cenerentola
la guarderemo in estate mentre cuciniamo.
UNA CANTATINA
TRA ROSSINI E MARTINEZ
Il Maestro Miguel Martinez scopre una Cantatina di Gioacchino Rossini e ce la consegna come la marea della sua città,
San Sebastiàn, ogni mattina riporta nuovi oggetti, con ardore. È la storia di Amore e Imene: e Amore lo guardo in faccia
mentre questo spagnolo - che ormai è un romano - mi parla del manoscritto dei conti Catanzano. Imene, invece, resta
un’estasiante rottura da quello che era ieri (vivevo anche senza Rossini) e quello che è oggi. Come perdere la verginità.
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
(...)
Un pianista grande, anche lui come il
suo predecessore; in comune - oltre a
questo - il fatto di essere vissuti entrambi a cavallo di due secoli (Rossini, 1792-1868) e di esser
stati adottati da uno Stato limitrofo al proprio, la
Francia parigina per il Cigno di Pesaro, l’Italia
per questo nostalgico maestro di San Sebastiàn.
Poi, la mente corre proprio all’alta marea che
di notte invade la città basca, all’oceano che
ogni sera bagna e ricopre le spiagge, all’idea che Martinez conosce bene - che vi sia un
mondo intero nascosto lì sotto, che attende solo
la luce del giorno per emergere.
di ROMINA CIUFFA
Ecco, dalla marea, la Cantatina 22 luglio
1832. L’ha scoperta e la tiene a casa, l’originale
con la firma autografa di Gioacchino Rossini
(che è sua lo hanno detto i periti: radiografia,
raggi ultravioletti, ialografia, pinacografia,
macrofotografia, esami al radar, esami grafostilistici-calligrafici, confronto grafologico lettera
per lettera, numero per numero, con Il viaggio a
Reims e Il Barbiere di Siviglia). Cinquantasette
pagine di foglio rettangolare, inclusa la copertina e l’ultima, bianca. Dodici pentagrammi per
foglio, la pagina del titolo sporca e macchiata (e
macchie anche altrove). Tre voci soliste: Amor
SCOLPIRE
LA MUSICA
Un modo diverso di «vedere» la musica:
scolpendola. Una liuteria onirica,
i violini e i quartetti di Ysaye, Wienawski
e Debussy, le opere di Domenica Regazzoni.
C
he la musica sia arte con la ‘A’ maiuscola non ci sono dubbi. Il problema
è stabilire il confine, se esiste, con le altre discipline. La mostra di
Domenica Regazzoni ci chiarisce subito le idee, materializzando un luogo
concettuale e fisico su cui riflettere: Scolpire la musica. Lo scenario è dato
dal Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, dove l’artista propone, fino al 9 novembre, un modo diverso di ‘vedere’ la musica,
semplicemente scolpendola, rendendola visibile. Ecco quindi che il confine artistico, nella sua percezione, viene già attraversato in tre dei cinque
sensi: vedere, sentire e toccare.
L’esposizione propone opere pittoriche, scultoree e incisioni di
Domenica Regazzoni realizzate tra il 2007 e il 2008 sul tema della liuteria
trattato attraverso materiali eterogenei, quali tavole in legno rielaborate,
tele, carte, legni e bronzi. Un mondo sospeso tra i ricordi d’infanzia legati
al padre, grande maestro liutaio, erede di predecessori quali Stradivari e
Amati, e la forza plasmatrice della fantasia e della memoria, in una ricostruzione affettiva e simbolica celebrata dall’artista in chiave contemporanea. Un filmato, realizzato da Fabio Olmi, racconta il liutaio Dante
Regazzoni all’interno del proprio studio proprio mentre lavora alla realizzazione dei violini.
In questa liuteria onirica troviamo sculture giganti dall’impatto puro ed
elegante, di grandi dimensioni (quasi 2 metri di altezza) in legno di acero,
abete e palissandro. D’intenso valore e significato sono anche gli assemblages e i collages e le tavolette polimateriche, suggestive e poetiche, realizzate su supporti che richiamano sia il mondo dell’arte, come la tela e i colori,
sia quello della musica, come le corde di violino. Una musica per violino
solo o per quartetto con musiche di Ysaye, Wieniawski e Debussy fa da
colonna sonora e accompagna i visitatori attraverso il percorso espositivo.
Gillo Dorfles, pittore, critico e filosofo, parla di Domenica Regazzoni
come di un’artista che ha saputo dar vita a raffinati collages polimaterici, a
minute ma sensibili interpretazioni degli haiku nipponici, che ha voluto a bella
posta limitare la sua opera esclusivamente a tutto quanto poteva ricordare e celebrare il lavoro paterno: la sua capacità artigianale, il suo incredibile «orecchio»
musicale, evidenziando in questo modo - sia pur metaforicamente - quel connubio così spesso tentato e quasi sempre fallito tra le due arti, quella visiva e quella
sonora. (Flavio Fabbri)
coniugale-soprano, Euterpe-contralto, Apollotenore, con un’aria per baritono più coro
maschile (tenore I, tenore II e basso) e accompagnamento di pianoforte. Testo in italiano, e
cancellature e modifiche ad indicare che si tratta di un’opera in costruzione.
Martinez l’ha chiamata Cantatina dell’Amor
coniugale: è, infatti, un epitalamio che celebra
la felicità del giorno delle nozze, probabilmente quello di un amico del Rossini. Due ipotesi
sulla destinazione: la prima (più illuminista),
secondo cui l’avrebbe scritta durante le lunghe
vacanze con la famiglia Aguado nel sud-ovest
della Francia, tra Bayonne e Tolosa, lontani da
una Parigi colpita dall’epidemia di colera del
1832 - data che corrisponde a quella indicata
nel titolo (peraltro autodenigratorio, «cantatina» in luogo di «cantata», proprio nello stile del
Pesarese). Solo poco tempo prima, nel 1827,
Rossini aveva già composto una Cantata per il
battesimo del figlio del marchese Alessandro
Maria Aguado, banchiere amico e amministratore delle sue risorse finanziarie. La seconda
ipotesi, più romantica: nel 1832 Madame
Olimpe Pellisier aveva assistito l’artista in
occasione di una malattia neuro-vegetativa che
lo aveva colpito. Il maestro la sposerà nel 1846.
Martinez non esclude potesse essere Olimpia
colei che «emula i Numi in cielo», madreamante-amante-sposa che i Numi innamorò.
L’intento è silenzioso, ma sopravvive fino ad
oggi. Di proprietà del conte Vittorio Catanzano,
il manoscritto è messo all’asta dal nipote - in un
momento di bisogno - nel 1979 alla Christie’s
di Londra e, invenduto, torna a Roma. Dove si
trova il maestro Miguel Martinez. Musicologo,
insegnante di Educazione musicale e Pianoforte
in istituti privati, nei Conservatori di Latina,
L’Aquila e Santa Cecilia di Roma, direttore
d’orchestra e sensibilissimo compositore, lui
che è anche un amante di Rossini sposa la
causa, svolge un’accurata revisione, elaborazione ed orchestrazione dell’opera che gli viene
affidata dal conte e che oggi porta il suo copyright (1985) anche per le leggi di Washington,
D.C., e si batte.
Contro i mulini a vento proprio come il suo
paesano Don Chisciotte - la miscredenza, l’invidia, la malafede, le posizioni di principio degli
«esperti» - fino a portarla, il 10 maggio 2003, in
prima mondiale alla serata inaugurale
dell’Hampstead & Highgate Festival in
Inghilterra. Il plauso della critica: a questo punto
non servono quasi più le perizie, perché que-
st’operetta sull’amore ci serve. Vogliamo sapere
che proviene proprio da lui, l’autore della Gazza
Ladra e del Barbiere di Siviglia, un ipocondriaco,
umorale, collerico, pigro e depresso, come noi.
Poi, come noi, un amante delle donne, della
buona cucina e del vino, tanto da esser famoso
per le sue ricette e per i valzerotti sul burro, sulle
acciughe, sui cetriolini e sull’olio di ricino.
Rossini, mezzo illuminista mezzo romantico per questo forse sempre in crisi, eterna la lotta
tra il senso dei suoi testi e l’emotività delle note
- aveva detto: «Datemi una nota della lavandaia e la metterò in musica»; nel suo profilo illuministico, si auto-plagiava utilizzando proprie
composizioni (i centoni) nelle nuove opere,
mentre il romantico regalava operette alle alunne, agli amici, alle amanti, e scriveva péchés de
vigilesse («semplici, senili debolezze»). La
prima opera all’età di 14 anni - un Demetrio e
Polibio rappresentato solo nel 1812 - quando la
passione per Mozart e Haydn lo consumano
(tanto da meritarsi il soprannome di «tedeschino»), subito il teatro e la lirica e il loro precoce
abbandono, la depressione, il ritiro nella campagna parigina di Passy e ancora comporre. La
prima rappresentazione fu al Teatro Mosè di
Venezia con La cambiale di matrimonio, l’ultima il Guglielmo Tell del 1829, a Parigi. Ma non
finisce e continua a scrivere per gli intimi, per
sé, un finto pigro: ed ecco il Duetto dei due gatti
rinvenuto presso un antiquario napoletano, una
Messa a voci d’uomo del 1808 riportata alla luce
nel 1960, una Cantata, quella del voto filiale,
emersa di recente.
