Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

Galileo Galilei
Dialogo de’ due Massimi Sistemi Tolemaico e Copernicano
Quest’opera fu stampata il 21 febbraio 1632, a Firenze, presso il
tipografo Landini. Essa vide la luce molti anni dopo la composizione
del trattatello galileiano del 1616, intitolato Dialogo sopra il flusso e il
reflusso del mare, che ne costituiva il nucleo, e ne conteneva la
principale tesi, ossia quella secondo cui il fenomeno delle maree
fornirebbe la prova del moto della Terra. Il completamento dell’opera
fu ritardato in parte per la titubanza del Galilei a pubblicare scritti
che sostenessero la teoria copernicana, condannata dal Sant’Uffizio
nel 1616, in parte a causa dei suoi problemi di salute, per “l’età, ch’è
molta, e la sanità ch’è poca”, come egli stesso aveva detto in una
lettera del 1625. Galilei aveva deciso di rimettere mano al Dialogo solo
dopo che la sua opera precedente, il Saggiatore, del 1623, era stata
favorevolmente accolta dal neoeletto papa Urbano VIII. Questi, a
seguito della visita dello scienziato in Vaticano, aveva indirizzato al
Granduca Ferdinando II di Toscana una missiva piena di lodi e
d’amore per “il diletto figlio Galileo”, di cui così diceva: “Un tanto
uomo, la cui fama splende in cielo e corre la terra […] noi da tempo
cingemmo col nostro paterno affetto, poiché riconoscemmo in lui non
soltanto la gloria delle lettere, ma anche il fervore religioso”. Galileo si
era recato a Roma nel tentativo di ottenere la revoca del divieto del
1616, quel “salutifero editto” che gli aveva proibito di parlare
dell’ipotesi del moto della Terra se non come mera “supposizione”
accademica. I protagonisti della vicenda non c’erano più: era cambiato
il pontefice, ed il cardinale Bellarmino era morto nel 1621.
Galilei non riuscì nella missione, ma ritenne comunque - pur
conservando qualche legittima riserva - che il clima gli potesse essere
favorevole, confortato in ciò anche dalle benevole parole del papa, che
qualche tempo prima, quando era ancora cardinale, gli aveva
addirittura dedicato una poesia. Forse egli confidava anche
nell’autorità che, in tanti anni, egli aveva indubbiamente acquisito,
anche al di fuori del campo scientifico. E, d’altra parte, era difficile
per uno scienziato del suo calibro, dal carattere impulsivo, trattenere
per sé le nuove, fondamentali conoscenze conseguite. Da una sua
lettera emerge anche quanto egli si sentisse in dovere di agire in
difesa di coloro che, da quasi un secolo, avevano sostenuto la teoria
copernicana.
Gli eventi gli avrebbero dato torto: il Dialogo subì vari interventi
censori, e Galileo faticò molto per ottenere dal papa la licenza di
stampa: questa, infine, venne revocata, con un procedimento che
sfociò nel processo per eresia e nella condanna a vita per Galileo.
Le principali modifiche richieste dal revisore riguardarono il titolo, in
cui fu fatto scomparire il riferimento alle maree, ed il proemio, in cui
Galileo dovette precisare che il sistema copernicano era da
considerarsi una semplice ipotesi, un puro “capriccio matematico”,
“senza conceder la verità assoluta”. Il papa volle inoltre che l’autore
dichiarasse esplicitamente di rinunciare alla pretesa di aver svelato il
mistero della costituzione del mondo: questa non poteva che essere
una “fantasia” umana, che vanamente credeva di potersi porre al di
sopra dell’insondabile disegno di Dio. E Galileo farà in modo che, alla
conclusione del dialogo, Simplicio non cambi idea, al Salviati farà
dire che le teorie da lui esposte potrebbero benissimo essere una
“vanissima chimera” ed un “solennissimo paradosso”.
L’opera è scritta in volgare, perché Galileo voleva che essa potesse
avere la massima diffusione possibile. Egli, del resto, era sempre
stato sensibile al problema dell’uso didattico della lingua. Il
Sant’Uffizio stigmatizzò questo fatto come un’aggravante, che
aumentava grandemente la pericolosità dell’opera.
Il contenuto dell’opera è ben riassunto dal lunghissimo titolo imposto
dal Vaticano: “Dialogo di Galileo Galilei, Linceo, Matematico
sopraordinario dello Studio di Pisa e Filosofo e Matematico primario del
Serenissimo Gran Duca di Toscana, dove ne i congressi di quattro
giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, Tolemaico e
Copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e
naturali tanto per l’una quanto per l’altra parte.”
