Galileo Galilei Dialogo de’ due Massimi Sistemi Tolemaico e Copernicano Quest’opera fu stampata il 21 febbraio 1632, a Firenze, presso il tipografo Landini. Essa vide la luce molti anni dopo la composizione del trattatello galileiano del 1616, intitolato Dialogo sopra il flusso e il reflusso del mare, che ne costituiva il nucleo, e ne conteneva la principale tesi, ossia quella secondo cui il fenomeno delle maree fornirebbe la prova del moto della Terra. Il completamento dell’opera fu ritardato in parte per la titubanza del Galilei a pubblicare scritti che sostenessero la teoria copernicana, condannata dal Sant’Uffizio nel 1616, in parte a causa dei suoi problemi di salute, per “l’età, ch’è molta, e la sanità ch’è poca”, come egli stesso aveva detto in una lettera del 1625. Galilei aveva deciso di rimettere mano al Dialogo solo dopo che la sua opera precedente, il Saggiatore, del 1623, era stata favorevolmente accolta dal neoeletto papa Urbano VIII. Questi, a seguito della visita dello scienziato in Vaticano, aveva indirizzato al Granduca Ferdinando II di Toscana una missiva piena di lodi e d’amore per “il diletto figlio Galileo”, di cui così diceva: “Un tanto uomo, la cui fama splende in cielo e corre la terra […] noi da tempo cingemmo col nostro paterno affetto, poiché riconoscemmo in lui non soltanto la gloria delle lettere, ma anche il fervore religioso”. Galileo si era recato a Roma nel tentativo di ottenere la revoca del divieto del 1616, quel “salutifero editto” che gli aveva proibito di parlare dell’ipotesi del moto della Terra se non come mera “supposizione” accademica. I protagonisti della vicenda non c’erano più: era cambiato il pontefice, ed il cardinale Bellarmino era morto nel 1621. Galilei non riuscì nella missione, ma ritenne comunque - pur conservando qualche legittima riserva - che il clima gli potesse essere favorevole, confortato in ciò anche dalle benevole parole del papa, che qualche tempo prima, quando era ancora cardinale, gli aveva addirittura dedicato una poesia. Forse egli confidava anche nell’autorità che, in tanti anni, egli aveva indubbiamente acquisito, anche al di fuori del campo scientifico. E, d’altra parte, era difficile per uno scienziato del suo calibro, dal carattere impulsivo, trattenere per sé le nuove, fondamentali conoscenze conseguite. Da una sua lettera emerge anche quanto egli si sentisse in dovere di agire in difesa di coloro che, da quasi un secolo, avevano sostenuto la teoria copernicana. Gli eventi gli avrebbero dato torto: il Dialogo subì vari interventi censori, e Galileo faticò molto per ottenere dal papa la licenza di stampa: questa, infine, venne revocata, con un procedimento che sfociò nel processo per eresia e nella condanna a vita per Galileo. Le principali modifiche richieste dal revisore riguardarono il titolo, in cui fu fatto scomparire il riferimento alle maree, ed il proemio, in cui Galileo dovette precisare che il sistema copernicano era da considerarsi una semplice ipotesi, un puro “capriccio matematico”, “senza conceder la verità assoluta”. Il papa volle inoltre che l’autore dichiarasse esplicitamente di rinunciare alla pretesa di aver svelato il mistero della costituzione del mondo: questa non poteva che essere una “fantasia” umana, che vanamente credeva di potersi porre al di sopra dell’insondabile disegno di Dio. E Galileo farà in modo che, alla conclusione del dialogo, Simplicio non cambi idea, al Salviati farà dire che le teorie da lui esposte potrebbero benissimo essere una “vanissima chimera” ed un “solennissimo paradosso”. L’opera è scritta in volgare, perché Galileo voleva che essa potesse avere la massima diffusione possibile. Egli, del resto, era sempre stato sensibile al problema dell’uso didattico della lingua. Il Sant’Uffizio stigmatizzò questo fatto come un’aggravante, che aumentava grandemente la pericolosità dell’opera. Il contenuto dell’opera è ben riassunto dal lunghissimo titolo imposto dal Vaticano: “Dialogo di Galileo Galilei, Linceo, Matematico sopraordinario dello Studio di Pisa e Filosofo e Matematico primario del Serenissimo Gran Duca di Toscana, dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una quanto per l’altra parte.” Il testo consiste in un immaginario dialogo (il Campanella dirà: “Certo che non avemo a invidiar