Contributi alla Scuola Permanente per l`Aggiornamento degli

SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO
DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI
A cura di Michele A. Floriano
Giovanni Magliarditi
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), numero speciale 6
University of Palermo, Italy
Contributi alla
Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di
Scienze Sperimentali
VII edizione: “ScientificaMente”
Hotel Capo Peloro Resort
Messina, 22 – 27 LUGLIO 2013
Coordinamento scientifico-didattico
Presidente: Michele A. Floriano
Anna Caronia
Delia Chillura Martino
Maria Concetta Consentino
Claudio Fazio
Mario Gottuso
Domenica Lucchesi
Giovanni Magliarditi
Roberta Maniaci
[email protected]
www.unipa.it/flor/spais.htm
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), Numero speciale 6
Editor in Chief: Claudio Fazio – University of Palermo, Italy
Editorial Director: Benedetto di Paola - University of Palermo, Italy
ISBN: 978-88-907460-4-8
First edition, 19th May 2014
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO
DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI
ScientificaMente
Messina
22 – 27 luglio 2013
A cura di:
Michele A. Floriano
Giovanni Magliarditi
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Indice
Programma della Scuola
Prefazione
Michele Antonio Floriano e Anna Caronia
Le NeuroScienze
1
F. Tito Arecchi
Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica dei processi cognitivi
4
Daniele Lo Coco e Emanuele Cannizzaro
Struttura e funzione del sistema nervoso centrale
21
Salvatore D'Arrigo e Antonia De Domenico
La didattica informale del laboratorio scientifico exhibit e origami
29
Laura Franchini e Silvana von Arx
Musica e colore
35
Pietro Perconti e Mario Graziano
Uno sguardo dall'esterno. La competenza matematica secondo la scienza cognitiva
44
Danilo Milardi
Protein misfolding
neurodegeneration
and
aggregation:
the
chemical
61
Riccardo Rizzo
Introduzione ai modelli matematici del sistema nervoso
74
basis
of
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“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Y. L. Teresa Ting
Learning ScientificaMente through CLIL: Part I: the learner
83
Margherita Langellotti e Y. L. Teresa Ting
Learning ScientificaMente through CLIL: Part II: the teacher
106
Programma
Lunedì 22
Ore 15:00
Registrazione
Ore 16:30
Saluti e apertura dei lavori
Mercoledì 24
Venerdì 26
ore 9:00
«Imaging morfofunzionale in neurologia»
Emanuele Nicolai
Istituto Diagnostica Nucleare di Napoli
Ore 9:00
Misfolding e aggregazione delle proteine: le basi
chimiche della neurodegenerazione»
Danilo Milardi
Istituto di Biostrutture e Bioimmagini CNR Catania
Ore 17:00
Caos Percezione Percezione e Linguaggio: dinamica dei
processi cognitivi
Fortunato Tito Arecchi
Università degli Studi di Firenze e INO-CNR
ore 10:00
«Basi biologiche della memoria e apprendimento»
Rosa Serio
Università degli Studi di Palermo
Martedì 23
ore 11:30
«I più semplici modelli matematici del sistema nervoso»
Eliano Pessa
Università degli Studi di Pavia
ore 9:00
Organizzazione strutturale e funzionale
ma nervoso centrale
Daniele Lo Coco
Ospedale Civico ARNAS di Palermo
del
siste-
ore 10:00
Messaggi elettrici e chimici nella fisiologia del sistema
nervoso
Flavia Mulè
Università degli Studi di Palermo
ore 11:00 ~ intervallo
ore 11:30
«Cervello, percezione e coscienza»
Giovanni Pellegri
Università degli Studi della Svizzera Italiana, Lugano
ore 12:30 ~ dibattito
ore 16:00
Poster
ore 16:30
«Giocando con il proprio cervello»
Giovanni Pellegri
Università degli Studi della Svizzera Italiana, Lugano
ore 21:30
«Da Schubert a De Andrè: i misteri della voce in musica»
Luigi Dei
Università degli Studi di Firenze
ore 11:00 ~ intervallo
ore 12:30 ~ dibattito
Giovedì 25
ore 9:00
«I modelli realistici del funzionamento del sistema nervoso»
Eliano Pessa
Università degli Studi di Pavia
ore 10:00
«Dalla scoperta dei neuroni specchio
all’intersoggettività: implicazioni teoriche ed applicazioni cliniche»
Magali J. Rochat
Università degli Studi di Parma
ore 11:00 ~ intervallo
ore 11:30
«Progettare una didattica delle scienze “braincompatible»
Teresa Ting
Università degli Studi della Calabria
ore 12:30 ~ dibattito
ore 10:00
«Il presente ed il futuro delle Neuroscienze: che cosa è la
connettività celebrale?»
Francesco Tomasello
Università degli Studi di Messina
ore 16:00
Workshop
«Progettare una didattica delle scienze “braincompatible»
Analisi dell’esempio dal punto di vista neurobiologico
Teresa Ting con Margherita Langellotti
Università degli studi della Calabria
ore 11:00 ~ intervallo
Sabato 27
ore 11:30
«L’albero della conoscenza»
Giuseppe Gembillo
Università degli Studi di Messina
ore 9:00
Tavola Rotonda:
«Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)»
Patrizia Arrigo
Liceo socio-psicopedagogico “Finocchiaro Aprile”
Palermo
Maurizio Elia
Oasi Maria SS., Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Troina (EN)
Coordina Anna Caronia
ore 12:30 ~ dibattito
ore 16:00
Workshop
«Progettare una didattica delle scienze “brain-compatible»
Un esempio
Teresa Ting con Margherita Langellotti
Università degli Studi della Calabria
ore 12:00 Chiusura
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“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Prefazione
Le NeuroScienze
Michele A. Floriano1,2 e Anna Caronia3
1
Divisione Didattica della Società Chimica Italiana
2
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche, Chimiche e Farmaceutiche, Università di Palermo
3
I.S. “Ettore Majorana”, Palermo
e-mail: [email protected]; [email protected]
Sito web: www.unipa.it/flor/spais.htm
Le Neuroscienze sono l’insieme delle scienze interdisciplinari che studiano il funzionamento del sistema nervoso dal punto di vista anatomico, biochimico, fisiologico, genetico e psicologico, attingendo a matematica, fisica, chimica, ingegneria,
informatica, medicina, biologia e filosofia.
Ciò viene realizzato abbracciando il più alto numero di livelli di studio: dalle
molecole (RNA, ormoni, farmaci) ai componenti subcellulari (membrane, vescicole sinaptiche), dalle cellule a sistemi di neuroni, all’intero sistema nervoso, al
sistema neuroendocrino; dall’animale al comportamento, alle attività mentali superiori e alla società, poiché la stessa struttura sociale vincola o stimola il comportamento individuale. Lo scopo è in prospettiva la conoscenza scientifica del comportamento e dell’attività mentale e, in definitiva, dell’Uomo. In questo senso
sorpassa le difficoltà metodologiche e filosofiche e chiude il "gap" culturale tra
scienza e psicologia, tra scienze fisiche e scienze sociali.
L'uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI functional magnetic resonance imaging) a partire dai primi anni 90, ha rivoluzionato lo studio del cervello
in azione e dal vivo in maniera sostanzialmente non-invasiva. Questa tecnica è
oggi la più usata nello studio del funzionamento del cervello e nelle ricerche sulla
mente.
All’interno del quadro generale appena delineato, di sicuro interesse per chi si
occupa di didattica sono le scienze cognitive, un insieme di discipline che hanno
come oggetto di studio la cognizione di un sistema pensante, sia esso naturale o
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
artificiale. Esse comprendono diverse discipline che pur operando in campi differenti coniugano i risultati delle loro ricerche al fine comune di chiarire il funzionamento della mente. In particolare il grande sviluppo della neuroscienza cognitiva è legato a quello dell'ingegneria informatica che simula in reti di neuroni
artificiali attività cognitive (quantomeno computazionali) assai simili a quelle
umane.
Le scienze cognitive rappresentano anche la chiave per lo studio dei fenomeni
legati ai disturbi specifici dell’apprendimento (DSA).
Per quanto riguarda il programma scientifico, si è adottato un percorso che, partendo dagli aspetti anatomici e fisiologici del sistema nervoso centrale, si è sviluppato affrontando i moderni progressi nel campo dell’indagine funzionale, analizzando anche aspetti patologici e degenerativi, per concludersi con contributi sul
funzionamento del cervello e di scienze cognitive.
La relazione di apertura da parte del Prof. F. T. Arecchi (CNR Firenze) ha messo in evidenza l’importanza di costruire un modello fisico-matematico rispetto alla funzionalità del cervello, sia di forme viventi semplici sia di forme viventi
complesse (l’uomo). Il Prof. D. Lo Coco (Ospedale Civico Palermo) ha illustrato
l’organizzazione strutturale e funzionale del sistema nervoso centrale mentre della
trasmissione dei messaggi elettrici e chimici nella fisiologia del sistema nervoso si
è occupata la Prof.ssa F. Mulè (Univ. Palermo). L’argomento riguardante i processi neurochimici e meccanismi molecolari che permettono all’essere vivente di
essere macchina pensante che percepisce tutto ciò che lo circonda e rielabora secondo una coscienza al punto di chiedersi “com’è possibile che un pezzo di materia – il cervello – possa comunicare, amare, vedere e avere coscienza di noi stessi
che parliamo, amiamo e vediamo e riconosciamo il mondo? Chi siamo?” è stato
sviluppato dal Prof. G. Pellegri (UNIV. Lugano). I moderni sistemi di indagine
strumentale utili ai fini della ricerca scientifica e della diagnosi di patologie degenerative sono stati descritti dal Prof. E. Nicolai (Ist. Diagnosi Nucleare Napoli)
specificando, in particolare, il funzionamento e i principi di base delle tecniche.
Oltre alle indagini di natura strumentale la moderna ricerca scientifica offre metodi di studio del funzionamento del sistema nervoso ed in particolare del cervello
umano e delle connessioni sinaptiche con l’elaborazione di modelli matematici di
reti neurali artificiali trattate dal Prof. R. Rizzo (CNR Palermo). Di particolare rilievo per tutti coloro che sono coinvolti nell’insegnamento è approfondire quali
siano i processi sviluppati dal discente per apprendere e quindi le basi biochimiche della memoria e dell’apprendimento presentate dalla Prof.ssa R. Serio (Univ.
Palermo). Studiare il cervello significa non solo capire come funziona questa meravigliosa macchina, ma anche capire perché ogni tanto non funziona perfettamente e quali potrebbero essere le strategie per porre rimedio. Il Prof. F. Tomasello (Univ. Messina) ha relazionato sugli itinerari delle neuroscienze: dalla
2
Floriano & Caronia – Le Neuroscienze
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
comprensione morfo-funzionale alle strategie riparative del cervello. Per tornare
ai processi della conoscenza, della coscienza e della cognizione sociale, di particolare interesse sono state le presentazioni dei Prof. G. Gembillo e P. Perconti
(Univ. Messina). I processi degenerativi come diagnosticarli lo stato della ricerca
sulla cura e sugli aspetti terapeutici sono stati al centro degli interventi della
prof.ssa M. J. Rochat (Univ. Parma) che ha parlato dei disturbi relazionali osservati in individui autistici e della ricerca correlata ai neuroni specchio e il Prof. D.
Milardi (CNR Catania) che ha descritto le basi chimiche responsabili di processi
neurodegenerativi attribuibili a fenomeni di misfolding e aggregazione di particolari proteine. Infine la Prof.ssa T. Ting (Univ. Calabria) ha spiegato il collegamento tra neuroscienze e didattica e lo sviluppo di una vera e propria scienza
dell’apprendimento. Nella giornata conclusiva si è tenuta una tavola rotonda su
Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Un interessate e vivace dibattito è
stato stimolato dagli interventi di apertura della Prof.ssa P. Arrigo (Liceo F. Aprile Palermo) ed del Prof. M. Elia (IRCCS Troina, EN). Due sessioni pomeridiane
sono state dedicate, attraverso attività pratiche e dimostrative, al collegamento tra
neuroscienze e didattica tramite applicazioni di didattica “brain-compatibile” basata sulla metodologia CLIL nella didattica delle scienze. Inoltre, il programma è
stato integrato da un’interessante e coinvolgente conferenza-spettacolo serale sugli effetti neurofisiologi della voce in musica tenuta dal Prof. L. Dei (Univ. Firenze).
Siamo grati all’Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, nella persona del
suo Direttore Dr.ssa Maria Luisa Altomonte che condividendo i principi e gli obiettivi di SPAIS, continua ad offrire un supporto che ha reso possibile anche la
corrente edizione. Un sentito ringraziamento va, inoltre, all’Università di Messina
che, con un’apposita delibera del Senato Accademico, ha consentito il riconoscimento di un massimo di quattro CFU a studenti universitari per la frequenza della
Scuola. Siamo grati ai relatori che hanno consentito di rendere permanente il proprio contributo con la realizzazione di questi atti.
Infine, si ringrazia: Associazione Insegnanti Chimici (AIC), Associazione per
l’Insegnamento della Fisica (AIF), Associazione Nazionale Insegnanti Scienze
Naturali (ANISN) e Divisione Didattica Società Chimica Italiana (DDSCI) .
Floriano & Caronia – Le Neuroscienze
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Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica dei
processi cognitivi
F. Tito Arecchi
Università di Firenze e INO-CNR, Firenze
E-mail: [email protected]
Il nome di Caos deterministico è stato attribuito al fatto che il modello matematico di un sistema fisico, anche se apparentemente semplice perché consiste di poche equazioni, non garantisce una soluzione che preveda il futuro remoto, in
quanto l’informazione si “consuma” al passare del tempo e va rimpiazzata da
nuova informazione. Il tempo entro cui il grosso dell’informazione si perde dipende dal sistema: nel caso del sistema solare, esso è attorno al milione di anni (è
perciò che il sistema solare ci appare stabile) ma nel caso degli impulsi elettrici
(detti spikes) con cui i neuroni del cervello comunicano fra di loro, è solo 2 millesimi di secondo.
Qui occorre distinguere fra due tipi di caos: un caos geometrico, per cui il punto rappresentativo di un evento si scosta da una traiettoria “ semplice” ed esegue
figure non prevedibili ( il cosiddetto “effetto farfalla”dei modelli meteorologici)
e un caos temporale per cui una forma stereotipata (un impulso di forma fissa) si
ripete a tempi imprevedibili .Questo secondo tipo è detto “caos omoclinico” perché consiste nel ritorno di un punto alla stessa posizione ( come la lancetta dei
secondi dell’orologio che ritorna ogni minuto alle 12) ma se ne diparte con tempi
non uguali l’uno all’altro.
Un vivente si mantiene con successo perché all’arrivo di uno stimolo sensorio
reagisce con una adeguata risposta motoria. In un monocellulare si tratta di un riflesso (le ciglia del paramecio stimolato da un segnale chimico o luminoso), in un
animale con cervello, il codice dello stimolo viene confrontato con il codice di
memorie pregresse e ne consegue una “interpretazione”, cioè una percezione.
Ma perché ciò avvenga, occorre sincronizzare le spikes di folle di neuroni, perché si adeguino allo stesso codice (la sincronizzazione si raggiunge quando ad esempio una folla batte le mani all’unisono). Ciò richiede un certo numero di millisecondi (qualche centinaio, fino a 1 secondo), ben oltre i 2 millisecondi entro cui
il caos cancella l’informazione di una spike.
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
La sincronizzazione si configura dunque come un “controllo del caos”; senza
di questo, saremmo condannati a non “capire” niente del mondo che ci circonda.
Se ora passiamo a noi umani, qui c’è una novità legata al linguaggio, per cui la
coppia “stimolo-memoria” della percezione diventa la coppia “1° brano-2° brano”
di un testo linguistico (letterario, musicale ecc) e al posto della risposta motoria
qui abbiamo un “giudizio” cioè decidiamo sulla concordanza dei significati del 2°
brano in base ai significati del 1° brano.
L’esplorazione dei possibili significati del 1° brano, per scegliere quelli che più
si conformino al 2°, corrisponde a prospettarsi diverse sequenze di spikes fino a
scegliere quella che assicura la migliore sincronizzazione.
Qui interviene un elemento nuovo, cioè la coscienza di se stesso: colui che
sceglie il significato del 1° brano deve essere consapevole di essere lo stesso cui
si presenta il 2°-.Questa coscienza è ben distinta dalla semplice consapevolezza di
essere esposti a un certo stimolo da cui nasce la percezione e la corrispondente risposta motoria in un animale.
Nella esplorazione di procedure linguistiche, piuttosto che risolvere modelli di
reti di neuroni accoppiati da sincronizzazione, si ricorre a una spiegazione olistica, che tratti il problema da un punto di vista globale. Precisamente, nei processi
percettivi, si ricorre alla “inferenza di Bayes”; essa presuppone l’esistenza di algoritmi appropriati nella memoria. E’ una strategia rapida ma che vale solo per
un mondo semplice.
Per contro in presenza della “complessità”, gli algoritmi preesistenti non sono
applicabili e occorre costruirne “ad hoc” di nuovi. Si mostra come la “inferenza
di Bayes inversa” permetta la costruzione di nuovi algoritmi.
Nella lettura di un testo (letterario,musicale, pittorico) il nuovo algoritmo connette i brani del testo , interpretando il successivo in termini del precedente. Nella
esplorazione cognitiva del mondo, l’algoritmo che interpreta situazioni diverse ma
legate da un filo comune (analogia) è il “concetto” che ha perciò un base ontologica e non è una pura invenzione mentale.
Ciò premesso, illustriamo i punti salienti con una serie di Figure.
Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ...
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Due modi di leggere il mondo:
i) XVI- XX sec.(riduzionistico) spezza il mondo in frammenti
elementari e studia il singolo pezzo; poi li ricombina logicamente
Comincia con Galileo e Newton, è ideologizzato da Laplace e Carnap,
è stato la base della biologia post-darwiniana (dogma della biologia
molecolare) e del cognitivismo (mente = cervello).
ii) XXI sec. (olistico):
Quantum entanglement ( parti diverse e lontane
di mondo sono inestricabilmente legate );
Epigenetica (lo stesso gene può esprimersi in modi diversi a seconda
delle circostanze);
Linguaggio umano: giudizio (creativo) >>semplice percezione (basata su
algoritmi memorizzati)
Fig.1. La rivoluzione scientifica del XXI sec.
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Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ...
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La dinamica di Newton
Condizioni iniziali
(posizione e velocità) h (t=0)
Posizioni h e d
[Tempo crescente]
dati al tempo t (d) = funzione (F) di ipotesi a t=0 (h) e di tempo (t) :
DETERMINISMO-assegnato h[
] ,si arriva a un d[
d=F(h,t)
] preciso
Fig.2. Il paradigma di Newton : dinamica determinata dalle posizioni e velocità
iniziali
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Stabilità del moto
(nascita del CAOS DETERMINISTICO
Poincaré-1890)
Stabilità trasversale alla traiettoria (
).
: traiettorie da condizioni iniziali
diverse da
A sinistra moto regolare; a destra moto caotico con perdita di informazione
Caos deterministico : il modello matematico di un
sistema fisico, anche se consiste di poche equazioni,
non prevede il futuro remoto, in quanto
l’informazione si “consuma” al passare del tempo e
va rimpiazzata da nuova informazione.
Il tempo entro cui si perde dipende dal sistema: nel
caso del sistema solare, è sul milione di anni , ma nel
caso degli impulsi elettrici (spikes) con cui i neuroni
del cervello comunicano fra di loro , è solo 2
millesimi di secondo.
Fig. 3. Come nasce il caos deterministico con Poincaré-1890. Tempo di perdita
dell’informazione .
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
due tipi di caos:
- caos geometrico, il punto rappresentativo di un evento si
scosta da traiettoria “ semplice” ed esegue figure non
prevedibili ( “effetto farfalla”)
-caos temporale: una forma stereotipata (un impulso di forma
fissa = spike) si ripete a tempi imprevedibili ;
il punto ritorna sempre alla stessa posizione ( come la
lancetta dell’orologio ) ma se ne diparte con tempi non uguali
l’uno all’altro.
Effetto farfalla in modello meteorologico
Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ...
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Caos omoclinico=
ritorno a sella S in 3D
Oscillazione periodica :
Caos:
a<g
a=g
Suscettibilità c = risposta ad uno stimolo esterno
Fig.5. Due tipi di caos: geometrico (effetto farfalla) e temporale (orologiocon
tempi variabili)
Ritmi neuronali
Ritmo cardiaco
Oscillazioni Calcio
Oscillazioni biochimiche
Ciclo mitotico
Ritmi ormonali
Ritmi circadiani
Ciclo ovario
Ritmi annuali
Oscillazioni ecologiche
0.01-10 s
1s
1 s a parecchi minuti
1-20 min
10 min a 24 h
10 min a parecchie ore
24 h
28 d (umano)
1 anno
anni
Fig.6. Tempi di alcuni orologi biologici
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Un vivente reagisce a stimolo sensorio con risposta motoria.
Nel cervello, il codice dello stimolo [sequenza di spike] viene
confrontato con il codice di memorie pregresse e ne consegue
una “interpretazione” in base a cui si reagisce, cioè una
percezione.
Occorre sincronizzare le spike di folle di neuroni, perché si
adeguino allo stesso codice ( sincronizzazione  una folla che
batte le mani all’unisono). Ciò richiede qualche centinaio di
millisecondi (fino a 1 secondo), ben oltre i 2 millisecondi entro cui
il caos cancella l’informazione di una spike.
La sincronizzazione implica dunque un “controllo del caos”;
senza di questo , saremmo condannati a non “capire” niente del
mondo che ci circonda.
Comunicazione fra Neuroni = sincronizzazione
Codice Neuronale = treno spike elettriche, ciascuna 100mV,
1ms;
separazione min. (bin)
3ms;
Separazione media (nella banda gamma dello EEG)
25 ms
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Feature binding (legame di configurazione)
Ogni cerchietto rappresenta un campo ricettivo che isola
dettagli specifici (ad es. barra verticale).
Implementazione dinamica del Global Workspace (GWS)
[ competizione fra due interpretazioni top-down ]
GWS
Verso sistema motorio
I
I
Top-down I
II
II
Top-down II
Dt
tempo
GWS=lettore a soglia
[legge le somme entro Dt]
Bottom-up = ai due gruppi
2 gruppi di neuroni eccitati da uguale stimolo sensorio bottom-up, ma
con diversi top-down. In I, i neuroni sono sincronizzati entro il tempo Dt,
in II invece non sincronizzati 
prevale I
Fig.9. Cos’è la percezione e come viene elaborata nel cervello
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Dinamica cognitiva: due scale temporali
A)
PERCEZIONE; t circa 1sec
Cfr fra stimolo e memoria (= inferenza di Bayes) in grado di indurre reazione
motoria.
Procedura a repertorio finito, comune agli animali
B)
GIUDIZIO; t> 3 sec
confronto linguistico
fra il brano presente e la memoria del precedente;
i due eventi codificati nello stesso linguaggio e sottoposti allo stesso giudice
(coscienza di sé).Si sceglie il “modello” per Bayes inverso
Procedura libera, creativa, solo umana
Fig. 10. Le due procedure cognitive: percezione (in tutti gli animali con cervello)
e giudizio (solo negli umani, risulta da un confronto linguistico).
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Fig.11. Non attribuiamo un senso alla singola parola, ma al contesto, cioè al confronto fra una parola e le vicine.
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Benigni XXXIII Inferno
Ascolto V Beethoven(1 soggetto)
Tempi di pausa mediati su molti soggetti
(brani poetici o brani musicali )
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Sequenza di fissazioni oculari (cerchi neri) guardendo Nefertiti
Fig. 13. Ogni elaborazione linguistica (poesia, musica,arti figurative) implica il
confronto fra due brani successivi, che richiede in media 3 secondi.
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COME SI COSTRUISCE LA PERCEZIONE
= Centro decisioni, detto anche GWS (Global Work Space)
MEMORIA
a lungo termine
probabilità A-PRIORI
che da h consegua d
[ top-down]
Reazione motoria
h=ventaglio di ipotesi
h* = ipotesi più plausibile
d=dati=stimoli sensori
[ bottom-up]
SENSI
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Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
COME SI COSTRUISCE IL GIUDIZIO NEL
CONFRONTO LINGUISTICO
1° BRANO
h*= lettura più plausibile
[ richiamo con memoria a breve
termine ]
h=ventaglio di possibili
letture 1° brano
Prob. che d consegua da h*
A-POSTERIORI
d= lettura attuale
[ brano da comprendere]
2° BRANO
Fig. 15. Descrizioni globali dei due processi cognitivi, percezione e giudizio;
nel secondo caso , è cruciale la “coscienza di se stessi” (autocoscienza): colui
che sceglie il significato del 1° brano deve essere consapevole di essere lo stesso
cui si presenta il 2°.
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Confronto tra A e B Due tipi di ermeneutica: ripetitiva; creativa
έλιξ, spira
circolo
senza perdita di informazione
rimpiazzo di informazione
An
Bn
B
A
B2
A2
B1
A1
FONDAMENTALISMO
DIALOGO SENZA FINE
Nell’ermeneutica creativa, c’è il confronto tra A e B, dove
B è la realtà esterna che limita e guida le scelte
successive di A .
Invece nella dialettica di Hegel, lo Spirito evolve, ma
senza un referente esterno; lo stesso nel “pensiero
debole”
An
A2
A1
Manca il feedback, cioè il dialogo
con altro .
Si passa da una ontologia con
referente esterno (realistica) ad
una ontologia solipsistica.
In Inglese si direbbe “bootstrap”,
sollevarsi tirandosi dai propri
stivali, come il Barone di
Munchausen
Fig.17. Due ermeneutiche: a) computazionale, che attribuisce un senso invariante
agli oggetti; il senso è fissato da una singola operazione di misura;
b) creativa: il senso si raffina nel confronto linguistico;
c) l’ermeneutica creativa è realistica se implica un referente esterno, idealistica
se si sviluppa per pura crescita interna , senza un referente: parlaremo di
”bootstrap” (salire tirandosi dagli stivali) come fece il Barone di Munchausen
nella sua ascesa alla luna.
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PERCEZIONE= RICORSIVA:Successive applicazioni di BAYES
= scalata colle probabilità:
[Darwin; Sherlock Holmes]
dati misurati
algoritmo P(d |h)
Colle di probabilità
Prob. più plausibile h*
Spazio delle variabili
Prob. stimate
condizione
iniziale
complessità semantica
SIGNIFICATO
complessità algoritmica
(complicazione)
Bayes senza semiosi
creatività
[esempio: teorema di Goedel ]
Fig.18- Confronto fra percezione come procedura ricorsiva (in orizzontale uno
spazio di variabili, in verticale un colle di probabilità crescenti) fatta di successive inferenze di Bayes che si appoggiano ad un algoritmo o modello.
Per contro, la complessità implica la coesistenza di modelli (colli) differenti. La
scelta di un colle è una procedura creativa, non-algoritmica.
Si sta oggi investigando il ruolo quantistico di questa procedura che va oltre il
computer classico(macchina di Turing) e che è peculiare del linguaggio umano.
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Struttura e funzione del sistema nervoso centrale
Daniele Lo Coco(1) e Emanuele Cannizzaro(2)
(1)
U.O. Neurologia, Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale Civico ARNAS, Palermo, Italy
(2)
Sezione di Farmacologica, Dipartimento per la Promozione della
Salute e Materno Infantile PROSAMI, Università Degli Studi di
Palermo, Palermo, Italy
E-mail: [email protected]
Abstrac. Il sistema nervoso centrale regola tutte le funzioni del nostro
corpo: controlla il comportamento sia esso razionale che istintivo,
controlla la sensazione di fame e di sete, controlla il respiro ed il battito cardiaco, la pressione del sangue, la temperatura corporea. È responsabile della nostra percezione del mondo esterno e ci permette di
interagire con esso. Ci permette di praticare sport e di non cadere mentre andiamo in bicicletta. Ci consente di rimanere affascinati di fronte
ad un’opera d’arte e di provare sentimenti come la paura, la rabbia, la
gioia, l’amore. Tuttavia, dopo che migliaia di scienziati lo hanno studiato per secoli, la maggior parte dei meccanismi più complessi alla
base del suo funzionamento risultano ancora oscuri ed al di fuori delle
nostre capacità di comprensione. In questa breve review esamineremo
le principali conoscenze attuali sulla organizzazione strutturale e funzionale del sistema nervoso centrale, cercando di comprendere se i
progressi fatti nel campo della conoscenza hanno in qualche modo alterato il fascino oscuro di una macchina così complessa, o al contrario
abbiano accresciuto l’interesse a spingerci sempre più in là nel tentativo di far luce sui misteri sempre più complessi del suo funzionamento.