Il testo consiste in un immaginario dialogo (il Campanella dirà: “Certo
che non avemo a invidiar Platone”), avente luogo in un palazzo sul
Canal Grande, e coinvolge tre interlocutori: Simplicio, sostenitore del
sistema tolemaico, e due defunti amici e discepoli di Galileo, il
fiorentino Filippo Salviati, sostenitore del sistema copernicano, e il
veneziano Giovanfrancesco Sagredo, che è anche il padrone di casa, e
fa da moderatore tra i due contendenti. Simplicio è il nome di un
filosofo greco del sec. VI d.C., commentatore di Aristotele: ma il
Sant’Uffizio - sicuramente non a torto - volle vedere in esso il
significato di “sempliciotto, sciocco”: in effetti, anche il Campanella
ravvisò in quel personaggio una figura ridicola, “il trastullo di questa
commedia filosofica”. E poiché proprio a Simplicio Galileo aveva messo
in bocca le parole del papa, il Vaticano ebbe un comodo appiglio per
provare la malafede dell’autore.
La disputa è una contrapposizione, soprattutto metodologica, tra
Simplicio, che si richiama alla tradizione dei filosofi greci, e Salviati,
che ragiona alla maniera di Galileo, facendo affidamento
esclusivamente sui propri mezzi di ricercatore. Galileo stesso, di cui
vengono discusse molte teorie fisiche, non viene mai esplicitamente
nominato: ma Salviati fa spesso riferimento ad un “Accademico
Linceo” la cui identità è più che ovvia.
A dire il vero, agli occhi del lettore moderno Simplicio non ha nulla di
farsesco, è una figura più che dignitosa, anche se anacronistica.
Tutt’al più può sembrare a tratti rigido e impacciato di fronte a fatti
evidenti ed elementari, a tratti impegnato in tortuosi - quanto
inconcludenti - giri di pensieri. Pare poco abituato a sviluppare idee
proprie. Egli è infatti la personificazione della sterilità della logica,
che niente può senza la pratica. Per dirlo con le parole del Salviati:
“[…] la logica, come benissimo sapete, è l’organo col quale si filosofa;
ma, sì come può esser che un artefice sia eccellente in fabbricare
organi, ma indotto nel sapergli sonare, così può esser un gran logico,
ma poco esperto nel sapersi servir della logica […] Il sonar l’organo non
s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; […] il
dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i
matematici soli, e non i logici.”
Salviati rimprovera ripetutamente Simplicio per la sua impostazione,
controbatte duramente alle sue argomentazioni erudite: “E perché
[queste cose] non l’avete voi, senza ridurvi a dover credere all’altrui
relazioni, osservate e viste da per voi con i vostri occhi propri?”
“Quando si abbiano a negare i principi delle scienze e mettere in dubbio
le cose manifestissime, chi non sa che si potrà provare quel che altri
vuole e sostener qualsiasi paradosso?” “Mille Demosteni e mille
Aristoteli resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che
abbia avuto ventura di apprendersi al vero. Però, signor Simplicio,
toglietevi pur giù dal pensiero e dalla speranza che voi avete, che
possano esser uomini tanto più dotti, eruditi e versati nei libri, che non
siamo noi altri, che al dispetto della natura sieno per far divenir vero
quello che è falso.”
Nell’opera vengono citati, sia pur indirettamente, alcuni matematici
dell’epoca, tra cui Scipione Chiaramonti, autore dell’Antiticone: Galileo
immagina che i tre personaggi si procurino alcuni libri, di cui vengono
lette e commentate le teorie, per poi confutarle.
Come rileva Federico Enriques, il Dialogo, più che un’opera
costruttrice di una nuova teoria, è da intendere come un’opera
distruttrice del secolare impianto di luoghi comuni, che ostacola
l’edificazione della scienza moderna. Secondo il Koyré, il Dialogo,
come anche il Saggiatore, è il manifesto di un nuovo modo di
ragionare, scritto in forma discorsiva, quasi salottiera, per
accrescerne l’efficacia pedagogica presso il lettore valentuomo
borghese.
Nei Discorsi su due nuove scienze, che sono, in un certo senso, la
continuazione e l’approfondimento del Dialogo, Simplicio dovrà
ammettere:
“Veramente comincio a comprendere che la logica, benché strumento
prestantissimo per regolare il nostro discorso, non arriva, quanto al
destar la mente, all’acutezza della geometria.”
E Sagredo, di rincalzo, dirà:
“A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le
dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che
ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò
veramente non credo io.”
