“Icone sulla vita di Gesù Cristo per la nuova evangelizzazione”
Paola e David La Fede – Gianfranco Lazzaroni, Paoline Editoriale Libri, 2006, 256 pagine
Indice
Prefazione di Pier Giordano Cabra
Introduzione di Secondo Moretti
Le icone della chiesa parrocchiale di S. Antonio abate in Corti di Costa Volpino
Icone nuove per la nuova evangelizzazione
L'icona e la bellezza
Parola - Liturgia - Comunità in relazione all'icona
Lettura delle icone
• LA NATIVITÀ
• IL BATTESIMO
• LA CROCIFISSIONE
• COLUI CHE TUTTO CONTIENE
• LA RISURREZIONE
• L’APPARIZIONE DI GESU SUL LAGO DI TIBERIADE
• LA PENTECOSTE
Relazione tecnica
Bibliografia essenziale
Prefazione di Pier Giordano Cabra
Le icone sembrano tutte uguali: tutte, più o meno lo stesso stile, tutte ferme a una cultura remota
e ripetitiva.
D'altra parte le icone stanno ritornando alla grande: risposta alla pochezza dell'arte « sacra»
contemporanea? O risposta a un'esigenza di qualche cosa d'Altro?
Un dato è certo: nella civiltà dell'immagine l'icona è una provocazione.
Se l'immagine tende a esaltare il momento presente con tutto il suo spessore, l'icona proietta
immediatamente in una dimensione abitualmente rimossa, ma irremovibile, qual è l'eterno.
Se l'immagine vuole fissare lo splendore del momento che passa, l'icona vuoi fare balenare un
raggio della luce intramontabile.
La prima si dirige immediatamente all'emozione, la seconda alla contemplazione.
L'immagine celebra i riflessi multicolori del tempo che scorre, con le sue meraviglie e le sue
miserie, l'icona intende trasmettere un bagliore, seppure allusivo, del mondo definitivo della
risurrezione.
Estratto autorizzato dall’Editore a cura di www.iconecristiane.it
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“Icone sulla vita di Gesù Cristo per la nuova evangelizzazione”
Paola e David La Fede – Gianfranco Lazzaroni, Paoline Editoriale Libri, 2006, 256 pagine
Il mondo delle immagini ci avviluppa, ci avvolge nel presente e talvolta ci illude che tutto si
risolva nell'attimo fuggente. Il mondo delle icone ci parla d'altro, di un mondo inafferrabile, ma non
per questo meno reale. Un mondo dove l'oro diffuso dice la luce inalterabile del Risorto di cui i
santi sono rivestiti, e dalla quale essi, come amici e intercessori, ci accompagnano e ci seguono.
L'icona richiama il Tutto, più intravisto che rappresentato, ma fermamente presentato nei suoi
testimoni: il Cristo risorto, l'autore della nuova vita, la Vergine Madre di Dio che porta la sua vita
radiosa ai suoi figli, e i santi testimoni della luce abbagliante del mondo ricostruito e incorruttibile.
Contemplare un'icona significa proiettarsi in ciò che saremo, pregare un'icona significa
immergerci nelle divine energie che permettono di raggiungere la meta attraverso le ombre del
nostro cammino.
Dall'icona bisogna lasciarsi afferrare, avere la pazienza che ci prenda e ci trasporti nel suo
mondo. Davanti all'icona bisogna fermarsi e pregare. Allora comincia il viaggio verso ciò che « è,
che era e che verrà».
Il Settimo Concilio Ecumenico (Nicea II, 787) affermava che i veri pittori dell'icona sono i Santi
Padri, coloro che hanno ricevuto il dono di uno sguardo penetrante sui divini misteri e che hanno
potuto trasmettere i canoni e l'ordinamento che aprono una finestra di comunicazione con il mondo
sovrasensibile.
