9 giugno2001 CRONACA vitamine recensioniletterarie,cinematograficheemusicali acuradiPaoloBoschi t LIBRI ROBERT LOUIS STEVENSON, Lisola del tesoro (Feltrinelli) Nonostante L’isola del tesoro riedito di recente da Feltrinelli nella collana Universale Economica sia stato spesso apparentato alla narrativa per ragazzi tout court, il romanzo di Robert Louis Stevenson (1850-94) regge, da vero classico qual è, alla prova del tempo grazie agli ottimi ingredienti miscelati nellimpeccabile ricetta letteraria: un protagonista giovane ma sveglio come Jim Hawkins, un ambiguo villain del calibro Long John Silver, un viaggio per mare sulla Hispaniola, un pugno di vecchi bucanieri, lautentica mappa del capitano Flint, una misteriosa isola del tesoro. Un grande classico che, parafrasando Calvino, non finisce mai di dire qual che ha da dire, intrigante per lettori di tutte le età: Stevenson dedicò al figliastro Lloyd Osbourne (nel 1883) questa romanzesca caccia al tesoro che equivale, per il protagonista, ad un itinerario dingresso nella maturità, alla scoperta della spietatezza che domina incontrastata i rapporti umani nel mondo, spesso regolati da unetica di marca economica. L’isola del tesoro prende avvio quando Jim trova nel baule di Billy Bones vecchio lupo di mare morto nella sua locanda, lAdmiral Benbow una mappa per una fantomatica isola del tesoro e la consegna al dottor Livesey ed allaristocratico Trelawney, che in breve organizzano la spedizione di ricerca. Il richiamo delloro di John Flint, pirata dinaudita ferocia, dividerà immediatamente lequipaggio approdato alla malsana isola tropicale: da una parte Jim, Trelawney, Livesey, il capitano Smollett e pochi altri buoni, dallaltra il resto della ciurma, un tempo agli ordini di Flint, ora capeggiata del suadente cuoco John Silver che, nonostante la sua gamba di legno, si rivelerà il più furbo e spietato di tutti. Alla fine, con non poche difficoltà e grazie allaiuto di Ben Gunn (ex bucaniere abbandonato nellisola tre anni prima), i buoni avranno la meglio, ma Jim Hawkins resterà turbato per sempre dal tributo di sangue gravante sullo straordinario tesoro. MICHAEL CONNELLY, Il poeta (Piemme) Michael Connelly, prima di votarsi alla carriera di scrittore di bestseller a tempo pieno, è stato giornalista di cronaca nera presso il Los Angeles Time: lautore americano, che continua a vivere nella capitale californiana, ha conquistato pubblico e critica con un pugno di serrati thriller, da Debito di sangue a Il ragno, fino ai recenti Vuoto di luna e Musica dura. Il poeta riedito di recente nella collana Piemme Pocket è il romanzo che lha lanciato anche in Italia. Probabilmente anche a causa delle corrispondenze anagrafiche tra Connelly ed il protagonista della storia, che si chiama Jack McEvoy e per lappunto fa il reporter di nera presso il Rocky di Denver, come apprendiamo da uno dei più incisivi incipit del genere: La morte è il mio mestiere, ci guadagno da vivere, ci costruisco la mia reputazione professionale. Io tratto la morte con la passione e la precisione di un becchino: serio e comprensivo quando sono in compagnia dei familiari in lacrime, ma da freddo osservatore quando sono solo. Ma il decesso in que- stione non consente a Jack di restare obiettivo: la storia infatti prende avvio dallapparente suicidio del suo fratello gemello, Sean, forse per la tensione nervosa causata dal ristagnante stato delle indagini riguardo al brutale assassinio della giovane Theresa Lofton. Nonostante si tratti della storia che mai avrebbe voluto scrivere, Jack McEvoy comprenderà che dietro alle apparenze si nasconde un serial killer: riuscirà a risolvere il mistero accompagnando gli investigatori dellFbi nellindagine che lui stesso a contribuito a riaprire. Il tutto partendo dal latente biglietto da visita dellassassino, feroce ed astuto secondo copione: un verso di Edgar Allan Poe, puntuale addio sui palcoscenici suicidi di tanti tutori dellordine. Il poeta è un thriller a dir poco trascinante, a livello di scrittura, di