Platone”), avente luogo in un palazzo sul Canal Grande, e coinvolge tre interlocutori: Simplicio, sostenitore del sistema tolemaico, e due defunti amici e discepoli di Galileo, il fiorentino Filippo Salviati, sostenitore del sistema copernicano, e il veneziano Giovanfrancesco Sagredo, che è anche il padrone di casa, e fa da moderatore tra i due contendenti. Simplicio è il nome di un filosofo greco del sec. VI d.C., commentatore di Aristotele: ma il Sant’Uffizio - sicuramente non a torto - volle vedere in esso il significato di “sempliciotto, sciocco”: in effetti, anche il Campanella ravvisò in quel personaggio una figura ridicola, “il trastullo di questa commedia filosofica”. E poiché proprio a Simplicio Galileo aveva messo in bocca le parole del papa, il Vaticano ebbe un comodo appiglio per provare la malafede dell’autore. La disputa è una contrapposizione, soprattutto metodologica, tra Simplicio, che si richiama alla tradizione dei filosofi greci, e Salviati, che ragiona alla maniera di Galileo, facendo affidamento esclusivamente sui propri mezzi di ricercatore. Galileo stesso, di cui vengono discusse molte teorie fisiche, non viene mai esplicitamente nominato: ma Salviati fa spesso riferimento ad un “Accademico Linceo” la cui identità è più che ovvia. A dire il vero, agli occhi del lettore moderno Simplicio non ha nulla di farsesco, è una figura più che dignitosa, anche se anacronistica. Tutt’al più può sembrare a tratti rigido e impacciato di fronte a fatti evidenti ed elementari, a tratti impegnato in tortuosi - quanto inconcludenti - giri di pensieri. Pare poco abituato a sviluppare idee proprie. Egli è infatti la personificazione della sterilità della logica, che niente può senza la pratica. Per dirlo con le parole del Salviati: “[…] la logica, come benissimo sapete, è l’organo col quale si filosofa; ma, sì come può esser che un artefice sia eccellente in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sonare, così può esser un gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica […] Il sonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; […] il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici.” Salviati rimprovera ripetutamente Simplicio per la sua impostazione, controbatte duramente alle sue argomentazioni erudite: “E perché [queste cose] non l’avete voi, senza ridurvi a dover credere all’altrui relazioni, osservate e viste da per voi con i vostri occhi propri?” “Quando si abbiano a negare i principi delle scienze e mettere in dubbio le cose manifestissime, chi non sa che si potrà provare quel che altri vuole e sostener qualsiasi paradosso?” “Mille Demosteni e mille Aristoteli resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che abbia avuto ventura di apprendersi al vero. Però, signor Simplicio, toglietevi pur giù dal pensiero e dalla speranza che voi avete, che possano esser uomini tanto più dotti, eruditi e versati nei libri, che non siamo noi altri, che al dispetto della natura sieno per far divenir vero quello che è falso.” Nell’opera vengono citati, sia pur indirettamente, alcuni matematici dell’epoca, tra cui Scipione Chiaramonti, autore dell’Antiticone: Galileo immagina che i tre personaggi si procurino alcuni libri, di cui vengono lette e commentate le teorie, per poi confutarle. Come rileva Federico Enriques, il Dialogo, più che un’opera costruttrice di una nuova teoria, è da intendere come un’opera distruttrice del secolare impianto di luoghi comuni, che ostacola l’edificazione della scienza moderna. Secondo il Koyré, il Dialogo, come anche il Saggiatore, è il manifesto di un nuovo modo di ragionare, scritto in forma discorsiva, quasi salottiera, per accrescerne l’efficacia pedagogica presso il lettore valentuomo borghese. Nei Discorsi su due nuove scienze, che sono, in un certo senso, la continuazione e l’approfondimento del Dialogo, Simplicio dovrà ammettere: “Veramente comincio a comprendere che la logica, benché strumento prestantissimo per regolare il nostro discorso, non arriva, quanto al destar la mente, all’acutezza della geometria.” E Sagredo, di rincalzo, dirà: “A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò veramente non credo io.” Il Viviani d’altronde ci racconta che Galileo, da giovane, “udì i precetti della logica da un Padre Valombroso; ma però quei termini