Non so se i bravi autori delle icone qui raffigurate sapevano di quanto stava scritto sui manuali a
uso dei maestri di icone: chi si accinga a dipingere un'icona secondo la propria intenzione, e non
secondo i sacri canoni dei Padri della Chiesa, merita l'eterno tormento.
So tuttavia che, posando lo sguardo su queste icone, sgorga un senso di pace e di serenità, che
non può non far pensare a un mondo diverso dal consueto.
Sono rappresentazioni antiche e nuove, non ignare dei sacri canoni e nello stesso tempo piacevoli
e godibili.
Vengono da una vivace esperienza di fede, a contatto con le fonti della inesauribile Tradizione,
ma rivissute nel e per il nostro tempo, sì da rendercele vive e trasparenti al Mistero. Soprattutto
compatibili, anzi complementari, con la celebrazione liturgica.
Viene alla mente Romano Guardini, il quale contemplando estasiato i mosaici del duomo di
Monreale, questa incomparabile icona musiva, durante una celebrazione liturgica, annotava: «Tutti i
presenti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare. Allora mi divenne chiaro qual è
il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il "santo" nell'immagine e nel suo
dinamismo ».
Un'icona che, collocata in un contesto liturgico, aiuti a entrare più in profondità, con « la visione
», nei santi misteri celebrati dalla santa liturgia, ha raggiunto l'altissima meta di introdurre a «
vivere nello sguardo » il mondo divino che si offre all'uomo.
Queste icone, qui spiegate con dovizia di riferimenti biblici e patristici, vengono in soccorso a
noi distratti consumatori di realtà caduche, per cogliere il « santo » che si annuncia e si celebra nella
liturgia e per immergici, quasi percettibilmente, nel mondo definitivo che viene offerto « nei riti e
nelle preci » della santa Chiesa, Sposa di Cristo, risvegliando in tal modo la nostalgia dell'homo
aeternus e mostrando lo splendore dell'uomo nuovo. Si aprono allora all'accoglienza dell'annuncio
cristiano, che intende trasformare ogni uomo che viene a questo mondo in icona vivente del Figlio
dell'Altissimo e dell'umile Vergine Maria.
Introduzione di Secondo Moretti
Una nuova splendida sequenza iconografica ora arricchisce di bellezza la giovane chiesa
parrocchiale a Corti (Costa Volpino), prospiciente la parte nord del lago d'Iseo (il Sebino), in
provincia di Bergamo, anche se diocesi di Brescia. L'ha voluta il parroco don Gianfranco Lazzaroni
che l'ha commissionata ai coniugi David e Paola La Fede. Essi non sono nuovi a questa espressione
pittorica: hanno lasciato frutto della loro arte in Italia e all'estero. A Brescia hanno impreziosito la
chiesa della SS. Trinità con tre icone absidali e le quattordici stazioni della Via Crucis, racchiuse in
una iconostasi che abbraccia la rotonda dell'edifìcio.
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I coniugi La Fede esprimono la loro arte in assoluta fedeltà alla tradizione iconografica (hanno
anche consultato direttamente centinaia di icone dei monasteri russi); non solo fedeltà esecutiva,
anche se ripensata per il nostro tempo, ma soprattutto fedeltà di spirito e di fede in un contesto
fondamentale dello scrutare la Scrittura in costante preghiera. Questa è, infatti, la motivazione che,
da sempre, ha espresso l'icona: solo in uno spirito di fede e di preghiera è possibile realizzare
un'icona. Va ben oltre una sola competenza tecnica. II gusto e l'attenzione per l'icona stanno
tornando attuali. Una moda? Se così fosse, si tratterebbe di grave incomprensione passeggera, come
tutte le mode. Ammirare e capire l'icona è possibile solo in un contesto di fede contemplativa. Il
grande teologo e scrittore russo Pavel Evdokimov ha formulato con chiarezza il cammino interiore
che precede l'icona: va oltre l'espressione di ciò che può essere percepito dai sensi, perché
presuppone un «digiuno della vista». Si deve liberare la sola impressione sensibile, allo scopo di
raggiungere, nella preghiera e nell'ascesi, una nuova e più profonda capacità di vedere, attraverso un
percorso interiore che purifica lo sguardo e il cuore, spalancandosi alla bellezza con la forza della
verità.