struttura e dintensità emotiva. La suspense, manco a dirlo, è assicurata fino allultima pagina. t FILM PEARL HARBOR, regia di Michael Bay, con Ben Affleck, Josh Hartnett, Kate Beckinsale, Cuba Gooding Jr., Tom Sizemore, Alec Baldwin, Jon Voight; bellico/sentimentale; Usa; C. Gli amori e i disastri storici, come Titanic insegna, pagano bene al box office, e Michael Bay la lezione aveva mostrato già di saperla applicare con ottimi risultati in Armageddon, figuriamoci se si tratta di mettere in scena la pagina nera per definizione della storia americana, ovvero Pearl Harbor, il kolossal disneyano con il budget più cospicuo della storia del cinema (140 milioni di dollari e rotti). Se aggiungiamo un bel triangolo amoroso ad intervallare le spettacolari scene di guerra ed i soliti effetti speciali della Industrial Light & Magic, il gioco è fatto. Ma la storia prende avvio ben prima del tragico evento del 7 dicembre 1941, quando gli Usa esitavano ad entrare nel secondo conflitto mondiale. Rafe e Danny, due amici dinfanzia accomunati dalla passione per il volo, sono ansiosi di servire la patria come piloti. A New York la recluta Rafe sinnamora, corrisposto, della deliziosa infermiera Evelyn: appena fidanzati, si separano perché Rafe si è offerto volontario per combattere in Inghilterra. Nel frattempo Danny ed Evelyn vengono trasferiti nella paradisiaca base di Pearl Harbor, alle Hawaii. Alla funesta notizia che Rafe è stato abbattuto, lamico fraterno e laffranta fidanzata dopo un po si consolano luno tra le braccia dellaltra. Il buon Rafe, vivo per miracolo, torna in tempo per gustarsi gli sviluppi locali e contrapporsi allattacco a sorpresa dei giapponesi a Pearl Harbor. La disfatta è totale e gran parte della flotta del Pacifico distrutta: lanno successivo gli States risponderanno con unazione temeraria diretta al cuore stesso dellimpero nipponico, Tokyo e i due amici saranno dellimpresa. Un film molto classico nella confezione complessiva, nella regia (senzanima ma impeccabile), nella recitazione e nella sceneggiatura, spesso scontata: inattuabile il confronto con i due film a tema, lantimilitarista Da qui alleternità ed il documentaristico Tora! Tora! Tora!, ma il mix di amore-azione-eroismo di Pearl Harbor ed il cast all stars non dovrebbero deludere le attese del pubblico. IL SARTO DI PANAMA, regia di John Boorman, con Pierce Brosnan, Geoffrey Rush, Jamie Lee Curtis, Catherine McCormack; thriller/commedia; Usa/Irlanda; C. Il sarto di Panama di John Boorman prende avvio mostrandoci la nuova destinazione di Andrew Osnard, ovvero Panama, strategico punto di collegamento tra Atlantico e Pacifico, spartiacque tra il Nord America e lAmerica Latina. Osnard, amorale spia al servizio della corona britannica, intuisce subito lenorme potenzialità di informatore di Harry Pendel, sarto e titolare della Pendel & Braithwaite, il più rinomato atelier locale, dove si servono notabili, ministri, narcotrafficanti e diplomatici. La spia offre al sarto di tacere sul luogo dove ha imparato a tagliare e cucire (nel carcere giovanile), offrendogli in cambio di appianare lipoteca che grava sul suo negozio per un investimento sbagliato (ed ignoto allamata moglie). Sinnesca così una delirante spirale di controinformazione destinata a sfuggire di mano al fantasioso autore che, non disponendo di informazioni esplosive, finirà per inventarsi una fantomatica opposizione silenziosa, ipotesi decisamente arrapante per i capi di Osnard, ancor più se alimentata da una balla di scala internazionale come la svendita tout court del canale orchestrata dal governo panamense. Boorman dirige con verve ed eleganza la traslazione sul grande schermo dellomonimo romanzo di Le Carré, un irresistibile thriller con risvolti da commedia degli equivoci ma conseguenze tragiche, al solito, per gli innocenti: il taglio della storia è spesso parodico, ma supportato da unironia lucida e tristemente realistica. Il cast si dimostra decisamente allaltezza: Geoffrey Rush interpreta con la