PACS codes: neuroscience and nervous system (87.19).
1. Introduzione
La struttura e funzione del cervello e del sistema nervoso centrale (SNC) in generale sono oggetto di studio e ricerca da migliaia di anni e numerose sono state le
ipotesi, talvolta molto fantasiose, formulate in passato per spiegarne i segreti. Ma
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in realtà è solo negli ultimi decenni che sono stati compiuti decisi progressi nella
comprensione della struttura anatomica e dell’organizzazione morfo-funzionale
del cervello e del SNC, anche se molto rimane ancora da scoprire.
Come riassunto nella Tabella 1, il SNC è costituito da un insieme di strutture
anatomiche tra di loro organizzate e interconnesse definite: midollo spinale ed
encefalo, cioè quella porzione del SNC contenuta all’interno della scatola cranica.
A sua volta l’encefalo (dal greco encephalon, "dentro la testa") è suddiviso in:
tronco dell’encefalo, cervelletto e cervello propriamente detto, di cui fanno parte
la corteccia cerebrale, il sistema limbico, la sostanza bianca sottocorticale, i nuclei della base ed il talamo.
Tabella 1. Il Sistema Nervoso Centrale.
Cervello (corteccia cerebrale, sostanza bianca sottocorticale, sistema limbico, nuclei della base, talamo)
Encefal
Cervelletto
o
Tronco dell’encefalo (mesencefalo, ponte e bulbo)
Midollo spinale
2. Organizzazione strutturale del sistema nervoso centrale
Il tronco encefalico è la parte più antica del cervello, evolutosi oltre cinquecento
milioni di anni fa. Poiché assomiglia al cervello dei rettili, è stato denominato
cervello “rettiliano”. Questa parte del cervello è importante nel regolare il livello
generale di veglia, la respirazione ed il battito cardiaco. È inoltre una importante
stazione di relè per le afferenze sensoriali dalla periferia al centro e per le efferenze regolatrici del nostro organismo (Kandel et al., 2000; Haines, 2012). È suddiviso in tre porzioni che in senso caudo-craniale sono denominate: bulbo (o midollo
allungato), ponte di Varolio e mesencefalo.
Contenuto nella fossa cranica posteriore, dorsalmente al tronco encefalico e ad
esso interconnesso mediante una serie di fibre nervose che costituiscono i peduncoli cerebellari, si trova il Cervelletto. Esso è fondamentale nella regolazione
dell’equilibrio, della postura e della coordinazione motoria. Svolge inoltre un ruolo in alcuni processi di memorizzazione di risposte apprese semplici (Kandel et
al., 2000; Haines, 2012). La sua massa nell’ultimo milione di anni è più che triplicata, sottolineando l’importanza del suo ruolo negli esseri umani.
Il sistema limbico è costituito dal gruppo di strutture neuronali che si trovano
in profondità al di sotto della corteccia cerebrale ed al di sopra del tronco encefalico. È una struttura filogeneticamente molto antica risalendo a circa duecen-
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to/trecento milioni di anni fa. Poiché si è particolarmente sviluppato nei mammiferi, è stato denominato cervello “mammaliano”. Svolge un ruolo fondamentale
nella regolazione della temperatura corporea, della pressione sanguigna, del battito cardiaco, della fame, della sete e della funzionalità di numerose ghiandole endocrine (tiroide, surreni, gonadi). Nel sistema limbico avvengono, inoltre, i fenomeni cellulari e biochimici più importanti per la realizzazione del processo di
memorizzazione e conservazione delle informazioni. È implicato infine nella determinazione delle reazioni emotive connesse con la sopravvivenza
dell’individuo. Del sistema limbico fanno parte l’ippocampo, il fornice, e
l’ipotalamo, che attraverso una serie di messaggi elettrici e chimici regola
l’ipofisi, la ghiandola principale del nostro corpo (Kandel et al., 2000; Haines,
2012). Il sistema limbico è una delle principali sedi di degenerazione, quantomeno nelle fasi iniziali, che si verificano nella Malattia di Alzheimer, provocando i
ben noti disturbi a carico della memoria a breve termine e dell’orientamento temporo-spaziale.
Al di sopra dell’ipotalamo si trova il talamo, costituito da un insieme di nuclei
neuronali altamente organizzati che costituiscono una stazione importante di relè
delle informazioni sensitivo-motorie ascendenti e discendenti (Kandel et al.,
2000; Haines, 2012).
La parte più grande dell’encefalo umano è il cervello propriamente detto. Esso
è diviso in due metà, dette emisferi, ciascuno dei quali controlla la porzione controlaterale del corpo. Ciascun emisfero è connesso con il controlaterale attraverso
un insieme di circa trecento milioni di fibre nervose che costituiscono il corpo
calloso. Patologie che causano alterazioni a questo livello, o in seguito ad interventi chirurgici soprattutto nel campo dell’epilessia possono provocare una dissociazione tra i due emisferi cerebrali. Questa disfunzione patologica è stata alla base della scoperta del fenomeno della “dominanza emisferica”, per cui ciascun
emisfero è specializzato in funzioni cognitive diverse rispetto al controlaterale. In
particolare, l’emisfero sinistro è implicato nel controllo sensitivo e motorio
dell’emisoma destro, nella comprensione e produzione del linguaggio scritto e
parlato, nel ragionamento, nelle abilità di calcolo e matematiche. L’emisfero destro, invece controlla la porzione sinistra del corpo, ed è coinvolto nella percezione della tridimensionalità, nella creatività, immaginazione ed introspezione (Kandel et al., 2000; Haines, 2012).
Dal punto di vista macroscopico, ciascun emisfero presenta sulla sua superficie
una serie di pieghe e circonvoluzioni molto complesse che permettono di ottenere
una conformazione spaziale vantaggiosa al fine di consentire il contenimento del
cervello all’interno della scatola cranica. Dal punto di vista microscopico, lo strato più superficiale di ogni emisfero, per soli tre millimetri circa di spessore, racchiude lo strato di cellule nervose (neuroni) che costituiscono la corteccia cere-
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brale. La corteccia cerebrale è filogeneticamente recente, essendo apparsa soltanto duecento milioni di anni fa, ed è particolarmente sviluppata nella razza umana.
È infatti la sede delle principali funzioni “superiori” grazie alle quali siamo in
grado di organizzare, ricordare, parlare, leggere, capire, apprezzare, creare e pensare.
La corteccia di ciascun emisfero è suddivisa in quattro aree, denominate lobi
(Tabella 2). Il lobo frontale, particolarmente sviluppato nella razza umana rispetto agli altri mammiferi, è implicato nei processi cognitivi di pianificazione, organizzazione, decisione e nel comportamento intenzionale. Il lobo parietale ha il
ruolo di raccogliere le informazioni sensoriali provenienti dalla periferia del nostro corpo, e di elaborarle. Il lobo occipitale è dedicato alla visione e contiene la
corteccia visiva e le aree visive associative dove le informazioni registrate a livello della retina vengono elaborate in immagini ed interpretate. Il lobo temporale,
infine, è implicato nella funzione uditiva, nella comprensione ed elaborazione del
linguaggio e nella memoria (Kandel et al., 2000; Haines, 2012). Le turbe del linguaggio da disfunzioni corticali prendono il nome di “afasie”, cioè la perdita, parziale o completa, delle capacità linguistiche, ossia della comprensione o della espressione linguistica, o di entrambe, conseguente a un danno alle aree cerebrali
del linguaggio (presenti sia a livello del lobo temporale che di quello frontale) e
non attribuibile a difficoltà di parola, ossia a disturbi dei processi meccanici del
linguaggio.
Tabella 2. I lobi della corteccia cerebrale.
Lobo frontale (pensiero, pianificazione, comportamento intenzionale, linguaggio, funzione motoria)
Lobo parietale (percezione della sensibilità tattile/discriminativa e dolorosa, integrazione sensitiva)
Lobo temporale (udito, memoria, linguaggio)
Lobo occipitale (visione)
Al di sotto della corteccia cerebrale (che costituisce la sostanza grigia, così denominata per il suo aspetto sul tavolo anatomico legata alla ricca vascolarizzazione) ritroviamo la sostanza bianca un insieme di fibre nervose che interconnettono
le varie zone della corteccia cerebrale, consentendo così lo scambio di informazioni tra le cellule e l’elaborazione quindi di informazioni sempre più complesse.
La sostanza bianca é così denominata per l’elevata presenza di mielina, la guaina
lipidica che riveste le fibre nervose consentendo la trasmissione dell’impulso elettrico da una cellula all’altra. La sostanza bianca contiene inoltre le fibre nervose
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che connettono in senso reciproco la corteccia cerebrale con tutte le altre strutture
del sistema nervoso centrale espandendo così le possibilità di integrazione funzionale e gestione delle informazioni. La patologia più nota, che causa una progressiva degenerazione della sostanza bianca cerebrale è la Sclerosi Multipla, patologia autoimmunitaria in cui si verifica una aggressione da parte del proprio sistema
immunitario ai danni guaina mielinica con conseguente alterazione della funzionalità cerebrale con risvolti negativi sulla funzione motoria, sensitiva, coordinazione, etc. Infine, nella profondità della sostanza bianca, al di sopra del talamo, si
trovano una serie di nuclei di sostanza grigia, denominati nuclei della base (nucleo caudato, putamen, globus pallidus, nucleo subtalamico, substantia nigra). I
nuclei della base sono filogeneticamente più antichi della corteccia cerebrale e
sono importanti nella programmazione motoria, sono coinvolti nel processo di
scelta decisionale e nell’integrazione sensitivo-motoria delle informazioni (Kandel et al., 2000; Haines, 2012). Patologie che ne alterano la funzione, come la Malattia di Parkinson o la Corea di Huntigton, causano gravi disturbi del movimento
con tremore, rigidità, anomalie dei riflessi posturali, movimenti involontari.
Per poter funzionare, come tutte le parti del nostro corpo, anche il sistema nervoso ha bisogno di ossigeno ed altri nutrienti, trasportati attraverso la circolazione
del sangue. Ci sono infatti quattro principali arterie che decorrono lungo il collo,
anteriormente e posteriormente alla porzione cervicale della colonna vertebrale.
Esse sono l’arteria carotide comune destra e sinistra (che poi si suddividono in
arteria carotide interna, al servizio delle strutture all’interno del cranio, ed arteria carotide esterna, al servizio delle strutture all’esterno del cranio) e l’arteria
vertebrale destra e sinistra (che poi si congiungono a livello della base del cranio
nell’arteria basilare). Queste quattro arterie, una volta penetrate all’interno del
cranio si suddividono in arterie di calibro via via minore fornendo l’irrorazione
sanguigna alle varie parti dell’encefalo, ma sono anche interconnesse tra loro attraverso una serie di arterie di calibro minore, denominate arterie comunicanti a
costituire una struttura fondamentale per l’omeostasi circolatoria cerebrale, denominata poligono del Willis. Alterazioni improvvise della circolazione cerebrale,
non suscettibili di compenso ed azione vicariante da parte di altre arterie, sono alla base dell’ictus cerebrale ischemico, una delle patologie più frequenti in età avanzata nel mondo Occidentale e tra le principali cause di invalidità permanente.
Nel 20% circa dei casi, inoltre, anziché verificarsi una ostruzione al flusso di sangue arterioso, si verifica una rottura di un piccolo vaso, responsabile quindi di una
emorragia cerebrale. La circolazione venosa cerebrale invece raccoglie il sangue
dopo che è stato donato l’ossigeno ed i nutrienti, convogliandolo al di fuori del
cranio di ritorno verso il cuore, attraverso le vene giugulari.
L’ultima struttura del sistema nervoso centrale da esaminare è il midollo spinale, che, raccolto e protetto all’interno del canale midollare, è costituito
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anch’esso da un insieme di sostanza bianca (in questo caso all’esterno) e sostanza
grigia (all’interno). Il midollo spinale contiene un insieme di neuroni, posti nella
parte dorsale del midollo spinale, che ricevono informazioni sensoriali direttamente dai recettori posti alla periferia su cute, tendini e muscoli, e le ritrasmettono
cranialmente al tronco cerebrale, cervelletto, talamo e corteccia. Nella parte ventrale del midollo spinale ci sono invece i neuroni motori (o motoneuroni) che ricevono informazioni dalle strutture sovraspinali e sono collegate direttamente con
i muscoli scheletrici del corpo. Il midollo spinale è anche sede dell’arco riflesso
fondamentale per la generazione del tono muscolare antigravitazionale che ci consente di rimanere in piedi, per esempio, o reggerci mentre camminiamo.
3. Uno sguardo al microscopio per comprendere i principi di funzionamento
del sistema nervoso centrale
Sebbene, da quanto detto, sia possibile cominciare a comprendere il funzionamento basilare del sistema nervoso, tuttavia, è solo analizzandolo dal punto di vista
microscopico e cellulare, che si riesce a fare un po’ di luce sui meccanismi alla
base dell’organizzazione funzionale di questa enorme e complessa “macchina”.
La cellula più importante è denominata neurone, ed all’interno del cervello se ne
possono contare oltre cento miliardi (Kandel et al., 2000). Ciascuna di queste cellule nervose è capace di generare autonomamente degli impulsi elettrici a livello
della sua membrana cellulare e, grazie a delle strutture chiamate assone e dendriti,
è in grado di trasmettere o ricevere tali impulsi interconnettendosi con gli altri
neuroni del SNC in una fittissima rete di informazioni. Alla base di questo processo di scambio c’è la sinapsi, cioè quella porzione strutturale del neurone dove,
attraverso il rilascio di neurotrasmettitori ed alla loro interazione con dei recettori
specifici, avviene la comunicazione dell’impulso elettrico tra le cellule. In alcuni
casi, inoltre, il neurone è collegato direttamente attraverso un lungo assone ad una
serie di fibrocellule muscolari, di cui ne determina o meno lo stato di contrazione.
Si parla in questo caso di sinapsi neuromuscolare. Le alterazioni patologiche della comunicazione tra le cellule nervose e le fibrocellule muscolari sono alla base
di alcune gravi malattie come la Sclerosi Laterale Amiotrofica e la Miastenia
Gravis. Intorno ai neuroni si ritrova un’altra popolazione celluare, globalmente
denominata glia e costituita da diversi gruppi cellulari (oligodendrociti, astrociti,
microglia) con la funzione di supporto strutturale e nutrizione dei neuroni, riequilibrio dell’ambiente extracellulare e azione detossificante e di protezione (Kandel
et al., 2000).
4. La veglia ed il sonno
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Questa complessa macchina cellulare, che abbiamo finora descritto, nella quale
informazioni vengono continuamente scambiate come segnali elettrici tra quantità
enormi di cellule, non interrompe mai la sua funzione nel corso della vita, neppure quando si dorme. Il sonno, infatti, non è un semplice momento di ristoro in cui
avviene lo spegnimento di quelle funzioni che erano attive durante la veglia, ma,
secondo le più recenti scoperte nel campo scientifico, è un processo attivo, necessario e fondamentale per la sopravvivenza dell’organismo (Kryger et al., 2010). Il
sonno è un processo dinamico ciclico durante il quale il cervello e tutto
l’organismo attraversano stadi funzionali differenti definiti stadi del sonno. Si distinguono comunemente almeno 3 differenti stati dell’essere in tutti gli animali: la
veglia, il sonno non-REM (NREM), a sua volta suddiviso in stadio 1 NREM
(cioè l’addormentamento), stadio 2 NREM (sonno leggero) e stadio 3 NREM
(sonno profondo o ad onde delta), ed il sonno REM (acronimo dall’inglese: rapid
eyes movements, cioè movimenti oculari rapidi). Il passaggio dalla veglia al
sonno e l’approfondirsi del sonno sono degli eventi che si succedono senza soluzione di continuità e con un andamento ciclico, che si studiano attraverso un
esame denominato “polisonnografia”.
Dal punto di vista neurofisiologico non esiste una struttura cerebrale unica responsabile del processo del sonno o della veglia, ma questi differenti stati sono il
risultato della complessa interazione fra molte aree cerebrali in equilibrio tra loro:
corteccia cerebrale e sistema limbico, talamo, ipotalamo, formazione reticolare
troncoencefalica, locus coeruleus, nucleo del rafe, nucleo del tratto solitario.
Numerose sono state nel tempo e sono ancora oggi le teorie formulate per spiegare il significato del sonno, anche se attualmente non esiste una interpretazione
definitiva ed univoca (Kryger et al., 2010). Le possibili funzioni del sonno secondo le attuali conoscenze sono riassunte nella Tabella 3.
Tabella 3. Possibili funzioni del sonno nei mammiferi.
Funzione di ristoro
Funzione ecologica (cioè protezione dai predatori)
Funzione immunologica (regolazione del sistema immunitario)
Funzione termoregolatoria
Protezione nei confronti della eccessiva stimolazione di alcuni sistemi cellulari
neuronali durante la veglia
Preservazione dell’integrità neuronale (sinapsi e reti neurali)
Consolidamento della memoria
Funzione detossificante attraverso il controllo dell’omeostasi metabolica cerebrale
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5. Conclusione
In conclusione, anche se probabilmente non riusciremo mai a svelare completamente tutti misteri del cervello, grazie agli studi più recenti ed alle tecniche di
studio sempre più complesse ed innovative, oggi sappiamo molte più cose su di
esso che in passato. Sappiamo infatti molte cose su come è diventato ciò che è e
su ciò che il cervello è. Ma soprattutto, oggi, come ieri, sappiamo molte cose su
ciò che il cervello fa: ci rende esseri umani così speciali e diversi gli uni dagli altri, tanto da restare stupiti ed a bocca aperta di fronte alle meraviglie che ci permette di compiere in ogni momento della nostra vita.
Bibliografia
Haines D. (2012). Neuroanatomy: An Atlas of Structures, Sections, and Systems
(8th Edition). Philadelphia: Wolters Kluwer Health/Lippincott Williams & Wilkins.
Kandel, E.R., Schwartz, J.H., & Jessell, T.M. (2000). Principles of Neural Science (4th Revised Edition).New York: McGraw-Hill Medical.
Kryger, M.H., Roth, T., & Dement, W.C. (2010). Principles and Practice of Sleep
Medicine (5th Edition). Philadelphia: Saunders/Elsevier.
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La didattica informale del laboratorio scientifico exhibit e origami
Salvatore D’Arrigo(1) e Antonia De Domenico(2)
(1)
Salvatore D’Arrigo: docente di matematica e fisica presso il liceo scientifico Quasimodo di Messina.
(2)
Antonia De Domenico: esperta nella didattica elementare dell’origami,
Messina.
E-mail: [email protected]
Abstract. Ricerca e sorpresa accomunano i processi di apprendimento a tutti i livelli, in tutti i gradi di scolarità, in tutti i contesti, formali
ed informali.
Se non si vuole correre il rischio di disperdere energie e risorse umane, se si vuole evitare che gli alunni più deboli fuggano dalle scuole
annoiati o che vi restino ma senza maturare competenze, occorre che
la didattica in generale, e quella scientifica in particolare, venga riorganizzata come attività di ricerca, ricca di sorprese e fonte di piacere.
Il laboratorio interattivo prevede la realizzazione di modelli sperimentali, alcuni costruiti con materiale di facile consumo, altri piegando la carta utilizzando la tecnica dell’origami.
“non esiste serratura che non abbia la sua chiave”
1. Il laboratorio scientifico Exhibit
Ciò che caratterizza il laboratorio “exhibit” [1] è l’approccio ludico che non è sicuramente una strategia innovativa nel panorama storico della didattica, ma, se
escludiamo la scuola primaria, ancora oggi è poco utilizzato. Noi crediamo, invece, che l’approccio ludico sia per qualsiasi età il passe-partout che consente di entrare in ogni disciplina facilitando il processo della costruzione del sapere attraverso il saper fare per maturare il saper essere.
Ogni volta che si incontrano difficoltà nell’apprendimento bisognerebbe rivedere le modalità:
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- dell’insegnante nel proporre
- del gruppo classe nel sostenere
- dell’alunno nell’approccio
e abbiamo verificato che l’utilizzo di exhibit risulta essere un comune denominatore facilitatore nelle dinamiche di apprendimento scientifico per entrambi i soggetti. In tal senso l’exhibit integra, sostiene, stimola, introduce, rafforza, by-passa
molti concetti scientifici che normalmente risultano ostici alla comprensione
dell’alunno, specialmente se manca di basi e di metodo.
Per una corretta interpretazione del laboratorio Exhibit è opportuno guardare
alla sua pianificazione suddivisa in tre fasi:
1) Riscaldamento
2) Allenamento
3) Gara
In ognuna di esse il docente assume il ruolo dell’allenatore e, secondo le dinamiche che si sviluppano, si pone in una delle tre posizioni strategiche di leader:
di fronte al gruppo, al centro del gruppo o esternamente al gruppo.
La prima fase di riscaldamento è caratterizzata da un approccio libero informale. In essa il docente predispone l’ambiente di apprendimento sul modello dei
musei scientifici interattivi in modo da favorire le condizioni di ricezione cognitiva lasciando parzialmente liberi gli studenti di “fare”, suggerendo loro
l’interazione con alcuni exhibit, magari in forma di sfida e cercando di provocare,
con opportune tecniche di comunicazione, un sano conflitto ludico.
In quest’ambiente gli studenti sono spinti a entrare più per curiosità che per
obbligo, sentendo la necessità di girare liberamente fra le isole di exhibit oppure
sedersi secondo una distribuzione a ferro di cavallo per meglio favorire la comunicazione visiva e verbale.
In queste condizioni lo studente prova stupore, che oltre a rinforzare la curiosità, innesca la voglia del fare nella logica dell’hands on, la voglia di scoprire giocando con i propri sensi e porsi le prime domande quali input riflessivi da sviluppare in seguito.
La prima fase costituisce l’imprinting cognitivo e a essa è intimamente collegata la seconda fase di allenamento. Quest’ultima è caratterizzata da un approccio
che, sebbene ancora informale, è più sistematico in quanto in essa saranno predisposti percorsi sperimentali, alcuni guidati dallo stesso docente e altri più autonomi da sviluppare da soli o in mini gruppi di ricerca-azione.
Lo studente è quindi sollecitato a porsi delle domande fondamentali sui principi scientifici che governano l’exhibit con il quale sta interagendo. Deve emergere
il bisogno di rompere il giocattolo per vedere come funziona. L’azione dello
smontaggio virtuale deve però essere sostenuta dall’interazione con l’exhibit nella
quale è bene rispettare la consegna del “cosa fare”, “cosa notare” e “cosa accade”.
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Ed è proprio nel “cosa accade” che devono emergere le risposte alle domande poste all’inizio. Sarebbe opportuno che ogni exhibit si potesse anche smontare fisicamente o, almeno, poter leggere distintamente nelle parti che lo compongono.
Se le prime due fasi hanno innescato una risposta emotiva significativa, è il
momento di attivare la terza fase di gara caratterizzata da un approccio più formale nel quale emerge la valenza educativa più tradizionalmente legata alla valutazione per soddisfare anche il docente che così può raccogliere e certificare i
primi frutti della sua azione didattica. In questa fase lo studente, da solo o lavorando in gruppo, deve ricostruire l’exhibit, personalizzarlo e confrontarlo con i
prototipi realizzati dagli altri compagni. Segue un lavoro di squadra per ottimizzare i modelli da sottoporre al pubblico o ad altri studenti nella logica di un ciclo
virtuoso di espansione dell’apprendimento scientifico.
La presenza di uno o più osservatori durante lo svolgimento di ogni fase è sicuramente utile se l’attività ha un suo sviluppo all’interno di un percorso didattico
finalizzato a una mostra finale degli exhibit costruiti. Ciò costituisce
un’importante occasione di feed-back nella quale gli stessi studenti hanno anche
l’opportunità di trasmettere a un pubblico eterogeneo quanto hanno appreso.
2. Il laboratorio scientifico Origami
Un segmento particolarmente significativo del progetto Exhibit è il laboratorio interattivo dedicato agli Origami.
L’origami (dal giapponese “ori-kami”, che significa “piegare la carta”) è una
tecnica di piegatura della carta con la quale si possono realizzare innumerevoli
modelli, molti dei quali si prestano a un’analisi geometrica o come modello matematico o, ancora, come supporti per esperimenti scientifici. Ma oltre alle applicazioni laboratoriali che sono già, di per sé, sorprendenti e determinanti nel processo di apprendimento, l’origami contribuisce in modo altrettanto sorprendente a
costruire o rinforzare un metodo di lavoro condiviso e partecipativo nel quale i
fattori fondamentali sono la concentrazione, l’osservazione, la pazienza, la precisione, la progettazione, l’autovalutazione in itinere e finale; tutti fattori che si ritrovano nelle attività di laboratorio scientifico con la peculiarità che nell’origami
si usa soltanto un foglio di carta e le due mani.
Le attività laboratoriali di origami possono essere adattate a gruppi molto diversi, in funzione del potenziale educativo e psicologico che si vuole attivare e in
relazione agli obiettivi didattici che si vogliono raggiungere. In ogni caso il processo di costruzione dei saperi avviene gradualmente, per tappe che devono garantire a ogni allievo il successo, pur passando da inevitabili errori.
Durante le operazioni di piegatura vissute inizialmente in gruppo, ognuno matura o rafforza l’autostima, nel rispetto delle proprie capacità e nel riconoscimento
dei propri limiti. In un clima di piena collaborazione, vige la regola “vietato non
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copiare” e passa così il messaggio educativo fondamentale per il quale ognuno di
noi è “diversamente abile”.
Per entrambi i laboratori abbiamo sperimentato più di un centinaio di modelli,
la maggior parte dei quali afferiscono a esperienze già realizzate in molti science
center. Per gli exhibit si è sempre cercato di riprodurli con l’utilizzo di materiale
povero andando incontro a inevitabili approssimazioni che però non hanno mai
inficiato la riuscita dell’esperimento laddove si punta più sul suo aspetto qualitativo nel quale si cerca di evidenziare il legame fra cause ed effetti. Per gli origami
la loro riproduzione richiede quasi sempre una rivisitazione delle istruzioni ( diagrammi di piegatura) per renderle di semplice lettura agli studenti, ma ciò non è
sempre sufficiente per garantire l’autonomia di piegatura; più spesso è necessario
accompagnare passo dopo passo (sarebbe meglio dire piega dopo piega) la realizzazione del modello in un rapporto didattico diretto dove le mani del docente esperto si sovrappongono a quelle dello studente. Una volta finito un origami, sarà
necessario ripeterne la piegatura più volte per arrivare ad acquisire la piena consapevolezza di ogni piega, specialmente nei modelli matematici e geometrici.
A titolo di esempio abbiamo scelto due modelli per i quali si riportano le figure dei modelli finiti tralasciando tutti i passaggi recuperabili nei libri dai quali
sono stati tratti:
Parabola origami.
Per realizzare la parabola [2] la prima piega individua l’asse di simmetria verticale, la seconda piega, perpendicolare alla prima e scelta a piacere, la interseca nel
punto che sarà il fuoco della curva. Se si considera il bordo inferiore del foglio
come la direttrice, una terza piega parallela al bordo che riporta il piede dell’asse
di simmetria sul fuoco, individua il vertice della parabola. Di seguito vengono effettuate pieghe che portano sul fuoco quanti più punti possibili appartenenti alla
direttrice ottenendo altrettante tangenti alla curva che così prende forma come inviluppo di rette. È interessante sottolineare due aspetti:
- Ogni piega costituisce, di per se, un’asse di simmetria e ciò sta alla base della
dimostrazione geometrica e algebrica evidenziata in figura dalla quale emerge la definizione euclidea della parabola come luogo geometrico dei punti
equidistanti da un punto, detto fuoco, e da una retta, detta direttrice;
- La parabola, pur essendo definito come un luogo geometrico di punti, in questo modello si presenta come il luogo geometrico delle tangenti ad ogni punto. Ciò valorizza il ruolo strategico e di ricerca della derivata di una funzione
come generica tangente alla funzione stessa.
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Figura 1. La costruzione geometrica origami di una parabola come inviluppo delle sue tangenti.
Pentolino origami.