Il Viviani d’altronde ci racconta che Galileo, da giovane, “udì i precetti
della logica da un Padre Valombroso; ma però quei termini dialettici, le
tante definizioni e distinzioni, la molteplicità delli scritti, l’ordine e il
progresso della dottrina, tutto riusciva tedioso, e di poco frutto e di
minor satisfazione al suo esquisito intelletto.”
La polemica è sempre tra l’autorità degli scritti, che è l’arma
impugnata da Simplicio, e la forza dell’esperienza diretta della realtà,
di cui si avvale Salviati. Se Simplicio sostiene che “non bisogna nella
scienza naturale ricercar l’esquisita evidenza matematica”, Salviati
insiste sul fatto che “i discorsi nostri hanno da essere intorno al mondo
sensibile e non sopra un mondo di carta”. E Salviati non perdona a
Simplicio gli errori (“esorbitanze”) relativi alla geometria.
Il principale argomento della prima giornata è la dottrina aristotelica
dell’incorruttibilità dei cieli, a cui Salviati contrappone l’evidenza delle
osservazioni astronomiche, che dimostrano, ad esempio, che la Terra
e la Luna sono corpi simili, entrambi privi di luce propria e
disseminati di montagne e valli. Anche le fasi di Venere, l’apparizione
delle comete e le macchie solari sembrano confutare l’immutabilità del
mondo celeste, retta dalle eterne leggi dell’astrologia, e contrapposta
alla corruttibilità del mondo sublunare, cioè della sfera terrestre, i cui
mutevoli eventi sono oggetto delle osservazioni meteorologiche. La
fisica galileiana, contrariamente a quella aristotelica, non ammette
distinzioni tra la Terra e il Cielo, prevede le stesse leggi per tutte le
parti dell’universo. Vengono contestati anche gli aspetti magici della
numerologia pitagorica in cui crede Simplicio e che, secondo
Salviati, sarebbero il frutto di distorsioni popolari. Il discorso cade
anche sulle dimensioni geometriche nonché sul moto dei corpi
soggetti alla gravità, quelli in caduta libera, quelli lanciati verso l’alto,
quelli che scendono lungo il piano inclinato: Galileo dimostra di aver
correttamente compreso l’andamento della velocità in queste tre
situazioni. Partendo dalla constatazione che l’accelerazione subita da
un corpo che scende lungo un piano inclinato è tanto minore quanto
minore è l’inclinazione del piano stesso, Salviati presenta il caso di
un corpo su di un piano orizzontale come la situazione limite, in cui
l’accelerazione è necessariamente nulla. Il moto del corpo è allora
uniforme, ossia avviene con velocità costante. D’altra parte, come
verrà spiegato più diffusamente nella seconda giornata, quella del
corpo lanciato sul piano orizzontale è la situazione intermedia tra
quella di un corpo che viene lanciato lungo un piano “declive” o
“chino” (in discesa), il cui moto è accelerato, e quella di un corpo che
viene lanciato lungo un piano “acclive” o “erto” (in salita), il cui moto
viene “ritardato” (decelerato).
La giornata si chiude, curiosamente, con un’esaltazione della
scrittura, formidabile invenzione che, mediante “vari accozzamenti di
venti caratteruzzi sulla carta”, riesce a diffondere e perpetuare il
pensiero umano.
La seconda giornata è incentrata sulla questione del moto della Terra.
Innanzitutto la sua immobilità appare improbabile da un punto di
vista metafisico: perché mai la natura - si chiede Salviati - avrebbe
deciso di mettere in movimento l’intero cosmo, tranne il nostro
pianeta?
Inoltre, tutti gli argomenti sino ad allora addotti a favore
dell’immobilità del nostro pianeta sarebbero fasulli. Non è vero che la
rotazione della Terra - che viene chiamata “moto diurno” provocherebbe un fortissimo vento da oriente, né che “i sassi, le
fabbriche e le città intere” verrebbero sbalzati via dalla forza
centrifuga, né che gli oggetti lanciati dall’alto verrebbero deviati verso
occidente, né, infine, che gli uccelli e le nuvole non potrebbero tenere
il passo con il suolo. Tutte le cose presenti sulla Terra, ivi compresa
l’atmosfera, si muovono insieme ad essa e sono apparentemente
ferme, come lo sono, per i naviganti, gli oggetti trasportati dalla nave
che si muove in assenza di rollio. In questo discorso è già presente il
concetto di sistema inerziale. Galilei, che non usa questo termine, ha
in mente un sistema che sia soggetto ad un moto “uniforme, e non
fluttuante in qua e in là”.