consueta disinvoltura il pavido e fantasioso sarto, ed è in parte anche Pierce Brosnan nei panni di un agente 007 moralmente scorretto. Da segnalare anche un cameo del drammaturgo inglese Harold Pinter. Una sophisticated spy comedy da non perdere. t DISCHI AMY CORREIA, Carnival love [Capitol/Emi] Per Amy Correia il momento del debutto è arrivato in età non verdissima, a trentadue anni: lautrice di Carnival love è infatti nata a Lakeville, nel sud del Massachussetts, nel 1968. Il disco presenta tredici tracce per poco meno di quarantasei minuti: le canzoni non sono troppo varie, scivolano dal bozzetto minimalista ad un preludio di rock epico. Significativa in tal senso Carnival, una canzone in cui la giovane artista prende la rincorsa da lontano: un riff di chitarra acustica di sapore country innesca la salita a vertici inattesi, molto suggestivi, a tratti epici, con qualcosa dentro dello spirito di Patti Smith. I brani di Amy Correia catturano nel momento con la forza dellintensità, qualità che regna sovrana in questo disco: fin dal brano apripista, una dolcissima nenia intitolata Angels collide, eterea, sognante ed onirica. Lattacco minimalista è variato dal cambio di marcia della successiva Fallen out of love, che affonda a piene note nel retrogusto folk del repertorio di Sheryl Crow. In ambito folk sorprende la delicatezza della deliziosa Starfishin: un banjo, una voce, una piccola magia. E piccole magie, soltanto un po più movimentate e solari, sono ad un dipresso anche le successive Life is beautiful e Daydream car, un contagioso country blues dove la Correia richiama stavolta lo stile di Alanis Morissette, non imitata ma personalizzata (questione di dettagli...). Stesso discorso anche per He drives it: ma si tratta di uno stile fatto proprio, non cè niente da fare, il paragone si ferma al primo impatto. Questa ragazza che riesce a comunicare emozioni senza il minimo sforzo apparente chiude il discorso-debutto con Yours, un brano di quelli che un secondo dopo laltro arrivano dritti al cuore e solo dopo salgono al cervello. La musica, fin troppo massificata, ha decisamente bisogno di persone vere ed è questa la sensazione che Carnival love trasmette. La forza del singolo da spot ha spesso lanciato a sorpresa lalbum che lo conteneva: da Shaggy a Midge Ure gli esempi si sprecano, e la stessa cosa, con la complicità mediatica degli orologi Breil, è accaduta agli Shivaree con Goodnight Moon, singolo contagioso e dalle sonorità ombrosamente oniriche, anche grazie al fascino emanato a piene note dalla seducente voce di Ambrosia Parsley, classe 1971, cantante e leader del trio nato per caso a San Diego, formato anche da Duke McVinnie (chitarra e basso) e Danny McGough (tastiere e gizmo). Anche lalbum dal quale il brano è stato estratto è arrivato ai piani alti delle chart, un disco che rischiava già di passare alla storia per il titolo, chilometrico e dallorigine davvero curiosa: sintitola infatti I oughtta give you a shot in the head for making me live in this dump, ovvero letteralmente Dovrei spararti un colpo in testa perché mi fai vivere in questo schifo, battuta ripresa da una nota serie Tv americana in cui una mucca inghiotte una radiolina che, nel momento in cui il veterinario la estrae dallanimale, diffonde proprio il verso canoro citato come titolo. La tracklist del disco conta in tutto dodici brani, per quanto il primo e lultimo siano da considerarsi brevi ma succosi divertissement. Oltre a Goodnight Moon lalbum presenta diversi episodi di ottimo livello che spaziano tra rock, soul, folk ed un po di jazz in sottofondo: da segnalare Bossa Nova, languidamente mossa e dal ritmo intrigante, il pimpante folk rock di Daring Lousy Guy, in cui la Parsley ricorda non poco Sheryl Crow, I don’t care, davvero datmosfera, quasi di unaltra epoca, le divagazioni funkeggianti di Pimp, lintensità di Idiot Waltz (che al loro amico Tom Waits piacerebbe) e Ash Wednesday, che coniuga emozioni e lirismo in poco più dun minuto. Un album che ad ogni ascolto