L’esperimento permette di introdurre in chiave ludica e sperimentale le condizioni
necessarie ma non sempre sufficienti per provocare una combustione. In particolare si evidenzieranno le proprietà fisiche e chimiche della carta e dell’acqua.
Partendo da un foglio di carta quadrato ( va bene un foglio ricavato da un A5/ 80
g.) vengono eseguite una serie di pieghe che danno, via via, tridimensionalità al
modello che si presenta, alla fine, come un recipiente semicubico dotato di manici
per una presa sicura [3]. Se si usa il modello come pentolino per riscaldare u poco
di acqua con un accendino, si vedrà che la carta non brucia e l’acqua si riscalda. È
evidente che l’acqua raffredda il fondo del pentolino impedendo allo stesso di
raggiungere la temperatura critica di combustione. Ciò non impedisce alla carta di
riscaldarsi e annerire evidenziando un lento processo di carbonizzazione che, se
prolungato, potrebbe far sgranare la trama del tessuto della carta e provocarne la
rottura con inevitabile perdita dell’acqua.
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Figura 2. La realizzazione origami di un pentolino di carta da utilizzare come
exhibit di termologia.
Note e Riferimenti bibliografici
[1] D’Arrigo S.(2005). Exhibit “la scienza divertente” in Aa Vv.,
OPERATIVITA’ LUDICITA’ COOPERAZIONE- IDEE PERCORSI E
BUONE PRASSI A SCUOLA, a cura di C.Sirna A.M.Salomon. PENSA
MULTIMEDIA EDITORE, pp 167-192. Lecce
[2] Albrecht Beutelspacher & Marcus Wagner (2009). Piega e spiega la matematica. (pp.41-43). Ponte alle Grazie.
[3] Luisa Canovi, (1993). Origami Multiform . Edizioni Aquiloni Alivola.
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Musica e colore
Laura Franchini(1) e Silvana von Arx(2)
(1)
A.I.F ( Associazione per l’Insegnamento della fisica) - Napoli
Associazione Amici di Città della Scienza - Napoli
(2)
E-mail: [email protected]; [email protected]
Abstract. Un’indagine sulla sinestesia musica-colore, rivolta ad
un gruppo di bambini in età scolare. Sono stati sviluppati esperimenti in cui, mentre alcuni giovani musicisti eseguivano brani
musicali, un gruppo di bambini disegnava.
Si è notata una forte relazione tra il carattere del brano musicale
e i colori e le immagini scelte; inoltre, gli allievi che suonavano
per i compagni che disegnavano, hanno migliorato la loro prestazione artistica ed anche gli allievi con difficoltà scolastiche
hanno partecipato con molto interesse all’attività.
1. La sinestesia
Le nostre brevi esperienze vogliono stimolare la connessione musica - colore - parole, per permettere ai bambini la comunicazione del percepire, del sentire e delle
emozioni in diversi linguaggi.
Per molte persone un'esperienza dei sensi può provocarne subito un'altra. Un
odore richiama un colore, il suono di una lettera dell'alfabeto un colore, una nota
musicale può essere associata a un colore. Questa fusione dei sensi si chiama “sinestesia”.
Figura1. Le zone del cervello attivate dalla musica.
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Da alcuni studi risulta che i sensi del neonato non sono ancora ben differenziati, ma mescolati in una fusione “sinestetica”. Questa “confusione” sembra diminuire, per la maggior parte di noi, nell’arco di tre mesi dopo la nascita con l'organizzazione del cervello in aree dedicate alle diverse funzioni..
2. Numeri, suoni e colori nella storia
Nella scienza antica troviamo elementi sinestetici tra musica e numeri, ad esempio, già in Pitagora, Platone e Aristotele. Pitagora scoprì che i suoni della scala
musicale si trovano tra loro in rapporti numerici precisi: si potevano generare
suoni armoniosi e consonanti dividendo una corda tesa in base a numeri interi
consecutivi.ArAround
Platone sviluppò una cosmologia in cui i raggi dei pianeti conosciuti si trovavano tra loro in rapporti numerici precisi come gli intervalli nella scala musicale
dorica dei Greci. Egli immaginò una cosmologia costituita da otto cerchi concentrici, ognuno con il suo colore e tono; l'ottava nota era una ripetizione della prima
e tutte le sette note suonando insieme producevano la musica delle sfere.
Aristotele fu il primo a suggerire delle formule che associavano alla musica
il colore: ad esempio l’intervallo di quinta (es. do – sol) corrispondeva al rosso. I
colori, per Aristotele, sono una sorta di fuoco che proviene dai corpi; questo fuoco
è formato da particelle più grandi o più piccole di quelle che costituiscono
l’occhio dell’uomo o degli animali. Quando esse sono delle stesse dimensioni di
quelle oculari, i colori non sono visibili ed il corpo è trasparente, se sono più
grandi provocano la contrazione dell’occhio che percepisce il colore nero. Tutti
gli altri colori derivano dalla mescolanza, in vari rapporti, del bianco e del
nero; essi si possono considerare analoghi ai suoni musicali e si può supporre che
siano composti dal bianco e dal nero in proporzioni espresse da semplici rapporti
numerici, analogamente agli accordi musicali; gli altri colori intermedi presentano
rapporti numerici più complessi.
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intervallo
colore
Doppia ottava
nero
dodicesima
violetto
undicesima
blu
ottava
verde
quinta
rosso
quarta
giallo
base
bianco
Figura 2. La corrispondenza intervallo musicale – colore per Aristotele.
Molto tempo dopo (XVII esimo secolo d.c.) un tentativo di individuare scientificamente un’identità comune tra vibrazioni luminose e vibrazioni sonore fu compiuto da Isaac Newton, il quale, constatata la somiglianza tra lo spettro luminoso e
la scala diatonica, lo divise in sette parti e stabilì corrispondenze teoriche tra colore e altezza dei suoni, su una base fisica.
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Figura 3. Spettro luminoso e scala diatonica.
3. Gli organi a colori
Dal XVII secolo si svilupparono ricerche volte a costruire strumenti che associassero i colori alla musica.
Luis-Bertrand Castel scrisse “L’optique des couleurs” in cui studiava la “ fusione” tra musica e colore, anche allo scopo di creare uno strumento che permettesse la formazione di colori durante l’esecuzione di brani musicali. Tra il 1725 e
il 1735 egli presentò il Clavecin oculaire (clavicembalo oculare) che aveva la capacità di dipingere i suoni con i colori ad essi corrispondenti.
In una tastiera muta, ogni tasto era connesso ad un dischetto di vetro colorato;
il tasto, una volta premuto, azionava una tendina che, sollevandosi, permetteva alla luce di colpire il vetro corrispondente, facendone vedere il colore. In tal modo
“un sordo poteva gioire della bellezza di una musica tramite i colori ed un cieco
poteva giudicare dei colori tramite i suoni”.
L’organo a colori di Bishop (1877) permetteva di suonare creando una corrispondenza visiva con luci colorate, proiettate tramite la retroilluminazione di vetri
colorati.
La struttura dell’organo comprendeva un’enorme lastra di vetro smerigliato disposta nella parte alta dello strumento, sulla quale i colori si manifestavano mediante un meccanismo formato da piccole finestre con differenti vetri colorati.
Ogni finestrella era chiusa da un otturatore che, attivato dal martelletto corrispon-
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dente alla nota percossa sulla tastiera, si apriva e faceva colpire la lastra dal colore
correlato alla nota. Lo stesso Bishop ci spiega le corrispondenze cromatiche:
“Sono stato in dubbio nel decidere come creare gli intervalli di colore e quali colori usare, ma infine decisi di impiegare il rosso per C (do) e dividere lo spettro a
colori del prisma in 11 semitoni, aggiungendo il cremisi per B (si) ed un rosso più
brillante per il do dell’ottava superiore.
L’intero effetto era di presentare all’occhio il movimento e l’armonia della musica ed anche i suoi sentimenti”[2].
Nel 1895 il pittore inglese Rimington ideò uno strumento costruito da una
cassa munita di aperture chiuse da vetri colorati; esse si potevano chiudere o aprire con un meccanismo azionato da una tastiera muta che proiettava i colori su uno
schermo bianco.
Figura 4. L’organo a colori di Rimington
4. Scrjabin e Kandinsky: un percorso verso un’arte “totale” e “unica”
Skrjabin e Kandinsky, nella loro ricerca sulle relazioni tra musica e colore, furono
spinti da un’ideologia molto più profonda: essi vagheggiavano una nuova forma
d’arte totale che facesse crollare i muri divisori, pervenisse ad un’arte unica, fatta
di elementi sonori, visivi e plastici (musica, poesia, teatro, danza), cioè alla fusione di tutte le arti. In contrasto con l’opinione di Gauguin, secondo cui la pittura è
la più espressiva delle arti in quanto «capace di un’unità negata alla musica»,
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Scrjabin e Kandinsky affermano il primato della musica sulle altre arti, in coerenza con la corrente di pensiero per la quale solo la musica può raggiungere il territorio dell’ “indicibile” e può stabilire un intimo rapporto con la vera essenza di
tutte le cose.
Kandinsky, esplorando la relazione tra colore e timbro, abbinò al suono di ogni
strumento musicale un colore ed utilizzò anche termini musicali come titoli per i
suoi quadri, come
Figura 5. Accordo reciproco
Per gli stessi motivi, Scrjabin suonava spesso su tasti opportunamente colorati,
lasciandosi trascinare, nell’invenzione musicale, da questo o quel colore e non
dalla nota in sé.
L’idea di Scrjabin era quella di costruire una tastiera per luce che permettesse di
associare ai tasti delle note tradizionali i colori, ai quali egli affidava il suo senso
visionario di sintesi cosmica di suono e luce. Gli elementi di pittoricità presenti
nella musica di Scrjabin sono finalizzati a produrre un particolare fenomeno sensoriale, denominato in inglese colourhearing (“ascoltare il colore”), mediante il
quale si instaura una corrispondenza tra creatore e fruitore dell’opera d’arte.
Il Prometeo
L’ideologia di Scrjabin, in cui la luce ed il colore si identificano con la musica
stessa, trova la sua celebrazione nell’opera “Prometeo”. In essa ogni modulazione
armonica corrisponde ad una modulazione cromatica ed all’orchestra viene affiancato un gruppo “Luce”, che esegue le indicazioni di un pentagramma aggiuntivo, sul quale ad ogni nota corrisponde un colore.
Tuttavia, per il musicista russo, colori e suoni non costituiscono soltanto fenomeni fisici o estetici, ma simboli che racchiudono significati reconditi.
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Sol
Re
La
Mi
Si
Fa #
Re b
La b
Mi b
Si b
Fa
rosa-arancione Gioco creativo
giallo
Gioia
verde
Problema, Caos
bianco-azzurro Sogno
blu perlaceo
Meditazione
blu
Creatività
viola
Volontà
dello Spirito Creatore
viola-porpora Movimento
dello Spirito
grigio acciaio Umanità
bagliore metallico Avidità
entusiasmo
rosso scuro
Differenziazione
di volontà
Impressionanti e costosissime realizzazioni sinestetiche del Prometeo, la cui
durata è di soli circa venti minuti, mettono in evidenza quanto sia cresciuto nel
corso degli ultimi decenni l'interesse per la multimedialità che, grazie ai grandi
progressi tecnologici, permette il contemporaneo sfruttamento di diversi elementi:
suoni, colori, luci, coreografie, poesia.
5. Disegnare ascoltando musica
Le nostre attività, per esplorare gli effetti cromatici della musica, sono state sviluppate con alunni di scuola media inferiore in collaborazione con l’insegnante di
musica.
Per indagare gli effetti delle diverse tonalità, si suonano accordi ad esse relativi, invitando i ragazzi a disegnare; successivamente i ragazzi disegneranno, ascoltando brani di tempo, ritmo e carattere diverso. Inizialmente, il titolo del brano è noto agli ascoltatori; in seguito, invece, vengono eseguiti
brani senza titolo.
Con un gruppo di 20 bambini di diverse età scolare abbiamo rilevato che : a)
se il titolo era noto venivano prodotti disegni con immagini ( figura 6); b)il carattere lento era raffigurato con una campana o con un colore marrone o giallo(figura 7); c) per il carattere allegro erano preferiti i colori chiari, azzurro e rosa.(figura 8)
Interessanti i risultati relativi al rendimento degli allievi, perché si è notato che
i giovani musicisti, che suonavano per i compagni che disegnavano, hanno mi41
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gliorato la loro prestazione artistica e che anche gli allievi con difficoltà scolastiche hanno partecipato con molto interesse all’attività.
Tali esperimenti andrebbero ovviamente ripetuti con un numero di allievi più
alto, affinché si possano trarre conclusioni generalizzabili sui risultati.
Figura 6. Ascoltando brani di titolo noto.
Figura 7. Ascoltando brani lenti.
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Figura 8. Ascoltando brani allegri.
Referenze
O.Sacks (2008). Cap. 14, Musicofilia. Milano: Adelphi
Bainbridge Bishop (1893). A Souvenir of the Color Organ, with Some Suggestion
in regard to the Soul
of the Rainbow and the Harmony of Light. New Russia, Essex Country N.Y.
http// Rythmiclight.com
.
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Uno sguardo dall'esterno. La competenza matematica secondo la scienza cognitiva
Pietro Perconti & Mario Graziano
Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi
Culturali
Università di Messina
E-mail: [email protected]; [email protected]
Riassunto.Secondo alcuni autori, i problemi filosofici della matematica e dei suoi fondamenti debbono essere affrontati “dall’interno”
poiché il ritardo nello sviluppo degli altri domini della filosofia ostacola seriamente qualsiasi tentativo di affrontare il problema della
filosofia della matematica “dall’esterno”, vale a dire considerando
importanti anche le relazioni che essa intrattiene con gli altri campi
del sapere. Tuttavia, questa posizione “ortodossa” sembra oggi sempre meno sostenibile poiché, come evidenziato da molti studiosi, affrontare i problemi filosofici della matematica dall’interno non offre
criteri per stabilire quali problemi matematici abbiano una vera rilevanza filosofica. A partire da queste considerazioni, alcuni “cognitivisti” (ad esempio, Lakoff e Nunez, Dehaene, Devlin, ecc.) pensano
che sia arrivato finalmente il tempo di pensare una filosofia della
matematica nuova, diversa dagli approcci fondazionali; una filosofia
della matematica cognitivamente orientata, secondo la quale non è
sufficiente rendere conto delle definizioni dei concetti matematici e
dei loro assiomi, bensì bisogna chiedersi come questi vengono compresi e quindi dar conto delle idee e dei meccanismi cognitivi soggiacenti.Nostro obiettivo sarà quello di esaminare pregi e limiti di
questi approcci.
Abstract. According to manytheorists, the issues of the philosophy
of mathematics should be dealed with from an “inside perspective”,
because the delay in the development of other areas of philosophy
seriously hampered all efforts made in order to deal with these problems from ‘the outside’, which means considering as important factors also the relations that philosophy of mathematics has with other
domains of knowledge. However, this conventional approach today
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seems fairly unsustainable. Indeed, many researchers claim that discussing the philosophical problems of mathematics from the inside
does not offer the necessary criteria to establish what kind of mathematical problems have genuine philosophical relevance.Starting
from these considerations, some “cognitivists” (e.g., Lakoff and
Nunez, Dehaene, Devlin, etc.) suggest that the time has finally come
to devise a new kind of philosophy of mathematics that differentiate
itself from the foundational approaches. A cognitively oriented philosophy of mathematics that does not only seek to explain the definitions of mathematical concepts and their axioms, but instead looks
into how these concepts are understood, thus aiming at explaining
the ideas and cognitive mechanisms hidden behind these concepts.The aim of this article is to examine the pros and cons of these
approaches.
1. Introduzione
Secondo alcuni autori, i problemi filosofici della matematica debbono essere affrontati “dall’interno” poiché il ritardo nello sviluppo degli altri domini della filosofia ostacola seriamente qualsiasi tentativo di affrontare il problema della filosofia della matematica “dall’esterno”, vale a dire considerando importanti anche le
relazioni che essa intrattiene con gli altri campi del sapere1. Tuttavia, questa posizione “ortodossa” sembra oggi sempre più insostenibile poiché, come evidenziato
da molti altri studiosi2, affrontare i problemi filosofici della matematica
dall’interno non offre sufficienti criteri per stabilire quali problemi matematici
abbiano una vera rilevanza filosofica. Pertanto, seguendo questa ulteriore prospettiva, una filosofia della matematica è possibile solo come parte di una filosofia
generale, in cui debbono essere debitamente affrontate molte questioni “esterne”.
Persino un formalista convinto come il filosofo della matematica contemporaneo
Saunders Mac Lane scrive che “la matematica è iniziata da varie attività umane
che suggeriscono oggetti ed operazioni (addizione, moltiplicazione, confronto di
misure) e così conducono a concetti (numeri primi, trasformazioni) che quindi sono inseriti in sistemi assiomatici (aritmetica di Peano, geometria euclidea, il sistema dei numeri reali, teoria dei campi ecc.). Risulta che questi sistemi codificano proprietà più profonde e non evidenti delle varie attività umane che ne sono
all’origine” (Mac Lane, 1981, pag. 462)e ancora: “….questo [primo] capitolo,
1 Beth, E. W. (1959). The Foundations of Mathematics. A Study in the Philosophy of Sci-
ence. North-Holland, Amsterdam, p. 614
2 Cfr. C. Cellucci, (2008). Perché ancora la filosofia. Laterza, Bari-Roma.
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partendo dallo studio di numero, spazio, tempo e moto ha condotto alla descrizione di diverse nozioni formali. Queste nozioni formali nascono in larga misura da
interessi pre-matematici che possono benissimo essere descritti come “attività culturali umane”. Per questa ragione, la nostra analisi della genesi della Matematica
metterà in evidenza un certo numero di tali attività. Spesso chiarisce molto il dire
che un’attività dà origine in un primo momento a qualche “idea” nebulosa che alla
lunga viene formalizzata, eventualmente formalizzata in più di un modo. Per esempio il processo di contare suggerisce l’idea del “successivo” -- il prossimo oggetto da contare o il prossimo numero da usare o la prossima cosa in una qualsiasi
lista ordinata. L’idea di “successivo” appare poi in altre forme: il primo ordinale
al di là di un dato insieme di ordinali, il prossimo passo in un programma per calcolatore”(Mac Lane 1986, pag. 34).
Sempre nella stessa ottica, Reuben Hersh (2001) critica invece alcuni “miti” della
matematica quali unità, universalità, certezza ed oggettività poiché convinto della
natura umana della matematica, della sua non infallibilità. Secondo Hersh, infatti,
gli oggetti matematici sono stati creati dagli esseri umani non arbitrariamente, ma
a partire dalle attività che si possono fare con essi nella vita quotidiana.
Pertanto, sembra provenire da più parti il monito che essere filosofi della matematica “a tempo pieno” possa poter significare avere un’idea unilaterale ed impoverita della matematica. Come chiarisce, infatti, Carlo Cellucci: “È vero che, a partire da Frege, la filosofia della matematica è stata sviluppata come una disciplina
autonoma, e che Frege è stato «il primo filosofo della matematica a tempo pieno».
Ma questo non significa che sviluppare la filosofia della matematica come una disciplina autonoma sia una buona idea, né che essere un filosofo della matematica
a tempo pieno sia una buona cosa” (Cellucci, 2007, pag. 5-6).
Forse un modo per uscire dalle ristrettezze di sviluppare la matematica come una
disciplina autonoma potrebbe consistere nel ricorrere ai dati che provengono dalle
ricerche condotte in seno alle scienze cognitive. Recentemente, infatti, esse sembrano aver portato una luce nuova su alcune questioni che sono stati campi di ricerca tradizionali della filosofia della matematica come, per esempio, la comprensione del concetto di numero o la concezione che ci formiamo degli oggetti
matematici.
Quello che in definitiva viene proposto dai molti scienziati cognitivi è una filosofia della matematica cognitivamente orientata, secondo la quale non è sufficiente
rendere conto delle definizioni dei concetti matematici e dei loro assiomi, bensì
bisogna chiedersi come questi vengano effettivamente compresi e quindi dar conto delle idee e dei meccanismi cognitivi soggiacenti3. Naturalmente, individuare i
meccanismi cognitivi che permettono di capire la matematica non equivale a
3 Cfr. Lakoff & Nunez, 2005; Dehaene, 2010; Devlin, 2007.
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spiegare cosa significano i costrutti della matematica. Tuttavia, nonostante questo
limitedichiarato, gli scienziati cognitivi sono convinti che il loro lavoro sia ugualmente importante, in quanto la bellezza e la profondità della matematica risultano a volte essere inaccessibili (soprattutto ai non matematici) proprio a causa
dell’assenza di una descrizione della struttura cognitiva della matematica o a causa di una mancanza di descrizione dei meccanismi del cervello e della mente umana che permettono di formulare idee matematiche o di ragionare matematicamente.
D’altronde, questa idea sembra anche essere filosoficamente giustificata. Infatti,
quale che sia la matematica che facciamo, essa dipende essenzialmente da quale
apparato percettivo, mente, ecc., disponiamo. Pertanto, se tutto ciò è vero, diviene
auspicabile che l’analisi venga approfondita proprio su quest’ultimo aspetto, cioè
verso proprio quei meccanismi cognitivi e possibilmente cerebrali sottostanti i costrutti matematici.
Tuttavia, gli scienziati cognitivi non sembrano essere particolarmente interessati
agli aspetti filosofici della questione. Infatti, è convinzione di molti neuroscienziati che soltanto la scienza cognitiva - o meglio lo studio interdisciplinare di mente/cervello sostenuto ed avallato da una moltitudine di ricerche neuroscientifiche e
di psicologia cognitiva - e non la filosofia, può dare una risposta alla domanda
sulla vera natura della matematica.
Ma questa convinzione porta con sé non pochi problemi. Il primo di questi è di
natura essenzialmente metodologica. È bene chiarire, infatti, che nella scienza cognitiva confluiscono studiosi provenienti da diversi ambiti quali, ad esempio, la
filosofia, le neuroscienze, la psicologia, la linguistica, l'intelligenza artificiale e la
biologia evoluzionista, solo per citare gli ambiti disciplinari che hanno fornito i
contributi più significativi. Per quanto riguarda gli studi sulla cognizione numerica, il metodo principale consiste senza dubbio nell’esperimento controllato di laboratorio. Tuttavia, il metodo dell’esperimento controllato, pur avendo contribuito
notevolmente allo sviluppo delle scienze naturali incontra problemi enormi quando deve trattare i fenomeni matematici. Questi ultimi, infatti, risultano essere ampi, sfaccettati e complessi rispetto a quei fenomeni che di fatto è possibile replicare, manipolare e controllare nei contesti sperimentali. Ma pur postulando che con
un po’ di ingegno si possano un giorno riprodurre in piccola scala e studiare in tal
modo in laboratorio fenomeni a prima vista inadatti a qualsiasi approccio sperimentale, come quelli chiamati in causa dalla competenza matematica, si imporrebbero ugualmente delle enormi semplificazioni, sia per garantire il controllo
delle variabili in gioco, sia per assicurare le condizioni di fattibilità della ricerca.
Per esempio, bisognerebbe ridurre il più possibile i tempi, le conoscenze di sfondo e l’impegno richiesto ai soggetti coinvolti in un esperimento per assicurare la
comprensione delle prove che vengono loro proposte. Impiegare, pertanto, il me47
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todo sperimentale nello studio dei processi di pensiero matematico è impresa che
non è esente da difficoltà e da limiti di interpretazione dei dati. Dal punto di vista
metodologico, l’evidenza sperimentale deve indicare in maniera non ambigua
“quella” particolare ipotesi, il che vuol dire che la probabilità di osservare quel tipo di evidenza qualora l’ipotesi fosse falsa deve essere molto bassa. Pertanto, è
plausibile che il metodo sperimentale sia più efficace quando mette alla prova ipotesi “locali” o di “basso livello”. La costruzione di modelli più generali sembra
possibile soltanto nel corso di un lungo programma di ricerca e solo dopo una
gran mole di esperimenti.
Oltre ai problemi che derivano dal metodo dell’esperimento controllato, che come
abbiamo visto non sempre è così rigido e metodologicamente rivendicabile, vi è
un altro fattore di preoccupazione quando si è tentati di cedere al fascino di inglobare i dati sperimentali nelle ricerche matematiche. Il fatto è che, così facendo, si
rischia di perdere la dimensione normativa che è così importante in matematica,
soccombendo ad una epistemologia descrittiva che riduce la matematica a un “capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale”. Quest’ultimo punto di vista viene riassunto benissimo dal filosofo Marco Panza che a proposito dell’uso
che Penelope Maddy fa degli esperimenti del neuroscienziato cognitivo Stanislas
Dehaene scrive: “Maddy si richiama dunque ai risultati di certi esperimenti relativi alla cognizione numerica. Se l’esito di questi esperimenti è unanimemente attestato, la sua interpretazione è molto più controversa. Spesso si ritiene di aver mostrato qualcosa a proposito del modo in cui si formano le nostre credenze sui
numeri per il solo fatto di aver osservato comportamenti che possono venir descritti usando concetti aritmetici. Ma una cosa è il modo in cui certi fenomeni si
possono descrivere qualora si possa e si voglia impiegare un certo sistema di concetti; un’altra sono le cause effettive, in questo caso neuronali e fisiologiche, di
quei fenomeni” (Panza e Sereni 2010, p.170).
Ciò che ci accingiamo a proporre nelle prossime pagine è un tentativo di risposta
a questi problemi, indicando timidamente una sorta di “terza via” che si pone come alternativa sia al ritorno ad una filosofia della matematica autonoma sia ad
un’acritica adesione all’idea che i dati che provengono dalle scienze cognitive
possano da sole spiegare tutto quanto di interessante vi è da sapere sulla matematica e sulle sue costruzioni. Una terza via in cui la filosofia si assume il compito
gravoso di contribuire a descrivere e spiegare ciò che vi è di specifico o di uguale
tra i differenti tipi di spiegazione matematica avanzati. Nello specifico, in questo
saggio, ci concentreremo su una delle scoperte più rimarchevole fatte in seno alle
scienze cognitive, vale a dire l’esistenza di una matematica innata che è presente
negli organismi fin dalla nascita.
2. Il sistema approssimativo e quello esatto
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A partire dalle più recenti scoperte neuroscientifiche, gli scienziati cognitivi considerano la conoscenza matematica un esempio paradigmatico di conoscenza innata (Spelke & Kinzler, 2007). È soprattutto il caso, tra i molti altri, di Stanislas
Dehaene che insieme ai suoi collaboratori ha sviluppato una teoria secondo la
quale si postula la presenza di due diversi sistemi di rappresentazione numerica: il
sistema approssimativo-analogico che permette un conteggio approssimativo, non
esatto, delle quantità numeriche e il sistema esatto-simbolico. Il primo sistema è
indipendente dalla cultura e dal linguaggio ed è reso possibile da unabase neurofisiologica apposita preposta alla percezione e alla rappresentazione delle quantità
numeriche, le cui caratteristiche la collegano alle facoltà proto-aritmetiche presenti nei neonati e negli animali. Il secondo sistema, al contrario, dipende dalla cultura e dall’apprendimento di simboli e regole, quindi è strettamente legato al linguaggio ed è perciò tipico degli esseri umani adulti (Dehaene, 1997).
Dehaene ipotizza che gli esseri umani vengano al mondo provvisti di un “senso
dei numeri”, vale a dire di una forma elementare di intuizione numerica, presente
già nei bambini al momento della nascita e che condividiamo con varie specie animali. Questa particolare facoltà è espressione del funzionamento di un “organo
mentale”, l’accumulatore, vale a dire una sorta di contatore approssimativo che ci
permette di percepire, memorizzare e confrontare le grandezze numeriche (Dehaene, 1997). Per capire meglio come funziona l’accumulatore è utile riprendere la
metafora del serbatoio d’acqua utilizzata dallo stesso autore. Secondo il neuroscienziato francese dovremmo immaginare ciascuna entità che deve essere contata, come una quantità d’acqua che viene aggiunta in un serbatoio; segnando il livello dell’acqua del serbatoio sarà possibile confrontare raccolte di diverse
dimensioni. Allo stesso modo sarà possibile effettuare anche le operazioni di addizione e sottrazione semplicemente aggiungendo o levando una quantità d’acqua.