Un uomo fermo sulla nave, cioè un osservatore che, come diremmo in
linguaggio moderno, sia solidale con questo sistema, non ne avverte
il movimento. In tale contesto il moto e la quiete sono solo aspetti
relativi di una medesima situazione fisica: è questo il principio della
relatività galileiana, che verrà superato solo nel Novecento dalla
relatività einsteiniana. Con esso viene a cadere la teoria sviluppata
nella Fisica di Aristotele, secondo la quale il moto sarebbe causato
dalla continua azione di un motore (cioè, una forza), e la quiete
sarebbe l’effetto della cessazione di tale azione. Con Galileo nasce
l’idea di moto inerziale, cioè di moto che avviene in assenza di forze, e
per di più prosegue indefinitamente. Cartesio lo individuerà,
correttamente, nel moto rettilineo uniforme. Galileo, invece, lo
identifica col moto circolare uniforme, quello di un oggetto che scorra,
senza attrito, su di una superficie sferica (per un osservatore sulla
superficie terrestre, tale moto, pur essendo curvo, appare in effetti
come rettilineo). D’altra parte, come viene detto nella prima giornata,
egli considera contraddittoria l’idea di un moto rettilineo indefinito:
esso porterebbe, infatti, il corpo in movimento verso l’infinito, dove,
secondo lui, è impossibile arrivare. Inoltre esso tende a disperdere la
materia, ed è quindi incompatibile con l’ordine del cosmo, che rimane
invece preservato dal moto circolare. In questo tipo di argomentazioni
si riscontra una decisiva differenza rispetto all’approccio aristotelico:
il moto circolare uniforme viene qui giustificato per deduzione logicomatematica (la sua negazione comporterebbe un paradosso), e non
per via metafisica, con la presunta perfezione delle sfere celesti. In
questa parte dell’opera di Galilei compare un parziale accostamento
alla cosmogonia platonica, esposta nel Timeo: il Nostro immagina
infatti che all’inizio nell’universo regnasse il caos, e che il moto
rettilineo avrebbe potuto essere impiegato da Dio, in una fase iniziale,
per ridistribuire la materia.
Nella terminologia fisica di Galileo, vertigine è la proprietà dei corpi
che ruotano, impeto1 la proprietà di un corpo che, a seguito di un
“moto violento” (un lancio, uno sparo, un urto, ecc.) si muove in linea
La teoria dell’impeto risale a Giovanni Filopono, un commentatore di Aristotele del sec. VI, e fu
ripresa, nel corso del Trecento e del Quattrocento, da alcuni scienziati parigini.
1
retta. In una pietra che si stacchi dal bordo di una ruota la vertigine si
tramuta in impeto, che la fa procedere lungo la tangente alla ruota
nel punto di distacco: questo effetto, come noi sappiamo, è dovuto alla
forza centrifuga, che sarà scoperta da Cartesio. Se ad un corpo viene
impresso un impeto tale da staccarlo dalla superficie terrestre, al suo
moto rettilineo se ne aggiunge un altro, un “moto naturale”, che tende
a farlo tornare verso il basso. Il Salviati applica il principio di
composizione dei moti per spiegare come uno dei due moti possa
prevalere sull’altro: è il problema della velocità di fuga, che,
ovviamente, Salviati può affrontare solo in termini generali, senza
dare valutazioni numeriche. Egli studia il moto con semplici
visualizzazioni geometriche. Eccone un esempio.
Su due ruote di diverso raggio, che
F
D
ruotino, in senso antiorario, intorno
all’asse A, sono fissate due pietre
E
identiche, rispettivamente nei punti B e
G
C. Le due ruote hanno la stessa velocità:
A
B C
nell’intervallo di tempo in cui la pietra in
B raggiunge la posizione G, la pietra in C
arriva nel punto E, percorrendo un arco
di uguale lunghezza. Si traccino le
tangenti alle ruote nei punti B e C, e su
queste si segnino i punti F e D, come in figura, in modo che BF=CD.
Supponiamo che nell’istante cui si riferisce la figura, le pietre si
stacchino simultaneamente dalle ruote. L’impeto impresso alle due
pietre lungo le tangenti BF e CD è lo stesso. Nel momento in cui una
pietra transiterà per il punto F, l’altra pietra si troverà in
corrispondenza del punto D. Se le ruote avessero la facoltà di attrarre
a sé le pietre, quale delle due dovrebbe esercitare l’azione più forte?