E la Cantatina. «Danze, ghirlande, cantici, /
Amore e Imene a gara / nell’ombra del silenzio /
Prepara alla beltà». Io l’ascolto solo perché
Miguel Martinez l’ha voluta con tale intensità.
Questa, per la mia umanità personale, è la prima
mondiale della Cantatina, che Rossini sembra
aver scritto solo per questo maestro basco. E me.
METTI ROSSINI IN CUCINA
La «Cenerentola» rossiniana in diretta: quando la tv torna ad essere servizio pubblico
a Rai ci riprova con
La via della musica.
Dopo la diretta
romana della Tosca di
Giacomo Puccini nel
1992 e della Traviata di
Giuseppe Verdi da Parigi
nel 2000, questa sarà la
volta della Cenerentola di
Gioacchino Rossini, il 20 e
21 giugno 2009, in mondovisione, con l’Orchestra
Sinfonica Nazionale della
Rai diretta dal maestro
Riccardo Chailly.
Cenerentola, una favola in
diretta, programma ideato
e prodotto da Andrea
Andermann in partnership con la Rai, propone
tre appuntamenti per un totale di oltre due
ore di diretta complessive. Un gradito
ritorno per «La via della musica», che proseguirà poi col Rigoletto di Verdi.
Un nuovo progetto culturale che vede la
Rai in prima fila, sia in termini di sforzi
L
economici che di competenze professionali, ben
sottolineato dalle parole
del presidente Claudio
Petruccioli: «… La tv permette di offrire al grande
pubblico il meglio del melodramma italiano attraverso
linguaggi e formule narrative specifiche. Questo è il
pregio maggiore dell’operazione, il motivo per cui la
Rai la vuole e ci crede».
I grandi eventi culturali
tornano così in televisione, segno che il mezzo,
grazie alle più moderne
tecnologie di trasmissione in alta definizione,
può ancora assolvere a un
compito che in passato ha decisamente
svolto al meglio, come servizio pubblico
radiotelevisivo: portare la bellezza della
cultura tra la gente, nelle case, a tutti, in
Italia e nel mondo.
Flavio Fabbri
CLASSICA
MENTE
Music In Autunno 2008
MUSICOFILIA Oliver Sacks Per Michael il sol minore è color ocra, il re minore ha il colore della selce, un color grafite, il fa
minore è del colore della terra o della cenere. Rosy ha trascorso 43 anni - prima di svegliarsi - in un recinto musicale fatto delle 14
note del «Povero Rigoletto». E i malati della sindrome di Tourette suonano il tamburo in perfetta sincronia ritmica.
di Flavio Fabbri e Romina Ciuffa
rapporto che lega l’uomo alla musica
è classificabile come unico e probabilmente assoluto. Un caso singolare
tra le specie animali di catarsi psicofisica, che non ha davvero eguali nel mondo dei
viventi. Se il corpo viene rapito dal ritmo con la
danza, l’incredibile dinamica neurale della
musica genera specifici nessi continui tra funzioni e disfunzioni del cervello.
Nel suo ultimo lavoro, Musicofilia (Adelphi,
2008), Oliver Sacks esplora il mondo nebuloso
e sconosciuto di patologie estreme e drammatiche, come l’autismo, il Parkinson, la demenza
precoce, l’Alzheimer e le sindromi corticali,
raccogliendo preziose testimonianze, spesso
aldilà del semplice referto medico.
Universi oscuri in cui, attraverso la musica, si
trovano incredibili risposte e benefici al limite
dell’inspiegabile. Allucinazioni sonore, amusia,
disarmonia, epilessia musicogena: da quali
inceppi, nella connessione a due vie fra sensi e
cervello, sono causate? Come sempre l’indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni
di segno opposto: l’orecchio assoluto, la memoria fonografica, l’intelligenza musicale e
soprattutto l’amore per la musica. E Sacks non
ci vede assolutamente nulla di miracoloso: la
musica è qualcosa di innato nell’essere umano
o, se si preferisce, di profondamente radicato
nella specie. Fin dalla più tenera età.
Siamo esseri musicali oltre che linguistici,
tutti in grado di percepire le note, i timbri, gli
IL
intervalli, i contorni melodici, l’armonia e il
ritmo di un’esecuzione. Riusciamo quasi istintivamente a interagire con tutto questo e a
costruire mentalmente musica, facendo interagire diverse parti del cervello su diretta azione
dell’organo uditivo e non solo. Così come la
musica ci può calmare, eccitare o dare conforto,
allo stesso modo può essere utile, se non insostituibile, a livello terapeutico per i casi sopra
citati. Ad esempio, come si fa a «pensare» la
musica? Neuroni.
Oliver Sacks, celebre neurologo e scrittore
già noto al pubblico per il best seller Risvegli
del 1987 (da cui Penny Marshall ne trasse nel
1990 il film omonimo con Robert De Niro e
Robin Williams), non ne ha dubbi: «... La musica fa così parte dell’umano che il suo utilizzo
quotidiano ne banalizza l’importanza. Eppure,
per tutti coloro che sono persi nelle oscurità
dell’Alzheimer o di altre forme di demenza,
essa può avere un potere superiore a qualsiasi
altro strumento nel restituirli, seppure soltanto
per poco, a se stessi e agli altri».
Lo crede perché c’era: un giorno, a New
York, davanti a una trentina di persone affette
dalla sindrome di Tourette, in preda a tic contagiosi che si propagano ad onde. Lì, sopra un
palco, un batterista. Che comincia a suonare. E
loro a seguirlo con dei tamburi, in perfetta sincronia ritmica. Come?
Un giorno, l’insigne compositore contemporaneo Michael Torke disse alla sua insegnante:
«Mi piace proprio quel brano azzurro». E
aggiunse: «Il brano in re maggiore... il re maggiore è azzurro». «Non per me», replicò l’insegnante. A cinque anni, Torke - che già componeva - dava per scontato che tutti vedessero dei
colori in associazione alle tonalità musicali.
Quando capì che ciò non era, la considerò come
«una specie di cecità», poiché in lui questa sinestesia con le tonalità musicali è stata sempre
presente, permettendogli di vedere colori precisi costantemente associati al suono della musica - scale, arpeggi, qualsiasi cosa. E il fatto di
avere l’orecchio assoluto - spiega a Sacks rende per lui le tonalità musicali assolutamente
distinte: il sol diesis minore ha un ‘aroma’
diverso dal sol minore; ogni tonalità e modo
appaiono visivamente distinti e caratteristici
come lo è il suono, e nessuno sforzo di volontà
o immaginazione può modificarli.
E cosa succede se, guardando l’azzurro,
suona un re maggiore che è giallo? Vede verde?
No, i colori sinestetici sono del tutto interiori e
non si confondono mai. Per lui, sono rimasti gli
stessi e coerenti per almeno 40 anni.
Sacks definisce «strano» che la musica sia, in
vario grado, nella testa di tutti noi, perfino in
assenza di fonti esterne. A volte, la normale
immaginazione musicale varca un limite e
diventa «patologica», come quando «un particolare frammento di musica si ripete senza
sosta, a volte in modo esasperante, per giorni e
giorni». Il classico «ce l’ho in mente e non se
ne va». Ciò - e il fatto che tale musica possa
essere «del tutto fuori luogo o banale, per nulla
gradita o addirittura odiosa» - indica un processo coercitivo, che la musica sia «penetrata
in una parte del cervello e l’abbia sequestrata
costringendola a scaricare in modo autonomo e
ripetitivo»: come può accadere nel caso dei tic
o della crisi epilettica.
È in questa accezione che la musica diviene
esterna alla nostra fisicità, uno degli elementi in
grado di disturbare il silenzio naturale del sangue che scorre (quella soglia di rumore, sempre
presente, che è tollerata a livello percettivo da
un corpo funzionale, adattabile, che altrimenti
impazzirebbe e, per questo, elabora un sistema
difensivo tale da non riuscire ad ascoltare se
non lo stomaco affamato o il cuore che batte
nelle orecchie, nelle vene, nel polso, e solo in
determinate circostanze). Il silenzio è tutto.
La musica, elemento di disturbo. Penetrante.
Coercitivo. Inconfinabile. La trappola di un
motivetto «orecchiabile», carcere per la mente,
interferenza che a volte può divenire straziante,
e liberarsene impossibile. «Mi misi a saltare su
e giù - spiegava all’autore il suo amico Nick -.
Contai fino a cento. Mi spruzzai dell’acqua in
faccia. Cercai di parlare a me stesso ad alta
voce, tappandomi le orecchie». È l’earworm,
verme dell’orecchio utilizzato dalle campagne
pubblicitarie. Ed è contagioso. «(...) Due giorni
dopo, il narratore incontra un vecchio amico,
un pastore, e inavvertitamente lo ‘infetta’ con il
motivetto; il pastore, a sua volta, contagia
senza volerlo tutta la congregazione».
«In chi è affetto da certe condizioni neurologiche (spiega Sacks) i ‘tarli’ o i fenomeni associati - la ripetizione ecoica, automatica o compulsiva di note o parole - possono acquisire
ulteriore forza. Rose R., una paziente del gruppo di parkinsoniani postencefalitici che ho
descritto in Risvegli, mi raccontò di come nei
suoi stati ‘congelati’ fosse spesso stata ‘confinata’, come diceva lei, in un ‘recinto musicale’:
sette coppie di note (le quattordici note di
Povero Rigoletto) che si ripetevano in modo
irresistibile nella sua mente. Mi disse anche che
esse formavano un ‘quadrilatero musicale’
lungo i cui quattro lati lei era costretta a camminare, mentalmente, all’infinito. Questo poteva andare avanti per ore di seguito, e di fatto fu
proprio così, a intervalli, nell’arco dei quarantatre anni della sua malattia prima che fosse
‘risvegliata’ dalla L-dopa».