dialettici, le tante definizioni e distinzioni, la molteplicità delli scritti, l’ordine e il progresso della dottrina, tutto riusciva tedioso, e di poco frutto e di minor satisfazione al suo esquisito intelletto.” La polemica è sempre tra l’autorità degli scritti, che è l’arma impugnata da Simplicio, e la forza dell’esperienza diretta della realtà, di cui si avvale Salviati. Se Simplicio sostiene che “non bisogna nella scienza naturale ricercar l’esquisita evidenza matematica”, Salviati insiste sul fatto che “i discorsi nostri hanno da essere intorno al mondo sensibile e non sopra un mondo di carta”. E Salviati non perdona a Simplicio gli errori (“esorbitanze”) relativi alla geometria. Il principale argomento della prima giornata è la dottrina aristotelica dell’incorruttibilità dei cieli, a cui Salviati contrappone l’evidenza delle osservazioni astronomiche, che dimostrano, ad esempio, che la Terra e la Luna sono corpi simili, entrambi privi di luce propria e disseminati di montagne e valli. Anche le fasi di Venere, l’apparizione delle comete e le macchie solari sembrano confutare l’immutabilità del mondo celeste, retta dalle eterne leggi dell’astrologia, e contrapposta alla corruttibilità del mondo sublunare, cioè della sfera terrestre, i cui mutevoli eventi sono oggetto delle osservazioni meteorologiche. La fisica galileiana, contrariamente a quella aristotelica, non ammette distinzioni tra la Terra e il Cielo, prevede le stesse leggi per tutte le parti dell’universo. Vengono contestati anche gli aspetti magici della numerologia pitagorica in cui crede Simplicio e che, secondo Salviati, sarebbero il frutto di distorsioni popolari. Il discorso cade anche sulle dimensioni geometriche nonché sul moto dei corpi soggetti alla gravità, quelli in caduta libera, quelli lanciati verso l’alto, quelli che scendono lungo il piano inclinato: Galileo dimostra di aver correttamente compreso l’andamento della velocità in queste tre situazioni. Partendo dalla constatazione che l’accelerazione subita da un corpo che scende lungo un piano inclinato è tanto minore quanto minore è l’inclinazione del piano stesso, Salviati presenta il caso di un corpo su di un piano orizzontale come la situazione limite, in cui l’accelerazione è necessariamente nulla. Il moto del corpo è allora uniforme, ossia avviene con velocità costante. D’altra parte, come verrà spiegato più diffusamente nella seconda giornata, quella del corpo lanciato sul piano orizzontale è la situazione intermedia tra quella di un corpo che viene lanciato lungo un piano “declive” o “chino” (in discesa), il cui moto è accelerato, e quella di un corpo che viene lanciato lungo un piano “acclive” o “erto” (in salita), il cui moto viene “ritardato” (decelerato). La giornata si chiude, curiosamente, con un’esaltazione della scrittura, formidabile invenzione che, mediante “vari accozzamenti di venti caratteruzzi sulla carta”, riesce a diffondere e perpetuare il pensiero umano. La seconda giornata è incentrata sulla questione del moto della Terra. Innanzitutto la sua immobilità appare improbabile da un punto di vista metafisico: perché mai la natura - si chiede Salviati - avrebbe deciso di mettere in movimento l’intero cosmo, tranne il nostro pianeta? Inoltre, tutti gli argomenti sino ad allora addotti a favore dell’immobilità del nostro pianeta sarebbero fasulli. Non è vero che la rotazione della Terra - che viene chiamata “moto diurno” provocherebbe un fortissimo vento da oriente, né che “i sassi, le fabbriche e le città intere” verrebbero sbalzati via dalla forza centrifuga, né che gli oggetti lanciati dall’alto verrebbero deviati verso occidente, né, infine, che gli uccelli e le nuvole non potrebbero tenere il passo con il suolo. Tutte le cose presenti sulla Terra, ivi compresa l’atmosfera, si muovono insieme ad essa e sono apparentemente ferme, come lo sono, per i naviganti, gli oggetti trasportati dalla nave che si muove in assenza di rollio. In questo discorso è già presente il concetto di sistema inerziale. Galilei, che non usa questo termine, ha in mente un sistema che sia soggetto ad un moto “uniforme, e non fluttuante in qua e in là”. Un uomo fermo sulla nave, cioè un osservatore che, come diremmo in linguaggio moderno, sia solidale con questo sistema, non ne avverte il movimento. In