La ruota più grande dovrebbe essere in grado di deviare la pietra solo
del tratto DE mentre, nello stesso lasso di tempo, la ruota più piccola
dovrebbe deviare l’altra pietra dell’intero tratto FG. È dunque la ruota
più piccola quella che dovrebbe compiere il maggiore sforzo, o, se
vogliamo, quella avente la velocità di fuga minore: Huyghens dirà che
la forza centripeta è più forte nella ruota piccola. Il ragionamento di
Galilei, se pur corretto ed efficace, è però semplificativo. Se attrazione
c’è, le pietre non si muoveranno in linea retta fino a F od E, ma
verranno progressivamente deviate a partire dal momento del
distacco. Per seguire il moto istante per istante, il Salviati introduce il
concetto di intervalli arbitrariamente piccoli, anticipando le idee
fondamentali del calcolo infinitesimale. Un ulteriore esempio
compare nella trattazione del moto di caduta dei gravi, di cui Galileo
aveva trovato per primo la legge. Nei Discorsi egli lo chiamerà un moto
naturalmente accelerato, in cui la velocità cresce proporzionalmente al
tempo: egli lo descrive come un moto in cui, se s1 è lo spazio percorso
nel tempo t1, e s2 è lo spazio percorso nel tempo t2, vale la
proporzione:
s1 : s2 = t12 : t22,
“gli spazii percorsi dal mobile, partendosi dalla quiete, hanno tra di
loro proporzione duplicata di quella che hanno i tempi ne’ quali tali
spazii sono misurati, o vogliam dire che gli spazii passati son tra di
loro come i quadrati de’ tempi.”
Un’altra formulazione equivalente è: “l’accelerazione del moto retto de
i gravi si fa secondo i numeri impari ab unitate, cioè che segnati quali e
quanti si voglino tempi uguali, se nel primo tempo, partendosi il mobile
dalla quiete, averà passato un tale spazio, come, per esempio, una
canna, nel secondo tempo passerà tre canne, nel terzo cinque, nel
quarto sette, e così conseguentemente secondo i succedenti numeri caffi
(=dispari)”2.
Per convincersi della validità di questa interpretazione, basta
ricordare una nota formula dei numeri figurati, secondo cui la
somma dei primi n numeri naturali dispari è uguale all’n-esimo
numero quadrato3.
La nuova legge confuta la tesi aristotelica, secondo cui la velocità di
caduta di un grave sarebbe stata proporzionale al suo peso: la
verifica della scoperta di Galilei è il famoso (e leggendario, mai
realmente avvenuto) esperimento della torre di Pisa.
I tre interlocutori si intrattengono poi in una curiosa divagazione: il
calcolo del tempo che un oggetto, lanciato dalla superficie della Luna,
impiegherebbe ad arrivare al centro della Terra. Il risultato ottenuto è:
3 ore, 22 minuti e 4 secondi. Inutile aggiungere che questo non tiene
conto del variare dell’intensità della forza gravitazionale secondo la
distanza dalla Terra, un principio che sarà scoperto da Newton.
Questa descrizione della caduta dei gravi riprende il testo di una lettera, datata 16 ottobre 1604,
scritta da Galileo all’amico fra’ Paolo Sarpi. In questa prima versione compariva un errore, che
Galileo corregge in questo brano dei Discorsi: all’epoca egli credeva che la velocità fosse
proporzionale non al tempo trascorso, bensì allo spazio percorso.
Paolo Sarpi, letterato veneziano, frate dell’ordine dei serviti, dedicò la maggior parte dei suoi scritti
alla politica ecclesiastica del tempo. Avversario del potere temporale dei papi, e consigliere
politico del governo della Repubblica di Venezia, difese quest’ultima contro la scomunica di Paolo
V. La sua opera principale è l’Istoria del Concilio Tridentino.
3 In questo brano si ravvisa un’eco pitagorica, che, rappresenta, però, un caso pressoché isolato
all’interno dell’opera galileiana. Galileo rimase piuttosto indifferente alla suggestione dei numeri
tipica della scuola di Crotone, che aveva dominato il Medioevo e anche il Rinascimento.
2
Nelle stesse pagine viene enunciato il principio dell’isocronismo del
pendolo. Nella quarta giornata Salviati tornerà sull’argomento,
precisando che il periodo del pendolo è proporzionale alla radice
quadrata della lunghezza: infatti il tempo impiegato dal pendolo a
compiere mezza oscillazione è pari al tempo impiegato da un grave a
cadere in linea retta lungo il filo. Inoltre si parla di attrito, e si
discute la possibilità di applicare i teoremi geometrici, che si
riferiscono ad oggetti ideali, agli oggetti concreti. Un piano reale
toccherà una sfera reale in un solo punto? Sagredo non può aver
dubbi su quello che è il principio stesso della scienza galileiana, che
verrà ribadito con forza nei Discorsi: la matematizzazione della fisica.