Può darsi che esista un continuum tra il patologico e il normale, o non si spiegherebbero
tarli improvvisi all’orecchio, irresistibili a livello neurologico. Ciò che mette paura è la stessa
cosa che ci solleva: la musica costituisce un
mostro meraviglioso che sa far lacrimare perché non va via, nel bene e nel male.
L’OPERA DEVE USCIRE
DAI SUOI TEATRI IMMENSI
Il Piccolo Lirico Teatro Flaiano, per il 150° anniversario di Giacomo Puccini, avvia un grande progetto «in piccolo»:
rappresentare l’opera in teatri da camera, per più repliche e per tutti. Una cura dimagrante per riconquistare l’intimità
egli ultimi anni molto si è parlato di rinascita dell’Opera lirica, in special modo di
grandi incassi, di tutto esaurito e di strutture sold out estate-inverno, proprio perché non ci sono più le mezze stagioni. Eppure,
nessuno si ferma a riflettere sul rapporto tra
l’Opera lirica contemporanea e il suo pubblico:
c’è comprensione reale? Quali sensazioni attraversano il pubblico più giovane? In che modo
l’immenso patrimonio culturale lirico si tramanda alle nuove generazioni? Forse per rispondere
a queste domande o forse solo per celebrare il
150esimo anniversario del grande compositore
Giacomo Puccini, magari compiacendosi un
poco delle lusinghe ricevute dai media di mezzo
mondo, il celebre Piccolo Lirico Teatro Flaiano
di Roma rilancia un modo diverso di fare Lirica.
Da ottobre a tutto maggio 2009, saranno oltre
140 le repliche di un nuovo allestimento della
Tosca e di Madama Butterfly, due importantissime opere pucciniane che rappresentano lo spirito e la filosofia di un progetto innovativo che si
confronta inevitabilmente con molte convenzioni tipiche degli spettacoli operistici, come lo spazio, la durata e le modalità di rappresentazione. I
punti cardine del progetto sono: 1) una durata
N
variabile tra i 90 minuti (Tosca) e i 100 minuti
(Madama Butterfly); 2) le rispettive strutture
analizzate, rilette, scomposte e ricomposte, tanto
da presentarsi come due spettacoli lirici dal linguaggio universale e facilmente fruibile; 3) partendo dalla tradizione squisitamente teatrale,
nella tecnica costruttiva, nelle manualità, nei
trucchi, la scenografia punta al simbolico, al
primo piano dei protagonisti ravvicinati al loro
pubblico come non accade in un grande teatro; 4)
i costumi, appositamente creati per ogni artista
che si avvicenda, pur rispettando la tradizione,
sono frutto anch’essi di una suggestione densa di
riferimenti, ma interpretata secondo una visione
più moderna dell’intendere la bellezza e l’arte.
Svincolarsi dai numeri del botteghino, vivere
piccoli teatri ‘da camera’ in cui le opere vengono
presentate per più repliche, credere che la conoscenza e la crescita culturale si fondano anche
sulla possibilità di ripetere l’esperienza.
Tentativo coraggioso che punta sulle nuove tecnologie (scenografia virtuale, potenzialità metamorfiche del suono amplificato, nuove tecniche
visive), dialogando con le sensibilità dell’oggi.
Bisogna partire dal teatro come grande fucina di
saperi artigianali, con la coscienza che ne esistono di nuovi, confidando che anche la tecnica
aspetta solo di incontrare l’estetica.
Coincide con la visione che il compianto Gian
Carlo Menotti, fondatore del prezioso Festival
dei Due Mondi di Spoleto, predisse già una decina di anni or sono: «… Questa prospettiva è
attuale e segnerà una svolta nella storia delle
rappresentazioni liriche. L’opera deve uscire dai
suoi teatri immensi, dove un posto a sedere costa
una fortuna, dove i giovani, abituati ai primi
piani del cinema e della televisione, non riescono neanche a discernere i tratti dei cantanti, lontani come sono dal palcoscenico e dall’orchestra. L’opera deve fare una cura dimagrante,
riconquistare l’intimità dei piccoli teatri».
Flavio Fabbri
L’Inno
alla vita dei
Carmina Burana
Tornano all’Accademia di Santa
Cecilia i popolarissimi Carmina
Burana, celeberrima composizione di
Carl Orff del 1937, per un rinnovato
inno alla vita e ai suoi piaceri terreni.
Basati su testi profani del XIII secolo e
scritti con un latino affogato in dialettali rime francesi e tedesche, soltanto
nella prima metà dell’800 furono
riportati alla luce da un convento benedettino in Baviera. Dal 29 novembre
al 2 dicembre, di nuovo l’afflato vitalistico dei Carmina Burana nella Sala
Santa Cecilia dell’Auditorium romano,
in un’esecuzione per soli, coro e orchestra, ovviamente quelli dell’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia, diretti da
Rafael Frühbeck de Burgos, accompagnato dalle voci di Annick Massis
(soprano), Lucas Meachem (baritono)
e Celso Albelo (tenore). (Flavio Fabbri)
SOUND
tracking
a cura di ROBERTA MASTRUZZI
Music In Autunno 2008
ENNIO MORRICONE L’intervista
Dopo ogni premio, lui torna alla sua
Trastevere assoluta
FESTA DEL CINEMA DI
ROMA Bob Marley, Fabrizio De
Andrè, Caetano Veloso da vedere
INTI ILLIMANI Raccontano dentro a un
poncho le stragi di Pinochet e i cadaveri gettati in mare. E Daniele Silvestri ruba da loro.
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
di Roberta Mastruzzi
WE ALL LOVE MORRICONE
Le sue composizioni si staccano dai film e divengono musica assoluta, ma lui suonerebbe «I pini di Roma» di Ottorino Respighi per musicare la sua città
(...)
al suo fianco da più di 50 anni, la donna
a cui ha dedicato il suo Oscar alla carriera e
un’intera vita.
E infine Roma, la sua città e quella casa a
Trastevere in cui ritorna dopo ogni viaggio,
dopo ogni concerto. Già, perché le sue composizioni scritte per il cinema sono diventate
repertorio per i suoi concerti insieme a quella
che lui definisce «musica assoluta». Anche se
originariamente composte al servizio dell’idea
di un regista o di una sceneggiatura, sono talmente radicate nell’immaginario collettivo da
vivere di luce propria. Instancabile, ha affrontato negli ultimi mesi un tour che lo ha portato
fino in Cile. Compositore prolifico come nessun altro, sta lavorando alle musiche dell’ultimo film di Giuseppe Tornatore. Una vena artistica inesauribile, che riesce sempre a trasformarsi e a non essere mai uguale a se stessa.
Oltre 500 colonne sonore, qual è il segreto
per non ripetersi mai?
Il segreto è quello di avere idee, non annoiarsi mai e poi cambiare sempre il tipo di film. Ma
per chi vuole intraprendere questo mestiere il
mio suggerimento è di non seguire questa strada
perché è difficilissima. Sinceramente non la consiglio a nessuno perché è veramente dura.
Parliamo del lungo sodalizio artistico con
Giuseppe Tornatore, per il quale ha curato la
musica di quasi tutti i suoi film, da Nuovo
cinema paradiso all’ultimo, Baaria, di cui
sono ancora in corso le riprese e per il quale
ha già scritto la musica. È il suo metodo di
lavoro abituale scrivere la musica prima che
siano girate le scene?
Ho scritto gran parte dei temi principali di
Baaria ma non è tutto quello che dovrò fare: ci
sarà ancora molto da completare. Il metodo ottimale per lavorare prima di tutto è che il regista
lo voglia, altrimenti la musica si pensa, si scrive
dopo e si applica ancora dopo.
SULLA LORO
CATTIVA STRADA
usica protagonista del Festiva
Internazionale del Film di Roma che,
giunta alla terza edizione, ha cambiato nome, presidente e sezioni: ora si
chiama Festival Internazionale e Goffredo
Bettini, storico braccio destro di Walter
Veltroni, è stato sostituito alla Presidenza della
Fondazione del cinema
per Roma da Gian
Luigi Rondi, storico e
M
critico cinematografico, mentre i
nomi delle sezioni
sono stati italianizzati. In questa
e d i z i o n e ,
Anteprima
e
Cinema 2008 presentano i film in
concorso, L’altro
cinema è dedicato
al cinema indipendente e all’incontro con autori e registi, e Alice nella città lascia spazio ai
film per ragazzi. Nella sezione Occhio sul
mondo i riflettori puntati sul Brasile, con una
rassegna di dieci film in anteprima.
Tra questi, Coraçao vagabundo, dedicato a
Caetano Veloso. Il film, diretto da Fernando
Grostein Andrade, segue il cantante brasiliano
durante il tour per la presentazione del suo
primo album interamente realizzato in lingua
inglese. Il viaggio parte da San Paolo e arriva
fino in Giappone, passando per il Carnegie Hall
di New York. Un viaggio musicale impreziosito dalle affettuose testimonianze di amici dell’artista come Pedro Almodóvar, David Byrne e
Michelangelo Antonioni.