intriga sempre più per il suo groove screziato e sporco al punto giusto. I libri sono cortesemente offerti dalla libreria SEEBER, Via Tornabuoni 70/r, Firenze Tel. 055215697 I dischi sono gentilmente offerti da GHOST, Piazza delle Cure 16/r, Firenze Tel. 055570040 Ben nel mondo Doris Lessing riprende il bambino ‘diverso’ del notevole “Il quinto figlio” n Paolo Boschi pagina precedente la sua nascita la tranquilla quiete altoborghese dell’agiata famiglia Lovatt nelle memorabili pagine de Il quinto figlio (dalla cui lettura si può comunque prescindere per apprezzare il plot). Ben è ormai cresciuto ed ha compiuto diciotto anni, anche se non sembra, dato che ne dimostra trentacinque circa e chiunque s’imbatta in lui continua a non prenderlo sul serio quando dichiara la sua vera età: per il suo aspetto fisico Ben è sempre stato considerato un “diverso” per statuto, ben visibile ed identificabile in mezzo alla folla, e le sensazioni causate dalle sue grottesche apparenze continuano ad essere turbamento, sospetto, paura, nervosismo, talvolta anche ilarità. Per Ben è sempre stato così, sia con gli sconosciuti che all’interno delle mura domestiche: la sua famiglia, che per il trauma dovuto alla sua nascita è quasi collassata verso un punto di non ritorno, nel corso degli anni è riuscita a riconquistare a fatica una normalizzante tranquillità, non riuscendo mai ad aiutarlo nei suoi palesi impedimenti esistenziali. Ben decide così di lasciare la sua casa ed andare nel mondo in cerca di qualcuno che lo capisca e riesca ad accettarlo: da Londra al Brasile passando per Parigi al protagonista capiterà d’incontrare anche persone senza scrupoli pronte ad approfittarsi della sua ingenuità e dei suoi limiti intellettivi per coinvolgerlo nel narcotraffico ed in altri loschi affari. Per certi A Giorgio Gaber, milanese, classe 1939, va dato atto di conservare ancora intatta lonestà intellettuale che gli ha fatto scegliere lattività teatrale sacrificando una dorata carriera televisiva. Dopo ventanni ha pubblicato un album di studio, La mia generazione ha perso, ed ha iniziato a presentarlo al suo pubblico nei teatri di tutta Italia. Al Teatro Puccini lincontro è andato in scena lo scorso 10 maggio: gli inviti, rigorosamente gratuiti, erano andati esauriti in pochissimi giorni. Gaber ha iniziato ricordando i suoi esordi: «Ho iniziato a suonare la chitarra a otto o nove anni e i miei miti erano SHIVAREE, I oughtta give you a shot in the head for making me live in this dump [Emi] RECENSIONE Nata a Kermanshah, in Iran, nel 1919, Doris Lessing ha vissuto in Rhodesia fino all’età di trent’anni, per poi trasferirsi in Inghilterra dal 1949 e diventare una delle figure più significative della letteratura novecentesca con opere come Martha Quest, Il taccuino d’oro, I diari di Jane Somers, I racconti africani (ed I racconti londinesi) e Il quinto figlio, uno dei suoi romanzi più notevoli. La Lessing ha un vasto seguito di affezionati lettori anche in Italia, lettori che non mancheranno di apprezzare Ben nel mondo, il sequel delle avventure di Ben Lovatt, il memorabile bambino “inumano” che aveva turbato con Giorgio Gaber Live versi Ben nel mondo rielabora in chiave moderna il fulcro narrativo del Frankenstein di Mary Shelley: in ambedue i casi il tentativo d’integrazione del “diverso” nel contesto sociale è destinato quasi fatalmente a fallire, ed i rispettivi protagonisti, con evidenti limiti etici e corpi mostruosi, nonostante i sentimenti positivi e la ricerca del bene, finiranno abbandonati al loro drammatico destino. La straordinaria vena narrativa della Lessing avvince il lettore alla sorte di Ben Lovatt, un gigante buono alla ricerca di comprensione ed affetto, una ricerca disperata quanto impossibile. Doris Lessing, Ben nel mondo, Milano, Feltrinelli, 2000; pp. 168 jazzistici. Ho iniziato ad ascoltare dischi americani, in vinile, che facevano un piacevole brusio mentre ci facevano sentire questa musica stranissima che per noi era assolutamente stravolgente, e a