Comprendiamo così il significato della espressione di Dostoevskij «la bellezza ci salverà». La
bellezza, appunto. Nel nostro tempo, conturbato e in preda alla catechesi del relativismo, si è
insinuata la convinzione che non è il bello a svelarci la verità, ma piuttosto la menzogna, ciò che è
brutto e volgare. Dopo Auschwitz, si dice, si può ancora fare poesia? Dov'era nascosto Dio quando
funzionavano i forni crematori?
Solo la parola di Dio e la Bibbia ci forniscono la risposta. Di Cristo il Salmo 44 profetizza: «Tu
sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia». La grazia diffusa sulle
labbra significa la bellezza della Parola (al Kerigma non basta la bellezza esteriore, ma piuttosto la
bellezza delle verità).
La filosofìa perenne aveva già formulato l'unicità di ciò che è vero, di ciò che è bello, di ciò che
è buono: « Ens et verum, ens et bonum, ens et pulchrum in unum convertuntur».
Ciò che è bello non può essere che vero e buono. La bellezza è lo splendore della verità. Eppure
Isaia (53,2) ha asserito: «Non ha bellezza né apparenza: / l'abbiamo visto, un volto sfigurato dal
dolore».
L'apparente contraddizione tra il Salmo 44 e la sconvolgente profezia di Isaia, in realtà rende
possibile la vera descrizione della bellezza.
La contemplazione del Crocifìsso è lo svelarsi dell'Amore. «Sino alla fine» (Gv 13,1): è così che
la bellezza è verità e la verità è bellezza. Nel Cristo, Servo sofferente di JHWH, Agnello di Dio
sgozzato, si manifesta che la bellezza della verità comprende lo strazio del dolore fino al mistero
della morte. Soltanto nell'accoglienza del dolore è possibile scoprire la bellezza della verità, non nel
suo rifiuto. Già Platone aveva compreso che l'uomo è alla ricerca della primitiva e smarrita sua
origine di bellezza: ciò gli provocò sofferenza.
In realtà la bellezza porta con sé lo strale della ferita. L'intuizione di Platone è tutt'altra cosa
dall'estetismo superficiale e irrazionale. Bellezza, verità e conoscenza si richiamano
ontologicamente: la conoscenza genera l'amore, soprattutto l'esperienza vissuta dell'amore, che è il
segreto della santità; e questa è l'autentica dimensione della fede e della teologia, infeconde se non
servite dall'esperienza vissuta dell'amore, ben più che dalla pura conoscenza razionale. E così che
l'Amore non esita a svuotarsi della bellezza esteriore per ammirare proprio così la bellezza della
verità. Questo è il segreto meraviglioso dell'arte iconografica. Hans Urs von Balthasar condensò il
suo Opus magnum in una estetica teologica. E così che l'esperienza della bellezza ferisce con
sofferenza l'anima e la dischiude alla verità.
Contemplando la Trinità di Rublèv si inizia a comprendere il senso, ultrasensoriale del bello,
nell'unione tra il mistero del Dio trinitario e l'Eucaristia, memoriale della morte e della risurrezione
del Figlio eterno di Dio incarnato.
Bene è scritto in Le 24,35: «...l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane»; si disvela così
l'espressione di Gesù a Filippo durante l'Ultima Cena: « Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv
14,10). E questo avviene davanti al Crocifìsso: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafìtto»
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“Icone sulla vita di Gesù Cristo per la nuova evangelizzazione”
Paola e David La Fede – Gianfranco Lazzaroni, Paoline Editoriale Libri, 2006, 256 pagine
(Gv 19,37), secondo la profezia di Zaccaria (12,10). La Sindone di Torino è la più perfetta icona
della Vera Bellezza per Amore.