L’altro cinema ha presentato due documentari in anteprima con protagonisti d’eccezione:
Bob Marley e Fabrizio De Andrè. Bob Marley:
Exodus 77 è il film che Anthony Wall dedica
all’artista giamaicano e all’album che segnò
una piccola rivoluzione all’interno di un più
grande movimento culturale che proprio nel
1977 conobbe la sua massima espressione.
Mentre sulla scena musicale britannica irrompe
il punk, Bob Marley è a Londra per registrare
Exodus: l’album porta la musica reggae e la
cultura rasta alla ribalta agli occhi del mondo e
Bob Marley è il suo portavoce, rivelandosi tra
l’altro un grande comunicatore. Le note di
Exodus, che contiene alcuni brani storici come
Jammin’, Three little birds, One Love e Waiting
in vain, scorrono sulle immagini che rievocano
gli avvenimenti spesso drammatici di un anno
che segnò profondamente l’universo culturale.
Effedià - Sulla mia cattiva strada è invece il
documentario con cui la giornalista Teresa
Marchesi rende omaggio a Fabrizio De Andrè.
Il cantautore, scomparso dieci anni fa, rivive
attraverso interviste e immagini fino ad ora mai
viste, concesse dalla Fondazione che porta il
suo nome e che ha voluto questo film. Un
omaggio al cantautore che, come disse Nicola
Piovani, «non è stato mai di moda. E infatti la
moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano». (Roberta Mastruzzi)
Quindi se il regista preferisce così, anche io
preferisco, perché trovo che i migliori risultati
che io ho ottenuto sono stati quando ho avuto la
possibilità di comporre prima la musica.
Scorrendo l’elenco delle sue composizioni
per il cinema e dei registi con cui ha lavorato, oltre a Brian De Palma, Warren Beatty e
Roland Joffè, non appaiono nomi dello «star
system hollywoodiano», eppure il suo lavoro
è molto conosciuto e apprezzato negli Usa. È
stata una sua scelta?
No, non è stata una mia scelta precisa. Io non
scelgo, se sono chiamato accetto o non accetto di
comporre. Ho rifiutato molti film e quindi sarà
capitato anche di averlo fatto per qualcuno di
importante; ultimamente ho rifiutato anche De
Palma perché non posso rispondere a tutto quello che mi si offre.
Durante la cerimonia di consegna
dell’Oscar alla carriera, ha ricordato tutti
quei compositori che avrebbero meritato un
Oscar ma non l’hanno mai vinto. A chi
avrebbe assegnato questo premio?
Non faccio nomi perché altrimenti ne dimenticherei tanti, e certamente sono molti i compositori che non hanno preso l’Oscar ma che
l’avrebbero dovuto prendere.
Un’opera cinematografica è una perfetta
unione tra immagini, parole e musica. Qual è
il film che l’ha emozionata di più?
Un’opera cinematografica è una perfetta
unione di immagini, parole, musica, rumori,
effetti speciali, e tante altre componenti che
fanno parte della colonna sonora. Sono più di
uno i film che mi hanno commosso, 500 film ho
fatto e la maggior parte di questi mi ha emozionato moltissimo.
Devo farne uno con Giacomo Battiato, che
giudico emozionantissimo, sulla strage razzista
in Bosnia-Erzegovina da parte del generale
Mladic. Sarà un film straordinario, ed anche un
documentario. Battiato è un regista di grande
impatto e di grande bravura.
Oltre alla musica da film, ha scritto diverse composizioni, come le più recenti Voci dal
INTI-MI
erano una volta sei ragazzi cileni
con un poncho nero dalle frange
bianche che attraversavano le Ande
portando con sé i propri strumenti
musicali: chitarre, percussioni, charangos, maracas e sikus. Erano alla ricerca di
una musica capace di essere moderna e antica, così da diventare un linguaggio che potesse unire i popoli latinoamericani, storicamente oppressi da dittature e governi militari.
La realtà superò i sogni ambiziosi dei
ragazzi e il gruppo da loro formato diventò
in tutto il mondo voce e simbolo della lotta
per la libertà. I sei musicisti avevano nomi
come Horacio, Jeorge, José, ma per il resto
del mondo erano gli Inti-Illimani. La loro
storia inizia nel 1967 e prosegue fino ai
giorni nostri.
Dove cantano le nuvole è il primo filmdocumentario che ripercorre il loro lungo
cammino realizzato da Francesco Cordio e
Paolo Pagnoncelli. Il tempo non ha scalfito la
vitalità dei primi anni ma ha aggiunto alla
loro carica rivoluzionaria una sfumatura più
matura e riflessiva. L’innesto di nuovi musicisti dalla solida preparazione accademica (i
fondatori del gruppo sono autodidatti) ha
consentito di non rimanere ancorati alla vecchia immagine del passato ma di aprire
nuove prospettive, nel pieno rispetto della
filosofia del gruppo dove non esistono «primedonne» e dove si cerca un’estetica musicale per unire tradizione e progresso.
La storia degli Inti-Illimani non può prescindere dagli avvenimenti che sconvolsero il
Cile negli anni 70. I ricordi personali e il racconto storico si intrecciano: il golpe militare
del 1973 e il lungo esilio del gruppo in Italia,
la dittatura di Pinochet e le esecuzioni dei dissidenti allo stadio di Santiago, il referendum
che decide il ritorno alla democrazia e il rientro in patria degli Inti-Illimani dopo quindici
anni di assenza. Il momento più intenso del
C’
Silenzio e Sicilo ed altri frammenti, che lei
definisce «musica assoluta». Può spiegarci
questa definizione?
La musica assoluta viene dalla necessità del
compositore di esprimere le proprie idee musicali. La musica applicata è invece richiesta a un
compositore per essere applicata a un film, a un
lavoro teatrale, ad altre cose di spettacolo, e così
non nasce da una personale necessità del compositore ma dalla necessità di un’altra opera in
cui la musica è secondaria.
Com’è nato il progetto We all love
Morricone, il cd in cui artisti internazionali
come Bruce Springsteen, Quincy Jones,
Herbie Hancock, i Metallica, Roger Waters e
altri interpretano le sue colonne sonore più
famose?
Io non avrei mai avuto la presunzione di realizzare questo progetto. Bisognerebbe allora
chiederlo a chi ha avuto l’idea. Personalmente
non posso far altro che ringraziarlo per la bella
esperienza.
Negli ultimi anni ha avuto un’intensa attività live e ha suonato davanti a platee internazionali, dal concerto all’Assemblea
Generale dell’Onu al più recente tour in
America Latina. Può raccontarci questa
esperienza?
Ero talmente preoccupato per il concerto alle
Nazioni Unite perché avevo un coro americano
con cui avevo provato pochissimo, anzi quasi per
niente: solo lo stesso giorno del concerto. Posso
quindi dire che questa esperienza è stata piena di
preoccupazioni che si sono sciolte soltanto dopo
la riuscita del concerto, quando la gente ha
applaudito.
Il suo nome è legato a Roma. Come immagina la colonna sonora della sua città?
Non l’immagino con musica mia, ma certamente con la musica di un grande compositore
come Ottorino Respighi che l’ha immaginata
bene: ha composto infatti le «Feste Romane», «I
pini di Roma» e le «Fontane di Roma». Bisogna
ascoltare queste composizioni per capire cos’è
Roma in musica.
film è il racconto dettagliato delle stragi di
dissidenti compiuta dal governo Pinochet
accompagnato dalle note malinconiche di
Vino del mar: in mare finivano i cadaveri in
modo che scomparissero senza lasciare traccia, desaparecidos per sempre.
La storia viene raccontata attraverso le
parole degli storici membri del gruppo, i fratelli Jeorge e Marcelo Coulon, Max Berré e
Juan Flores Luza, e dei nuovi arrivi Daniel
Cantillana, Manuel Merino, Christian
Gonzalez e il percussionista cubano Efren
Viera, passati da semplici ammiratori a parte
integrante degli Inti-Illimani. Poi ci sono i
racconti di amici come Patricio Manns e Joan
Jara (vedova di Victor Java, il musicista e
regista assassinato nello stadio di Santiago
pochi giorni dopo il colpo di stato del ‘73), le
impressioni della gente comune e le riprese
dal vivo di alcuni concerti in Italia e in Cile.