poco a poco mi sono affezionato al jazz fino a tentare di suonare la chitarra con velleità jazzistiche, velleità che poi rimanevano tali perché poi bastava che arrivasse uno, non che fosse americano, ma fosse stato dieci minuti in America, che suonava già meglio di me. Io studiavo e non ero di famiglia eccessivamente benestante, mi pagavo gli studi suonando musica da ballo. Dopo aver partecipato a diversi spettacoli come chitarrista di un giovane pazzo, Adriano Celentano, ho inciso il mio primo disco di rocknroll, non perché fossi un cantante di rocknroll, ma perché allepoca tutti eravamo appassionati alla moda del periodo. Periodo tra laltro piuttosto importante, perché è alla fine degli anni Cinquanta che i giovani diventano consumatori autonomi di dischi (adesso non si parla più di cittadini ma di consumatori): la verità è che allora gli acquisti venivano fatti dai genitori, ed i giovani sentivano la musica degli adulti. Poi abbiamo scoperto la Francia, e da lì è venuta lesigenza di scrivere canzoni con testi più significativi. È così che lamore per il jazz viene accantonato, più per incapacità che per altro, e ci mettiamo a fare altre cose: io per esempio scrivo Non arrossire, canzone del 1960, che si ispira a Henry Salvador. Ho saputo tra laltro che di recente è rientrato in classifica in Francia: Henry Salvador ha ottantatré anni, io ne ho sessantadue, quindi ho davanti una carriera. Amai moltissimo Jacques Brel, che ha assai influenzato il mio modo di cantare». Tra un attacco di Torpedo blu e la rievocazione della funzione sociale del bar, sorta di «intercapedine tra la vita familiare e il mondo», Gaber ha ricordato come è sbocciato il suo amore per il teatro: «Feci due anni di tournée con Mina. Io ero popolare ma non popolarissimo sebbene avessi fatto molta televisione, ma Mina, insomma, era la grande diva. La gente veniva per Mina, e quindi i teatri erano gremitissimi, il pubblico inneggiava Mina! Mina!, e si apriva il sipario: cero io. Ho visto che il teatro era una dimensione congeniale, contemporaneamente il Piccolo Teatro di Milano mi chiede di fare degli spettacoli e quindi io, che in quel momento sono un personaggio televisivo, decido che mi diverto molto di più a fare il teatro, e mi dedico esclusivamente al teatro smettendo di fare televisione e dischi». Non sono mancati estratti dallultimo album: la proiezione del video di Destra-Sinistra ed una suggestiva interpretazione live de La razza in estinzione. E lartista milanese non ha mancato di ricordare il Signor G: «Il Signor G era impegnato, in quel periodo cambia un po tutto: ricordo che in quegli anni mia moglie sì lo so è di Forza Italia frequentava lUniversità statale. Io allora avevo unautomobile da cantante, si sa i cantanti avevano auto da cantanti, io avevo una bellissima Jaguar e andavo alla Statale, vedevo questi ragazzi che mi guardavano con unaria non di strafottenza ma come a dire: A noi queste cose non interessano, sono molto banali e consumistiche, noi crediamo che il mondo possa essere diverso e si possano avere dei valori diversi. Ecco quegli anni lì hanno contribuito sicuramente a farmi cambiare la mia attività, hanno contribuito a farmi fare il mio mestiere in maniera diversa, mi hanno spinto verso interessi diversi. E quindi a quegli anni devo della riconoscenza, le cose poi cambiano ma io di quegli ho qualche rimpianto». La mia generazione ha perso è entrato a sorpresa nelle zone alte della classifica, ma Gaber ha colto lo spunto per ironizzare su un insolito dettaglio anagrafico: «Questo disco che io fatto, anche perché non facevo nessuno spettacolo, è entrato nelle classifiche, cosa che non mi aspettavo assolutamente. Però è curioso che la settimana scorsa cera Vasco in testa ed ha quasi cinquantanni, poi cera Mina che ne ha sessantuno, anzi no, secondo ero io e poi terza Mina, poi Celentano che ne ha sessantatré e quindi cera Battiato che ne ha cinquantasei. Titolo sui giornali: la loro generazione ha perso ma vende i dischi». P.B. pagina successiva