E così risponde allo scettico Simplicio:
“…ben mi pare che i bottai, per trovare il semidiametro del fondo da
farsi per la botte, si servono della regola in astratto de’ matematici,
ancorché tali fondi sien cose assai materiali e concrete. Perciò dica il
signor Simplicio scusa […] e se gli pare che la fisica possa differir tanto
dalla matematica.”
Il problema della misurazione delle botti, per quanto strano possa
sembrare, è una questione matematica che ha coinvolto molti studiosi
attraverso i secoli.
La terza giornata è quasi interamente dedicata alle osservazioni
astronomiche. Lo spunto per la discussione è offerto dall’avvistamento
di una cometa nella costellazione di Cassiopea, avvenuto nel 1572, e
che aveva richiamato l’attenzione di molti scienziati, fra cui Tycho
Brahe. La determinazione della distanza di questa cometa dalla Terra
era di cruciale importanza: se essa fosse risultata più lontana della
Luna, la sua apparizione avrebbe introdotto un elemento provvisorio
nel mondo celeste, confutando la tesi aristotelica della sua
inalterabilità. Le varie fonti – Salviati ne cita una dozzina – elaborate
dallo stesso anonimo autore, concordano nel collocare (erroneamente)
la cometa all’interno del mondo sublunare, ma le cifre divergono. Ciò
dà origine ad un’ampia e dettagliata dissertazione sugli errori di
osservazione dovuti alla parallasse, sul corretto uso del sestante e del
quadrante astronomico, coinvolgendo i tre interlocutori in una
lunga serie di calcoli numerici: le operazioni sono eseguite sulla base
della trigonometria di Tolomeo, espressa in termini di archi e corde.
La discussione non può che culminare con l’elogio del cannocchiale,
che ha rivoluzionato il modo di guardare al cielo, ma che, per
Simplicio, potrebbe essere causa di distorsioni ottiche. Salviati
rimprovera gli astronomi del passato anche per aver clamorosamente
sbagliato la misura del diametro apparente delle stelle. Anche senza
cannocchiale, con mezzi molto rudimentali, avrebbero potuto eseguire
stime molto più precise. Egli descrive il semplice procedimento, che
illustriamo con figure:
Osservatore
Corda appesa
Stella
L’esperimento visto dall’alto: lo spessore della
esattamente la stella all’occhio dell’osservatore:
Occhio
copre
Sezione della corda
A
B
corda
C
D
F
E
G
finestra
I triangoli CED, CGF sono simili. Le lunghezze CD e DF e lo spessore
DE sono noti. Ciò permette di determinare l’angolo visuale ECD sotto
il quale appare la stella. Il segmento AB delimita le immagini delle
corda e della stessa sulla retina dell’osservatore.
La figura presenta una situazione schematizzata ideale. Nella
situazione reale i raggi subiscono, all’interno dell’occhio, una serie di
rifrazioni: si veda, ad esempio, La Dioptrique di Cartesio. Per
misurare questo fenomeno e stabilire, quindi, di quanto i calcoli
vadano corretti, Galileo suggerisce di appendere, ad una certa
distanza l’una dall’altra, due strisce di carta, una bianca ed una nera
larga la metà, in modo da tale che esse risultino allineate. Nella figura
le strisce sono viste dall’alto:
Si tratta a questo punto di trovare la distanza a cui l’osservatore vede
che la striscia nera copre esattamente quella bianca.
Il dialogo prosegue toccando vari altri argomenti di astronomia, come
la disposizione dei pianeti nel sistema solare e la stima delle
dimensioni del cosmo. Le osservazioni di Galileo mostrano che
quest’ultimo è molto più esteso rispetto a quanto credevano gli
antichi. Agli occhi degli aristotelici la distanza misurata è eccessiva:
il cielo delle stelle fisse sarebbe troppo lontano per poter influenzare
gli eventi terrestri, come previsto dall’astrologia. Inoltre non si
comprenderebbe perché Dio avrebbe creato tanto spazio vuoto tra i
pianeti e le stelle. Salviati replica così, con uno sguardo al passato ed
uno al futuro:
“Chi vorrà dire che lo spazio che costoro chiamano troppo vasto e
inutile, tra Saturno e le stelle fisse, sia privo d’altri corpi mondani?
Forse perché non gli vediamo? Adunque i quattro pianeti medicei e i
compagni di Saturno vennero in Cielo quando noi cominciammo a
vedergli, e non prima? E così le altre innumerabili stelle fisse non vi
erano avanti che gli uomini le vedessero? […] Presuntuosa, anzi
temeraria, ignoranza degli uomini!”