Per questo l'icona si apre a una dimensione escatologica; superando l'ostacolo della pura
immagine esteriore, l'icona rimanda a una prospettiva che va oltre la morte: «Al risveglio mi sazierò
del tuo Volto» (Sai 16,15). Contemplare il volto di Dio è l'opera definitiva di ogni uomo. Questo
non avevano compreso gli iconoclasti i quali, in una inesatta lettura della Scrittura, rifiutavano ogni
espressione artistica che pretendesse rendere visibile il volto di Dio; in realtà l'icona è bellezza la
cui forza è proprio quella di rimandare lo sguardo oltre il tempo, pur accogliendo nella fede e nella
speranza la bellezza di Dio che si è fatta visibile nella Gloria del suo figlio Crocifisso e Risorto.
La realizzazione dei coniugi La Fede a Corti di Costa Volpino si muove in questa prospettiva.
Non hanno la pretesa di esprimere l'unico modo di fare un'icona oggi; essi sono a conoscenza di
altre composizioni esemplari del nostro tempo; inoltre, secondo la storia dell'arte di sempre, sanno
che i modi di creare arte vera sono svariati. Ma trattandosi di icone non possono non avere in
comune l'amore per le Scritture Sacre, un'esperienza di fede, di conversione e di preghiera.
La fedeltà all'antica tradizione professionale iconografica è necessaria, pur aprendosi a sempre
nuove soluzioni: riscoperta e fedeltà a un'antica tradizione, aperte a nuove prospettive di
aggiornamenti. Un po' come è avvenuto nel Concilio Ecumenico Vaticano II.
Le icone della Chiesa Parrocchiale di S. Antonio abate in Corti di Costa Volpino
di Gianfranco Lazzaroni
Le sette icone che vengono presentate in questo libro si trovano nella nuova chiesa parrocchiale
di S. Antonio abate in Costa Volpino (frazione Corti), provincia di Bergamo, diocesi di Brescia.
Costa Volpino è un centro formato da sette frazioni esteso sul versante bergamasco all'inizio
della Valcamonica e toccato dalle acque del Sebino, dove il fiume Oglio interrompe la sua corsa.
Corti S. Antonio prende il nome dalla «Curtis» medievale e, nella parte antica, è composto da un
complesso di edifìci situati prevalentemente sullo sperone del monte chiamato «La Costa».
In questo primo nucleo abitativo era posta anche l'antica chiesa parrocchiale eretta nel 1507 e
ricostruita nel 1848.
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, per il forte sviluppo edilizio della parte bassa
del paese adiacente alla Statale n. 42 del Tonale e della Mendola, divenne necessaria la costruzione
di una nuova chiesa parrocchiale con la casa canonica e l'oratorio.
Il parroco don Giovanni Lazzaroni nel 1971 affidò la progettazione dell'opera all'architetto Luigi
Cottinelli di Lovere, e le vetrate alla dottoressa Franca Ghitti.
Nella Pasqua di Risurrezione del 1973 venne celebrata, per la prima volta, l'Eucaristia nella
grande aula della nuova parrocchiale, che sarà consacrata il 12 febbraio 1984.
L'edifìcio, a pianta rettangolare, è costruito con materiali poveri, in gran parte prefabbricati di
produzione industriale.
La parte absidale di fondo, costituita da una vetrata di 18 metri di lunghezza per 5 di altezza., si
affaccia sulla natura (prato, olivi, bosco e roccia) con i suoi colori cangianti a seconda delle
stagioni.
Le vetrate policrome dell'artista Franca Ghitti ornano la parte alta delle pareti laterali,
raffigurando i sette giorni della creazione (lato sinistro) e le sette piaghe (le coppe dell'ira di Dio)
dell'Apocalisse (lato destro).