Infine, la partecipazione di Daniele
Silvestri, che confessa di aver «rubato» alcune note per usarle come base ritmica de Il mio
nemico. Ma nella musica il concetto di proprietà è piuttosto labile. Il furto si trasforma
in un omaggio e per finire in un concerto, in
cui il cantautore romano esegue il suo brano
accompagnato dalle chitarre degli IntiIllimani. Ed è sempre Silvestri a scrivere la
prefazione del piccolo booklet che completa
il dvd, con gli scatti fotografici dello stesso
regista, Francesco Cordio, e i testi di Jeorge
Coulon. (Roberta Mastruzzi)
Music In Autunno 2008
YUSUF SHAHIN Anarchico, irruente, sornione, gentile. Il Fellini del mondo arabo che
ha attaccato persino i fondamentalisti islamici
MICHAEL NYMAN IL PRIMO GIORNO D’INVERNO
Potenza, istinto, pas- Giovanni Sollima Spasimo come atto d’amosione e dolore
re per le tracce confuse dell’adolescenza
SOUND
tracking
CHAHINE: IL PENSIERO HA LE ALI
NESSUNO PUÒ FERMARNE IL VOLO
Senza di lui, il cinema del resto del mondo è già più povero: Yusuf Shahin, che ha raccontato Alessandria e il mondo arabo a noi Occidentali
a scomparsa di Youssef Chahine il 28 luglio scorso ha lasciato tutti molto rammaricati. La
reazione non poteva essere diversa, considerata l’enorme fama di cui questo grande artista godeva in tutto il mondo del cinema «che conta»: Cannes,
Toronto, Locarno e altri ancora. Cineasta gentile, coraggioso,
innovatore, con oltre 40 film alle spalle, ha saputo catturare per mezzo
secolo l’attenzione del pubblico sia arabo che occidentale affascinando,
intrigando e anche scandalizzando, ma sempre con la leggerezza e la
sapienza che solo un grande maestro può avere.
Chahine inizia la sua lunga carriera nel 1950 dopo gli studi alla
Pasadena Playhouse di Los Angeles e poi la formazione in Italia al fianco di Gianni Vernuccio e Alvisi Orfanelli, che gli insegneranno l’arte del
documentario e i segreti del neorealismo italiano.
Il successo non tarda ad arrivare: Ibn Al-Nil (Figlio del Nilo, 1951),
Siraa Fil-Wadi (The Blazing Sky, 1954) per il cui cast scrittura un ventiduenne e ancora sconosciuto Omar El-Sherif, e poi nel 1958 Bab AlHadid (Stazione Centrale), melodramma maturo, in cui veste i panni del
protagonista. La performance di questo Chahine giovane e talentuoso ha
spinto Marco Muller a dedicare alla pellicola una proiezione speciale
all’interno della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno.
Oltre a dipingere i colori della sua terra, a raccontarne le storie e a
farne assaporare odori e sapori, Chahine è stato in grado di cogliere il
mondo arabo nella sua stringente attualità, coi suoi pregi e i suoi difetti, attirando le critiche dei più
conservatori e il plauso di un Occidente che ha saputo riconoscervi la dignità del nazionalista convinto e il coraggio di chi difende la libertà di espressione. Nel 1973 esce Al-Usfur (Il Passero),
attacco diretto al governo egiziano per il disastroso epilogo della Guerra dei Sei Giorni contro
L
Israele; cinque anni dopo arriva Iskandariya lih? (Alessandria perché?, Orso d’argento al Festival
di Berlino), dove Youssef non esita a trattare il tema della bisessualità e dell’omosessualità con
naturalezza disarmante. Nel 1994 Al-Muhajir (Il Viaggiatore) sarà l’inizio di una lunga battaglia legale aperta dalle Istituzioni islamiche
d’Egitto, che bocciano come irriverente la sua rappresentazione del
Profeta coranico Giuseppe.
Ma il regista, che dall’inizio degli anni 70 lotta con una grave malattia, non si arrende, anzi sferra un altro attacco al rigurgito di conservatorismo e fondamentalismo islamico che caratterizza tutti i Paesi arabi
di fine Novecento, dando alla luce un altro incredibile lavoro: AlMassir, (Il Destino), del 1997, che gli vale l’attenzione del Festival di
Cannes e un premio speciale alla carriera. La trama, da alcuni giudicata
troppo lunga e forzatamente drammatica, presenta un Averroè realista e
sarcastico, persino divertente. Dopo infinite peripezie e persecuzioni di
chi vuole bruciare i suoi libri e soffocare i suoi insegnamenti, il
Pensatore getta sorridente l’ultimo suo scritto nel rogo infame: Il pensiero ha le ali, nessuno può arrestarne il volo.
Ma la produzione di Chahine non toccò un solo genere: si lasciò rapire dal musical in stile Broadway, giocò con le star del suo tempo piegandole ai suoi ruoli per creare, attraverso i loro talenti, affreschi a volte
aulici e a volte infimi della vita quotidiana, e fu il primo regista arabo a
realizzare la propria biografia attraverso una tetralogia (Alessandria perché, 1978; La memoria,
1982; Alessandria ancora e sempre, 1990; Alessandria... New York, 2004) che gli ha donato l’appellativo di Fellini egiziano.
Muller ha ragione a dichiarare: «Senza di lui, il cinema del resto del mondo è già più povero».
THE MIST
Il new age racconta l’horror:
Mark Isham, Lisa Gerrard e altre creature
ratto da un racconto di Stephen King, The Mist
si svolge quasi interamente in un supermercato
dove gli abitanti di una piccola cittadina del
Maine si sono riversati per far scorte di viveri
dopo una tempesta. Improvvisamente, scende una
nebbia fitta e misteriosa che li intrappolerà tra le
mura del negozio e costringerà a fare i conti con le
proprie paure e il proprio inconscio.
Il regista Frank Darabont, autore de Le ali della libertà e Il miglio verde, qui è alle prese con
il genere horror. Come in tutte le storie che hanno origine dall’immaginazione di Stephen
King, l’orrore che si manifesta all’esterno non è altro che una proiezione dell’orrore che si
cela all’interno dell’animo umano: nel caso di The Mist questo prende la forma del fanatismo religioso.
La scelta di una colonna sonora di impronta decisamente new age creata da Mark Isham
si rivela coraggiosa. Si respira un’atmosfera misteriosa e rarefatta, sembra quasi di poter
toccare la nebbia e le creature che vivono in essa. Il finale è invece accompagnato da un
brano dei Dead Can Dance: la voce di Lisa Gerrard che interpreta una nuova versione di
The Host of Seraphim conduce dolcemente verso un inquietante finale. (Roberta Mastruzzi)
T
DENTRO
NYMAN
otenza, passione, istinto, dolore»:
così vede la musica Michael
Nyman e così la percepisce il pubblico dell’Auditorium Parco della
Musica che accoglie il Maestro del minimalismo, in una piovosa serata di metà settembre,
per un’ora e mezzo di concerto interamente
dedicata alla sua musica da film. Il compositore inglese si presenta con il suo gruppo, la
Michael Nyman Band. Sul palco con lui ci sono
un quartetto d’archi, una sezione fiati composta
da tre sax, tromba, trombone e corno francese,
basso elettrico e poi lui, il piano.
Il viaggio nell’universo-Nyman tocca i suoi
punti fondamentali: le colonne sonore scritte per
i film di Peter Greenaway, Water Dances, il brano
scritto per un cortometraggio in seguito reso celebre da Nanni Moretti ne La stanza del figlio (è il
brano che ascolta ripetutamente mentre ricorda
gli ultimi momenti passati con il figlio), le musiche di Wonderland e quelle di Gattaca.
Il dono di Nyman è quello di riuscire a tenere uniti virtuosismo, ricerca stilistica e comunicazione con il pubblico. La sensazione è quella
di assistere alla proiezione di una lunga sequenza di immagini cinematografiche, una proiezione tutta interiore. Il segreto della musica da film
è questo: nasce, cresce e muore all’interno di
una pellicola, ma allo stesso tempo si insinua
nell’inconscio e diventa un tutt’uno con le
immagini della propria vita.
Chi l’ascolta non deve far altro che abbandonarsi alla musica e seguire il filo dei ricordi. E
alla fine arriva immancabile la melodia di
Lezioni di piano a toccare le corde più intime
degli spettatori: il dramma di Ada, la protagonista del film di Jane Campion, rivive ancora una
volta tra le dita del pianista, che guida il pubblico attraverso la struggente linea melodica in
un’immersione nella potenza, nella passione,
nell’istinto e nel dolore della musica. (RM)
«P
a cura di Alessandra Fabretti
CERTI
FEMMINISTI
Il chitarrista è sordo, il bassista
non ha un braccio, il cantante è
sessualmente represso, il batterista
non sa suonare la batteria
musicisti disadattati assoldano
uno scrittore di successo come
batterista per formare un gruppo e
partecipare a un importante raduno. Così nascono i The Feminists, quartetto rock sui generis formato da un chitarrista sordo, un bassista senza braccio, un cantante sessualmente represso
e un batterista che non sa suonare la
batteria.
3
SPASIMO
SOLLIMA
Dura è l’adolescenza, e incontrollabile
come uno spasimo
dipinge l’adolescenza col luogo
comune del disadattamento, del
corpo che cresce troppo in fretta e con
l’incapacità della mente a fronteggiarne le sfide. Il film, opera prima di Mirko Locatelli,
Il primo giorno d’inverno, (prodotto da Officina
Film e in concorso nella sezione Orizzonti,
65esima Mostra del Cinema di Venezia), racconta
appunto l’adolescenza come passaggio critico,
indaga la solitudine in cui vive chi è un escluso
come Valerio, incapace non solo di provare a salvarsi, ma anche di comunicare il suo dolore.
Un film che nasce anche dalla volontà di restituire, alla nostra società sempre più smarrita, la
tribale e machista presenza adolescenziale, basata
sulla prepotenza e sulla sopraffazione, sul fare
gruppo e sull’esclusione di chi sembra diverso.
Ne cura la colonna sonora, edita dalla Casa
Musicale Sonzogno di Milano, il compositore e violoncellista siciliano Giovanni Sollima col
brano De Harmonia, per violoncello solo, primo movimento dell’ampio brano per ensemble,
dal titolo decisamente emblematico: Spasimo. Forse il primo progetto internazionale di
Sollima, nato nel 1995 su commissione del Comune e del Teatro Massimo di Palermo.