tale contesto il moto e la quiete sono solo aspetti relativi di una medesima situazione fisica: è questo il principio della relatività galileiana, che verrà superato solo nel Novecento dalla relatività einsteiniana. Con esso viene a cadere la teoria sviluppata nella Fisica di Aristotele, secondo la quale il moto sarebbe causato dalla continua azione di un motore (cioè, una forza), e la quiete sarebbe l’effetto della cessazione di tale azione. Con Galileo nasce l’idea di moto inerziale, cioè di moto che avviene in assenza di forze, e per di più prosegue indefinitamente. Cartesio lo individuerà, correttamente, nel moto rettilineo uniforme. Galileo, invece, lo identifica col moto circolare uniforme, quello di un oggetto che scorra, senza attrito, su di una superficie sferica (per un osservatore sulla superficie terrestre, tale moto, pur essendo curvo, appare in effetti come rettilineo). D’altra parte, come viene detto nella prima giornata, egli considera contraddittoria l’idea di un moto rettilineo indefinito: esso porterebbe, infatti, il corpo in movimento verso l’infinito, dove, secondo lui, è impossibile arrivare. Inoltre esso tende a disperdere la materia, ed è quindi incompatibile con l’ordine del cosmo, che rimane invece preservato dal moto circolare. In questo tipo di argomentazioni si riscontra una decisiva differenza rispetto all’approccio aristotelico: il moto circolare uniforme viene qui giustificato per deduzione logicomatematica (la sua negazione comporterebbe un paradosso), e non per via metafisica, con la presunta perfezione delle sfere celesti. In questa parte dell’opera di Galilei compare un parziale accostamento alla cosmogonia platonica, esposta nel Timeo: il Nostro immagina infatti che all’inizio nell’universo regnasse il caos, e che il moto rettilineo avrebbe potuto essere impiegato da Dio, in una fase iniziale, per ridistribuire la materia. Nella terminologia fisica di Galileo, vertigine è la proprietà dei corpi che ruotano, impeto1 la proprietà di un corpo che, a seguito di un “moto violento” (un lancio, uno sparo, un urto, ecc.) si muove in linea La teoria dell’impeto risale a Giovanni Filopono, un commentatore di Aristotele del sec. VI, e fu ripresa, nel corso del Trecento e del Quattrocento, da alcuni scienziati parigini. 1 retta. In una pietra che si stacchi dal bordo di una ruota la vertigine si tramuta in impeto, che la fa procedere lungo la tangente alla ruota nel punto di distacco: questo effetto, come noi sappiamo, è dovuto alla forza centrifuga, che sarà scoperta da Cartesio. Se ad un corpo viene impresso un impeto tale da staccarlo dalla superficie terrestre, al suo moto rettilineo se ne aggiunge un altro, un “moto naturale”, che tende a farlo tornare verso il basso. Il Salviati applica il principio di composizione dei moti per spiegare come uno dei due moti possa prevalere sull’altro: è il problema della velocità di fuga, che, ovviamente, Salviati può affrontare solo in termini generali, senza dare valutazioni numeriche. Egli studia il moto con semplici visualizzazioni geometriche. Eccone un esempio. Su due ruote di diverso raggio, che F D ruotino, in senso antiorario, intorno all’asse A, sono fissate due pietre E identiche, rispettivamente nei punti B e G C. Le due ruote hanno la stessa velocità: A B C nell’intervallo di tempo in cui la pietra in B raggiunge la posizione G, la pietra in C arriva nel punto E, percorrendo un arco di uguale lunghezza. Si traccino le tangenti alle ruote nei punti B e C, e su queste si segnino i punti F e D, come in figura, in modo che BF=CD. Supponiamo che nell’istante cui si riferisce la figura, le pietre si stacchino simultaneamente dalle ruote. L’impeto impresso alle due pietre lungo le tangenti BF e CD è lo stesso. Nel momento in cui una pietra transiterà per il punto F, l’altra pietra si troverà in corrispondenza del punto D. Se le ruote avessero la facoltà di attrarre a sé le pietre, quale delle due dovrebbe esercitare l’azione più forte? La ruota più grande dovrebbe essere in grado di deviare la pietra solo del tratto DE mentre, nello stesso lasso di tempo, la ruota più piccola dovrebbe deviare l’altra pietra dell’intero tratto FG. È dunque la ruota più piccola quella che dovrebbe compiere il maggiore sforzo, o, se vogliamo, quella avente la velocità