L’accumulatore opererebbe, pertanto, registrando eventi: una “goccia d’acqua”
per ogni evento. In questo modo numeri diversi verrebbero rappresentati da livelli
diversi; tuttavia, poiché tale sistema non riesce a rappresentare il livello esatto di
impulsi, il funzionamento di questo meccanismo sarà caratterizzato da due diversi
effetti: l’effetto distanza e l’effetto grandezza. Infatti, più la differenza tra i due
insiemi da confrontare sarà minima, maggiore sarà il livello di difficoltà nel distinguerle (effetto distanza). Allo stesso modo sarà più difficile distinguere questi
insiemi quanto più saranno maggiori le dimensioni (effetto grandezza).
L’accumulatore non riesce quindi ad essere preciso poiché esso non riuscirebbe a
rappresentare il livello esatto di impulsi. Questa capacità non simbolica, indipendente dal linguaggio, inerentemente approssimativa delle quantità è presente, come viene mostrato da un largo insieme di dati sperimentali, anche negli altri animali (piccioni, topi, corvi, primati non umani), nonché nei bambini fin dalla
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nascita4. Il “senso dei numeri”, eredità importante della nostra storia evolutiva, è
da Dehaene considerato il germe che favorisce l’emergere delle successive abilità
matematiche.
Ma qual è il rapporto tra l’accumulatore e l’evoluzione delle conoscenze matematiche? In altre parole, quali risorse cognitive ci consentono di oltrepassare
l’approssimazione codificata geneticamente nel nostro cervello ed apprendere il
rigore delle conoscenze aritmetiche esatte? Per rispondere a queste domande, Dehaene riporta una serie di esperimenti con l’intento di mostrare come la nostra capacità di calcolo utilizzi risorse differenti per la rappresentazione dei primi tre
numeri interi positivi, ossia“uno”, “due” e “tre”. Secondo l’autore, gli esseri umani non contano i numeri fino a tre, bensì essi ne percepiscono immediatamente la
presenza in quanto sono quantità che il nostro cervello percepisce senza sforzo e
senza far di conto. Il termine tecnico per indicare questo processo è subitizing,
termine che deriva dal latino subitus e sta ad indicare un processo rapido e accurato di riconoscimento della numerosità di insiemi costituiti da un massimo di 6 elementi.
Il subitizing è ancora oggi un processo molto discusso e controverso. Alcuni studiosi, ritengono che esso sia dovuto alla percezione immediata di configurazioni
spaziali, secondo cui la quantità “2” non può che essere rappresentata tramite un
punto, due punti formerebbero necessariamente una linea, mentre il tre sarebbe
identificato immediatamente in una configurazione di tipo triangolare. Il 4, infine,verrebbe “subitizzato” esclusivamente quando può essere visualizzato in una
configurazione canonica come un quadrato o un triangolo con un punto al centro.
Al di là del 4 la variabilità delle configurazioni aumenta, rendendo in questo modo impossibile il riconoscimento immediato (Mandler & Shebo, 1982). Al contrario, per altri autori come, ad esempio, Gallistel e Gelman (1992), la subitizzazione
non è altro che una enumerazione molto rapida che utilizza delle etichette non
verbali, vale a dire un conteggio pre-verbale e innato. La controversia su come
funzioni realmente il subitizing è nata dagli esperimenti intesi a testare la capacità
dei bambini di riconoscere (osservando la scena per maggior tempo) eventi fisicamente impossibili, condotti dalla ricercatrice americana Karen Wynn (1992). In
questi esperimenti, bambini di 5 mesi d’età osservavano un teatrino per i pupazzi
4 Sotto l’influenza di Piaget e della corrente “ costruttivista” (Piaget, 1952), si è per molto
tempo pensato che il bambino nascesse vergine di tutte le conoscenze sul mondo. Negli
ultimi 25anni, il modello piagettiano è stato rimesso in discussione per l’evidenza di alcune capacità numeriche negli animali e nei bambini: numerosi lavori hanno, infatti,
mostrato che non solo gli animali ed i bambini sono capaci di rappresentarsi il numero in
maniera approssimativa, ma che questa capacità chiama in causa strutture cerebrali simili tra le varie specie.
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con uno schermo che poteva alzarsi e abbassarsi. Inizialmente, il teatrino era vuoto e la ricercatrice vi posizionava un pupazzo, dopodiché veniva fatto salire lo
schermo in maniera tale da nascondere la scena e introdotto un secondo pupazzo.
A questo punto, lo schermo veniva riabbassato e si mostravano ai bambini i due
pupazzi. La sequenza veniva ripetuta parecchie volte ma in alcuni casi i pupazzi
mostrati ai bambini rappresentavano dei risultati impossibili (ad esempio, 1 + 1 =
3 oppure 1 + 1= 1). In questi casi, i bambini osservavano la scena più a lungo rispetto a quando comparivano i due pupazzi abituali. Wynn ottenne gli stessi risultati anche quando modificò la procedura sperimentale per testare la capacità dei
bambini di comprendere la sottrazione. Pertanto, in questo esperimento era il numero esatto d’oggetti a guidare il comportamento dei bambini e non una distinzione approssimativa (per esempio, un solo pupazzo vs. molti pupazzi), in entrambi le condizioni testate, Wynn notava, alla fine della prova, un interesse
maggiore dei bambini quando il risultato rivelato presentava una incongruenza
numerica.
Figura 1. Il setting sperimentale di Karen Wynn
È bene evidenziare che questo esperimento, che aveva come obiettivo quello di
mostrare che i bambini sapevano calcolare i risultati di semplici operazioni aritmetiche, ha dato vita ad almeno tre possibili teorie che avanzano tre diverse spiegazioni dei comportamenti osservati. La prima teoria, proposta dalla stessa Wynn,
avanza la tesi di una rappresentazione astratta della numerosità, secondo cui i
bambini rappresentano ciascuna quantità realizzando su queste delle operazioni
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mentali. Una seconda spiegazione è stata proposta da Alan Leslie e i suoi colleghi
(Leslie et al., 1998) e da Tony Simon (1999) e si ispira alla teoria degli “indicatori
attenzionali” (object files). Secondo questa teoria si individua un oggetto grazie
appunto ad un “indicatore” che ci permette di seguire degli oggetti nei loro spostamenti in maniera tale che possiamo legare le diverse percezioni, ripartite nel
tempo e nello spazio, dello stesso oggetto. Pertanto, i bambini possiedono una
sorta di fisica innata che ha come compito di assicurare la sensazione della permanenza degli oggetti (anche quando questi vengano temporaneamente nascosti).
I bambini, infatti, seguono gli oggetti che vengono loro presentati e adattano la loro attenzione quando dei nuovi oggetti vengono aggiunti o ritirati. Inoltre, sempre
secondo la teoria degli indicatori, i bambini mostrano d’essere capaci d’inferire
alcune informazioni numeriche a partire dalle proprietà fisiche delle traiettorie
degli oggetti: così, quando vengono loro mostrati due oggetti, uno di seguito
all’altro, i bambini non hanno lo stesso tipo di attenzione se i due oggetti vengono
nascosti dietro lo stesso schermo o se vengono celati dietro due schermi differenti.
Nel secondo caso, infatti, i bambini sanno che dietro gli schermi ci sono 2 oggetti,
mentre nel primo caso si attendono un solo oggetto (Splelke et al., 1995). Il numero degli indicatori simultaneamente disponibili è però limitato a 4 e questo
permette di spiegare perché è impossibile seguire simultaneamente più di 4 oggetti di uno stesso gruppo in movimento. Ecco perché se dopo aver aggiunto 3 o 4
oggetti se ne aggiungesse ancora un altro, il bambino perderebbe l’accesso alla
numerosità poiché, appunto, non restano disponibili altri indicatori (Feigenson et
al. 2002).
A partire dagli indicatori è possibile, quindi, inferire la numerosità degli insiemi
d’oggetti (ad esempio, due insiemi d’oggetti si possono confrontare operando una
corrispondenza termine a termine a livello di indicatori) e fare alcune operazioni,
ma non ci permette di rappresentare la numerosità. Pertanto, secondo Simon
(1999), i bambini dell’esperimento di Wynn, hanno utilizzato inizialmente il sistema degli indicatori per seguire gli oggetti presenti sulla scena, attivando un
nuovo indicatore supplementare quando è stato aggiunto un altro oggetto agli oggetti iniziali. In questo modo i bambini si mostravano sensibili alla numerosità,
senza che questa fosse direttamente rappresentata. È utile, comunque, sottolineare
che questo limite non si presenta negli esperimenti condotti con oggetti separabili.
Citiamo a questo proposito lo studio di Wynn e di alcuni colleghi (Wynn et al.,
2002) in cui a dei bambini vengono mostrati su uno schermo alcuni filmati raffiguranti diversi insiemi di punti. Durante la fase iniziale dell’esperimento si muovono indipendentemente sullo schermo 2 (o 4) insiemi di 3 punti; in seguito i
bambini vengono testati con due tipi di stimolo: 2 gruppi di 4 punti o 4 gruppi di 2
punti. In entrambi i casi gli stimoli possiedono lo stesso numero di punti e, pertanto, nessun parametro permette la distinzione eccetto quello del numero dei gruppi
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presentati. Ebbene, i bambini arrivano a distinguere i due diversi tipi di stimolo,
mostrando che non hanno problemi a trattare la numerosità quando i passaggi da
calcolare non sono direttamente associati a particolari oggetti.
Infine, la terza teoria è quella di Cohen e Marks (2002) i quali hanno interpretato i
dati di Wynn come il risultato di un processo di “basso profilo”, vale a dire come
una prova della preferenza mostrata dai bambini per gli stimoli che vengono presentati per ultimi. Secondo questi autori, infatti, i bambini guardavano per più
tempo il risultato “1” nella condizione “1+1=2 vs. 1”, non perché erano sorpresi
ma semplicemente perché avevano visto una figura all’inizio della prova e venivano pertanto attratti quando essa si trovava sulla scena. La dimostrazione più eloquente di una continuità di rappresentazione tra piccole e grandi numerosità è
comunque da attribuire allo stesso Dehaene che insieme ai suoi colleghi (Piazza et
al., 2004), utilizzando la registrazione dei potenziali evento correlati, hanno testato dei bambini di età variabile dai 94 ai 124 giorni sia su delle numerosità grandi
(4, 8 e 12), sia delle numerosità piccole (2 e 3). In particolare, nella prima fase
dell’esperimento veniva mostrata ai bambini un’immagine iniziale contenente da
2 a 5 stimoli per un tempo di circa 1500 ms e successivamente, dopo questa prima
fase di abituazione, veniva presentata una seconda immagine contenente una numerosità nuova. I dati ottenuti attraverso l’esame dell’attività cerebrale dei bambini hanno mostrato lo stesso effetto per tutti la serie di test realizzati impiegando
stimoli uditivi, visivi, presentati sequenzialmente o simultaneamente, di piccole o
grandi numerosità, evidenziando in tal modo delle rappresentazioni numeriche di
un alto livello di astrazione, comune ai differenti formati degli stimoli, senza distinzione tra piccoli e grandi numerosità. Pertanto, contrariamente ad un insieme
di risultati comportamentali (Feigenson et al., 2004), i dati ottenuti da Dehaene
suggeriscono che i bambini hanno accesso a rappresentazioni numeriche sia per le
piccole che per le grandi numerosità.
A partire da queste considerazioni, Stanislas Dehaene avanza l’idea che questi due
sistemi cognitivi di base (core systems), in cui il primo (accumulatore) ci permette
di rappresentare in maniera approssimativa le numerosità con un numero arbitrario di oggetti ed il secondo (subitizing) ci permette di rappresentare un numero
molto ristretto di oggetti in maniera molto precisa, permettono da un punto di vista filogenetico e ontogenetico, l’esistenza dell’aritmetica formale. In altre parole,
secondo l’autore, questi due sistemi “spiegano le nostre intuizioni numeriche di
base che servono da fondamento per i concetti numerici più sofisticati unici
all’uomo” in quanto “la numerosità ci è tanto imposta come le altre dimensioni
fondamentali del mondo costruiti dal nostro sistema nervoso: come la nostra percezione dei colori, del suono, o dello spazio, il senso dei numeri può essere considerato come una categoria di conoscenza biologicamente determinata” (Dehaene
2001, p.3). I sistemi di base, pertanto, secondo Dehaene debbono essere due, tanto
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è vero che nella postfazione alla seconda edizione del suo libro più famoso, tradotto in italiano con il titolo “Il pallino della matematica”, egli scrive: “Attualmente si conviene che noi disponiamo non di uno ma di due sistemi per rappresentare un numero di oggetti senza contarli. Il sistema dei piccoli numeri, talvolta
detto di tracciamento degli oggetti, rappresenta solo insiemi di 1, 2, 3 elementi. Ci
consente di tracciarne le traiettorie con precisione e ci dà, quindi, un modello
mentale esatto di ciò che avviene quando un oggetto si muove entrando o uscendo
da un insieme. Il sistema di approssimazione, d’altra parte, può rappresentare
qualsiasi numero, grande o piccolo, e ci permette di confrontarli o di combinarli
con operazioni approssimate” (Dehaene, 2010, p. 297).
Tuttavia, riguardo la subitizzazione, come specifica sempre nella stessa postfazione l’autore, un errore è stato commesso, in quanto “un interessante indizio, tuttavia, è che, contrariamente a quanto pensavamo un tempo, non è indipendente dalla nostra attenzione”. Pertanto, secondo l’autore, è illusorio pensare che la
subitizzazione è davvero automatica come si pensava bensì “lungi dall’essere preattenzionale e non richiedere sforzo, la subitizzazione ha bisogno dell’attenzione.
Possiamo selezionare un piccolo numero di elementi e anche seguirli nel tempo,
ma questo grava sulla nostra attenzione” (Dehane, 2010, p. 298). E ancora: “Allora, come funziona la subitizzazione? La ricerca attuale indica che abbiamo tre o
quattro alloggiamenti di memoria in cui possiamo temporaneamente posizionare
un puntatore verso una qualsiasi rappresentazione mentale. Questa sorta di archivio è detto memoria di lavoro, un supporto transitorio che per un breve momento
mantiene on line un oggetto nel pensiero”(Dehaene, 2010, p. 299). In altre parole,
secondo Dehaene, fin quando siamo dinanzi massimo a tre oggetti, la memoria di
lavoro possiede degli “alloggiamenti” che ne permettono la stima esatta. Quando
si superano tuttavia 3 o 4 oggetti, ecco che interviene il secondo sistema che diversamente dal sistema dei “file-oggetto” non è più preciso, in quanto tratta questi
oggetti come “rumori” per cui “sette o otto si sovrappongono, mentre due e otto lo
fanno molto meno” (Dehaene, 2010, p. 299).
Come abbiamo detto, il dibattito su come funzioni realmente il processo di subitizzazione è ancora in corso;tuttavia, ciò che al contrario sembra non essere più in
dubbio è l’esistenza di una capacità dei bambini ancor prima della comparsa di un
sistema di conteggio verbale che si manifesta con la rappresentazione di un valore
cardinale dell’insieme, della loro innata capacità di una rappresentazione della
trasformazione di un insieme (addizione e sottrazione) e la comprensione delle relazioni tra due numerosità. Infatti, l’insieme di questi dati sperimentali ha evidenziato che i bambini (così come alcuni animali), molto precocemente, sono dotati
di capacità numeriche preverbali che permettono loro di apprendere alcuni eventi
del loro ambiente. Tuttavia, anche se in alcuni passi, Dehaene sembra affermare
che il circuito della quantità approssimativa è il circuito matematico di base, vale
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a dire quello su cui si fondano tutte le nostre rappresentazioni matematiche “in
quanto forniscono all’uomo un mezzo di partenza che permette l’acquisizione dei
simboli numerici” (Piazza et al., 2004, p. 6), in ogni caso, quando si tratta di numeri “esatti” anche Dehaene ipotizza sul ruolo fondamentale del linguaggio e della cultura. Più esplicitamente, Dehaene ed i suoi collaboratori suppongono che
“Tutti i bambini nascono con una rappresentazione della numerosità che dà loro il
significato di base della quantità numerica. L’esposizione al linguaggio, alla cultura ed all’istruzione matematica, li conduce all’acquisizione di domini di competenza addizionali come, ad esempio, un dizionario di parole per i numeri, un insieme di cifre per la notazione scritta, procedure di calcoli, e così via” (Dehaene,
2001, p. 12).
3. Esperimenti e visioni filosofiche
Alcuni scienziati cognitivi, basando le loro conclusioni su quello che considerano
un corpus di dati incontrovertibili frutto dei risultati di numerosi esperimenti, finiscono volutamente con il dimenticare l’impatto che queste scoperte hanno o dovrebbero avere sulla nostra visione di cos’è la matematica e, in definitiva, sulla filosofia della matematica. Tuttavia, quest’ultima considerazione non sembra
riguardare Stanislas Dehaene che in virtù della dinamica interna del suo approccio
e contrariamente a molti suoi colleghi, assume una posizione filosofica chiara ed
esplicita, tanto da asserire che “fra tutte le teorie sulla natura della matematica, mi
pare che l’intuizionismo sia quello che meglio spiega i rapporti tra l’aritmetica e
l’organizzazione del cervello umano. Le ricerche di questi ultimi anni sulla psicologia dell’aritmetica hanno portato, a sostegno dell’ipotesi intuizionista, nuovi argomenti che, evidentemente, né Kant né Poincaré potevano conoscere” (Dehaene
2010, p. 263).
A partire, infatti, dalle ricerche che attestano il fatto che i bambini vengono al
mondo con meccanismi innati di individuazione degli oggetti e di estrazione della
numerosità da piccoli insieme, che questo innato “senso dei numeri” si può trovare anche in altri animali e che, quindi, risulta essere indipendente dalla capacità di
linguaggio, il neuroscienziato francese non esita a definire le sue ricerche un
“programma di ricerca kantiano” in quanto mira a comprendere come nascono le
intuizioni che rendono possibili tutte le esperienze, quali sono i loro correlati neuronali e come queste possono essere successivamente modificabili in virtù
dell’istruzione e dell’apprendimento (Dehaene& Brannon, 2011). Egli, infatti,
specifica che “from grid cells to number neurons, the richness and variety of the
mechanisms used by animals and humans, including infants, to represent the dimensions of space, time and number is bewildering and suggests evolutionary
processes and neural mechanisms which may universally give rise to Kantian intuitions”(Dehaene & Brannon, 2011, p. iX).
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L’autore riporta, infatti, tutta una serie di dati sperimentali atti a dimostrare che
numeri, spazio e tempo interagiscono nel cervello, ipotizzando, quindi, a più riprese che l’essere umano viene al mondo con svariate intuizioni sul numero, gli
insiemi, le quantità continue, l’iterazione, la geometria dello spazio. Una delle
scoperte più rimarchevoli a questo proposito riguarda come il pensare un numero
influisca sul modo in cui prestiamo attenzione allo spazio. Questo stretto collegamento viene, infatti, mostrato sperimentalmente attraverso il cosiddetto effetto
SNARC (Spatial-Numerical Association of Response Codes), secondo il quale i
piccoli numeri sono inconsciamente associati al lato sinistro del corpo ed i numeri
grandi al lato destro (Dehaene et al., 1993). Un compito classico per testare se
siamo in presenza di un effetto SNARC consiste nel classificare un numero come
pari o dispari premendo un pulsante o con la mano destra o con la sinistra. In questo test vengono presentati (uno alla volta) dei numeri da 1 a 9 su uno schermo. Si
osserva che i soggetti rispondono più velocemente per le cifre da 1 a 4 quando
devono premere il bottone con la mano sinistra; viceversa per i numeri da 6 a 9
sono più rapidi quando il bottone si deve premere con la mano destra. Tutto questo accade come se le cifre fossero state categorizzate dai soggetti in piccoli e
grandi benché il compito sperimentale non facesse appello a questa nozione di
quantità. Inoltre, si è ugualmente mostrato che l’orientamento dei numeri è sensibile all’influenza culturale: i soggetti iraniani, ad esempio, abituati a scrivere da
destra a sinistra, presenteranno un effetto SNARC inverso in rapporto agli occidentali.
Un aspetto interessante di queste ricerche è consistito nel capire se le associazioni
spaziali siano una caratteristica esclusiva dei numeri oppure se tali associazioni si
possono formulare anche con stimoli non numerici ordinati in maniera sequenziale come, ad esempio, le lettere dell’alfabeto, i giorni della settimana, le note musicali, ecc. In uno studio di Wim Gevers è stato mostrato che anche le lettere
dell’alfabeto e i mesi dell’anno possono esibire un classico effetto SNARC (Gevers et al., 2003), mentre le note musicali possono esibire l’effetto SMARC (Spatial Musical Association of Response Codes, Rusconi et al., 2006). Come viene
chiarito sempre nella postfazione della seconda edizione del Il pallino della matematica “i collegamenti tra tempo, spazio e numeri sono oggi corroborati da innumerevoli esperimenti. Se vedete un numero grande e dovete poi muovere una
mano, questa tenderà a spostarsi verso destra. Se dovete afferrare un oggetto, le
dita si allargheranno un pò più del necessario. Se dovete valutare una durata temporale, un numero grande sembrerà permanere sullo schermo più a lungo di un
numero piccolo” (Dehaene, 2010, pp. 281-282).
Come chiaramente esplicitato dallo stesso Dehaene, pertanto, l’obiettivo principale delle sue ricerche sarà quello di riformulare alla luce dell’attuale dibattito in seno alle scienze cognitive tutta una serie di domande che sono tradizionalmente naPerconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno …
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te in ambito filosofico matematico a partire dalla filosofia kantiana. Con le sue parole: “Are neural codes for space, time and number available early enough in development to play a determining role in structuring subsequent experience, as postulated by Kant? Or are they, on the contrary, extracted from exposure to a richly
structured physical world through learning mechanisms? (Dehaene& Brannon,
2011, p. X).
Sembra, pertanto, che Dehaene concepisca la conoscenza a priori kantianamente
intesa a guisa della conoscenza innata in quanto conoscenza che è presente negli
organismi fin dalla nascita5; in questo contesto, quindi, il termine “innato” fa riferimento ad un “potenziale” pronto a svilupparsi purché l’ambiente sia favorevole,
avendo il compito di evidenziare l’influenza reciproca fra la biologia dell'individuo e i fattori ambientali. In questo senso, il termine “innato” viene frainteso con
“immutabile” ed è per questo che anche lo stesso Dehaene lo utilizza come sinonimo di “apriori”. Le differenze con Kant sono tuttavia significative. A differenza
della conoscenza a priori secondo Kant, la conoscenza innata nel senso di Dehaene non è indipendentemente da ogni esperienza. Al contrario, si guadagna formulando ipotesi le cui premesse possono derivare dall’esperienza e le cui premesse e
conclusioni possono trarre la loro plausibilità dal confronto con l’esperienza. Inoltre, si tratta di conoscenze che non sono immutabili, in quanto in futuro (magari a
causa di lentissimi cambiamenti regolati dalle leggi dell’evoluzione) potrebbero
darsi delle eccezioni. Esse non sono nemmeno intrinsecamente necessarie; al contrario, sono contingenti dal momento che potrebbero risultare (in)compatibili con
dati che potrebbero essere disponibili solo in futuro. Infine, non sono nemmeno
certe in quanto non vi è garanzia che in futuro non se ne possono trovare controesempi. Difatti, come è in qualche modo costretto a dire lo stesso Dehaene: “This
research is stimulating innovative research focusing on the search for representations of space, time and number inherited from evolution. We must, however,
acknowledge that the word “innate”, meaning “independent of experience”, is an
idealization which will ultimately have to be replaced by detailed research into the
underlying genetic and developmental mechanisms.”(Dehaene& Brannon, 2011,
p. X).
Ma questo, naturalmente, non è il senso kantiano dell'a priori. Quando si afferma
che una conoscenza a priori, nel senso kantiano del termine, è indipendente dall'esperienza, si sta facendo una osservazione di tipo logico, non una osservazione
descrittiva. Non si sta, cioè, dicendo che si dà il caso che quella conoscenza sia ri5 Che la conoscenza a priori sia uguale alla conoscenza innata è del resto una posizione
assai ricorrente anche nella filosofia della scienza. Popper, ad esempio, affermava che
“la conoscenza a priori, quel genere di conoscenza che un organismo ha prima
dell’esperienza dei sensi, è conoscenza innata” (Popper, 1990, p.46).
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levabile in modo indipendente da come di fatto va l'esperienza concreta. Non si
tratta di una osservazione su come va il mondo. Si vorrebbe suggerire, al contrario, che quella conoscenza precede logicamente la stessa possibilità che ogni esperienza data possa avere la forma che effettivamente ha. “A priori” in Kant è dopo
tutto sinonimo di “trascendentale” ed ha a che fare con le condizioni di possibilità
dell'esperienza e non con una sua descrizione più o meno perspicua. Il modo di
concepire la matematica come conoscenza innata da parte di Dehaene si allontana
così sia dalla concezione di Kant sia da quel carattere di assoluta infallibilità della
matematica in quanto conoscenza a priori assolutamente certa. Infatti, le conoscenze a priori nel senso kantiano del termine 1) si costituiscono indipendentemente da ogni esperienza; 2) sono universali, non tollerando eccezioni di alcun
genere; 3) sono conoscenze intrinsecamente necessari ed infine 4) sono certe per
se stesse. Nell’ottica kantiana, l’intuizione è essere l’unica fonte per la matematica di conoscenza certa. Le intuizioni, infatti, sono conoscenze che non hanno ancora subito il confronto dalla mediazione concettuale. Non sono ancora diventate
giudizi. Nell'intuizione la nostra mente è obbligata a fare quello che fa, mentre è
solo con le categorie e i concetti che la mente umana è anche spontanea e creativa.
Ecco perché le intuizioni sensibili kantianamente sono l'unica base in grado di
farci conoscere infallibilmente le verità matematiche.
L’a priori kantianoèsia “indipendente dall’esperienza” sia una “condizione necessaria per la matematica e per qualunque altra scienza”. Al contrario, il modo di
concepire la matematica come conoscenza innata da parte di Dehaene si allontana
da quel carattere di assoluta infallibilità della matematica in quanto conoscenza a
priori e assolutamente certa. Dehaene è convinto che gli esseri umani vengano al
mondo provvisti di un “senso del numero”, vale a dire di una forma elementare di
intuizione numerica, presente già nei bambini al momento della nascita e che
condividiamo con varie altre specie animali. Questa particolare facoltà, espressione del funzionamento dell’ accumulatore, permette soltanto la stima approssimativa nelle rappresentazioni implicate nei compiti di confronto, addizione e sottrazione. In questo senso, il termine “matematica” in Dehaene ha di sicuro una
connotazione più ristretta, non infallibile e più vicina alla concezione del senso
comune.
Conclusioni
Da quanto discusso finora dovrebbe risultare chiaro che le posizioni di Dehaene,
da lui stesse considerate come facenti parte di un “programma di ricerca kantiano”, sono in realtà piuttosto lontane dalle idee filosofiche di Kant. Infatti, le ipotesi di Dehaene si limitano a mettere in luce l’esistenza di una sorta di matematica
naturale, innata, biologicamente fondata che riguarda il concetto di numerosità,
termine con il quale si intende il senso del numero e in particolare il senso della
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grandezza di un insieme (che come abbiamo visto sottostà alle leggi di distanza e
grandezza). Secondo Dehaene disponiamo di certe capacità innate che ci consentono di riconoscere istantaneamente piccoli numeri di oggetti e di addizionarli o
sottrarli. Tuttavia, Dehaene, pur essendo convincente sul terreno della neuroscienza cognitiva e dell'individuazione delle architetture cognitive che ci permettono di
avere le capacità matematiche innate prima evidenziate, non è altrettanto sorvegliato sul piano del vocabolario filosofico riguardo le nozioni di “innatismo” e di
“a priori” nella matematica. Pertanto, nonostante i grandi passi avanti e le numerose scoperte neuroscientifiche riguardanti la matematica realizzate dai neuroscienziati, la filosofia risulta essere ancora di una certa utilità almeno nella chiarificazione concettuale.
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Protein misfolding and aggregation: the chemical basis of neurodegeneration
Danilo Milardi
Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Biostrutture e Bioimmagini, V.le Andrea Doria 6, 95125 Catania, Italy.