Il discorso non può non tornare sui moti della Terra. Nuovi argomenti
vengono addotti (e puntualmente smontati) contro il moto diurno: se
la Terra ruotasse, i fianchi delle montagne varierebbero la loro
inclinazione, fino ad apparire in discesa:
Inoltre, guardando il cielo dal fondo di un pozzo, in virtù della grande
velocità di rotazione della Terra ogni stella risulterebbe visibile per un
breve istante.
Contro il moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole, che Galileo
chiama moto annuale, Simplicio osserva che risulta ben difficile
immaginare una forza in grado di far sì che un corpo grande e
pesante come la Terra si sposti in su e in giù per il cosmo.
I tre protagonisti passano dunque ad esaminare la teoria
copernicana. Di questa Salviati contesta gli epicicli, che la
accomunano alla teoria tolemaica. Simplicio attacca invece il fatto
che essa preveda per la Terra ben tre moti. Secondo Aristotele, ai
corpi semplici del mondo sublunare spetta solo un moto semplice,
cioè quello rettilineo. Solo i corpi composti del mondo celeste
possiedono un moto composto: il moto circolare uniforme, che,
secondo una teoria che oggi ci appare molto fantasiosa, risulterebbe
dall’unione di due moti rettilinei contrapposti. In effetti, a pensarci
bene, un oggetto che ruoti lungo la circonferenza illustrata in figura
A
B
alterna il moto da A verso B al moto in senso contrario, da B verso A.
A completare la serie delle ipotesi curiose, viene citata una teoria di
Giovanni di Sacrobosco, secondo cui la forma sferica assunta dal
mare che ricopre la Terra sarebbe dovuta ad una naturale
inclinazione dell’acqua a disporsi in quella maniera: lo dimostrerebbe
l’aspetto delle gocce.
Secondo Galileo, il moto della Terra sarebbe l’effetto del suo
magnetismo: secondo le tesi di Guglielmo Gilberti4, il nostro pianeta
non sarebbe altro che una grande calamita, capace di orientare l’ago
della bussola. Galileo aveva compiuto vari esperimenti con le
calamite, senza però poter spiegare perché esse attraessero il ferro. Il
Salviati si limita a formulare teorie sulla struttura della materia, che
sarebbe più fine nel ferro (costituito da “parti più sottili più pure e
costipate”), e più rada nella calamita (“non fissa e serrata, ma porosa
o per meglio dire spugnosa”). L’intensità dell’attrazione sarebbe
determinata dal numero degli “infiniti punti” del ferro e della calamita
che vengono a contatto. Così si spiegherebbe perché un ferro
magnetizzato (ad esempio l’armatura di una calamita) sia più efficace
di una calamita.
Il principale argomento della quarta giornata è il flusso e riflusso del
mare. Galileo, nonostante il dilagare degli studi sul magnetismo, non
Nome italianizzato di Wilhelm Gilbert (1540-1603), medico e fisico inglese, il fondatore della
teoria dell’elettricità e del magnetismo. Fu lui a coniare il termine elettricità.
4
crede all’esistenza di forze che si esercitano tra corpi distanti. Per
questo non può pensare di attribuire le maree all’attrazione della
Luna e del Sole, come sarebbe corretto. Al tempo circolavano teorie
che facevano risalire l’innalzamento del livello del mare all’azione della
Luna, ma queste erano infarcite di magia (la Luna e l’opposto segno
dello zodiaco avrebbero, secondo Keplero, il predominio sulle acque)
oppure di audace immaginazione (il calore della Luna avrebbe l’effetto
di rarefare l’acqua). Il Salviati le chiama “fanciullezze” ed
“esorbitanze”. Un’altra ipotesi basata sulla Luna venne formulata da
Cartesio ne Il Mondo. La tesi aristotelica è quella di un
combattimento tra le acque, che avverrebbe perché le acque più
profonde, essendo più pesanti, avrebbero la tendenza a sospingere
quelle soprastanti. Queste, una volta sollevatesi, tenderebbero
naturalmente a ricadere, causando l’alternanza di flusso e riflusso.
Molte altre teorie erano state formulate nell’antichità. La vera
spiegazione verrà data da Newton. Del problema si occuperà anche
Eulero.