Concetto difficile, che rimanda non solo a un’emozione ma anche a un moto corporeo, dettato da un malessere fisico profondo, non controllabile e per questo temuto. Un misto di passione e violenza, di equilibrio precario e caduta, proprio come la musica di Sollima, il suo
violoncello struggente, sovrapposizione di suoni, anima e corpo: violino, flauto e viola.
Linguaggi diversi, mai troppo lontani dalle percussioni, le tastiere e le chitarre, che il compositore fa inserire con estrema semplicità. Una struttura post-minimalista, nata da ibridazioni ossessive ed estremizzate, fino al rock, al jazz, alla musica mediterranea. Spasimo,
quindi, come atto d’amore per quell’insieme di amarezza, tracce confuse e occasioni di
sogno che è l’adolescenza, come bellezza di un dialogo tra corpi che crescono e strutture
armoniche inusuali, diverse.
Flavio Fabbri
SI
Il ritmo serrato, i personaggi folli, le
immagini molto esplicite e violente
ricordano Trainspotting e la citazione
del film cult degli anni 90 da parte del
regista Koen Mortier sembra essere del
tutto intenzionale.
Il regista belga definisce la propria opera
prima «un esperimento musicale». In
effetti, il film trae gran parte della carica
esplosiva da un’energica colonna sonora,
che dà ampio spazio a gruppi di matrice
noise rock come i Lightning Bolt, gli Isis
e i Mogwai. Il risultato è una storia estrema dal ritmo frenetico, irriverente e politicamente molto scorretta.
Roberta Mastruzzi
BEY&further
OND
a cura di ROMINA CIUFFA
Music In Autunno 2008
SIDDHARTA 7 Oz. Records
Destino e carattere sono due nomi
del medesimo concetto.
MUCCASSASSINA Marco Longo È il
nuovo direttore artistico che decide cosa NORDGARDEN L’artista norvedobbiamo ballare il venerdì. Paura?
gese suona in un garage a Firenze.
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
di ROMINA CIUFFA
SIDDHARTA
DEFINIZIONE
DESTINO E CARATTERE
Una label da 7 once è come un vinile da 12 pollici: gira fino alla fine del pezzo
Siddharta è un nome protettivo, è per Herman Hesse un uomo che
per tutta la vita si pone molte domande e non riesce mai a soddisfare la sua sete di sapere. Per noi romani Siddharta è un eclettico, molto simile a quello hessiano,
un musicista e un punto di riferimento delle notti romane da anni, legali ed illegali. Non è indiano ma è nato in India, e di cognome fa Rumma.
Lui, che suonava la batteria negli anni del liceo spaziando tra ska, rock e blues,
all’inizio degli anni 90 si appassiona alla musica hip-hop ed elettronica, in quegli
WHO anni
rappresentata dagli esordi della scena trip-hop e dalla prima drum’n’bass,
chiamata ancora jungle. Sono quei progetti musicali provenienti soprattutto dal Regno Unito
che ne smuovono la coscienza musicale, portandolo ad organizzare party e rave sempre più
grandi. Dalla d’n’b e dal breakbeat di quegli anni, si passa alla techno ed electro della metà
degli anni 90 e, con l’arrivo del nuovo millennio, Siddharta sposa la causa minimalista della
moderna techno, riuscendo a ritagliarsi spazi sempre più importanti nella club culture capitolina: ideatore e dj resident del Minima, appuntamento dedicato alla musica elettronica di stampo
minimal-techno, quindi le mani insieme a Trentemoller, Martini Bros, Sleeparchive, Frank
Martiniq, Oliver Koletzki, Alan Oldham, Dozzy, Alex Under, Robert Babicz aka Rob Acid,
Undo e Vicknoise, Funk D’Void, Ivan Smagghe, Martin Landsky, Donnacha Costello, Reinhard
Voigt, Jennifer Cardini, Barem e Dominik Eulberg; nei migliori club della capitale, in giro per
l’Italia e all’estero, nei suoi set spazia tra minimal-techno, echi Detroit, qualche momento electro (quella old school) e tuffi nel passato tech & deep house.
La svolta nella storia musicale di Siddharta è la nascita della
7 Oz. Records, fondata con l’amico dj-producer Mr.
7 OZ. RECORDS label
Rovat. Nata all’inizio di questo 2008, la 7 Oz. Records si fa
conoscere tra gli appassionati di musica elettronica, i clubber più giovani e gli addetti ai lavori. Il nome, che a prima vista appare così slegato da contenuti musicali, è semplicemente mutuato dal peso di un classico vinile a 12 pollici (in once, ovvero 180 grammi). È l’esigenza di portare avanti le proprie idee in un mercato ultimamente immobile e restio ad accogliere le spinte
che provengono dal basso, a differenza di quello che è avvenuto nel cinema e nelle arti visive
nell’ultimo decennio. Fare musica, producendola, per il gusto di suonare e di ascoltare.
Poche parole per un concetto che non ha bisogno di complessi teoremi o altisonanti dichiarazioni d’intenti. Siddharta e Fabio Fioravanti aka Mr. Rovat danno vita a questo progetto, lontani dalla pressante classificazione in generi e sottogeneri, mode e tendenze e sporgendo l’orecchio al di fuori della finestra per catturare suoni e colori del mondo.
SIDDHARTA
CHI HA PAURA DI
MARCO LONGO
FORSE QUELLI CHE HANNO PAURA DELLA MUCCASSASSINA?
ambia il direttore
artistico del party
numero uno in
fatto di tendenza,
Muccassassina. Come dire
cambiano le sonorità dei
quattro gironi dancing floors più famosi di Roma,
quelli della trasgressione,
che non temono i confini,
che proiettano la pista in un
luogo diverso, non Roma
ma New York, Parigi,
Berlino e Barcellona insieme. Posti in cui non vi
sono limiti perché la musica unisce chiunque
ama e chiunque si ami.
Marco Longo, classe ’76, è un siciliano di
Taormina, dunque non uno qualunque: pura
magia taorminiana. A Roma è venuto nel 1996
per l’Accademia di Musica Jazz e Scienze della
Comunicazione, mettendo in cantiere una tesi
sulla gestione e l’organizzazione di eventi; quindi una borsa di studio tra Copenhagen e Londra
e ancora danza, teatro, cinema, video, arte figurativa e musica sperimentale.
Personalità poliedrica, sensibile alle tendenze
in tutti gli ambiti che fungono da stimolo e ispirazione per la realizzazione di eventi, concerti,
party che lo vedono nella veste di direttore artistico da circa 11 anni. Oggi Muccassassina è
«sua». E noi dovremo ballare quello che dice lui,
con chi dice lui, e come dice lui.
C
Muccassassina, una definizione tutta tua.
Muccassassina è come una riunione di condominio: una gabbia di matti che si riunisce a
Roma ogni venerdì sera da diciotto anni. È un
grande melting pot, un mix di gente, energie,
immagini, età, culture differenti. Una ‘shakerata’ di spettacoli, performance e musica. Mettete
insieme queste cose e avrete un’idea vaga di
cos’è Muccassassina.
Da questo momento è «tua»: che ne farai?
Proverò a calibrare le spezie di questo bel calderone, cercando di proporre una ricetta nuova.
Quali sono i sound del 2009?
L’offerta sonora di quest’anno è molto variegata e si evolve di settimana in settimana con
curiose contaminazioni, mescolando rock nordeuropeo, electroclash, funk anni 70, hip hop,
black, r’n’b, house, house-electro. Bisogna
ricordare che Muccassassina ha come location
la discoteca Qube, un club con 3 piani e 4 dancing floors… tanto per chiarire che non si tratterà di un juke box impazzito!
Hai parlato altrove di voler mescolare circo,
ghetti di New York e vecchi bordelli francesi:
puoi spiegare tutti e tre e come entreranno
nella tua notte?
Per spiegarlo basta considerare la varietà del
cast artistico di quest’anno. Cerchiamo di rivoluzionare il concetto di animazione, all’insegna
delle contaminazioni artistiche: sui palchi di
Muccassassina ci saranno spettacoli di burlesque, lap dance sia femminile che maschile, flip
e acrobazie di breacker e ballerini/atleti professionisti. Mescolato e shakerato con attenzione.
Per rendere il tutto ancora più caleidoscopico,
settimana dopo settimana i party saranno dedicati a vari temi: suggestioni, epoche storiche e
culture di volta in volta differenti prenderanno
vita ogni venerdì sera sui palchi di
Muccassassina, passando dai ritmi dei ghetti
americani ai vampiri vittoriani, dai divi del vecchio cinema al rock in versione queer, dal glamour degli anni 80 al sudore dei ring di boxe.
New York, Berlino, Parigi, Barcellona: quale?
E perché? E cos’altro?
È una scelta ardua. Artisticamente ammiro e
trovo interessanti tutte queste città. Mi piace l’efficienza sul lavoro di N.Y., i sound che sono nati
tra i grattacieli (l’house music, tanto per dirne
uno). Berlino sta vivendo un’esplosione culturale non indifferente in questi ultimi anni, architettura, musica e le cosiddette arti alternative stanno trovando strade interessanti da osservare.