E-mail: [email protected]
Abstract. In the end of 1901 Alois Alzheimer, a young
neuropathologist, begun to study the case of Auguste D. a 51 years
old lady suffering from hallucinations, disorientations and memory
loss. This is the first known case of senile dementia, a pathology that
will be universally recognized as Alzheimer’s Disease. One of the
major features of this pathology was described by Alzheimer himself
in 1906: microscopic analysis of affected neuronal tissues evidenced
small plaques named “amyloids” for their property resembling the
ability of starch of staining with iodine. The main component of these fibrillar aggregates was a protein (β amyloid peptide) characterized by a particular conformation. Later on, it was shown that many
others age-related neurodegenerative disorders as, for example, Parkinson’s disease, are hallmarked by neuronal deposition of a specific
protein leading to degeneration of tissues (proteinopathies). To date,
despite the significant amount of financial resources earmarked for
clinical research in this field, all these maladies remain incurable.
This creates a huge social warning in those regions, as Europe,
where an increase of the average age of the population is expected to
occur. We still do not know what is the best strategy to tackle these
diseases, but surely a full comprehension of all the molecular aspects
that lie at the root of their pathogenesis is an urgent need. Some crucial questions still need to be addressed: i) how a protein may lose its
normal structure/function and become a toxic agent? ii) what environmental factors promote this pathological process? iii) what chemical features should possess a drug to successfully interfere with these processes? iv) is it possible to envisage tools for an early
diagnosis? Here we will discuss about the chemical tools available to
date that may help to solve these questions.
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013
Sommario. Alla fine del 1901 il giovane neuropatologo Alois Alzheimer iniziò a studiare la complessa sintomatologia di Auguste D.
una signora di 51 anni che presentava disorientamento, allucinazioni
e perdita di memoria. E’ il primo caso conclamato di “demenza senile”, patologia in seguito universalmente definita come Morbo di Alzheimer. Una delle principali peculiarità di questa patologia fu individuata dallo stesso Alzheimer nel 1906: un’analisi al microscopio
dei tessuti neuronali del malato mise in evidenza alcune placche dette amiloidi per la loro proprietà simile a quella dell'amido di reagire
con lo iodio. Il principale componente di questi aggregati fibrillari risultò essere una proteina (β-amiloide) contraddistinta da una caratteristica conformazione. Ben presto si scoprì che molte altre patologie
neurodegenerative legate all’invecchiamento, come ad esempio il
morbo di Parkinson, sono caratterizzate dall'accumulo di una specifica proteina nei neuroni con conseguente alterazione del tessuto nervoso (proteinopatie). Ad oggi tuttavia, nonostante la notevole mobilitazione di risorse destinate alla ricerca, queste malattie rimangono
incurabili. Ciò crea enorme allarme sociale specialmente in quelle
aree come l’Europa dove è previsto un progressivo aumento dell’età
media della popolazione in un prossimo futuro. Non sappiamo ancora quale sia il miglior modo di affrontare lo studio di queste malattie,
ma certamente non è possibile prescindere dalla piena comprensione
di quei meccanismi che, a livello molecolare, giocano un ruolo nello
sviluppo di queste patologie. Alcune questioni cruciali, in particolare, restano ancora non del tutto chiarite: i) in quale modo una proteina perde improvvisamente le sue normali caratteristiche strutturali/funzionali e si trasforma in un agente neurotossico? ii) Quali fattori
promuovono questo processo? iii) Quali caratteristiche chimiche deve avere un potenziale farmaco per interferire con questi meccanismi? iv) Esistono dei metodi per la diagnosi precoce della patologia?
In questo breve report verrà presentata una breve rassegna dei mezzi
di cui la Chimica dispone per affrontare queste incognite.
PACS: biomolecules, 87.15.Fh
1. Neurodegenerative diseases: a century of discoveries
In a brief report dated 1907, Alois Alzheimer described the presence of plaques
and neurofibrillary tangles (NFTs) in the neocortex and hippocampus of a middleaged woman with memory deficits and a progressive loss of cognitive function.[1] This was the first published report describing Alzheimer disease. Shortly
afterward, in 1912, Friederich Lewy described the neuropathological hallmark of
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Parkinson disease, the Lewy body.[2] Since these observations there has been extensive investigation into the nature of this amyloid material and its role in the
development of AD. After those early reports, over 80 years elapsed before the
principle components, named “amyloids” that form senile plaques,[3] NFTs[4]
and Lewy bodies[5] were identified. Interest in the topic of ‘‘amyloid’’ formation
by peptides and proteins has increased dramatically in recent years, transforming
it from an “esoteric” phenomenon associated with a small number of proteins into
a major subject of study in disciplines ranging from chemistry and materials science to biology and medicine. The major reason for this explosion of activity is
undoubtedly that many of the disorders associated with amyloid formation[6] are
rapidly becoming the most costly, in terms of health care and social disturbance,
in the modern world.[7]
Table 1. Some of the major human neurodegenerative diseases associated with
protein misfolding and amyloid aggregation.
Neurodegenerative Aggregating
Disease
protein
or peptide
Alzheimer’s disease Amyloid β peptide
Length of protein
or peptide
40 or 42
Structure of protein
or peptide
Spongiform encephalopathies
Prion protein or
fragments
thereof
253
Natively unfolded
(1–120) and α-helical
(121–230)
Parkinson’s disease
α-Synuclein
140
Natively unfolded
Amyotrophic lateral
sclerosis
Superoxide dismutase 1
153
All-β, Ig-like
Huntington’s disease
Huntingtin with
long polyQ
stretches
3144
Largely natively unfolded
63
Natively unfolded
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The amyloid state of a protein, regardless of its amino acid sequence or the
structure of its native state is typically manifested in the form of thread like fibrils
a few nanometers in diameter and frequently microns in length that are rich in βsheet structure. In addition to its importance in medicine and materials science,
the amyloid state of polypeptides is also of fundamental significance because its
existence and properties challenge many of the established concepts about the nature of the functional states of proteins, with their rich variety of distinctive threedimensional structures, and the manner in which they have been selected through
the evolution of life forms and living systems.[8]. Thus, for example, experiments
with a large number of peptides and proteins in a laboratory environment has led
to the realization that the ability to form amyloid structures is not a rare phenomenon associated with a small number of proteins; instead, the amyloid state emerges as an alternative well-defined structural form that can be adopted under at least
some circumstances by many, in principle nearly all, polypeptide sequences. Like
the native(functional) states adopted by globular proteins, amyloid structures are
highly close packed and highly ordered, but unlike native states they possess a
common or ‘‘generic’’ main chain architecture. A consequence of these evidences
is that biological systems must have evolved to enable their functional peptides
and proteins to remain soluble for prolonged periods of time under normal physiological conditions rather than converting into the amyloid state.
Undoubtedly, some protective mechanisms are encoded in the protein sequence, likely through the ability of globular proteins to fold into stable and cooperative states, which sequester aggregation-prone regions of the protein in the
interior of the molecule and raises the energy barriers to conversion into aggregation-prone species. Other protective mechanisms are associated with properties of
the cellular environment, such as the existence of molecular chaperones and degradation mechanisms designed to prevent the formation and accumulation of
misfolded and aggregated polypeptide chains.[9, 10] Indeed, it is evident that such
‘‘housekeeping’’ mechanisms are vital, not just during protein folding following
biosynthesis but at all the various stages in the lifecycles of proteins.
2. Protein misfolding and pathways of amyloid formation
One of the fundamental problems related to the formation of amyloid fibrils and
oligomeric aggregates involves the complete description of the numerous events
and steps that lead normally soluble proteins to form oligomers and insoluble fibrils with well-defined structural and biological features. A simple and common
way to monitor the pathway that leads to the formation of amyloid fibrils is a plot
showing the amyloid content present in a sample versus time. This approach arisMilardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical …
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es from the existence of different techniques to monitor in real time the amount of
amyloid material after induction of aggregation in a protein sample. The most
common of these techniques involves the employment of the dye Thioflavin T
(ThT), whose fluorescence increases upon binding to amyloid material.[11] The
ThT plot obtained usually resembles a sigmoidal trace. In general, three parts can
be identified in these graphs. At the beginning of the process, the amount of amyloid material does not increase detectably. This phase is usually referred to as lagphase or nucleation. Several events may take place during this phase: in particular, the protein undergoes a misfolding process and the misfolded state starts selfassembly, establishing an equilibrium between an ensemble of oligomers which
are characterized by increasingly larger size as time passes. In the presence of
seeds, that is, pre-formed fibrils, the lag-phase can be suppressed. At the end of
the lag-phase aggregation nuclei form, following the conversion of non-amyloidlike oligomers into amyloid-like ones or the formation of specific monomeric or
oligomeric conformations that act as nuclei. Consequently, the fluorescence of
ThT increases over time. This phase is usually referred to as exponential-growth
or elongation. As aggregation proceeds during this stage, the observed enhancement in signal is ascribable to the simultaneous occurrence of more events, including conversion of non-amyloid-like small-sized aggregates into amyloid-like
oligomers, disintegration of fibrils with formation of new aggregates, and the
elongation of aggregates through the binding of further monomeric units. At the
end of the exponential growth, the ThT trace reaches an equilibrium, usually referred to as stationary phase. Notably, the final concentration of aggregates does
not correspond to the total protein concentration and the concentrations of monomers and oligomers do not level off at 0. This is because amyloid fibrils continuously release monomers and oligomers of different size.[12] A less common yet
very informative way to represent the mechanisms of aggregation is the use of energy landscapes. The conversion of proteins from their native states to amyloid fibrils occurs through a myriad of intermediate states and pathways. Folded (native)
proteins in general need to unfold, at least partially, to generate partially unfolded
states before aggregation occurs. Misfolded states are amyloidogenic due to the
exposure of hydrophobic groups from the backbone that are generally buried in
the folded state. The early oligomers are generally unstructured, meaning that
they do not yet have the extensive β-sheet structure that characterizes the amyloid-like oligomers and prefibrillar states. As a consequence, these unstructured
oligomers do not bind amyloid specific dyes, such as ThT or Congo Red. As aggregation proceeds, oligomers undergo a continuous rearrangement of structure
into amyloid-like oligomers or pre-fibrillar states. This reorganization involves an
increase in size, stability, compactness, regularity of the β-sheet structure and hydrophobic burial. Each intermediate oligomeric state may be considered as an en65
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semble of oligomers with distributions of size, structure, and so on. The amyloidlike oligomers then act as nuclei for the formation of fibrils, which grow through
the addition of either monomers or amyloid-like oligomers.
3. The role of metal ions in protein misfolding and amyloid formation.
Among the known structurally characterized proteins, one in three contains a metal as a cofactor.[13] Metalloproteins are involved in electron transport, oxygen
storage, metal transport, chemical bond hydrolysis, redox processes, and synthesis
of biochemical compounds. Copper, iron, and zinc are the most abundant transition metals relevant to biological systems. They are defined essential metal, but
their excess can cause the formation of damaging free radical species. In many
cases, metal ions, e.g., Cu(II) Zn(II), Mg(II), Ca(II), stabilize the structure of folded proteins, while in other cases they help to fix a particular physiologically active
conformation of the protein.[14-16] It is known that metal ions may interact with
proteins before and after polypeptide folding takes place with a significant impact
on the folding reaction. Intermediate (on-pathway and off-pathway) structures in
the unfolded protein may form due to specific coordination of the cofactor. The
metal may this way serve as a nucleation site that directs polypeptide folding
along a specific pathway in the free-energy landscape. Notwithstanding the essential role of cofactors in proteins many metals are toxic when free in biological fluids and a number of diseases have been linked to alterations in cofactor–protein
interactions. This underscores the fundamental importance of revealing the physical principles for metal interactions with folded, unfolded, and intermediate states
of polypeptides. The transition metals can exist in more than one stable oxidation
state and this feature makes them suitable catalysts for biological processes,
where transfer of electrons is required. Consequently, transition metals are found
at the active sites of a large number of proteins. The processes catalyzed by such
proteins can require the transfer of both electrons and protons to a substrate
bound to the metal, or can simply involve the transfer of an electron between proteins (i.e., as part of an electron transfer chain, such as those involved in respiration or photosynthesis). The metalloproteins participate in respiratory, nitrogen
fixation, biosynthetic and metabolic processes and their role is essential to the
basements of life. The involvement of transition metal centers raises important
questions regarding the mechanisms of these biological reactions. The major
classes of metalloproteins are cytochrome (b,c), iron sulfur proteins, blue copper
proteins and superoxide dismutases family. The redox proteins in the electrontransfer chains of respiration and photosynthesis, the two main processes in the
energy metabolism of living organisms, must span a range of reduction potentials
from ~0.45 V (ferredoxin) to about ~0.8 V (O2 /H2O at pH 7). This is in part accomplished by a variation in the redox-active prosthetic groups, which are flavins
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and iron-sulfur proteins in the low-potential parts of the chains but cytochromes and blue or purple copper proteins in the high-potential regions.
Redox proteins are involved in several biological and metabolic processes as determinant factors for metal homeostasis. The redox chemistry is an essential role
in neurodegenerative diseases. The brain is the most aerobically active organ in
the body due is high metabolic requirements. Excessive generation of reactive oxygen and nitrogen species, including superoxide anion and nitric oxide contributes
to neuronal cell injury in neurodegenerative disease. As an example, Aβ extracted from AD plaques contains oxidative modifications such as oxidised Met
35, modification of the histidines to 2-oxo-histidine, and oxidatively modified
tyrosine adducts including 3,4-dihydroxyphenylalanine (DOPA), dopamine and
dopamine quinine. The proposed red-ox mechanisms are depicted below:
AβMet(S) + Cu2+ AβMet(S+) +Cu+
AβMet(S+) +CH  AβMet(S) + ·CH
Cu+ +O2  Cu2+ +O2·AβMet(S2+) + H2O  AβMet(S=O) +2H+
O2·- + O2·- +2H+  H2O2
4. Membranes and amlyloids.
The Aβ peptide is produced through intramembrane cleavage in
lysosomal/endosomal vesicles and at the plasma membrane. The established view
is that the peptide is removed from the membrane environment upon cleavage.
However, this seems simplistic given the hydrophobicity of the peptide. Interestingly, this is also reflected by differential solubility experiments using aqueous
buffer (soluble Aβ), sodium carbonate or detergents (membrane associated Aβ),
and formic acid (insoluble Aβ) that indicate that while the majority of the Aβ in
AD brain tissue is insoluble, there is a significant amount associated with the
plasma membrane. These studies also indicate that the soluble pool, while being
the most studied, only constitutes a minority of the total Aβ.[17] Notably, interfaces are a relatively under-emphasized factor in in vivo aggregation of Aβ. Several results suggest that the interface of the membrane and the aqueous environment is highly critical for influencing the aggregation of Aβ. In general, the
mechanisms by which amyloid intermediates (Aβ peptide, amylin and other amyloid-forming proteins) cause cytotoxicity and disease remains unresolved. Nevertheless, the inhibition of amyloid toxicity by a common antibody, independent of
the location of the oligomers in extracellular or intracellular compartments, clearly supports a common mechanism in areas which are accessible via extra-and in-
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tracellular regions, such as cell membranes.[18] The vast majority of amyloidforming peptides have an amphipathic character. They may cause membrane
damage through changes in bilayer fluidity, generate protein-stabilized pores
(poration), lay on one leaflet of the membrane (carpeting), or remove lipid components from the bilayer by a detergent-like mechanism.[19] There is, however,
an intense debate regarding which mechanism of membrane perturbation is the
most relevant to disease. It has also been shown that the formation of amyloid fibers occur independently from membrane damage and that the composition of
membrane and ions may have a major influence on amyloid-mediated membrane
injure.[20] Insertion of a protein into a membrane perturbs lipid packing and results in local bending deformations. To minimize energetically unfavorable deformations, proteins tend to cluster.[21] Even at the very early stages of protein
aggregation at the water membrane interface and within the lipid bilayer oligomers may affect the integrity of lipid membranes. Curvature stress has been suggested to account for the early stages of amyloid-mediated membrane damage.[18, 21] As a whole, the most recent results suggest that the formation of
amyloid fibers is a separate process from membrane disruption and that they may
be separately targeted by novel therapeutical approaches.
5. The “Quality Control” machinery of the cell: intracellular proteolysis.
Neurodegenerative disorders are known to share a common molecular mechanism
involving protein misfolding and aggregation, and accumulating evidence indicates that several adverse environmental factors, e.g., metal-ion dyshomeostasis,
may accelerate (or initiate) these processes.[22] One protective measure employed
by cells to alleviate the proteome from these adverse factors is to target misfolded
proteins for clearance via the ubiquitin−proteasome system (UPS).[23] A second
common finding in neurodegenerative disorders is the presence of insoluble
proteinaceous deposits, such as the neurofibrillary tangles and neuritic plaques of
Alzheimer’s disease, the Lewy bodies of Parkinson’s disease, and the intranuclear
inclusions of Huntington’s disease, that differ in their protein content but invariably contain components of the ubiquitin/proteasome system.[24] As this cellular
proteolytic machinery is involved in the clearance of misfolded proteins, this has
led to the hypothesis that a chronic imbalance between their generation and processing may be the primary cause for the formation of proteinaceous (and toxic)
deposits.[25] Moreover, the cellular toxicity correlated with nuclear inclusions
can be suppressed by components of the ubiquitin/proteasome system, confirming
the role of this proteolytic pathway in the clearance of their precursors.[26, 27]
The UPS is the main regulated intracellular proteolytic pathway and determines
the stability of a broad array of proteins by a two-stage mechanism; first, substrates are tagged for degradation by covalent attachment of a chain of ubiquitin
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moieties, a process known as poly-ubiquitination. Subsequently, the ubiquitinated
substrates are selectively targeted to the 26S proteasome, where protein degradation takes place and ubiquitin is recycled. Proteasomal degradation shows a high
level of substrate specificity, which is mainly achieved by the enzymatic cascade
involved in substrate ubiquitination. This process employs a minimum of three
different classes of enzymes performing subsequent tasks to covalently attach
ubiquitin to a substrate protein. First, ubiquitin is activated by ATP-dependent
crosslinking of its C-terminal glycine (G76) to the active site cysteine of ubiquitin
activating enzyme E1, forming a high-energy thiolester intermediate. Subsequently, the activated ubiquitin is transferred from the active site of E1 to the active site
of one of the E2 ubiquitin-conjugating enzymes present in the cell. Finally, the activated ubiquitin is transferred from the E2 to the target substrate which is bound
to a ubiquitin ligase (E3 enzyme). Ubiquitin (Ub) is a protein composed of 76
amino acids, with a compact globular structure in which a mixed parallel/ antiparallel β sheet packs against an α helix, generating a hydrophobic core. Although
Ub is best known as a prelude to proteasomal degradation, it also regulates a large
array of biological processes, including protein translocation, signal transduction,
gene transcription, apoptosis, and autophagy.[28] The observation that neuronal
protein aggregates within affected tissues often contain Ub further supports the
correlation between UPS impairment and neurodegeneration.[29] Furthermore,
biological investigations have demonstrated that exposure of the UPS to increasing amounts of metal ions affects its degradative activity, suggesting a close relationship between the age-dependent increase in the metal-ion concentration in the
brain, UPS failure, and disease.[30-32]
6. Therapeutic perspectives.
Amyloid-related diseases are triggered by the failure of control and regulatory
processes to prevent individual protein molecules reverting from their functional
states to a persistent misfolded state whose interactions can disrupt the normal
processes of life. Effective pharmaceutical interventions are therefore thought to
require different strategies from those applied to ‘‘conventional’’ diseases where
the selective targeting of specific biological processes, along with other factors
such as improved diet and increased standards of hygiene, have proved to be extremely effective in reducing the incidence of disease and also in limiting its effects on the individuals concerned. The advances in our understanding of the
mechanism of amyloid aggregation, however, offer great opportunities to intervene therapeutically in a rational manner.[33] Indeed, such therapies can address
the underlying differences between proteins in their functional state and those that
are misfolded and which possess fundamentally different biophysical properties.
Moreover, the protective systems of the cell (i.e. UPS and autophagy) are extraor69
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dinarily effective under the conditions for which they have evolved but then become less effective on aging. In order to address the treatment or prevention of
these diseases it is possible to imagine intervention at different stages of the
misfolding and aggregation process. There are several ways in which it is possible, in principle, perturb individual steps in the protein aggregation process and
halt the cascade of molecular events that lead to a catastrophic breakdown of the
ability of organs such as the brain to function. By binding a substrate analog or a
molecular chaperone however, the native state of the protein can be stabilized,
thereby reducing the probability of aggregation; this strategy has been developed
for some small molecule drugs that are now approved for clinical trials. One of
the challenges in exploring possible strategies of treating neurodegenerative disorders such as Alzheimer’s and Parkinson’s diseases is that the soluble precursors
(Aβ and α-synuclein) are not stable globular proteins but, at least under many
conditions, they are ‘‘natively unfolded’’. Strategies based on stabilizing a globular fold are, therefore, not applicable to such situations; in such cases it may be
possible to maintain the level of toxic oligomeric species below those that can be
managed by the cellular ‘‘housekeeping’’ mechanisms for longer periods of time
and, hence, postpone the onset of disease. Conclusively, there are considerable
grounds for optimism in the ‘‘amyloid field’’ in the quest to prevent or treat the
debilitating diseases with which amyloid formation is related. We are beginning
to understand the molecular determinants that govern the structures and properties
of both the fibrillar and the prefibrillar states of proteins, as well as their functional native states. With such enhanced knowledge and an extension of our understanding of the types of molecules that may perturb the amyloid aggregation process, it is conceivable that novel diagnostics will come for identifying new targets
for drug discovery, and for defining the efficacy of therapeutic strategies.
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Introduzione ai modelli matematici del sistema
nervoso
Riccardo Rizzo
ICAR-CNR, viale delle Scienze, ed. 11, Palermo Italia
[email protected]
Abstract. Il cervello è l'organo piu' complesso conosciuto, non abbiamo un modello del suo funzionamento e la conoscenza del funzionamento delle sue cellule non riesce a spiegare la sua attività.
Nell'articolo si spiegheranno le basi del funzionamento delle cellule
neurali e se ne ricaverà un semplice modello matematico. Il modello
sarà ulteriormente semplificato per arrivare alla definizione delle reti
neurali artificiali: semplici modelli computazionali che riproducono
alcune delle caratteristiche di basso livello del funzionamento del
cervello.
1. Introduzione
Una cellula del cervello ha un funzionamento complesso, una grande ricchezza di
comportamenti e caratteristiche che la differenziano nettamente dalle altre cellule
del corpo umano. Tale ricchezza di funzionalità però non ci aiuta a spiegare il
prodotto delle interazioni di queste cellule all’interno del cervello. La mente, ciò
che il cervello produce, è impossibile da prevedere guardando il singolo neurone e
molto difficile da immaginare anche studiando il funzionamento di complesse reti
di neuroni.
Lo sforzo del cervello di studiare se stesso è coordinato da diversi progetti nel
mondo, ad esempio la iniziativa europea Human Brain Project ha come obiettivo
principale la costruzione di grandi simulazioni che possano aiutare nella comprensione dei meccanismi del cervello e dei danni provocati dalle malattie degenerative. Un'altra iniziativa, lo Human Connectome Project è orientata alla raccolta di
dati sulle connessioni del cervello, con l'obiettivo ultimo di costruire una mappa
delle connessioni stesse. Questi ed altri progetti di ampio respiro tentano di capire il funzionamento di una macchina che ha circa 1011 componenti connessi con
un numero di collegamenti stimato fra i 1013 ed i 1015. Una tale complessità giustifica un approccio riduzionista volto a semplificarne il comportamento studiando il
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funzionamento dei singoli componenti. Freud stesso, all'inizio del suo lavoro, aveva pensato di risolvere gli enigmi della vita mentale esaminando le cellule del
cervello una alla volta. Questo approccio è stato indicato anche da Santiago Ramòn y Cajal che visualizzò un neurone cerebrale ed i suoi collegamenti nel 1906,
indicando che per capire il funzionamento del cervello occorre studiare anche i loro collegamenti, che rappresentano la struttura, la architettura della macchina stessa. Le cellule cerebrali si influenzano l'una con l'altra attraverso lo scambio di impulsi elettrici: una cellula riceve molti impulsi da altre cellule a sua volta rimanda
impulsi ad altre cellule. Questi segnali attraversano canali precisi ed il punto di
contatto fra i neuroni assume un ruolo fondamentale, tanto da meritare un nome,
sinapse (vedi figura1).
Il funzionamento del neurone è descritto usando equazioni che tengono conto
della sola attività elettrica e che consentono di studiare il funzionamento di circuiti costituiti da più cellule neuronali. In altre parole il funzionamento della cellula
nervosa come organismo vivente, lascia il posto allo studio del neurone come
componente elettronico, caratterizzato da un comportamento che è più vicino a
quello di un circuito a transistori (vedi figura 2).
Nel seguito tale punto di vista sarà quello dominante: il modello che illustreremo per il neurone rappresenta il suo funzionamento elettrico, ed una volta acquisito quello ci concentreremo sui collegamenti fra i neuroni che sono mille volte
di più dei neuroni e costituiscono un problema mille volte più complesso.
Nel prossimo paragrafo vedremo un semplice modello del funzionamento del
neurone, mentre una panoramica dei modelli di reti neurali è riportata nel paragrafo seguente.
2. Modello e funzionamento del neurone
Il funzionamento del neurone è stato brevemente accennato prima: segnali elettrici provenienti da altri neuroni (o dagli organi di senso) attraversano la giunzione
(sinapse) e caricano il nucleo (soma) della cellula; quando la carica raggiunge una
ben determinata soglia, nel neurone si genera abbastanza energia da provocare
una scarica: un impulso elettrico è generato nel nucleo della cellula e si trasmette
attraverso l'assone del neurone verso gli altri ad esso collegato. Una volta generata
la scarica il nucleo si porta al cosiddetto potenziale di riposo o di reset, e il neurone ritorna a caricarsi con gli impulsi provenienti dall'esterno. La scarica del neurone dipende quindi dalle sollecitazioni esterne: un neurone che riceve molti impulsi si caricherà e scaricherà con maggiore frequenza generando fitti treni di
impulsi.
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Questo semplice modello deve ancora essere affinato, per esempio il comportamento delle sinapsi può anche essere inibitorio: la presenza di un impulso in una
sinapse inibitoria tende a reprimere il neurone, a impedire la nascita di un nuovo
impulso, scaricando il nucleo.
C'è ancora un altro importante fenomeno da tenere presente: le sinapsi non sono tutte eguali, oltre ad essere eccitorie o inibitorie hanno un peso, una “importanza” che permette di distinguere da dove arriva l'impulso in ingresso ad un neurone. Gli impulsi hanno sempre la stessa ampiezza perché un neurone non può
modulare l'impulso emesso, la modulazione è affidata alla sinapse: ci sono sinapsi
forti che con un impulso trasmettono una grande quantità di carica al nucleo del
neurone successivo e sinapsi deboli che con lo stesso impulso caricano molto poco il neurone. Stesso discorso vale per le sinapsi inibitorie, ce ne saranno di molto
forti che inibiscono per lungo tempo il neurone, e di deboli, capaci di inibire molto meno. Il peso della sinapse cambia durante la vita del cervello ed è il meccanismo responsabile della formazione della memoria [Kandel]. Il cambiamento della
sinapse segue molteplici meccanismi uno dei più semplici è la cosiddetta regola di
Hebb secondo cui due neuroni contemporaneamente attivi tendono a rinforzare il
loro collegamento.
Vediamo adesso ancora più in dettaglio il funzionamento del neurone.
Figura 1. A sinistra la rappresentazione dei neuroni elaborata da Cajal, a destra lo
schema di neurone e collegamento sinaptico utile per i nostri scopi. Gli elementi del
disegno a sinistra non sono in scala: l'assone può essere molto lungo, e la quantità di
dendriti di un singolo neurone può essere di centinaia.
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Quando uno spike arriva alla sinapse innesca una serie di fenomeni biochimici
che si concludono con il rilascio di sostanze dette neurotrasmettitori. Queste molecole sono raccolte dai neuroricettori nel neurone post-sinaptico ed aprono dei
canali che consentono agli ioni di fluire dal liquido extra-cellulare fin nella cellula
(vedi figura1). La presenza di questi ioni cambia il potenziale della membrana del
neurone ed è quindi trasformato in risposta elettrica. Se il segnale di input è eccitorio allora il potenziale del neurone post-sinaptico aumenta fino a superare la soglia e causare lo sgancio di un impulso lungo l’assone.