Per Galilei le maree trarrebbero origine dalla combinazione del moto
di rotazione e del moto di rivoluzione della Terra,
che farebbe sì che la superficie terrestre sia soggetta ad un “moto
progressivo non uniforme” e “cangi di velocità con accelerarsi talvolta e
talaltra ritardarsi”. Questo modo di ragionare è in palese
contraddizione con la presunta inerzialità della Terra. I principi della
fisica di Newton, sia pur anticipati dal pensiero galileiano, sono
ancora di là da venire. Accantoniamo questa considerazione, e
vediamo dunque in dettaglio la spiegazione di Salviati.
moto risultante
moto di rotazione
moto di rivoluzione
moto risultante
L’acqua viene trascinata sia dalla rotazione, sia dalla rivoluzione della
Terra. La sua velocità però è diversa nei vari punti della superficie
terrestre: è minima dove i due moti sono discordi, mentre è massima
dove essi sono concordi. Qui l’acqua appare accelerata rispetto al
fondo del mare, il che genera un’ondata di marea. Dalla parte opposta
del globo il livello del mare si abbassa: dopo che la Terra avrà
compiuto un mezzo giro, ossia dopo 12 ore, la situazione si sarà
invertita. La superficie del mare subisce così delle reciprocazioni,
ossia delle oscillazioni, che Salviati paragona a quelle del pendolo.
Come queste ultime sono tanto più rapide quanto minore è la
lunghezza del filo, così la marea cambia più lentamente negli specchi
d’acqua più estesi, essendo maggiore il tempo impiegato dall’acqua
per percorrerli. Per contro, in un piccolo lago l’effetto della marea è
trascurabile, in quanto
la velocità dell’acqua, nel breve spazio
compreso fra le due sponde, è pressoché uniforme. La marea è più
accentuata lungo gli stretti, dove l’acqua subisce un’accelerazione
che dà luogo a forti correnti, e sulle coste continentali - soprattutto
nei golfi - dove le oscillazioni raggiungono il punto di massima
estensione. Inoltre, l’impulso delle maree si trasmetterebbe nel
senso della rotazione terrestre, quindi lungo i paralleli. Per questo
motivo esso è nullo ai Poli. Le variazioni mensili ed annuali della
marea sarebbero dovute a variazioni nel moto della Terra. Noi
sappiamo che la vera ragione è la variazione nella disposizione del
Sole e della Luna, le cui attrazioni si sommano o si contrastano a
seconda della loro angolazione rispetto alla Terra.
Il moto della Terra sarebbe anche la causa dei venti da oriente che
spirano costantemente nelle regioni desertiche tropicali, dove la
velocità della superficie terrestre è maggiore, e dove, per di più, il
suolo, essendo sgombro e pianeggiante, non frappone ostacoli al
flusso dell’aria5.
Lo stesso fenomeno si verifica in mare aperto,
rendendo la navigazione verso oriente particolarmente difficoltosa6.
Nei Discorsi le teorie copernicana e tolemaica vengono trattate con
grande competenza e dovizia di particolari. Galileo aveva conosciuto
ed apprezzato la cosmologia e la fisica aristotelica durante il suo
soggiorno pisano da studente di medicina, frequentando le lezioni di
Francesco Bonamico: ne è testimonianza una raccolta di appunti
giovanili. Più tardi Galileo avrebbe esposto il sistema tolemaico nel
Trattato della Sfera, composto a Padova nel 1597. L’esistenza di
questo scritto, di per sé, non significa necessariamente che Galileo
avesse inizialmente aderito alla teoria astronomica di Tolomeo. Si
tratta, in effetti, di un saggio didattico, destinato agli studenti di
scienze
matematiche.
I
programmi
universitari
dell’epoca
prescrivevano sia Euclide sia Tolomeo.
È bene precisare che l’intento polemico che sta alla base del Dialogo
non è diretto contro gli insegnamenti di Aristotele, ma contro coloro
che caparbiamente vi restano attaccati, opponendosi al progresso del
sapere, negando le nuove evidenze scientifiche
acquisite con il
cannocchiale. Nella seconda giornata Salviati dice:
“Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità
scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi
libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei
così poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono a
voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile
fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una
mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che,
reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti
fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i
suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso che se
Il riferimento è ai venti costanti alisei, che spirano verso sud-ovest nella fascia compresa tra il
Tropico del Cancro e l’Equatore, e verso nord-ovest nella fascia compresa fra l’Equatore e il
Tropico del Capricorno.
6 Galileo anticipa la cosiddetta legge di Ferrel, che prende il nome dal meteorologo americano che
la formulò nell’Ottocento. In base a questa legge, i venti e le correnti marine subirebbero, in
conseguenza della rotazione terrestre, una deviazione verso ovest. È questo il caso degli alisei,
che Cristoforo Colombo e Magellano pensarono di sfruttare per raggiungere le Indie navigando
verso occidente.
5
la sia usurpata o presa; e perché è più facile il coprirsi sotto lo scudo
d’un altro che’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono
d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione
nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che
veggono nel cielo della natura.”
Frontespizio dell’edizione fiorentina del 1632
Frontespizio dell’edizione latina, pubblicata a Leida nel 1635