Il presbiterio, definito da tre arcate, vede al centro la mensa eucaristica con l'ambone (mensa
della Parola), a sinistra il battistero e a destra il Tabernacolo caratterizzato dai segni del pane e del
pesce.
Le icone sono state aggiunte dopo trent'anni e sono state dipinte da Paola e David La Fede.
L'esecuzione delle sette opere, che costituiscono la corona misterica sull'architrave del
presbiterio (tre metri per quindici), è iniziata nel 2002 e si è conclusa nella primavera del 2006.
Per quale motivo sono state aggiunte queste immagini?
La scelta non è stata «decorativa» o semplicemente «riempitiva», ma liturgica.
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Anzitutto la grande vetrata di fondo, nel presbiterio, portava lo sguardo in modo obbligato sulla
natura, stupenda nei contrasti tra la vegetazione e la roccia chiara, ma esagerata nella sua centralità,
tanto da catturare sempre l'occhio durante la liturgia. La mensa con il celebrante, il luogo della
proclamazione della Parola, ma anche il battistero e il Tabernacolo, risultavano inevitabilmente
secondari.
Le icone, con al centro il grande Pantocratore, non tolgono nulla alla visibilità della vetrata e
lasciano spazio alla natura di fondo, ma riportano lo sguardo dell'assemblea sul luogo della
celebrazione, impedendo la fuga sull'esterno.
Non è la natura che salva, ma il Signore Risorto che si fa presente nell'assemblea riunita e si
comunica al cuore e alla vita delle persone attraverso la Parola proclamata, il celebrante, i segni
sacramentali, il canto e i vari momenti liturgici.
Oltre all'eccessivo peso della vetrata di fondo, la nuova chiesa parrocchiale risultava mancante di
immagini che potessero aiutare la preghiera, l'accoglienza della parola di Dio e la celebrazione.
Le vetrate colorate laterali sono molto interessanti nell'effetto cromatico, ma poco leggibili
(soprattutto le raffigurazioni dell'Apocalisse) e inadatte a favorire l'incontro con la «Parola fatta
carne», con Gesù Cristo, che ha manifestato in modo visibile, nella storia, il mistero di Dio.
Le vetrate policrome rimandano al « religioso »; le icone manifestano l'incarnazione del Figlio di
Dio e la sua opera, e liberano dalla sensazione di essere in una cappella New Age, oppure in una
indefinita aula per congressi umanistico-religiosi.
L'annuncio del mistero pasquale viene confermato dalle immagini iconografiche e in modo
chiaro e diretto interpella la vita dei fedeli.
Gesù Cristo non è una vaga idea, una evanescente presenza, ma è « scandalosamente » dentro la
storia: incarnato nel grembo di una vergine per opera dello Spirito, immerso nelle acque del
battesimo e nella dura realtà dei nostri peccati, rifiutato e crocifìsso, insperatamente risorto e fonte
di vita nuova per coloro che credono in lui e accolgono il suo santo Spirito per la missione.
Le sette icone, disegnate e dipinte dai coniugi La Fede, sono opera di credenti che sono «
realmente », non « formalmente », nel cammino della fede; sono frutto di una esperienza segnata
dall'ascolto della Parola, dalla liturgia, dalla comunione ecclesiale, dalla preghiera.
Non sono « copie » delle forme bizantine oppure orientali, ma opere nuove: lo stile iconografico
è attualizzato da una originale tecnica nella stesura dei colori, da una compositività dell'immagine
che potremmo definire maggiormente «battesimale», postconciliare, centrata sulla storia della
salvezza che ha il suo compimento nel mistero pasquale.
Sono icone per la nuova evangelizzazione, adatte per la catechesi e soprattutto capaci di unire i «
misteri » della salvezza con la vita, per aiutarci a cogliere il passaggio del Signore, affinchè la sua
gloria trasfiguri il nostro cuore, la nostra mente e le nostre forze.
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Paola e David La Fede – Gianfranco Lazzaroni, Paoline Editoriale Libri, 2006, 256 pagine
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