Il modello più completo del neurone è quello di Hodgkin e Huxley ed è costituito da un circuito elettrico con tre elementi non lineari. La legge che regola gli
elementi non lineari è complessa e rende il modello difficile da gestire. Un modello più semplice ed egualmente valido se non si ha bisogno di troppi dettagli, è il
modello “Integrate and Fire” (IF) [Maas e Bishop] che comprende un solo elemento non lineare dal comportamento piuttosto semplice, e soprattutto fuori dalla
equazione differenziale che regola l'accumulo delle cariche nel neurone.
Il funzionamento del modello IF è basato sullo schema circuitale in figura 2.
Figura 2. Schema elettrico corrispondente al modello Integrate and Fire
I(t) =
u(t)
du
C
R
dt
La equazione sopra rappresenta il modello del neurone e corrisponde al circuito nel soma in figura 2 (neurone post sinaptico); il modello è completato dalla non
linearità che “sgancia”
 l'impulso ogni volta che il potenziale u(t) supera la soglia
q.
Supponiamo che il neurone abbia un potenziale di reset ur pari a zero e supponiamo che abbia sganciato un impulso all'istante t0: in questo caso il suo potenzia77
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le è pari a ur e quindi a zero volt. Se in ingresso c'è una corrente costante I(t)=I0 il
potenziale di membrana, ricavato dalla soluzione della equazione sopra, cresce
secondo la legge :

 t  t 
0
 .
u(t) = RI01  exp 

m



Se R I0 > q allora il potenziale di membrana raggiunge la soglia q in un istante
t1, calcolabile ponendo u(t)= q nella equazione sopra; t1 è l'istante di sgancio del
nuovo impulso.Tale istante è funzione della intensita' di I0 ed è più vicino a t0 se
la I0 è grande.
Anche la spiegazione appena data è una approssimazione, perché la corrente
I(t) non è mai una corrente costante, infatti il neurone pre-sinaptico emette impulsi, ma questi sono “appiattiti” ed “allungati” dal gruppo RsCs che fa parte della sinapse. La forza della sinapse dipende dai valori dei componenti Rs e Cs
3. Le Reti Neurali Artificiali
Nei primi modelli di rete neurale artificiale, per esempio il percettrone lineare del
1958, praticamente tutti i dettagli descritti nei modelli del paragrafo precedente
sono trascurati. Innanzitutto il funzionamento non è più a impulsi ma usa dei segnali continui la cui intensità rappresenta la frequenza di emissione degli impulsi
stessi. I neuroni implementati in queste simulazioni quindi si scambiano segnali
continui che rendono molto più semplici calcoli e simulazioni.
I pesi delle sinapsi non sono più dipendenti dalla costante di tempo di un circuito elettrico ma sono rappresentati con dei valori reali il cui segno da' conto di sinapsi eccitorie e inibitorie; il meccanismo di trasmissione degli impulsi adesso è
una semplice moltiplicazione fra il valore del segnale xi ed il valore del peso della
sinapse wi. I segnali in ingresso sono moltiplicati dai pesi wi, sono sommati ed il
segnale risultante attraversa il componente non lineare q che ne limita la ampiezza
(vedi figura 3).
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Figura 3. Schema del neurone artificiale
Il modello del neurone artificiale adesso è molto semplice, ed è regolato da
equazioni più brevi ma sempre non lineari:


u =    j w j * x j 
dove q(.) è una funzione non lineare del tipo a saturazione in figura 4:

Figura 4. Una delle possibili forme della funzione q(.)
79
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Una ulteriore e decisiva semplificazione riguarda la architettura dei collegamenti fra i neuroni artificiali in una rete. La complessita’ del cervello lascia il posto a poche e ben codificate architetture che permettono di ricavare una funzione
di ingresso-uscita di forma semplice anche se ancora difficile da risolvere.
La architettura più semplice è costituita da strati di neuroni collegati l’uno appresso all’altro senza collegamenti intra-strato, ne’ collegamenti di ritorno
dall’uscita all’ingresso della rete (vedi figura 5).
Una rete formata dalla connessione di dispositivi di questo tipo ha un comportamento difficilmente prevedibile, sia per il gran numero di parametri diversi (i
pesi) sia per la presenza delle non linearità.
Figura 5. Esempio di rete neurale artificiale multistrato; i collegamenti tratteggiati A
e B non sono ammessi in questa architettura.
Regolando opportunamente i pesi si possono ottenere molti comportamenti diversi ma la regolazione di questi parametri non può essere fatta direttamente, ed è
ottenuta attraverso un meccanismo di discesa del gradiente su una funzione di errore che rappresenta la differenza fra il comportamento voluto e quello ottenuto
dalla rete.
Questo meccanismo è particolarmente vantaggioso perché consente di non
guardare al singolo parametro, cioè al peso della singola connessione nella rete,
ma piuttosto al comportamento desiderato. Questa astrazione però si paga con la
impossibilità di capire quale sia la influenza del singolo collegamento nel comRizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso
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portamento della rete nel suo complesso. Il comportamento voluto, che spesso
viene raggiunto con bassi margini di errore, quindi con grande successo, “emerge” dalla interazione pesata fra i neuroni a comportamento non lineare, ma i dettagli del funzionamento non sono facilmente comprensibili: è per questo che si
parla delle reti neurali come modelli di tipo “black box”, cioè come scatole “magiche” che hanno il comportamento desiderato ma che nascondono completamente i dettagli di funzionamento.
Il procedimento di discesa del gradiente costituisce la cosiddetta “fase di apprendimento” o “di training” della rete e, nelle modalità descritte, è definita come
fase di apprendimento supervisionato perché si tenta di minimizzare un errore,
una differenza fra la risposta voluta e quella ottenuta dalla rete. Esistono altre tipologie di reti con procedure di apprendimento che non necessitano di riferimenti,
di esempi della risposta voluta, ma adattano i pesi sulla base di caratteristiche intrinseche dell'insieme di esempi a disposizione.
Questo tipo di reti sono dette ad apprendimento non supervisionato proprio per
la mancanza di una guida sotto forma di una uscita desiderata e quindi di un errore da minimizzare.In tali reti i neuroni diventano prototipi di classi di stimoli in
ingresso e sono usati per la rappresentazione degli stimoli esterni. Il vantaggio dei
modelli di reti neurali ad apprendimento supervisionato è quello di potere ottenere
un determinato comportamento attraverso la somministrazione di esempi del
comportamento voluto. Se il legame esiste esso è “imparato” dalla rete neurale e
memorizzato all’interno dei pesi della rete.
Le reti ad apprendimento non supervisionato generano invece degli “esempi”,
dei prototipi degli stimoli in ingresso, che permettono di identificare facilmente
caratteristiche chiave dell’insieme di pattern in input.
Ad esempio una rete non supervisionata chiamata Self Organizing Map è capace di costruire e memorizzare degli esempi degli stimoli di ingresso organizzandoli in una struttura reticolare bidimensionale. Se questa rete è stimolata usando dei numeri manoscritti si ottiene la struttura nella figura in cui ogni numero è
la rappresentazione dei pesi associati alla unità neurale corrispondente nel reticolo. Si può notare come le immagini degradano dolcemente dall’una all’altra indicando dei valori dei pesi che cambiano con continuità.
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Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso
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Figura 6. Esempio di memorizzazione in una rete auto organizzante (Self Organizing
Map): a sinistra una rappresentazione della rete, a destra la visualizzazione dei valori
dei pesi.
4. Conclusioni
Nel corso dell’articolo abbiamo visto come i modelli matematici dei neuroni siano
diversi e cambino a seconda del tipo di approssimazione necessaria. Il nostro studio del cervello e’ appena cominciato, e prosegue anche la realizzazione di nuovi
modelli ed architetture neurali. I modelli di reti neurali artificiali appaiono primitivi e molto diversi dalle reti che si ipotizzano nel cervello, ma ricordando come il
volo umano sia diverso da quello naturale, anche questo tipo di approcci sono stati utili nella costruzione di macchine che risolvono problemi di intelligenza artificiale.
Eppure non sappiamo ancora quale sarà la forma della macchina che realizzerà
una vera mente artificiale.
Bibliografia
Maass W., & Bishop C.M. (1999). Pulsed neural Networks. Cambdridge,
Massachussets, USA: The MIT Press.
Bishop C.M. (1995) Neural Networks for Pattern Recognition, Oxford, UK: Oxford University Press
Kandel E. R. (2010) Alla ricerca della memoria, Italia, Codice Edizioni.
Russel S. & Norvig P. (1995) Artificial Intelligence. A modern Approach, New
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Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso
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Learning ScientificaMente through CLIL: Part
I – the learner
Y.L. Teresa Ting
The University of Calabria
E-mail: [email protected]
Abstract. This is the first of two papers in this Proceedings which
seek to illustrate that, although we are not able to implant electrodes
into the brain of our students, there are certain neuroscience research
findings which are highly relevant to everyday classroom practice
that teachers can use to design more effective learning processes.
One of these is called the N400, a brain signal that is particularly accentuated when input is incomprehensible. Although it is obvious
that the language of instruction must be comprehensible, teachers often overlook the fact that, for a learner, discipline-specific ways experts (e.g. teachers) use language often make our mother tongue
seem like a foreign language. It is therefore necessary to modulate
the language of instruction, not only for the first five minutes of a
lesson, but for most of the duration of instruction. Ironically, when
we implement CLIL (Content and Language Integrated Learning),
whereby content is learnt through a foreign language, the explicit use
of a foreign language for instruction makes teachers more aware of
the “foreign-ness” of disciplinary discourse. Here, processes used in
neuroscience research that attenuate N400 have been merged with
research from educational linguistics and language learning to provide teachers some pragmatic considerations for rendering their language of instruction more brain-compatible. A concrete example of
learning materials which have been designed for upper secondary
CLIL science classrooms is presented, along with the learning outcomes. The second paper (Part II, at page 106) will discuss how
awareness of brain signals such as the N400 also helps teachers to
not only cultivate disciplinary literacy but also become more effective teachers.
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Sommario. Questo è il primo di due articoli di questi Atti che si
propongono di illustrare come, sebbene non sia possibile impiantare
elettrodi nei cervelli degli studenti, esistano delle conoscenze derivate dalla ricerca neuroscientifica che sono altamente rilevanti per
l’insegnamento e che gli insegnanti potrebbero utilizzare per disegnare processi di apprendimento più efficaci. Una di esse è legata al
cosiddetto N400, un segnale cerebrale che è accentuato quando
l’input è poco comprensibile. Sebbene sia ovvio che il linguaggio
dell’istruzione debba essere comprensibile, gli insegnanti spesso ignorano il fatto che, per chi sta apprendendo, spesso il modo in cui
gli esperti della disciplina (per es. un insegnante) utilizzano il linguaggio, fa somigliare la nostra madre lingua ad una lingua straniera.
E’ quindi necessario modulare il linguaggio, non solo per i primi 5
minuti di una lezione ma preferibilmente anche durante la maggior
parte del tempo. Ironicamente, proprio quando implementiamo il
CLIL (Content and Language Integrate Learning), dove il contenuto
è imparato attraverso una lingua straniera, l’uso esplicito di una lingua straniera sensibilizza gli insegnanti al fatto che anche il discorso
della disciplina è “straniero”.
In questo articolo, i processi identificati dalla ricerca neuroscientifica
per attenuare l’N400 sono stati integrati con informazioni derivate
dalla ricerca in linguistica e nell’apprendimento della lingua per fornire delle considerazioni pragmatiche che gli insegnanti potrebbero
utilizzare per rendere il loro insegnamento più “brain-compatible”.
E’ presentato un esempio dei materiali di apprendimento CLIL, insieme ai learning outcomes ottenuti. Il secondo articolo (Part II, a
pagina 106) illustra come la familiarità con i “segnali cerebrali” (tipo
N400) possa condurre non solo verso un approccio più efficace per
coltivare l’alfabetizzazione ma anche verso un modo diverso di “fare
lezione”.
1. Introduction
A summer school for educators entitled “Scientifica-Mente” makes obvious the
fact that education is about the brain: when we learn, we learn with our brain1.
This is illustrated in the quote which opens the chapter by Hill and Schneider
(2006) in The Cambridge Handbook of Expertise and Expert Performance:
1 In the spirit of this Journal which seeks to provide teachers insights to improve their classroom
practice, I will use a narrative register to help make academic research accessible to classroom
practitioners.
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As humans acquire skills there are dramatic changes in brain activity that
complement the profound changes in processing speed and effort seen in
behavioral data. These changes involve learning, developing new representations, strategy shifts, and use of wider cues and approaches…Patterns are
beginning to emerge that show that skilled performance produces changes
in brain activation… (p. 655).
Using very simple tasks which can be learnt in the hour while volunteers lie
within a functional magnetic resonance imaging (fMRI) magnet, studies have
shown that improvement in task performance is reflected in a gradual reduction in
the amount of brain activity involved, with the final amount of cortical activity
being only 15% of that observed at the beginning of task-learning. Reduction was
seen in areas known to be involved with attentional control, task control and
working memory: not surprisingly, areas which remained active were those involved with the perception of input and the control of motor movements. Basically, the more skilled we are at a task, the less cognitive effort is required – the
less we need to think about what we are doing while we are doing it, e.g. driving a
car. This fact that “expertise” attenuates brain activity is called “processing efficiency change” (Kelly and Garavan, 2005). Education is about modifying how
efficient our learners’ brains are able to process information, even after these
brains have finished compulsory education.
2. Neuroscience and education: some considerations
Although I had obtained a PhD in neurobiology, studying learning and memory
processes in rats’ brains before switching careers to become a teacher of English
as a foreign language (in students’ brains), it was actually not immediately obvious to me that education is about modifying the brain. In fact, teachers, have
more to do with the brain than any other profession – not even a neurologist sees
so many brains on any given day as does a teacher working with classrooms of
learners. It is only recently, in researching the use of Content and Language Integrated Learning (CLIL) for implementing science instruction through a foreign
language, have I become aware that one reason the outcome of “schooling” is often so disappointing may simply be because traditional ways of educating are not
very “brain-compatible”: if the brain is shaped like a daisy, it is useless to force in
a cube.
It would seem obvious, therefore, that all teacher-training programmes should
offer ground-zero courses on “the neuroscience of learning”. This is not the case
and there are actually good reasons why teacher-training courses should proceed
cautiously with “neuroeducation” courses. In a noted article Education and The
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Brain: A Bridge Too Far, Bruer (1997) warned against the extension of neuroscience research findings into education since laboratory experimental contexts and
measurements of brain function are far simpler than the complexity of learning
which happens in classrooms. However, since Bruer’s article, significant progress in non-invasive techniques now make it possible to study complex cognitive
processes which are of direct relevance to education, such as attention, recognition, effort, analysis, memory retrieval etc. (e.g. see Posner and Rothbart, 2005;
2007). Although cognitive (neuro)scientists are increasingly able to delineate the
neural pathways involved in various cognitive processes, laboratory experimental
protocols are still far less complex than classroom learning conditions: learning a
list of “words” while lying inside a magnet is rather different from sitting in a
classroom and learning the periodic table. The “bridge issue” still exists, but it is
now a very nice bridge, especially on the neuroscience side of the divide: beautiful MRI images illustrate the where and when of motivation, attention, anxiety,
reward-expectancy, memory retrieval etc. However, can these findings obtained
within laboratory settings provide concrete guidelines regarding what teachers can
do to help learners who are learning in a classroom, surrounded by other learners
and attending to input which does not come from a computer monitor but a teacher?
There is now an additional concern. Regardless of whether the bridge is too
far, the bridge seems to be increasingly misused by those who have overinterpreted (to not say misinterpreted) neuroscience research findings to sell
“brain-gadgets” which promise to improve learning, memory etc. (Della Sala,
2009). In a special issue of Cortex (2009), ten articles by renowned educators,
psychologists and neuroscientists caution against the overenthusiastic and simplistic extension of neuroscience findings into education which could lead to the
creation of neuromyths which, rather than empowering teachers, may mislead
them into ways of conceiving education which are not useful. Our fascination
with the brain has, in fact, been scientifically demonstrated by Skolnick Weisberg
et al. (2008) who, in an article entitled The Seductive Allure of Neuroscience Explanations report that the affixation of “neuroscience” to illogical explanations of
data rendered them significantly more believable for non-experts:
neuroseduction. The bridge may not be too far, but it may be misused.
The effort to design “brain-compatible” classrooms is clearly no trivial matter
and teachers eager to find ways to help learners must approach all forms of
“neuroeducation” cautiously. More than ever, professionals who can objectively
interpret and understand neuroscience research findings should make an effort to
provide classroom practitioners with information that can guide everyday classroom practice. Some notable progress has been made, with Blakemore and Frith
who published The Learning Brain in 2005 that had the very bold subtitle lessons
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for education. In the same year, a Centre for Neuroscience in Education was established by the Psychology Department of the University of Cambridge and, in
2007, the Harvard Graduate School of Education established the International
Mind, Brain, and Education Society with the simultaneous launch of a homonymous peer-reviewed academic journal. Likewise, the Centre for Educational Research and Innovation of the OECD has published a volume entitled Understanding the Brain: the Birth of a Learning Science (2007). All these have contributed
in varying degrees to render more “scientific”, what teachers have intuited from
experience: learning happens best when we are less anxious, more motivated,
paying attention and interested; sleeping well and eating well definitely helps and
so does exercise.
While such clarifications are welcome, they may actually render “schooling”
even more frustrating for those of us interested in “learning”, but in classrooms: a
teacher must motivate and maintain the interest and attention of a whole classroom of learners, whose exercise, eating and sleeping habits she has no control,
and also ensure that anxiety is minimum so that learning is maximum. No teacher
would deny that the landscape at the neuroscience side of the bridge looks very
interesting indeed, but what do neuroscientists have over there, in laboratories,
that I, a teacher, can use over here in my classroom? Bikinis, Bermuda shorts,
flip-flops and pina colada mixes are undoubtedly nice, but would be of little use
to someone living in Alaska. To date, much of the bridge has been designed by
neuroscientists, based on neuroscience research. For neuroeducation to become a
true discipline, the bridge must be a two-way bridge that classroom teachers can
also contribute to constructing by identifying neuroscience findings which are relevant to their everyday practice and transforming laboratory indications to classroom procedures.
These two papers attempt to make a small contribution in this direction. This
first paper (Part I) mainly concentrates on a category of neuroscience research
finding which has not made it into the neuroeducation discussion but which, from
the point of view of a classroom practitioner, offers teachers some very concrete
food for thought. This regards the fact that the brain does not ignore incomprehensible input but actually responds to it: blank stares do not correspond to blank
brains. In fact, if processing efficiency change corresponds to less brain activity
when tasks become familiar, it is not surprising that incomprehensible input elicits more brain activity. Although it is obvious that educating is about learning the
unknown and that teachers must render the unfamiliar familiar, if neuroscience research clearly indicates that incomprehensible language causes more brain activity, it is clear that we must devise ways of making our language of instruction
comprehensible. I present learning activities that were designed with the explicit
purpose of “reducing N400”. The second paper (Part II) discusses how an under87
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standing of this N400 and the use of CLIL learning materials has sensitized an
experienced science teacher to the importance of modulating her language of instruction.
3. Incomprehensible input: blank stares are not blank brains…on the contrary!
In the late 1970s Kutas2 and colleagues performed a series of elegant experiments
using evoked response potentials (ERP) which, using surface electrodes positioned on the scalp of volunteers, showed that the brain reacts to surprising and
unpredicted input in very predictable ways (see Kutas & Federmeier, 2011). For
example, when volunteers read words presented one at a time to form sentences
with either improbable endings such as “He planted string beans in his car” or
totally anomalous endings such as “I take coffee with cream and dog”, a large
electrically negative-going signal was measured 400ms after the unexpected last
word. This response to the unexpected was called the N400-effect. Among others brain signals, N400 is a normally occurring component seen in response to
meaningful stimuli, be they visual or audio words, images, sign language signs or
even sounds, smells and gestures. The amplitude of the N400, with respect to a
non-cerebral reference electrode positioned behind the ear, is modulated by how
much one would expect a stimulus to appear in the given context: the cloze probability and the contextual constraint. The N400 effect can thus “detect” semantic violations since it is not observed when high cloze input are presented in
different fonts (e.g. capitals: He planted string beans in his GARDEN), colours or
even as an image (e.g. image of a garden vs. an image of a car in the case of planting string beans). The N400 effect is also not observed with input which is semantically congruent but grammatically incorrect such as “All turtles have four
leg” (rather than legs), and is not elicited in response to an erroneous note on a
musical scale or familiar melody.
Since its “discovery”, more than 1000 articles have reported studies evaluating
various aspects of N400 with special attention to its role in language processing,
word recognition and processing, the mental lexicon and memory etc. N400 is a
normal component of the many electrical brain signals detected during cognitive
processing and is not a “unitary response” but represents a cumulated signal from
a distributed network which processes, simultaneously and in parallel, the various
components of the input (word-level meaning, discourse-level meaning, context,
prior world knowledge, etc.) so to obtain a final interpretation and semantic comprehension (Wlotko and Federmeier, 2013). Later studies also moved beyond
2 Readers should refer to the review by Kutas and Federmeier (2011): Here I summarize only the
key points of these studies, using the examples provided by the “discoverers” themselves.
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word-level input and illustrated that N400 could also be elicited on a discourse
level, increasing or decreasing in intensity as a function of discourse familiarity or
“contextual permissibility”: for example, intense N400 which was elicited when
reading about inanimate objects performing acts could be attenuated if subjects
were told that they would be reading a fictional account. Interestingly, Niedeggen
et al. (1999) found that discourse-level semantic processing was also observed in
a “mathematical discourse”: although an N400 effect was detected for incorrect
answers to 5x8, N400 was more intense in response to the erroneous answers of
34, 26 or 18 when compared to the incorrect solutions of 32, 24 or 16 which, being multiples of 8, are more “contextually related”. An example given by Kutas
and Federmeier (2009) illustrates how N400 is modulated by context-defined
meaning:
…in the sentence "Jane told her brother that he was exceptionally
quick/slow this morning," the words quick and slow elicited N400s of approximately equal size. However, quick elicited a smaller N400 than did
slow when this sentence was preceded by a context sentence that read: "By
five in the morning, Jane's brother had already showered and had even gotten dressed" (p. 6).
By contextualizing the scenario through contextual priming, input becomes
more predictable, thus attenuating even the amplitude of a normal N400 response
to input. N400 thus represents an immediate, yet implicit and unconscious, evaluation of “the meaning of life at the moment”. As Kutas and Federmeier concluded their review of 30-years of research on N400 with, “The N400 literature,
taken as a whole, provides a compelling picture of how perception, attention,
memory, and language jointly participate in the neural events responsible for the
N400 and thus together contribute to the amazing ability of the human brain to
infuse its world with meaning” (Kutas & Federmeier, 2009: 22).
Imagine how much meaning a 14-year-old learner can infuse into his “world of
science” when reading the following sentences: “diffusion in a liquid consists of a
net flux of particles of the solute (the colorant) from an area of higher concentration to that where it is lower… we define osmosis as the passage of solvents
across a semipermeable membrane” (translated by author, from Italian). The authors of the Chemistry textbook (Barghelli et al., 2011: 133) for 14-year-olds had
attempted to link, on a single page, the photo of a drop of colorant spreading in a
beaker of water with osmosis. As we will see below, this type of language is difficult to process. In fact, it should not be surprisingly that words which are more
common and familiar elicit smaller N400s while low-frequency words elicit larger
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N400s, even when these are used congruently. However, although the word
“concentration” is chemically congruent, most learners would probably be more
familiar with the cognitive psychology meaning of this word in “concentration is
essential for studying well”.
Although this involves yet another
neuroelectrophysiological signal (the P6003), the message is clear: for education
to work well, the stream of verbal input must be easily comprehensible.
If the N400 effect is a marker of semantic incongruency, there are very clear
implications regarding our everyday classroom practice: “if learners are learning,
they must comprehend unknown content and concepts which inevitably require
the use of unfamiliar terminology”. Although we cannot expect to totally attenuate all moments of N400, we should consider this during instruction. In fact, an
increase in N400 amplitude has been correlated with a decrease in pupil size, an
involuntary response associated to a decrease in cortical arousal and taskengagement (Kuipers & Thierry, 2011). Basically, neuroscience data confirms
what teachers see on a regular basis: when students do not understand the input,
they do not engage with it. However, rather than writing off those blank looks to
an absence of brain signals and total disinterest, we may wish to consider that
those constricted pupils actually reflect an excess of N400s (among others3) and
students are simply unable to engage with the language of instructional input.
The consolation is that, as all good teachers know, there are ways to attenuate
N400. For example, familiarity reduces those blank stares and not surprisingly,
N400. As already discussed above, contextual priming attenuates even normal
N400 responses by simply rendering, albeit subconsciously, input more predictable or familiar. This N400 repetition effect is observed for all modes of input. Interestingly, that familiarity attenuates the N400 effect is observed even when an
incongruent stimulus is presented repeatedly: even if the input does not make
sense, repeated exposure to it increases familiarity and thus decreases the N400
effect. In fact, even with amnestic patients who suffer cerebral damage which
compromises their ability to explicitly notice repetition, N400 is attenuated as a
result of repetition (Olichney et al., 2002) i.e. even if these patients do not remember having seen the stimulus, they nonetheless show the N400 repetition effect. This N400 repetition effect has interesting implications for implicit learning.
3 Another electrical brain signal, P600, is elicited with synatically ambiguous input which require
re-processing to understand, e.g. “the reporter selected to write the story” (as opposed to “the
reporter struggled to get the story”: see pp. 17 of Osterhout & Holcomb, 1992): disciplinary discourse is obviously full of such syntatically opaque language.
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Basically, all that renders input more predictable attenuates the N4004: this
means that teachers can indeed do something about this. Below I illustrate how
this consideration was used to design upper secondary science learning materials.
The education context that motivated the design of such materials will be presented in more detail in Part II, along with findings from classroom research using
these materials. Briefly however, the initiative was a response to the Italian Ministry of Education mandate that a non-lingua discipline must be taught through the
foreign language of English by the Content teacher, during Content-learning time5
using the approach of Content and (foreign) Language Integrate Learning (CLIL).
It was therefore necessary to delineate ways for Content teachers who, despite
numerous years of experience teaching content, have “only” pre-intermediate levels of English6 to nonetheless “use English” to move their content curriculum
forward. Since many Italian Content teachers do not have the linguistic resources
to lecture for 50-minutes non-stop in English, they must do something else. This
something else could be to use learning materials which have been developed a
priori and which prompt learners to use English to complete activities and tasks
as they learn the content and thus attain the final content learning objective(s)
which has been designed into the CLIL learning progression. Among others, a set
of CLIL learning materials on the Human Heart have been developed and used
with very positive learning outcomes (see Part II). Here, we will examine how
the implementation of CLIL very naturally prompted us to design learning materials which, in turn, may naturally lower the N400 effect. First, however, before
we discuss how we can modify learning input to reduce N400, we should understand why traditional learning input is so “N400-rich” and why it should actually
remain this way.
4. Traditional learning input: rich source of N400?
4 Clearly, numerous other parallel processes are activated in response to input, some of which are
linked to the N400. One of these is the activation of the midbrain locus coeruleus nucleus norepinephrine pathways for maintaining attentional control and increasing task-engagement so to
attain “optimization of performance” (Aston-Jones & Cohen, 2005).
5 Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 24-12-2011, Serie generale - n. 299
http://www.uil.it/uilscuola/sites/default/files/dm-clill_gu_299_del_24_12_2011.pdf
6 In Europe, foreign language (FL) competence is normalized to a Common European Frame of
Reference (CEFR) which considers six very broad levels of FL competence (A1, A2, B1, B2,
C1, C2) with A1 learners being those who have almost no knowledge of the FL, B2 being the
level which would enable a user to follow university courses in the FL, while C2 competence
equates with the language competence of well-educated native speakers.
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To appreciate any alternative to traditional ways of learning, we need to first understand why more traditional types of learning-input is so “N400-rich”. Excerpt
1A presents a more traditional type of text which students may use to learn about
Heart.
Excerpt 1A. Traditional learning material covering the learning objective
of the CLIL activities.
The human heart is a muscular organ that provides continuous blood circulation
through the cardiac cycle and is one of the most vital organs in the human body. The heart
is divided into four main chambers: the two upper chambers are called the left and right
atria and two lower chambers are called the right and left ventricles. The two superior
atria are the receiving chambers and the two inferior ventricles are the discharging chambers.