di fuga minore: Huyghens dirà che la forza centripeta è più forte nella ruota piccola. Il ragionamento di Galilei, se pur corretto ed efficace, è però semplificativo. Se attrazione c’è, le pietre non si muoveranno in linea retta fino a F od E, ma verranno progressivamente deviate a partire dal momento del distacco. Per seguire il moto istante per istante, il Salviati introduce il concetto di intervalli arbitrariamente piccoli, anticipando le idee fondamentali del calcolo infinitesimale. Un ulteriore esempio compare nella trattazione del moto di caduta dei gravi, di cui Galileo aveva trovato per primo la legge. Nei Discorsi egli lo chiamerà un moto naturalmente accelerato, in cui la velocità cresce proporzionalmente al tempo: egli lo descrive come un moto in cui, se s1 è lo spazio percorso nel tempo t1, e s2 è lo spazio percorso nel tempo t2, vale la proporzione: s1 : s2 = t12 : t22, “gli spazii percorsi dal mobile, partendosi dalla quiete, hanno tra di loro proporzione duplicata di quella che hanno i tempi ne’ quali tali spazii sono misurati, o vogliam dire che gli spazii passati son tra di loro come i quadrati de’ tempi.” Un’altra formulazione equivalente è: “l’accelerazione del moto retto de i gravi si fa secondo i numeri impari ab unitate, cioè che segnati quali e quanti si voglino tempi uguali, se nel primo tempo, partendosi il mobile dalla quiete, averà passato un tale spazio, come, per esempio, una canna, nel secondo tempo passerà tre canne, nel terzo cinque, nel quarto sette, e così conseguentemente secondo i succedenti numeri caffi (=dispari)”2. Per convincersi della validità di questa interpretazione, basta ricordare una nota formula dei numeri figurati, secondo cui la somma dei primi n numeri naturali dispari è uguale all’n-esimo numero quadrato3. La nuova legge confuta la tesi aristotelica, secondo cui la velocità di caduta di un grave sarebbe stata proporzionale al suo peso: la verifica della scoperta di Galilei è il famoso (e leggendario, mai realmente avvenuto) esperimento della torre di Pisa. I tre interlocutori si intrattengono poi in una curiosa divagazione: il calcolo del tempo che un oggetto, lanciato dalla superficie della Luna, impiegherebbe ad arrivare al centro della Terra. Il risultato ottenuto è: 3 ore, 22 minuti e 4 secondi. Inutile aggiungere che questo non tiene conto del variare dell’intensità della forza gravitazionale secondo la distanza dalla Terra, un principio che sarà scoperto da Newton. Questa descrizione della caduta dei gravi riprende il testo di una lettera, datata 16 ottobre 1604, scritta da Galileo all’amico fra’ Paolo Sarpi. In questa prima versione compariva un errore, che Galileo corregge in questo brano dei Discorsi: all’epoca egli credeva che la velocità fosse proporzionale non al tempo trascorso, bensì allo spazio percorso. Paolo Sarpi, letterato veneziano, frate dell’ordine dei serviti, dedicò la maggior parte dei suoi scritti alla politica ecclesiastica del tempo. Avversario del potere temporale dei papi, e consigliere politico del governo della Repubblica di Venezia, difese quest’ultima contro la scomunica di Paolo V. La sua opera principale è l’Istoria del Concilio Tridentino. 3 In questo brano si ravvisa un’eco pitagorica, che, rappresenta, però, un caso pressoché isolato all’interno dell’opera galileiana. Galileo rimase piuttosto indifferente alla suggestione dei numeri tipica della scuola di Crotone, che aveva dominato il Medioevo e anche il Rinascimento. 2 Nelle stesse pagine viene enunciato il principio dell’isocronismo del pendolo. Nella quarta giornata Salviati tornerà sull’argomento, precisando che il periodo del pendolo è proporzionale alla radice quadrata della lunghezza: infatti il tempo impiegato dal pendolo a compiere mezza oscillazione è pari al tempo impiegato da un grave a cadere in linea retta lungo il filo. Inoltre si parla di attrito, e si discute la possibilità di applicare i teoremi geometrici, che si riferiscono ad oggetti ideali, agli oggetti concreti. Un piano reale toccherà una sfera reale in un solo punto? Sagredo non può aver dubbi su quello che è il principio stesso della scienza galileiana, che verrà ribadito con forza nei Discorsi: la matematizzazione della fisica. E così risponde allo scettico Simplicio: “…ben mi pare che i bottai, per trovare