Parigi è bella, le sue atmosfere sono magiche:
è un cocktail insaporito con gusto da sonorità
ricercate. Barcellona? Beh, è una bella città con
il mare. E considerando le radici forti della mia
sicilianità mi sono sempre sentito un po’ a casa
lì. Barcellona è musicalmente piacevole anche se
ultimamente si sentono maggiormente le situazioni commerciali e un po’ rumorose. Sarebbe
insomma limitante per me dover scegliere solo
una di queste meravigliose città.
Chi ha paura della Muccassassina?
Io no... e voi? Attenti a quello che rispondete!
A CURA DI
ROMINA CIUFFA
È una label,
ma anche una
casa ideale in cui entrare per esprimere se
stessi, dar vita a collaborazioni o solo portare idee e pensieri. Un’etichetta discografica che cerca di seguire l’esempio portato in
epoca pop dalle factory, così attive nel
periodo delle avanguardie artistiche negli
anni 60. Poche definizioni, molta sostanza.
Dare voce a chi
PERCORSO sente la musica
elettronica come
un qualcosa di profondo ed istintivo, legato
a diversi momenti ed istanze: il dancefloor,
ma non solo. Techno e minimal forse, ma
sempre apertura alla contaminazione.
Digitale e non. Produrre, in fondo, significa
prima di tutto ascoltare.
Ad oggi 7 Oz. ha dato
luce due EP; il
RELEASE alla
terzo è in uscita.
L’esordio sul mercato discografico è stato
affidato a Ready to Change, due tracce dai
toni scuri ma dal beat incalzante, venate di
un sottile peso paranoico e liberatorio allo
stesso tempo, prodotte da Alexander Stone,
jesino di nascita, bolognese per formazione,
stabilmente a Berlino. La seconda, scaricabile unicamente dal web (Beatport, Juno Download etc.),
racchiude le tracce di 4 giovanissimi talenti della nuova scena elettronica nostrana, conosciutisi
presso la Sae di Milano. Nutek EP il titolo. Il sound è qui completamente dance-oriented.
È alle stampe il terzo capitolo della storia 7 Oz.: No Rulez, contenente Without
FUTURO di Skyboy e Ai Ai di Edoardo Pietrogrande, reinterpretazioni in chiave elettronica di due brani a loro modo celebri e celebrati. Seguiranno, nei prossimi quattro
mesi, altre due release: l’esordio ufficiale su vinile del duo Siddharta e Mr. Rovat, riuniti sotto lo pseudonimo comune 7 Oz. e, ad inizio 2009, il ritorno di un’autentica icona della scena elettronica italiana, Lory D, in passato a fianco di artisti come Aphex Twin sulla prestigiosa label Rephlex.
SCRIVEVA HESSE: DESTINO E CARATTERE SONO DUE NOMI DEL MEDESIMO CONCETTO. E POI, LA
MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI SONO COME UNA FOGLIA SECCA, CHE SI LIBRA NELL’ARIA E SCENDE ONDEGGIANDO AL SUOLO. MA ALTRI, POCHI, SONO COME LE STELLE FISSE, CHE VANNO PER UN
LORO CORSO PRECISO, E NON C’È VENTO CHE LI TOCCHI, HANNO IN SE STESSI LA LORO LEGGE E
IL LORO CAMMINO.
SUONA
IN UN
GARAGE
e il giardino che deve ospitare il
concerto è una palude. Norgarden
è venuto apposta da Oslo a Siena,
desideroso anche lui di fare il suo primo
«house concert». Nessun compenso, solo un
rimborso spese per il viaggio. Il cantautore
norvegese, che con le sue ballate raffinate ha
lasciato sfumare in suoni più brit-pop la sua
indole folk e jazz, arriva un po’ in ritardo. È
biondo e sorridente, ma per fronteggiare un
temporale di fine estate non basta.
PIOVE
Deciso: il concerto si terrà al coperto, ma
dove? C’è troppa gente per poter ospitare tutti
nel salotto attiguo al giardino. Saremo già 60 e
continuano ad arrivare americani, inglesi, italiani. Il sound check nel tunnel del garage convince l’artista: si farà qui. Si adatta la scenografia al nuovo set: un tappeto, una lampada,
un tavolino. Sullo sfondo, invece degli alberi,
uno scooter arancione. La luce della lampada
è appena sufficiente a illuminare il performer.
Nordgarden ha accettato di esibirsi per un
concerto acustico di 45 minuti. Dopo i primi
accordi il suono della sua chitarra invade il
tunnel dei garage. Il «nuovo Elliot Smith»
ripercorre i suoi successi e propone i nuovi
brani dell’ultimo bellissimo cd «The path of
love». Si crea uno strano feeling tra lui e il
pubblico. La luce fioca, il silenzio con cui gli
ascoltatori aspettano di sentirlo cantare, l’intensità delle liriche, melodie ampie ed avvolgenti: un rito religioso di cui Nordgarden è
ministro. Suona per due ore, racconta aneddoti, coinvolge il pubblico.
C’è spazio per una cover del «Suonatore
Jones» di Fabrizio De Andrè: «… Se la gente
sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la
vita e ti piace lasciarti ascoltare». Lascia il
pubblico con questa confessione intima. Un
vero fenomeno musicale, un artista maturo e
convincente. E generoso.
Succede anche questo, che un giorno uno dei
cantautori più promettenti dell’ultima generazione, acclamato da pubblico e critica, ritorni
a suonare in un garage. (Nicola Cirillo)
DONNE IN-CANTO
Prima che Peter Gabriel nel 1982 lanciasse il suo Womad a Firenze c’era già Musica
dei Popoli, un Festival che quest’anno celebra la sua 33° edizione con il titolo Donne
InCanto, dedicato al potere emozionale della
voce femminile. Otto concerti ottobrini presso l’Auditorium della Flog a Firenze e l’esibizione di alcune tra le
migliori interpreti femminili
delle musiche dal mondo,
dalla cantaora La Macanita,
protagonista della tradizione
gitana di Jerez, a Parissa, la
più acclamata cantante di
musica tradizionale persiana,
accompagnata da un ensemble di virtuosi strumentisti.
Buon compleanno Rosa è
dedicato a Rosa Balistreri,
celebre cantante popolare siciliana da tre
acclamate folk singer italiane: Fausta Vetere,
Lucilla Galeazzi e Clara Murtas. Quindi, la
fadista Ana Moura, l’ex cantante dei
Transglobal Underground Natacha Atlas,
Susana Baca, esponente di punta della tradizione musicale afro-peruviana e la kurda
Aynur con la sua ampia
estensione vocale. Il 2
novembre, un doppio concerto: Saba, italo-etiope che
mescola i ritmi della tradizione africana a percussioni
dalle sonorità contemporanee, e Mor Karbasi, israeliana dalla voce incredibilmente versatile.
Nicola Cirillo
Music In Autunno 2008
ENZO PIETROPAOLI
Nota di Basso Rendersene
totalmente dipendenti
SYS2
QUARTET
Element C’è Brooklyn
al centro di Roma
BIORN Venere Muri
potenti su synth ricercati come un esordio
VERVE Forth
Ricomincio da 4
È questo un cd di mero contrabbasso. Dio ce ne scampi e liberi, prima
reazione. E invece no: quest’ultima opera del nostro più grande contrabbassista la ascolterai centinaia di volte. Fosse un vinile lo rovineresti e
graffieresti anche in cucina per l’uso maniacale che ne faresti. Non essere maniaco,
Enzo Pietropaoli lo puoi ascoltare con tutta calma ogni qualvolta di calma avrai bisogno. Lui, per (non) saper (né) leggere (né)
scrivere, aggiunge anche parti elettroniche con maestria, a volte fischietta e
confonde voce con il suono del suo contrabbasso. Che definisce ostico.
Precisamente: «tutta l’umanità che ho
conosciuto, ma anche la solitudine, in una
stanza, con lui, il contrabbasso, così ostico, così familiare».
Introduce il suo cd: «A essere sincero,
non sto male da solo, anzi… Ma non sono
solo, non si è mai soli di fronte alla musica. In ogni nota c’è un po’ della mia vita,
le luci, le tenebre, ogni differente sfumatura». Solo, dentro casa sua, perché è là
che lo ha registrato: Recorded in Rome Enzo’s House. E se ti ricorda Dave
Holland, ti stupirai - ora che sai che l’ha
registrato a casa - di sentire come il suo
suono sia ancora più pulito.
Non solo Enzo Pietropaoli (la sua CB
Minor Blues ad esempio, «take another
cake» lo senti dire): rivisita, tra gli altri, la Mother Nature’s Son di Lennon-McCartney,
l’Autumn Leaves di Joseph Kosma e la Little Wing di Jimi Hendrix, Il Vento di MogolBattisti e Moon River dello stesso Henry Mancini che scrisse La pantera rosa.
Poi, osa. E pecca: contrabassa addirittura l’Anklange op. 7 n. 3 di Johannes Brahms.
Noi affoghiamo nel suo peccato, più maniacali ancora, e prendiamo un’altra fetta di
torta dalla cucina mentre lo impatacchiamo sbadati.
ROMINA CIUFFA
SYS2 QUARTET - ELEMENT
Qui non si tratta solo di un pianista, Emilio Merone, e di un chitarrista, Luca Nostro, che ci
piacciono, il primo perché ha una sensibilità
tastierale che s’infila nello sterno (come il
Thanksgiving di George Winston, ma lui
aggiunge il background jazz), il secondo perché è un filosofo della musica e, dunque, ne
conosce il senso più latente (e ce lo spiega).