While this is an undoubtedly efficient and effective way to summarize what
students need to know about the anatomy of the human heart, this is not an easy
text for a learner to learn from. In fact, in Writing Science, linguists Halliday and
Martin (1993) rightly noted that the language of science is alienating because it
turns our mother tongue into a foreign language. This is also the case for disciplinary discourse between economists, historians or even educators: when individuals come together as communities sharing a common interest or goal (be these professional or social), they not only coin new terminology but also develop
ways of using language which is characteristic of that community of practice.
Such disciplinary discourse allows members of the community to communicate
with each other with minimal misunderstandings: we would hope that our surgeon
and his team share a common discourse so that they are efficient and effective and
have no doubt regarding what they must do! The problem for education is that
since members within a discourse community comprehend each other, community
discourse becomes the conventional ways of languaging about community
knowledge (Wenger, 1998; Snow, 2010). Such disciplinary discourse thus very
naturally become the language of instruction we find in textbooks (van den
Broek, 2010). Unfortunately, such discourse is also often that used by wellmeaning teachers who fail to realize that, since learners are not (yet) members of
that discourse community, using alien-sounding language to explain unknown
content makes learning a potentially “N-400 overloaded experience”.
However, the issue is not that education should avoid disciplinary discourse:
learners must be able to use disciplinary discourse properly to talk about and write
about disciplinary understanding. Disciplinary discourse must therefore be a
learning objective (Webb, 2010). The challenge for teaching is that, although this
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type of discourse is where learners must get to, this language is difficult to learn
from.
Research in Linguistics can help us define a few pragmatic steps for analysing
and editing disciplinary discourse so to render it more accessible to the learner
(Wellington & Osborne, 2001). For example, we can perform a lexical density
analysis of the aforementioned excerpt on the Heart by identifying the following
categories of words which may cause N400 (or other brain signals related to processing difficulty):
 words which are specific to the discipline (e.g. ventricle),
 words which may have a common meaning but are used in disciplinespecific ways (e.g. chamber),
 blocks of academic language which sound formal and stiff and do not
represent how we usually use our mother tongue in everyday
converstaion.
If we were to eliminate these words that could potentially evoke N400s and
leave only words which learners can readily comprehend if they are only starting
to learn about the heart, we would have the following text:
Excerpt 1B. Analyzed for lexical density.
The human heart is a ______ that provides ______ through the ______ and is one of
the most ______ in the human body. The heart is divided into four main ______: the two
______ ______ are called the left and right ______ and two lower ______ are called the
right and left ______. The two ______ are the ______ and the two ______ are the ______.
Such an analysis clearly shows why such input could be an “N400-overload
experience” for a learner who is learning. If teachers, who are disciplinary experts, realize that the disciplinary discourse which is so familiar to them can seem
a foreign language for learners who are in the learning phase of the learning process, then teachers can begin to modulate their language of instruction: languageaware teachers realize that learners must learn not only an unknown Content, but
also an unfamiliar Language. This is the case even in our mother tongue. It is
therefore essential to equilibrate the cognitive demand7 caused by the simultaneous processing of both unknown Content and unfamiliar Language. As illustrated
in the left-hand image of figure 1, when learners are approaching a new topic,
Content is unknown so the content cognitive demand (CCD) is probably high. It
is therefore essential that the cognitive demand required by the language of in7 Readers interested in working memory and cognitive load should see Schnotz and K rschner,
2007.
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struction (LCD, Language Cognitive Demand) remains light, low LCD (Ting,
2012). The right-hand balance, on the other hand, represents moments when we
cultivate learners’ ability to produce and manage disciplinary discourse, i.e. academic and disciplinary literacy. In fact, education must ensure that learners are
not only able to speak about their scholastic learning but also write about their
knowledge using academically appropriate language which incorporates discipline-specific lexis and discourse. Such literacy must be cultivated actively (Wellington & Osborne, 2001) and probably by the discipline-expert: if a chemistry
teacher does not teach her students how to speak and write like a chemist, who
will? When cultivating students’ academic and disciplinary language skills, the
language cognitive demand is high because students must be able to produce and
manage disciplinary discourse which is lexically dense. Clearly, at this point of
the learning process, the learner must have already understood the Content, making the content cognitive demand light (CDL): it is only then can we work on
“heavy language” and cultivate academic literacy.
Figure 1. Equilibrating between the cognitive demands caused by unknown content and unfamiliar language (CCD: Content Cognitive Demand;
LCD: Language Cognitive Demand) (from Ting, 2012).
5. How CLIL-learning materials may reduce N400
As explained earlier, if an Italian science teacher does not have the linguistic resources to do the traditional “teacher-fronted explaining” for 50 minutes in English, one way to respond to the Ministerial mandate to implement CLIL is to use
learning materials which prompt students to use English to complete tasks and
exercises and, in so doing, learn content. However, to date, most commercial
“CLIL learning materials” simply present students with reading comprehension
exercises: most of these are suitable for summarizing what must be learnt and are
thus only useful during the assessment phase of the learning process. The probTing – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part I ...
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lem is to offer material which supports learning during the learning phase of the
learning process: during the learning phase, we cannot assume that students are
knowledgeable and nor can we assume that they are so interested in the topic that
they will read long texts about the topic in a foreign language. Once the novelty
of reading in a foreign language wears off, long readings in any language is not
the best input to learn from.
Table 1 presents the first three of a set of 24 tasks which were designed to help
16-year-old students learn, within 140 minutes of learning time, about the anatomy and physiology of the Human Heart to the content-depth specified by the L1science curriculum8.
Table 1. CLIL-learning activities on the Human Heart.
Step 1. In this exercise, learners must
simply decide which version of each question-pairs is correct. To do this, learners
must only use their knowledge of elementary-level English grammar: the learner is
not required to pay explicit attention to
the Content.
As shown below, since
learners are learning, the Content Cognitive Load is heavy, so the explicit focus is
placed on familiar Language (dark grey):
we need to pay very little attention to unknown content (very light grey).
Step 2 then provides learners with seven potential answers for the five questions above.
8 Those interested in some of the other activities should refer to Grandinetti et al. (2013) and the
materials on the Cambridge English Teacher site (Ting, 2013).
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Step 3. The correct Q/A matches are shown
on the right. Since the QA-matching relies on
grammar, learners can automatically produce
the correct match. However, this is not because they know the Content but because they
are being asked to use their knowledge of language, which is familiar.
In fact, when the Content is unknown, the
Content Cognitive Load is heavy: learners
learning cannot know what the upper chambers are called. However, if the only grammatically possible match to the question “What are
the upper chambers called” is “atrium…” then
learners automatically know what the upper
chambers are called:
A task using familiar grammar serves as a
scaffold for unfamiliar content.
Step 4 involves the correction of a text with a few minor Content mistakes.
In asking learners to correct a few very obvious
Content mistakes, we were
shifting our explicit focus
from Language onto Content. We are beginning to
consolidate content. This
Dino Sauro task is therefore
fairly balanced between
both C and L (upper grey
boxes).
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While the cognitive load
on the Q/A-match exercise
focused explicitly on familiar English grammar with
only implicit attention to
Content information, as
shown in the lower boxes,
the exercise with Dino
prompts learners to begin
paying a little more explicit
attention to the Content information: the cognitive
load is therefore equilibrated between both the L and
C.
Until “Dino”, learners need not pay much attention to Content information because the exercises were about English grammar. However, although learners are
not paying explicit attention to Content information, they are being implicitly exposed to the vocabulary, lexis and concepts regarding the Heart: learners are
therefore implicitly becoming increasingly more familiar with “the language of
the Heart”. As ERP recordings have shown, familiarity decreases N400. Without this “N400 barrier”, it becomes easier to gradually engage with content information and process it at a deeper level. This was exactly what was required in
Step 5 during which learners must choose the diagram which best represents the
heart.
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Step 5. In this step, the
learners must “choose which
diagram correctly represents
the heart”. To do so, learners
must return to the previous
set of “language exercises”
but this time, rather than focus their attention on Language, learners must now
process the information so to
“extract Content”.
The focus is therefore totally on Content, as illustrated by the dark grey box on
the left.
Although this was not empirically measured, we can imagine that to choose the
correct diagram, it would be necessary to process terminology words into concepts so that single isolated words such as “atria, ventricles, lower, upper, larger,
smaller” are processed into organized thoughts which support a mental image of
the heart that would lead the learner towards the correct answer (see image in figure 2). The transformation of terminology into concepts requires deep-level higher order thinking skills (HOTS). Table 2 illustrates how information regarding
the right heart was reformulated into CLIL learning activities.
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Figure 2. To choose a diagram
which best represents content
information,
higher
order
thining skills (HOTS) would be
needed to transformm single
terminology words into content
concepts and would most
probably involve the grouping
of words as illustrated in the
thought bubbles.
Table 2. Process for learning about the right heart
Learners used the information
on the right to complete a drawing of a heart diagram similar to
that in Step 5.
The following image represents a power point slide which is
used to check that learners have
successfully interpreted and allocated these eight pieces of information.
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6. Attention to N400: Learning outcomes
Although the process of learning through CLIL is definitely slower than the
traditional “explaining” which would only take a paragraph to read or 3 minutes
to “explain”, this way of learning achieves a much deeper level of understanding:
figure 3 illustrates the final test questions which students are able to answer ca.
120 minutes into the 140 learning process.
Figure 3. Final test questions after the entire set of 24 Heart Activities which
evaluated students’ ability to use higher order thinking skills to transfer their
knowledge of heart anatomy and answer questions regarding heart functionality.
The final test questions clearly tests for a deep-level of understanding of the
anatomy of the heart. For example, to answer the first question, learners must not
only know where these two respective valves are, they must also have understood
whether the blood flowing through these is oxygenated or deoxygenated and thus
already understand where the blood is coming from and going to. The depth of
understanding that could be attained after 120 min of learning time illustrates that
it is not difficult to comprehend concepts if the concepts are presented through interactive and active learning tasks that use comprehensible language.
Figure 4 presents an essay that was produced by a very weak students two
months after two lessons using these CLIL learning materials on the Heart. Three
things are particularly noteworthy. Firstly, this student who normally writes very
little, if at all, not only wrote as much as other students, but also showed a solid
understanding of the content covered through the CLIL materials. Granted the
logic in “the circulatory system is the transport of blood” is imprecise, as also
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what is exactly “all those substances” (tutti quei materiali) that the circulatory system transports to and from cells and the fact that the aorta is not a vein but an artery (see student’s writing). However, note that this very weak student had opted
for “substances” rather than “stuff” (cose). Secondly, this student also added information about the Heart that were not included in the CLIL materials, such as
the fact that the heart is a “muscle” or that there is also an “inferior vena cava”.
This demonstrates that once this student understood enough about the core concepts of Heart Anatomy, he was then motivated and able to study on his own and
complement concepts learnt in class with additional details found in the textbook.
Thirdly, and probably most interesting, was the fact that this student showed an
awareness of academic discourse, self-editing into his essay an introductory sentence which he had initially neglected to include and then modifying his initial
writing so to incorporate the introductory sentence.
Figure 4. Learning outcome obtained from a very weak student two months
following two CLIL lessons on the Heart: total learning time of 140 minutes.
The students had first written “Il cuore è costituito da 4 camere mulscolari: atrio destro e atrio sinistro, ventricolo destro e ventricolo sinistro” before he decided to also include a topic sentence, “il sistema circolatorio è il trasporto di sangue ed è costituito dal”. He uses the arched line on the left to indicate that this
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topic sentence should come before “cuore”. However, as any good writer knows,
changing any part of a text requires a revision of the existent text: the student thus
added “che a sua volta” between “cuore” and “è costituito…” so that his final
self-edited sentence with the new additions indicted in square brackets read, “[The
circulatory system is the transport of blood and is comprised of] the heart [which,
in turn,] is comprised of 4 muscular chambers: right atrium and left atrium, right
ventricle and left ventricle”.
Therefore, through the design of CLIL learning materials that explicitly make
an effort to decrease potential sources of N400, even the weakest learners have no
problems learning and taking interest.
7. Conclusions: Part I
The formulation of thought, and thus knowledge and understanding, relies on language. What is “electron, proton and neutron” if not language? All teachers are
language teachers (Wellington & Osborne, 2001). Teaching which is “brain
compatible” must therefore ensure that the language of instruction is comprehensible, even in our mother tongue (ibid). Since CLIL explicitly utilizes a foreign language, disciplinary teachers automatically become aware of the “foreignness” disciplinary discourse, even in our mother tongue. Thus sensitized, good
teachers will naturally start to modulate their language of instruction and thus
probably attenuating N400. This alone renders education more brain-compatible.
The astute reader will have understood that, once a teacher is sensitized to the
need to render language comprehensible, it will not be long before she also considers how to render content more comprehensible (Ting, 2011). This is exemplified by the process by which macro learning objective of the “Human Heart” had
been deconstructed into smaller micro learning objectives which were then embedded within comprehensible language. Few would deny that evolution has selected for a learning brain. Therefore, when chewable aliquots of content are embedded in comprehensible language, our brain will naturally learn. All of us who
have had good teachers realize that that is what they had done: presented information in chewable chunks through comprehensible language. Neuroeducation is
therefore not about discovering tricks to good education: it is simply explaining
the neuroscience behind what good teachers have always done. “Attenuating
N400” offers a concrete motto towards good classroom practice.
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Learning Learning ScientificaMente through
CLIL: Part II – the teacher
Margherita Langellotti1 e Y. L. Teresa Ting2
1
Science, Liceo Scientifico 'Galileo Galilei' Paola (CS);
2
Faculty di Scienze e Dipartimento di Linguistica, Università della Calabria, Italia
E-mail: [email protected]
Riassunto. Pochi negherebbero che il cervello che abbiamo, l'organo
strutturato in maniera mirabile per l’apprendimento, frutto di una
plurimillenaria evoluzione, ha consentito la sopravvivenza e la
conservazione della specie. Esistono, quindi, dei processi cerebrali
“automatici” che ci permettono di monitorare, controllare ed interpretare
ciò che ci circonda. Non ci dovrebbe stupire quindi, che esiste un segnale
cerebrale che è particolarmente “sensibile” agli input incomprensibili: il
segnale è chiamato “N400”. Nell’articolo precedente (Part I), è stata
presentata brevemente la ricerca sull'N400, che ci fa capire l’importanza di
modulare il linguaggio dell'istruzione in modo che sia facilmente
comprensibile; infatti, se un nuovo argomento scientifico viene spiegato
nel linguaggio usato tradizionalmente dai docenti, e di conseguenza ricco
di termini sconosciuti o poco noti ai discenti, come potremmo pretendere
attenzione ed entusiasmo da parte degli stessi?. L’articolo precedente ha
delineato alcune procedure per ridurre il segnale N400, modulando il
“linguaggio della disciplina”. Ciò, però, comporta un altro problema: anche
se non si impara bene dal linguaggio della disciplina, gli studenti comunque
devono imparare a utilizzare il linguaggio della disciplina, parlare di fisica,
di matematica, di economia ecc. con un linguaggio appropriato: disciplinary
literacy. In questo articolo dimostreremo come, controllando che gli input
di N400 siano minimi o preferibilmente nulli, possiamo anche sviluppare,
in modo attivo, l’alfabetizzazione: rispondere velocemente agli input
incomprensibili è necessario per la sopravvivenza della specie, ma scrivere
bene è altrettanto necessario per crescere dal punto di vista professionale.
Inoltre, presentiamo anche l’avanzamento professionale di un insegnante
che, una volta cosciente della esistenza dell’N400, ha cambiato il suo modo
di “fare lezione”: se il cervello ha la forma di una margherita, inutile
insistere col voler inserire in esso un cubo.
Abstract. Few would deny that the brain we have is the perfect organ for
learning, selected by evolution for learning quickly so to support species
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survival. There are therefore several automatic cerebral processes that
allow us to monitor and interpret that which surrounds us. We should not
be surprised, therefore, that there is a cerebral signal that is particularly
alert to incomprehensible input: this is called the N400. In the previous
article (Part I), a summary of neuroscience research on the N400 was
presented which clearly emphasize the importance of rendering the
language of instruction comprehensible: if an unknown science topic is
explained through a language which is full of unknown terminology, how
can students follow enthusiastically? The previous article delineated some
procedures for reducing the N400 by modulating “disciplinary discourse”.
This however, brings us to another problem: although it is difficult to learn
from disciplinary discourse, students must nonetheless be able to produce
disciplinary discourse, speak about physics, maths, economics etc. using the
appropriate language of the discipline: disciplinary literacy. In this article,
we demonstrate1 how attention to N400 also helps teachers cultivate
literacy, actively: responding quickly to incomprehensible input is
necessary for species survival. But writing well is necessary for
professional advancement. In addition, we present the professional
advancement of a teacher who, once aware of the existence of N400, has
changed her way of teaching: if the brain is shaped like a daisy, it is useless
to insert cubes.
1. Introduzione
Come appare chiaro dall’articolo precedente “Learning scientifica-mente through
CLIL: Part 1 – the learner”, l'insegnante CLIL, consapevole di come avviene il
processo di apprendimento nell'allievo, diventa automaticamente più cosciente del
fatto che insegnare una disciplina scientifica abbia molte affinità metodologiche
con l'insegnamento della lingua straniera. Con questa consapevolezza, egli pone
più attenzione all'uso del linguaggio, adeguandolo alle capacità ricettive degli allievi, cercando di renderlo più comprensibile e valutandone le reali difficoltà sia
terminologiche che sintattiche. Con un'efficace espressione lo rende “braincompatible”. Questo nuovo linguaggio scientifico, come una nuova lingua straniera, ha bisogno di essere appreso secondo strategie e metodi ben precisi, a cui
CLIL sembra rispondere pienamente. Nel primo articolo è stato esplicitato con
chiarezza che l'effetto sul cervello di input poco comprensibili genera emissioni di
1 Poiché la ricerca è il frutto dell’intensa collaborazione tra i due autori, i nomi sono elencati in ordine alfabetico. Per trasparenza accademica, si precisa che Langellotti ha elaborato le sezioni 3 e 4.1 e ha curato la traduzione dall’Inglese mentre Ting ha elaborato
le altre sezioni e sviluppato i materiali CLIL presentati in questo articolo.
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vari segnali fra cui l' “N400”, che è la risposta cerebrale alle incongruenze semantiche verbali o numeriche. Per cui possiamo dedurre che ad ogni emissione di
N400 corrisponde un input incomprensibile. Questi preziosi dati proventi dalla ricerca neuroscientifica inducono a pensare che i risultati dell'istruzione nel campo
delle scienze potrebbero essere così deludenti perché il linguaggio dell'istruzione
non è facilmente compreso dagli studenti che, essendo allievi (learner), non posseggono alcuna padronanza del linguaggio scientifico che si accingono ad imparare, che risulta, già di per sé, una lingua a loro sconosciuta, anche se veicolata nella
lingua madre.
La sfida è quindi quella di trovare modalità per rendere il linguaggio del docente più comprensibile, non solo per i primi 5 minuti della lezione, ma per l’intera
durata del corso. Perché è proprio compito dell'insegnamento fornire non solo
nuove conoscenze e competenze, ma anche fornire ai discenti il linguaggio specifico, idoneo a esprimerle efficacemente. Infatti, pochi negherebbero che l'istruzione del 21° secolo, così com'è strutturata, prepari in maniera non adeguata i futuri cittadini ad affrontare la moderna società globalizzata, multilingue e
multiculturale dove il progresso scientifico e soprattutto quello tecnologico si evolvono incessantemente. I risultati deludenti, riguardo le competenze scientifiche dei giovani su tutto il territorio italiano, hanno portato gli educatori a individuare nuovi obiettivi di apprendimento per mirare ad una formazione che
sviluppi competenze adeguate a questo nuovo mondo, come quelle di saper lavorare in gruppo, attraverso l'apprendimento cooperativo, che sviluppa altresì capacità di saper esprimere le proprie opinioni, sapendo argomentare in maniera convincente per affermare le proprie idee. Ed ancora, l'istruzione dovrebbe
sviluppare competenze linguistiche sia per padroneggiare la propria lingua madre,
sia per comunicare in almeno una lingua straniera per interagire con gli altri popoli di questo grande “villaggio globale”. Le competenze linguistiche, per garantire
un’efficace comunicazione, non possono prescindere dall’uso corretto e dalla conoscenze delle lingue senza che l’enorme quantità di informazione sulla rete con
la velocità con cui si diffonde ci riduca a vittime di un “uso improprio del linguaggio” (Fairclough, 1991), quale quello che sembra ormai dilagare fra i giovani.
Di fronte a un tale pericolo, solo un sistema d'istruzione che usi mezzi concreti
ed adeguati può fare in modo che tutto questo non avvenga e che, anzi, porti ad un
reale rinnovamento del sistema formativo tale da rendere i nuovi cittadini capaci
di selezionare e filtrare informazioni, sapendone riconoscere la validità dal linguaggio utilizzato. Purtroppo, nonostante i numerosi anni spesi a leggere testi ben
scritti, e sentire spiegazioni di esperti, come i loro insegnanti, questo modello d'istruzione non garantisce a tutti gli studenti lo sviluppo delle competenze e delle
capacità necessarie per trattare la disciplina in modo accademicamente corretto.
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Ma come potrebbero gli studenti esprimere la loro conoscenza della chimica, della
fisica o della matematica se non abbiamo insegnato loro come utilizzare correttamente il linguaggio della chimica, fisica o matematica? La sfida è quindi ancora
più complessa, poiché il linguaggio della disciplina non è fonte di apprendimento
in sé, ma la sua acquisizione è comunque punto di arrivo per gli studenti. Per cui
usare un linguaggio comprensibile significa ridurre al minimo i segnali di N400
emessi dal cervello, quindi significa tout court facilitare il loro apprendimento.
Ma come può l'insegnante far sviluppare il linguaggio accademico se egli stesso
non lo utilizza nell'insegnamento? Sembrerà strano ma questo obiettivo lo si può
raggiungere con l'uso della lingua straniera, utilizzando la metodologia CLIL. Infatti tale metodologia ci porta a delineare in modo molto esplicito le modalità con
le quali sviluppare l'alfabetizzazione, literacy. Così, utilizzando la lingua straniera gli studenti impareranno i contenuti, ed è quindi ovvio che insieme al contenuto
gli studenti saranno in grado di imparare a parlare e a scrivere in modo accademico sui contenuti appresi.
CLIL, quindi, porta l’alfabetizzazione al centro del curriculum scolastico, obbligandoci a creare modi per coltivare il linguaggio accademico, sebbene lo stesso
non sia utilizzato per “istruire”. In questa sezione 2 dell'articolo, mostriamo dei
materiali didattici CLIL che sviluppano esplicitamente l’alfabetizzazione, attraverso i processi che minimizzano il segnale N400. Nel proporre qualsiasi attività,
che potrebbe migliorare la “classroom practice”, è necessario capire se gli insegnanti, raccogliendo i principi che stanno alla base di questo diverso modo d'insegnare, riescono poi ad applicarli correttamente nei diversi percorsi di studio.
Quindi, nella terza sezione, presentiamo le riflessione di un'insegnante, qual è la
coautrice di questo contributo Margherita Langellotti, che descriverà quali sono
stati i momenti cruciali del suo lungo insegnamento, 22 anni di servizio presso un
liceo scientifico, che l'hanno spinta a rivedere il suo modo di insegnare e l'hanno
condotta sulla via del cambiamento sia nei riguardi dei materiali prodotti da proporre ai propri studenti, sia nel ruolo da lei rivestito durante le attività svolte in
classe.
2. Coltivando l’alfabetizzazione disciplinare con CLIL
2.1. Rallentando il processo senza semplificare il contenuto
Qui di seguito si illustrano le fasi di un'attività CLIL pensata per ragazzi italiani di
12 anni, di cui il lettore può vedere la struttura nella copia presente in appendice.
L'attività prevede l'attuazione di un esperimento a cui lo studente arriva attraverso
lo svolgimento di una serie di esercizi in lingua inglese che implicano l'uso di
abilità linguistiche di base come: lettura e scrittura. E’ interessante notare come
la metodologia CLIL sviluppi le fasi in maniera completamente diversa dalla tra-
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dizionale lezione frontale. Infatti, è solito presentare l'esperimento preceduto da
una spiegazione da parte del docente, sui meccanismi che stanno alla base del fenomeno che si va ad analizzare e poi si procede con attività di scrittura, senza fornire agli studenti alcuna indicazione sul linguaggio da utilizzare. Invece,
nell’attività CLIL qui presentata, i ragazzi cominciano a lavorare svolgendo, in
lingua inglese, i primi tre esercizi proposti dal testo, e solo dopo cominceranno ad
eseguire l'esperimento.
Questa procedura sicuramente favorisce e rafforza la motivazione. L'attesa della messa in opera dell'esperimento, creerà, infatti, aspettative e curiosità, mettendo
gli allievi nella situazione ottimale per ricevere tutte le informazioni veicolate dalla lingua straniera e portandoli a potenziare la loro capacità di osservare le fasi
dell'esperimento. L'attività pratica si basa sulle caramelle M&M e si prefigge i
seguenti obiettivi di apprendimento:
1. Apprendere il concetto di dissoluzione;
2. Verificare come l'acqua sia un potente solvente;
3. Imparare a scrivere una relazione di laboratorio;
4. Usare un linguaggio appropriato per spiegare i meccanismi di
dissoluzione;
L'esercizio 1a impegna gli studenti con un lavoro sulla lingua inglese: infatti
essi devono ricostruire frasi spezzate, applicando le loro conoscenze grammaticali
e linguistiche, indipendentemente dal contenuto scientifico implicito. Mentre il
successivo esercizio 1b chiede loro di assegnare le risposte, di seguito riportate,
alle domande dell’esercizio precedente. Entrambi gli esercizi richiedono solo
competenze grammaticali e lessicali, senza alcuna richiesta sulla conoscenza dei
contenuti scientifici impliciti oggetto del nostro studio e cioè le informazioni relative alla composizione delle caramelle M&M.
L'esercizio 2 è un esercizio che richiede l'uso della scrittura esplicita e obbliga
gli studenti a trascrivere le domande e le risposte da loro associate in un immaginario dialogo a fumetti. I sotto-obiettivi di questa attività sono essenzialmente due:
• Scrivere in maniera ortograficamente e sintatticamente corretta;
(non è raro, infatti, trovare studenti nell'università italiana che fanno di
questi errori, come confondere whit, “pentecoste”, sostantivo, con with,
“con”, congiunzione, pur avendo studiato almeno 10 anni di L2 dalle scuole
medie alle superiori).
• Fare attenzione alle indicazioni relative al contenuto e appropriarsi della
terminologia specifica.
(Anche se in questo caso i contenuti si riferiscono ad una semplice caramella di M&M, gli studenti devono comunque imparare nuova terminologia
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come ad esempio: arachidi, strato, dissoluzione, coloranti etc.).
Ricostruire il dialogo guidato dall'uso della lingua straniera, obbliga gli studenti a rivisitare sia la nuova terminologia che le nuove informazioni nel loro complesso.
L'esercizio 3 sensibilizza gli allievi sull'importanza della correttezza sintattica e
sul rigore logico-argomentativo, facendo cogliere loro che quando si è nei panni
di un lettore, c'è bisogno che la comunicazione sia chiara e logicamente connessa
vedi 3a, questo è possibile solo con l'uso dei connettori logici o “dispositivi di
collegamento” come in 3b. Tuttavia rispetto agli esercizi 1 e 2, in cui viene usato
un linguaggio informale, l'esercizio 3 utilizza un linguaggio più consapevole, più
tecnico e accademico; esso muove dalla lingua utilizzata, che Cummins (1984)
chiama BICS (Basic Interpersonal Communication Skills) verso CALP (Cognitive Academic Language Proficiency), e cioè prevede il passaggio da un linguaggio
di base informale a un linguaggio accademico e consapevole.
Arrivati a questo punto, gli studenti hanno avuto informazioni riguardo la lingua e tutto ciò che serve loro per poter svolgere l'esperimento. Infatti, utilizzando
questa metodologia, si trovano a dovere processare, riprocessare e rigenerare linguaggi di diverso genere attraverso le attività di scrittura che gli esercizi richiedono, per cui avranno sicuramente acquisito più informazioni rispetto a quante ne
avrebbero avute con la semplice lettura dei “Materiali e Metodi” che si ritrovano
sul loro libro di testo quando devono eseguire un'esperienza. Inoltre l'esercizio 4
consente che gli studenti possano, essi stessi, dare un ordine logico alle fasi dell'esperimento che andranno ad eseguire, senza che l'insegnante debba intervenire.