il semidiametro del fondo da farsi per la botte, si servono della regola in astratto de’ matematici, ancorché tali fondi sien cose assai materiali e concrete. Perciò dica il signor Simplicio scusa […] e se gli pare che la fisica possa differir tanto dalla matematica.” Il problema della misurazione delle botti, per quanto strano possa sembrare, è una questione matematica che ha coinvolto molti studiosi attraverso i secoli. La terza giornata è quasi interamente dedicata alle osservazioni astronomiche. Lo spunto per la discussione è offerto dall’avvistamento di una cometa nella costellazione di Cassiopea, avvenuto nel 1572, e che aveva richiamato l’attenzione di molti scienziati, fra cui Tycho Brahe. La determinazione della distanza di questa cometa dalla Terra era di cruciale importanza: se essa fosse risultata più lontana della Luna, la sua apparizione avrebbe introdotto un elemento provvisorio nel mondo celeste, confutando la tesi aristotelica della sua inalterabilità. Le varie fonti – Salviati ne cita una dozzina – elaborate dallo stesso anonimo autore, concordano nel collocare (erroneamente) la cometa all’interno del mondo sublunare, ma le cifre divergono. Ciò dà origine ad un’ampia e dettagliata dissertazione sugli errori di osservazione dovuti alla parallasse, sul corretto uso del sestante e del quadrante astronomico, coinvolgendo i tre interlocutori in una lunga serie di calcoli numerici: le operazioni sono eseguite sulla base della trigonometria di Tolomeo, espressa in termini di archi e corde. La discussione non può che culminare con l’elogio del cannocchiale, che ha rivoluzionato il modo di guardare al cielo, ma che, per Simplicio, potrebbe essere causa di distorsioni ottiche. Salviati rimprovera gli astronomi del passato anche per aver clamorosamente sbagliato la misura del diametro apparente delle stelle. Anche senza cannocchiale, con mezzi molto rudimentali, avrebbero potuto eseguire stime molto più precise. Egli descrive il semplice procedimento, che illustriamo con figure: Osservatore Corda appesa Stella L’esperimento visto dall’alto: lo spessore della esattamente la stella all’occhio dell’osservatore: Occhio copre Sezione della corda A B corda C D F E G finestra I triangoli CED, CGF sono simili. Le lunghezze CD e DF e lo spessore DE sono noti. Ciò permette di determinare l’angolo visuale ECD sotto il quale appare la stella. Il segmento AB delimita le immagini delle corda e della stessa sulla retina dell’osservatore. La figura presenta una situazione schematizzata ideale. Nella situazione reale i raggi subiscono, all’interno dell’occhio, una serie di rifrazioni: si veda, ad esempio, La Dioptrique di Cartesio. Per misurare questo fenomeno e stabilire, quindi, di quanto i calcoli vadano corretti, Galileo suggerisce di appendere, ad una certa distanza l’una dall’altra, due strisce di carta, una bianca ed una nera larga la metà, in modo da tale che esse risultino allineate. Nella figura le strisce sono viste dall’alto: Si tratta a questo punto di trovare la distanza a cui l’osservatore vede che la striscia nera copre esattamente quella bianca. Il dialogo prosegue toccando vari altri argomenti di astronomia, come la disposizione dei pianeti nel sistema solare e la stima delle dimensioni del cosmo. Le osservazioni di Galileo mostrano che quest’ultimo è molto più esteso rispetto a quanto credevano gli antichi. Agli occhi degli aristotelici la distanza misurata è eccessiva: il cielo delle stelle fisse sarebbe troppo lontano per poter influenzare gli eventi terrestri, come previsto dall’astrologia. Inoltre non si comprenderebbe perché Dio avrebbe creato tanto spazio vuoto tra i pianeti e le stelle. Salviati replica così, con uno sguardo al passato ed uno al futuro: “Chi vorrà dire che lo spazio che costoro chiamano troppo vasto e inutile, tra Saturno e le stelle fisse, sia privo d’altri corpi mondani? Forse perché non gli vediamo? Adunque i quattro pianeti medicei e i compagni di Saturno vennero in Cielo quando noi cominciammo a vedergli, e non prima? E così le altre innumerabili stelle fisse non vi erano avanti che gli uomini le vedessero? […] Presuntuosa, anzi temeraria, ignoranza degli uomini!” Il discorso non può non tornare sui moti della Terra. Nuovi argomenti vengono addotti (e puntualmente smontati) contro