Ma di due altri in formazione.
Il batterista Antonio Sanchez, messicano,
suona da quando aveva 5 anni e ha collaborato con musicisti del calibro di Pat Metheny (del
suo trio è batterista) e Chick Corea; mentre
del contrabbassista di Los Angeles Scott
Colley si sono avvalsi la vocalist Carmen
McRae e fuoriclasse come Jim Hall, Herbie
Hancock, Andrew Hill, Michael Brecker, Joe
Henderson.
I quattro, oggi, registrano insieme nello studio
Systems Two di Brooklyn, ed esce questo
Element, quattro tracce di Merone e quattro
di Nostro. Le si ascolta con riflessione e se ne
avverte un pensiero latente che impedisce il
mero mantenimento del sottofondo, perché
monta un rischioso coinvolgimento auditivomentale: come peccassimo di trascuratezza,
mancasse la concettualizzazione di un qualco-
J AZZ
& blues
sa che non afferriamo, dovessimo a questo cd
una stringa cosciente per suggellarne la mentalizzazione.
Romina Ciuffa
BIORN - VENERE
BEYOND
&further
Quando un disco proviene
dritto dal cuore e non da una
chiacchierata a tavolino lo si
percepisce subito. Ascoltando Venere, album
d’esordio dei Biorn, non
può certo sfuggire l’incredibile freschezza della
musica di questi cinque
ragazzi di Roma: Blaze
(voce, chitarre, synth,
suoni), Eddie (voce, basso,
contrabasso), Manuele
(chitarre, synth, pianoforte, fisarmonica), Aure
(batteria, percussioni) e
Jako (programming, laptop, synth, suoni).
Ed è un mix realizzato a
dovere, ispirato dal rock
americano
dell’ultima
generazione post-grunge
come Nickelback, Creed, Staind (vedi On Air,
l’unico brano cantato in inglese del disco,
oppure Spring e Siamo su una stella) e dal
cantautorato rock italiano di stampo
Subsonica, Negramaro, Afterhours (sin dalla
a cura di ROMINA CIUFFA
VERVE - FORTH
ENZO PIETROPAOLI - NOTA DI BASSO
J AZZ
& blues
GARBO Come il vetro
Vorticosa inquietudine di
voler morire giovane
FEED
back
Attesa, trasporto,
psichedelia, emozione.
Quattro parole per
descrivere l’album
numero quattro
dei Verve, e undici
anni di attesa per
la reunion della band britannica: dall’ultimo
album collettivo, Urban Hymns, prima che
Richard Ashcroft si inserisse in un anonimo
percorso da solista pop spalleggiato dagli
amici Ray Davies, Burt Bacharach, Paul
Weller. L’attesa è valsa la pena. Primo, la
durata dei brani: tutti al di sopra dei cinque
minuti e mezzo, in tutto 64. Prolisso forse, ma
c’è materiale su cui riflettere. Secondo, un’introspettiva traccia di apertura, la fluida Sit and
Wonder (solo questo, 7 visionari minuti).
Terzo, la freschezza e orecchiabilità del singolo Love is Noise, il più criticato qui ma anche
unico episodio di esperimento totalmente
lunatico in un album che non trova ferma collocazione né nella psichedelia né nel melodico:
il resto del disco è tutto un perdersi nel labirinto che Ashcroft e soci hanno saputo creare
mescolando sapienti ballate, atmosfere lisergiche e ritmi trascinanti. Sì, ci sono tutti gli ingredienti per un piatto alla Verve.
Ancorché criticato. Non un’ostentata originalità ma un rientro maturo che, oggi, imporrà
loro di prendere una direzione. Lo dicono loro,
sit and wonder: siedi, e pensa un attimo.
Cristina D’Eramo
GARBO - COME IL VETRO
Con garbo torna Garbo in un
disco intenso e doloroso, sotto
l’etichetta Discipline, che affascina al primo ascolto.
È una voce calda e penetrante, è esigenza di
vivere, tumulto di sentimenti.
Suoni elettronici di bassa
tensione sì, ma che riportano vorticosamente nel cuore
dell’inquietudine metropolitana, mettendo a nudo la fragilità umana.
Il disco più marcatamente
cantautoriale del musicista
milanese fa sentire sottesa
l’urgenza di comunicare e, a
tal fine, di servirsi di tutti i
mezzi: musica, voce, liriche.
E per fortuna i testi sono lon-
EDGE
and back
tani dalla retorica imperante di certo cantautorato dominante.
C’è il singolo di lancio Voglio morire giovane,
che poi è un inno disperato alla vita, scritto dall’amico Tao, quasi un esorcismo della morte
spirituale, affettiva; c’è Più
avanti, che fa riaffiorare gli
echi della new wave; c’è No,
che rapisce con un ritmo
intenso e basso martellante.
Tra le 12 tracce trova posto
anche una cover dei
Ramones, Baby I love you, in
una versione leggera e ironica: quasi uno sguardo dolce
sul suo passato, visto col sorriso bonario della maturità.
Nicola Cirillo
GAETANO DONIZETTI - LUCIA DI LAMMERMOOR
Ancora una volta Lucia ed
Edgardo dovranno dare
prova del loro amore, attraverso l’eterno dramma di Lammermoor, che
Gaetano Donizetti consegnò alle scene nel
1835. Un’opera intensa,
melodica e struggente, tra
melodramma romantico e
ombre di verismo. La genovese Dynamics, casa discografica indipendente, pubblica una
nuova incisione live della Lucia
di Lammermoor, con l’inconfondibile e seducente voce di
Mariella Devia, belcantista italiana che dà corpo e anima a
Lucia.
Soprano leggero dal colore
intimo e maturo, Devia è proiettata verso una
maturità che i suoi detrattori ancora contestano, ma che il Teatro Lirico di Cagliari consegna
in modo distinto attraverso una registrazione
senza equivoci e diretta da Gerard Korsten.
Interpretazione al limite della sensualità,
disciolta tra filati e mezze voci impalpabili, in
acuti e colorature cristalline. Un canto palpi-
CLASSICA
&opera
tante e malinconico che, intriso di realismo
drammatico e di linguaggio al limite del verismo, deve, senza il reiterato straniamento
della protagonista, esprimere paura e terrore.
Come nella seconda parte della cavatina
(Regnava nel silenzio) e come
nella celebre Scena della pazzia.
Recitativo arioso per una
scrittura che evoca tutte le
componenti del vocalismo
d’agilità: gorgheggi in alta tessitura, volate e volatine, trilli,
note ribattute, picchettati. Al
fianco di Devia non possiamo
che trovare l’Edgardo di
Giuseppe Sabbatini, uno dei
più raffinati e sensibili tenori
dei nostri tempi, accompagnato in scena da
Vladimir Stoyanov (Enrico Ashton), baritono di
grande eleganza e pulizia vocale, con il seguito
del cast composto da Carlo Colombara
(Raimondo), Blagoj Nacoski (Arturo), Damiana
Pinti (Alisa) ed Enrico Cossutta (Normanno).
Flavio Fabbri
RETTORE - STRALUNATA
title-track Venere, ma anche Gocce di Umore,
In silenzio).
Le canzoni scorrono leggere e orecchiabili
accompagnate da testi mai banali dove la
voce, piacevole e perfettamente calzante con il
mood dell’intero album,
riporta a creazioni alla
Chester Bennington dei
Linkin Park e Scooter
Ward dei Cold sia nel fraseggio che nel timbro.
Belle le chitarre, che
alternano muri potenti di
suono a melodie accattivanti, supportate da una
sezione ritmica incalzante e precisa.
Fondamentale e ricercato l’uso dei synth che dà
ai Biorn una marcia in più
differenziandoli dalle rock-band tradizionali.
Certamente un esordio eccellente di una band
genuina e di qualità. Bravi.
Valentina Giosa
Torna la regina, una reduce.
Stralunata, il suo nuovo tour e
la raccolta dei suoi successi,
eccola, Donatella che non si è mai vergognata di
nulla, che negli anni che furono ha rotto tutti gli
schemi e resta, ancora oggi, una che a sentirla
cantare ci si imbarazza. Anche perché non è
perfetta e, ciononostante, si prende certi lussi e
infila Madonna nel water e poi tira lo sciacquone,
dà a Mina della lavandaia nel duetto con Giorgia,
definisce Milva insopportabile e Carmen Consoli
vittima di uno scivolone, Patti Pravo ridicola,
Laura Pausini l’Orietta Berti del 2008.
Il cobra non è un serpente, lo dice il serpente.
Lei, che se Mina ha la voce di una lavandaia le
passa i panni e glieli strizza, va comunque ascoltata perché parla chiaro, parla di maschi e di
amore, fa ballare anche quando parla di suicidio
e di lamette. La Rettore è un’amante da portare a letto la notte e non salutare la mattina, è
una sigaretta da tirare con velocità e sensi di
colpa ma poca consapevolezza, un gustoso boccone che solo a pochi è dato capire, quelli che
sono un po’ anni 70 con quei suoni da luci psichedeliche in mezzo al salotto. Per chi è impulsi-
va, audace, indecente, sessuale, ironica e notturna 25 brani infila, uno dopo l’altro, la notte
specialmente. Raccolta che è un must.
Romina Ciuffa