il moto diurno: se la Terra ruotasse, i fianchi delle montagne varierebbero la loro inclinazione, fino ad apparire in discesa: Inoltre, guardando il cielo dal fondo di un pozzo, in virtù della grande velocità di rotazione della Terra ogni stella risulterebbe visibile per un breve istante. Contro il moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole, che Galileo chiama moto annuale, Simplicio osserva che risulta ben difficile immaginare una forza in grado di far sì che un corpo grande e pesante come la Terra si sposti in su e in giù per il cosmo. I tre protagonisti passano dunque ad esaminare la teoria copernicana. Di questa Salviati contesta gli epicicli, che la accomunano alla teoria tolemaica. Simplicio attacca invece il fatto che essa preveda per la Terra ben tre moti. Secondo Aristotele, ai corpi semplici del mondo sublunare spetta solo un moto semplice, cioè quello rettilineo. Solo i corpi composti del mondo celeste possiedono un moto composto: il moto circolare uniforme, che, secondo una teoria che oggi ci appare molto fantasiosa, risulterebbe dall’unione di due moti rettilinei contrapposti. In effetti, a pensarci bene, un oggetto che ruoti lungo la circonferenza illustrata in figura A B alterna il moto da A verso B al moto in senso contrario, da B verso A. A completare la serie delle ipotesi curiose, viene citata una teoria di Giovanni di Sacrobosco, secondo cui la forma sferica assunta dal mare che ricopre la Terra sarebbe dovuta ad una naturale inclinazione dell’acqua a disporsi in quella maniera: lo dimostrerebbe l’aspetto delle gocce. Secondo Galileo, il moto della Terra sarebbe l’effetto del suo magnetismo: secondo le tesi di Guglielmo Gilberti4, il nostro pianeta non sarebbe altro che una grande calamita, capace di orientare l’ago della bussola. Galileo aveva compiuto vari esperimenti con le calamite, senza però poter spiegare perché esse attraessero il ferro. Il Salviati si limita a formulare teorie sulla struttura della materia, che sarebbe più fine nel ferro (costituito da “parti più sottili più pure e costipate”), e più rada nella calamita (“non fissa e serrata, ma porosa o per meglio dire spugnosa”). L’intensità dell’attrazione sarebbe determinata dal numero degli “infiniti punti” del ferro e della calamita che vengono a contatto. Così si spiegherebbe perché un ferro magnetizzato (ad esempio l’armatura di una calamita) sia più efficace di una calamita. Il principale argomento della quarta giornata è il flusso e riflusso del mare. Galileo, nonostante il dilagare degli studi sul magnetismo, non Nome italianizzato di Wilhelm Gilbert (1540-1603), medico e fisico inglese, il fondatore della teoria dell’elettricità e del magnetismo. Fu lui a coniare il termine elettricità. 4 crede all’esistenza di forze che si esercitano tra corpi distanti. Per questo non può pensare di attribuire le maree all’attrazione della Luna e del Sole, come sarebbe corretto. Al tempo circolavano teorie che facevano risalire l’innalzamento del livello del mare all’azione della Luna, ma queste erano infarcite di magia (la Luna e l’opposto segno dello zodiaco avrebbero, secondo Keplero, il predominio sulle acque) oppure di audace immaginazione (il calore della Luna avrebbe l’effetto di rarefare l’acqua). Il Salviati le chiama “fanciullezze” ed “esorbitanze”. Un’altra ipotesi basata sulla Luna venne formulata da Cartesio ne Il Mondo. La tesi aristotelica è quella di un combattimento tra le acque, che avverrebbe perché le acque più profonde, essendo più pesanti, avrebbero la tendenza a sospingere quelle soprastanti. Queste, una volta sollevatesi, tenderebbero naturalmente a ricadere, causando l’alternanza di flusso e riflusso. Molte altre teorie erano state formulate nell’antichità. La vera spiegazione verrà data da Newton. Del problema si occuperà anche Eulero. Per Galilei le maree trarrebbero origine dalla combinazione del moto di rotazione e del moto di rivoluzione della Terra, che farebbe sì che la superficie terrestre sia soggetta ad un “moto progressivo non uniforme” e “cangi di velocità con accelerarsi talvolta e talaltra ritardarsi”. Questo modo di ragionare è in palese contraddizione con la presunta inerzialità della Terra. I principi della fisica di Newton, sia pur anticipati dal pensiero galileiano, sono ancora di là da venire. Accantoniamo questa considerazione, e vediamo dunque in dettaglio la spiegazione di Salviati. moto risultante moto di rotazione moto di rivoluzione moto risultante L’acqua viene trascinata sia dalla rotazione, sia dalla rivoluzione della Terra. La sua velocità però è diversa nei vari punti della superficie terrestre: è minima dove i due moti sono discordi, mentre è massima dove essi sono concordi. Qui l’acqua appare accelerata rispetto al fondo del mare, il che genera un’ondata di marea. Dalla parte opposta del globo il livello del mare si abbassa: dopo che la Terra avrà compiuto un mezzo giro, ossia dopo 12 ore, la situazione si sarà invertita. La superficie del mare subisce così delle reciprocazioni, ossia delle oscillazioni, che Salviati paragona a quelle del pendolo. Come queste ultime sono tanto più rapide quanto minore è la lunghezza del filo, così la marea cambia più lentamente negli specchi d’acqua più estesi, essendo maggiore il tempo impiegato dall’acqua per percorrerli. Per contro, in un piccolo lago l’effetto della marea è trascurabile, in quanto la velocità dell’acqua, nel breve spazio compreso fra le due sponde, è pressoché uniforme. La marea è più accentuata lungo gli stretti, dove l’acqua subisce un’accelerazione che dà luogo a forti correnti, e sulle coste continentali - soprattutto nei golfi - dove le oscillazioni raggiungono il punto di massima estensione. Inoltre, l’impulso delle maree si trasmetterebbe nel senso della rotazione terrestre, quindi lungo i paralleli. Per questo motivo esso è nullo ai Poli. Le variazioni mensili ed annuali della marea sarebbero dovute a variazioni nel moto della Terra. Noi sappiamo che la vera ragione è la variazione nella disposizione del Sole e della Luna, le cui attrazioni si sommano o si contrastano a seconda della loro angolazione rispetto alla Terra. Il moto della Terra sarebbe anche la causa dei venti da oriente che spirano costantemente nelle regioni desertiche tropicali, dove la velocità della superficie terrestre è maggiore, e dove, per di più, il suolo, essendo sgombro e pianeggiante, non frappone ostacoli al flusso dell’aria5. Lo stesso fenomeno si verifica in mare aperto, rendendo la navigazione verso oriente particolarmente difficoltosa6. Nei Discorsi le teorie copernicana e tolemaica vengono trattate con grande competenza e dovizia di particolari. Galileo aveva conosciuto ed apprezzato la cosmologia e la fisica aristotelica durante il suo soggiorno pisano da studente di medicina, frequentando le lezioni di Francesco Bonamico: ne è testimonianza una raccolta di appunti giovanili. Più tardi Galileo avrebbe esposto il sistema tolemaico nel Trattato della Sfera, composto a Padova nel 1597. L’esistenza di questo scritto, di per sé, non significa necessariamente che Galileo avesse inizialmente aderito alla teoria astronomica di Tolomeo. Si tratta, in effetti, di un saggio didattico, destinato agli studenti di scienze matematiche. I programmi universitari dell’epoca prescrivevano sia Euclide sia Tolomeo. È bene precisare che l’intento polemico che sta alla base del Dialogo non è diretto contro gli insegnamenti di Aristotele, ma contro coloro che caparbiamente vi restano attaccati, opponendosi al progresso del sapere, negando le nuove evidenze scientifiche acquisite con il cannocchiale. Nella seconda giornata Salviati dice: “Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei così poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso che se Il riferimento è ai venti costanti alisei, che spirano verso sud-ovest nella fascia compresa tra il Tropico del Cancro e l’Equatore, e verso nord-ovest nella fascia compresa fra l’Equatore e il Tropico del Capricorno. 6 Galileo anticipa la cosiddetta legge di Ferrel, che prende il nome dal meteorologo americano che la formulò nell’Ottocento. In base a questa legge, i venti e le correnti marine subirebbero, in conseguenza della rotazione terrestre, una deviazione verso ovest. È questo il caso degli alisei, che Cristoforo Colombo e Magellano pensarono di sfruttare per raggiungere le Indie navigando verso occidente. 5 la sia usurpata o presa; e perché è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura.” Frontespizio dell’edizione fiorentina del 1632 Frontespizio dell’edizione latina, pubblicata a Leida nel 1635