Anche da questa fase si può comprendere come CLIL cambi le dinamiche tradizionali e quindi i ruoli: l'allievo diventa il protagonista del suo stesso apprendimento, e questo protagonismo lo aiuta ad avere fiducia in sé, perché lo pone nella
situazione di saper usare il linguaggio corretto che ha appena appreso. L'esercizio
5 prevede la visione di un filmato senza audio, molto efficace per rappresentare il
processo di dissoluzione di un soluto in acqua. Infatti, nel filmato, si vede con
chiarezza che sono le molecole dell'acqua che determinano l'intero processo,
svolgendo un ruolo attivo nella demolizione dell'impalcatura del soluto, per cui il
ragazzo rafforza i concetti appena appresi con una rappresentazione visiva riguardo ciò che avviene a livello molecolare. Utilizzare anche la rappresentazione visiva, infatti, aiuta lo studente a rafforzare l'avvenuta comprensione di quei significati che solo “visivamente” riusciamo a cogliere in pieno e che le sole parole o
qualunque altro tipo di comunicazione non possono mostrare con altrettanta immediatezza, di conseguenza si riesce a togliere ogni dubbio e ogni possibilità di
incorrere in errori concettuali, che sono difficili da smantellare una volta creati, se
non immediatamente riconosciuti e rimossi.
A questo punto, l'esercizio successivo consente agli studenti non solo di ri111
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pensare su tutto ciò che hanno osservato, ma, fornisce loro il linguaggio accademico con il quale esprimersi nel raccontare la loro esperienza. Questo lo realizzano con l'esercizio 6 in cui bisogna completare una relazione già correttamente
espressa. Infine, con l'esercizio 6b si chiede loro di scegliere la migliore frase, tra
cinque proposte, che possa essere, sia dal punto di vista concettuale che dal punto
di vista linguistico perfetta per concludere la relazione dell'esperimento effettuato. Proporre cinque plausibili conclusioni, differenti solo per il linguaggio utilizzato, è un modo molto efficace perché gli studenti possano mettere la giusta attenzione su come si deve esprimere un concetto scientifico. Il linguaggio
scientifico ha delle proprie regole che non possono essere disattese, esso deve essere rigoroso e chiaro per poter esprimere un concetto in modo corretto, evitando
il più possibile fraintendimenti. Infatti, facilmente, discutendo fra di loro, gli studenti riescono a riconoscere l'opzione più efficace, la D, e allo stesso tempo riconoscono il linguaggio informale e impreciso nell’opzione A, quello che esprime il
concetto errato in B e comprendono che le opzioni C e E sono decisamente ridondanti. Questo semplice passo contribuisce, così, a migliorare la loro capacità di
scrivere di scienza perché fornisce loro gli esempi più efficaci e tangibili su come
usare le parole in questi contesti.
E' importante sottolineare che l'attività con M&M era stata sviluppata dall'American Chemical Society in un contesto di apprendimento di scienza in madre
lingua, con lo scopo di portare una esperienza “hands-on” a “minds-on” attraverso
un esercizio a risposta aperta, in cui lo studente doveva annotare le osservazioni,
senza, però avergli fornito precedentemente alcun linguaggio necessario per esprimere il suo pensiero su ciò che aveva osservato. Con la versione dell'esperimento in CLIL, quindi con l'uso di una lingua straniera, l'attività è invece basata
proprio sul linguaggio e lo studente, per procedere, deve svolgere una serie di esercizi processando e riprocessando sia la struttura che la sintassi linguistica, ed
allo stesso tempo deve guardare anche ai significati da essa veicolati, quindi deve
riflettere sui concetti. Solo attraverso questo lavoro, lo studente arriva a generare
un linguaggio adeguato al contesto in cui si sta muovendo e a porre attenzione sui
termini da usare per descrivere correttamente l’esperimento, non lasciando spazio
a dubbi e ad errori di interpretazione.
CLIL quindi trasforma gli esperimenti sull'attività delle M&M dal fare al capire, 'hands-on to minds-on'. Mentre nelle aule tradizionali l'apprendimento dovrebbe avvenire con la sola lettura e l'ascolto, CLIL, utilizza tutte le abilità linguistiche che comprendono anche la capacità di parlare e di scrivere in modo tale che
le esperienze pratiche diventino conoscenza consapevole (Pearson et al.,, 2010).
2.2. Coltivando il linguaggio accademico attivamente attraverso input com-
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prensibili
I seguenti esercizi dimostrano come il CLIL ci permette di coltivare il linguaggio
accademico pur “non utilizzandolo” per l’insegnamento. L'esercizio qui di seguito riportato è preceduto da tasks che consentono agli studenti di apprendere che
gli elettroni subiscono due forze che ne determinano la loro distribuzione intorno
al nucleo: la forza repulsiva fra elettroni e la forza attrattiva fra gli elettroni e i
protoni del nucleo (schematizzata con il segno (+) al centro del disegno). Nell'esempio si vede chiaramente come si possa strutturare un esercizio in modo che gli
studenti possano soffermarsi e riflettere sul linguaggio senza che tale linguaggio
diventi una barriera alla comprensione: cioè attenuando N400 attraverso la contestualizzazione, la familiarità e la ripetizione. Nell'esercizio 4 (figura 1) viene chiesto loro di scegliere la frase che esprime nel modo migliore il concetto appena appreso attraverso gli esercizi precedenti che riguardano il modulo sulla “Tabella
periodica”.
Figura 1. La figura riporta un'attività-CLIL relativa al modulo sulla tabella periodica,
che è funzionale allo sviluppo del linguaggio chimico
L'esercizio offre quattro plausibili modi per spiegare lo stesso concetto. Gli
studenti, in questo caso, devono tener conto che il testo esprima con un linguaggio scientificamente corretto sia il concetto di come sono distribuite le cariche
positive e negative nell'atomo raffigurato a forma di nuvola, sia, anche, come le
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forze repulsive esercitate fra le cariche negative determinino una distribuzione
omogenea della nube elettronica. Bisogna dire che i ragazzi, di solito, individuano
subito la frase migliore, per cui l'operazione sulla lingua richiede solo la lettura e
la comprensione dei testi presentati, sollecitandoli poco sulla riflessione del linguaggio utilizzato. Con l’esercizio successivo (figura 2) si chiede agli studenti di
dare una spiegazione del perché i tre riassunti dell'esercizio 4a non erano “ben
scritti”.
Figura 2. Attività successiva a quella riportata in fig.1 che ha lo scopo di rafforzare
e completare il processo di acquisizione del linguaggio avviato nella prima parte.
Questo esercizio obbliga gli studenti a riguardare con più attenzione le frasi già
lette, per cui l'operazione da fare sui testi richiede ora una più attenta lettura ed
ognuno di loro ora è chiamato a dover riprocessare il linguaggio più volte. Questo li porta, inoltre, a discutere fra loro sul significato dei termini e sui costrutti utilizzati. Per esempio, gli studente dovranno rendersi conto come la frase: ... that
there are lots of electrons flying around the nucleus..... sia un modo di usare il
linguaggio molto informale e ridondante e l'uso dei termini come “lots “ e
“flying” risultano impropri in questo contesto, poi, analizzando la 3 dovranno evidenziare che il linguaggio utilizzato nella frase: “The protons in the nucleus attract the electrons but the electrons repel each other. “ è un linguaggio povero e
colloquiale che non mette in rilievo le forze in gioco e quindi non può essere esaustivo del concetto che si vuole veicolare. Così l'attenzione si porrà sulle frasi
dell'opzione 2 e 4. Dall'analisi, gli studenti dovranno evidenziare che entrambe
sono corrette, ma solo nella 2 si parla di equilibrio fra forze attrattive e forze repulsive associate alle cariche possedute dalle particelle atomiche, cosa non esplicitata nella 4, che è più diretta e sintetica, ma questa risulta un'informazione importante perché si possa configurare nella mente dei ragazzi che sono le due forze
che danno all'elettrone l'energia necessaria per organizzarsi attorno al nucleo senza cadere su di esso.
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E’ da notare che anche nel leggere e rileggere le spiegazioni per analizzare il
linguaggio, gli studenti entrano a contatto con i concetti scientifici espressi in lingua inglese. Questa "implicita esposizione” al contenuto, mentre si lavora esplicitamente sul linguaggio, utilizza la capacità di cervello di apprendere implicitamente i concetti mentre processa l’informazione attivamente. Dal punto di visto
dello sviluppo dell'alfabetizzazione accademica, questo modo di procedere sull'analisi della lingua diventa ancora più efficace per il fatto che gli studenti devono
lavorare insieme per scrivere le motivazioni che li hanno portati ad escludere alcune affermazioni piuttosto che altre. Così alla lettura e comprensione del testo si
unisce l'abilità di scrittura, operazione determinante perché il ragazzo possa consolidare in maniera cognitiva la sua analisi. Il processare e riprocessare informazioni genera l'apprendimento sia dei nuovi termini scientifici, sia del concetto
scientifico veicolato, sia delle conoscenze strettamente linguistiche. Dal punto di
vista dell'apprendimento, come si vede bene nell'esempio riportato, gli studenti
lavorano sui contenuti e sulla lingua in un ambiente confortevole. Infatti, sia la
lingua utilizzata sia il contento sono adeguati alle loro conoscenze, questo perché
i termini e i concetti trattati sono già sviluppati negli esercizi precedenti. Tutto il
lavoro procede processando e riprocessando le stesse informazioni, determinando
il raggiungimento dell'obiettivo sperato.
3. Riflessioni sulla trasformazione dello stile d’insegnamento: da preparato trasmettitore di informazioni a coach di competenze.
3.1 La sperimentazione per il cambiamento
Da più di 20 anni insegno scienze naturali, chimica e geografia a giovani ragazzi
che dovranno proiettarsi nel contesto lavorativo del 21° secolo, ma mi sono sempre chiesta: “Con quali risultati?”; “Il mio insegnamento li ha resi capaci di affrontare le sfide di questo secolo?, hanno cioè acquisito le competenze chiavi richieste per individuare e quindi risolvere problemi reali?”; “Sono in grado di
contribuire al frenetico cambiamento che di ora in ora avviene nei vari sistemi
complessi di questo mondo e che pongono loro tutte le gravi questioni che oggi ci
troviamo, nostro malgrado, ad affrontare?”; “Si sono saputi confrontare con gli altri sapendo argomentare e affermare le proprie idee?”; “Sono stati in grado di discernere tra le informazioni provenienti da sorgenti accreditate e corrette dalla
marea d' informazioni che invade ogni settore presente sul web, sede dei loro incontri virtuali e sede di fonte da cui reperire dati per ogni cosa che si ha la necessità di sapere?”. Tutte queste domande per me rimangono senza risposta! Sì, io
non sono in grado di rispondere, perché se si esclude una piccola percentuale di
allievi che sono stati sempre meritevoli e studiosi, tutti gli altri, la maggioranza,
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dal mondo della scuola superiore sono stati proiettati nel mondo universitario o
lavorativo ancora con gravi lacune e grandi difficoltà linguistiche, con poche
competenze realmente spendibili, a causa, penso oggi, anche del mio modo d'insegnare, ma forse, più correttamente, dal modo in cui io sono stata formata a insegnare! (Ligorio, 2006).
Il grave momento che oggi l'istruzione, e soprattutto quella di tipo scientifica,
sta vivendo, è mostrato dai risultati riportati nel terzo ciclo di indagine condotte di
PISA 2006 (Programme for International Student Assessment) con la collaborazione dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE),
svolte sui quindicenni scolarizzati di 57 paesi in tutto il mondo, nelle diverse aree
di studio sulle competenze scientifiche, in particolare: la comprensione della lettura, della matematica e della scienza: scientific literacy. Con questo termine ci si
riferisce non soltanto al possesso di specifiche conoscenze scientifiche, ma anche
alla capacità di utilizzarle in modo funzionale in contesti di vita reale. L'indagine
ha mostrato, nei risultati, come, queste competenze siano poche e fragili, soprattutto quando lo studente è chiamato a risolvere semplici casi calati nel mondo reale (OCSE PISA 2006). Naturalmente il fallimento è di intere generazioni di formatori, che si possono individuare in tutta l'Europa non solo in Italia, che però si
colloca nei posti più bassi delle classifiche OCSE.
Mi sono sempre sentita parte di un sistema che non mostrava nessuna volontà
di cambiare, anche se, più gli anni passavano più si constatava l'ignoranza, la superficialità delle conoscenze e soprattutto la scarsa motivazione degli studenti.
Fare scuola in maniera tradizionale, anche per i docenti più bravi e motivati,
oggi è diventato un grande problema, alcune volte un incubo, nelle classi di ogni
tipo di scuola, per il dover constatare la scarsa e passiva partecipazione da parte
della maggior parte degli alunni: esperienza frustrante durante quei brevi 60 minuti di lezione! Una volta, poteva sembrare appagante per il docente, che rivestiva
un ruolo socialmente riconosciuto, autoincensarsi per le magnifiche lezioni recepite da una esigua minoranza di studenti, che la maggioranza subiva come uno
spropositato soliloquio espresso con un linguaggio incomprensibile, e ciò contribuiva a far sentire i più inadeguati a partecipare a un consesso di così alta cultura!
Ieri tutto ciò era possibile, perché il docente non era chiamato a rispondere della preparazione di ogni singolo allievo, ma oggi le pressanti richieste di competenze qualificate provenienti dal mondo del lavoro, a livello europeo, chiamano
direttamente in causa il docente e l'intero sistema formativo, compresa la stessa
Università, che, per assicurarsi fondi di ricerca, posti di docenza e quant'altro,
consegna diplomi di laurea a masse di studenti con preparazioni poco adeguate a
queste nuove esigenze.
Questo desolante scenario mi ha spinto a studiare le cause del “fallimento”
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dell’istruzione. E’ fin troppo evidente che i ragazzi di oggi siano sicuramente più
evoluti e dotati delle generazioni precedenti; questo nostro mondo fornisce loro
tutta una serie di strumenti tecnologici che imparano ad usare con una velocità
impressionante, che permette loro di soddisfare ogni curiosità e ogni bisogno
di carattere puramente pratico o esistenziale. Per cui, giustamente, non si capisce
perché i nostri alunni dovrebbero restare seduti per ore su una sedia, passivi, ad
ascoltare un docente che con il suo linguaggio riempie le loro menti con una serie
di informazioni di cui non capiscono il significato e soprattutto l'utilità. La tecnologia informatica oggi forse è la prima causa del loro disinteresse! La scuola è
stata sempre più lenta ad uniformarsi con quello che è il loro mondo, al villaggio
virtuale dove i ragazzi si incontrano, socializzano e dove imparano ciò che vogliono imparare.
Come può, allora, l’ insegnamento arrivare alle loro menti senza il loro esplicito consenso, come coinvolgerli nel processo insegnamento-apprendimento in maniera indolore, in un ambiente ideale di reciproca collaborazione? Per cercare di
risolvere questo dilemma mi sono trovata a sperimentare nuove strade, sollecitata
da una serie di studi effettuati grazie a diversi seminari seguiti e da ricerche personali sulla pedagogia costruttivista, che fornisce metodi e modi nuovi d'interpretare il ruolo del docente nei riguardi dello studente che diventa l'attore principale del proprio apprendimento, infatti la conoscenza viene costruita dal discente
e non trasmessa e immagazzinata, questo metodo impone un discente attivo che
costruisce le proprie rappresentazioni confrontandosi con i suoi pari o interagendo
con i materiali forniti ed infine l'ambiente in cui interagisce deve consentirne e favorirne il processo (Roux, 2004). Ho quindi, modificato il mio insegnamento riducendo la parte che riguardava la lezione frontale a comunicazioni sui principi e
regole che stanno alla base di ogni modulo affrontato, di cui fornivo però ancora,
soluzioni e procedure, come ero abituata a fare, ed in seguito davo loro la possibilità di lavorare in gruppo per sviluppare modelli e mappe cognitive sugli argomenti trattati, utilizzando fonti di cui conoscevo il reale valore scientifico.
Inoltre, percepivo che la conoscenza della lingua straniera dovesse, in qualche
modo, essere insegnata in modo differente, perché cosciente della sua importanza
nella formazione globale degli studenti. Infatti, organizzavo annualmente incontri
con studenti di altre realtà europee, dove i ragazzi che si preparavano su argomenti scientifici relativi a un tema proposto, si potevano confrontare sia sul piano
scientifico, che sul piano comunicativo, utilizzando la lingua inglese.
E’ così che mi sono trovata a partecipare ad un convegno dove si sarebbe parlato di metodologia CLIL, il nuovo metodo che doveva aiutare gli insegnanti di una
disciplina non linguistica ad insegnare in lingua inglese (o almeno così l'avevo
interpretato) nelle ultime classi delle scuole superiori, come la nuova riforma prevede. La relazione della dottoressa Ting, e, soprattutto, la dimostrazione in aula
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del metodo, ha spazzato via dalla mia mente ogni dubbio su quale fosse la strada
del cambiamento; ho capito che in quell'aula, nostro malgrado, avevamo lavorato
per un'ora su argomenti scientifici veicolati dalla lingua inglese, senza che nessuno di noi si sentisse a disagio. Ella aveva coinvolto le nostre menti in modo che
lavorando sulla lingua, naturalmente alla portata delle nostre conoscenze di base,
avevamo trattato implicitamente argomenti ben più consistenti, come l'anatomia
dei neuroni, le congiunzioni sinaptiche e il processo di trasmissione dei messaggi.
Tutto questo senza che lei parlasse in lingua inglese e senza che lei intervenisse in
alcun modo durante il nostro lavoro. Per cui tutte le risposte che cercavo le avevo
trovate ritornando, ancora una volta, fra i banchi di scuola. Ma come ora passare
dal ruolo di studente a quello di docente riuscendo ad essere in grado di costruire
attività tanto efficaci come quella dell'esperienza effettuata in aula da una vera esperta? Da dove bisognava partire? Dovevo cominciare a pensare al modo in cui
apprende il cervello e quali sono le cose che favoriscono il processo di apprendimento.
Nella prima parte di questo articolo vengono riportati i risultati delle ultime interessanti ricerche nel campo delle neuroscienze sulle risposte cerebrali ai diversi
stimoli inviati al cervello. I dati rilevati sono sorprendenti, perché spiegano che,
se le informazioni che inviamo al cervello sono semanticamente incongruenti come: “a pranzo mangerò pane e cemento” o incomprensibili - come un'informazione che presenta una grande quantità di termini sconosciuti, che per uno studente
del primo anno di scienze può essere: ” Un solvente polare scioglie solo sostanze
polari” -, il cervello risponde inviando vari segnali tra cui l'”N400” che segnala
incomprensione. L'”N400” quindi è quella “scarica elettrica” che ci informa che
la comprensione, e quindi l'apprendimento, non può avvenire. Alla luce di questi
studi, mi sono posta il problema di come preparare lezioni in modo tale che i ragazzi potessero comprendere ogni passo del percorso da me tracciato, cercando di
mantere al minimo i segnali negativi di '”N400”. Come spiegato nella parte I
dell'articolo, più basso è l'N400 più il ragazzo riesce ad apprendere; l'apprendimento, può sembrare strano, ma viene favorito se il veicolo delle informazioni è
una lingua straniera. Tutto ciò mi sembrava così nuovo e affascinante che mi pareva di non riconoscere più il mio ruolo, la mia figura professionale.
Con questa mia nuova consapevolezza era tutto un po' più chiaro, anche il
campo d'azione in cui mi sarei dovuta muovere; però, mi rendevo conto, che il
mio livello di conoscenza dell'inglese doveva necessariamente essere portato ad
un livello superiore, tale da permettermi una certa autonomia di gestione nel costruire lezioni e nel gestire il lavoro in classe. Dovevo essere in grado di capire i
ragazzi e guidarli verso un reale e consapevole apprendimento sia del contenuto
che della lingua, cercando di forzarmi nel non intervenire continuamente se vedevo gli alunni di fronte alla più piccola difficoltà. Loro erano i protagonisti della
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loro formazione ed io dovevo creare le situazioni favorevoli perché questa loro
crescita avvenisse con le più basse possibilità di fallimento. Dovevo assecondare
il loro modo di apprendere, conoscendo quali fossero le inibizioni e gli ostacoli
che lo potevano impedire.
Comincia così la mia prima sperimentazione del metodo, al mio fianco la dottoressa Ting e a una collega d'inglese, anche lei desiderosa di sperimentare nuove
vie metodologico-didattiche. L'esperienza condotta nelle mie classi, una seconda
ed una quarta liceo scientifico, ha avuto come tema l'anatomia del cuore e la circolazione del sangue (vedi Grandinetti et al 2013). Leggendo il lavoro si può notare che l'esperienza è stata condotta in modo rigorosamente scientifico, in quanto
si sono analizzati tutti i dati registrati attraverso le riprese dell'intera attività. La
loro elaborazione è stata fatta soprattutto dal punto di vista qualitativo più che
quantitativo, ciò dovuto al fatto che si è lavorato con dei cervelli e non con computer o qualsivoglia sistema direttamente rilevabile attraverso dati numerici.
E' chiaro che i materiali utilizzati, di cui ampiamente si parla nella parte1
dell'articolo, sono stati costruiti in modo tale che ogni task sviluppato osservi i
criteri per i quali:
•
•
•
il linguaggio sia comprensibile agli studenti;
lo sviluppo dell'argomento sia diviso in tasks di apprendimento;
la sequenza dei tasks sia tale che il modulo, partendo da pochi e
fondamentali informazioni, diventi sempre più ricco, fino a dare un
quadro completo sia dell'anatomia cardiaca, che del modo in cui il
sangue circola dal corpo-cuore-polmoni e dal polmone-cuore-corpo.
Questo significa che i ragazzi hanno potuto lavorare mantenendo alta la motivazione, proprio perché la lingua straniera utilizzata per veicolare i contenuti era
di un livello adeguato alle loro conoscenze e permetteva loro di lavorare implicitamente sui contenuti che a loro volta si andavano a configurare sempre in maniera più completa esercizio dopo esercizio, tutto questo in un ambiente di lavoro
non competitivo ma collaborativo, per cui i loro cervelli hanno lavorato assecondando le dinamiche che favoriscono l'apprendimento.
Una classe in particolare, la quarta, sottoposta ad una verifica dopo circa un
mese dall'esperienza effettuata ha dimostrato di aver, in maniera consapevole, appreso i concetti di base veicolati con un’attività di poco più di due ore. In particolar modo la verifica ha dimostrato che i ragazzi avevano migliorato l'uso del linguaggio utilizzato nell'esprimere i concetti appresi e inoltre, per chi aveva scelto
di rispondere in lingua inglese, si è potuto rilevare un uso più appropriato e corretto della lingua in un contesto scientifico.
La valutazione positiva della verifica ha dato prova che gli studenti avevano
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necessariamente acquisito quelle conoscenze, solo attraverso lo svolgimento
dell'intera unità di studio in CLIL. La rivelazione più interessante riguarda i ragazzi più deboli e uno in particolare, il quale era solito non fornire alcuna risposta
in qualsiasi compito scritto, in alcuna disciplina, anche perché affetto da disturbi
associati a episodi di epilessia: con mia grande sorpresa questo ragazzo ha presentato il suo elaborato significativamente corretto non solo sui contenuti, ma anche
sulla forma linguistica. L'esperienza, perfettamente riuscita, mi ha così proiettata
in questa nuova dimensione, il mio compito è diventato sicuramente più stimolante perché finalmente gli allievi sembrano più coinvolti e motivati ed io mi diverto
a comporre questi percorsi, a utilizzare tutta le mie competenze e conoscenze perché queste siano veramente efficaci per gli allievi e nel contempo intellettualmente stimolanti. Anche la lingua straniera sembra diventata per loro più familiare.
La metodologia CLIL se applicata correttamente, crea le condizioni che favoriscono lo sviluppo cognitivo permanente, ma questo si realizza solo se:
1. in classe si instaura un clima a bassa competitività fra gli studenti;
2. le attività proposte seguono uno sviluppo logico e congruente che
favoriscono le vie e il modo in cui il nostro cervello apprende;
3. i materiali sono suddivisi in micro-unità o tasks che mirano a microobiettivi di apprendimento funzionali al costrutto cognitivo finale.
Lavorare per tasks in modo attivo ed interattivo asseconda e agevola il processo naturale d'apprendimento. Questo però è vero se la costruzione dei tasks tiene
conto del linguaggio utilizzato, che deve essere adeguato alle conoscenze dello
studente (Ting 2011). Il linguaggio è il supporto fondamentale della conoscenza,
non c'è nessuno sviluppo di competenze se non si conosce il modo di esprimerlo.
Per far questo è necessario fornire agli alunni esempi concreti riguardo l'uso del
linguaggio quando si vogliono spiegare concetti o descrivere fenomeni. Così sarà
necessario farli lavorare direttamente sul linguaggio.
3.2 Le fasi del lavoro
Il Modus operandi (Ting, ibid), interpreta in modo matematico l’acronimo CLIL e
cioè spiega come si possa ottenere un rapporto pari a [50:50]/[Contenuto:Lingua]
di apprendimento sia della lingua che del contenuto. Come ciò sia possibile è legato al modo di procedere quando si costruiscono gli esercizi CLIL. Infatti, bisogna tenere ben presente come si utilizza il linguaggio perché sia comprensibile agli studenti, in modo che le attività possano essere svolte con la loro motivata
partecipazione.
Qui di seguito illustrerò come si svolge il mio lavoro nel costruire percorsi di
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studio in modalità CLIL.
Le fasi della prima parte del lavoro si possono così dividere:
1. suddivisione del modulo individuato in micro-unità di studio (tasks);
2. individuazione dei micro-obiettivi Contenuto (μCO) da raggiungere
attraverso le micro-unità dopo aver accertato le competenze acquisite;
3. prima stesura attraverso uno schema sintetico della sequenza dei tasks
individuati con associate le attività su cui fare lavorare i ragazzi;
4. individuazione dei micro-obiettivi Linguistici (μLO) che si vogliono
raggiungere con il docente di lingua;
5. individuazione della procedura di lavoro che riguarda le fasi delle attività
con i tempi e la sequenza degli interventi previsti per la verifica degli
esercizi svolti.
Naturalmente, decidere il modulo di studio è la parte più importante che precede la stesura dei materiali CLIL, perché, dovendo svolgere un numero limitato di
lezioni CLIL la scelta deve ricadere su unità di studio che possano sviluppare
concetti di base utili per più argomenti di studio.
Quindi il passo successivo mi vede impegnata a scomporre il modulo individuato in micro-obiettivi di apprendimento che devono essere man mano processati
attraverso le attività proposte in lingua. Così, la lingua stessa diventa l'impalcatura
(scaffolding; Bruner, 1960) dove sistemare ogni mattone del contenuto da veicolare, per cui la stessa diventa loro sempre più familiare. La fase successiva risulta
quella più complessa perché comincio a riflettere proprio sul linguaggio che devo
utilizzare. Questo mi porta a dover valutare ogni termine che devo utilizzare che,
da come prima ampiamente spiegato, risulta la chiave più importante perché l'intero processo funzioni. Per cui analizzo termini e costrutti in modo che i significati siano comprensibili e per la massima parte conosciuti. Il processo di apprendimento è un percorso fatto in più lezioni che implicano un passaggio graduale e
modulato di tutto ciò che serve agli studenti per costruire da soli l'orizzonte di
senso cui inserire i nuovi apprendimenti.
Ricordo infine, ancora una volta, perché sia veramente chiaro, che i materiali
CLIL si devono costruire avendo la consapevolezza che:
1. Il linguaggio utilizzato sia sempre comprensibile;
2. Il livello della L2 sia accessibile e adeguato alle conoscenze degli allievi;
3. I contenuti veicolati devono contenere pochi termini scientifici a loro
sconosciuti;
4. Gli alunni devono conoscere la spiegazione di ogni concetto che viene
menzionato all'interno degli stessi esercizi o nella combinazione di più
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6.
7.
8.
esercizi legati fra loro da conseguenze logiche;
Anche i termini familiari, che assumono significati diversi nei contesti
scientifici indagati, devono essere equilibrati e chiari;
E' necessario seguire lo sviluppo degli esercizi in modo che non ci siano
salti logici;
Curare la struttura degli esercizi, anche con la collaborazione del docente
di lingua straniera, per individuare i più efficaci ambiti di utilizzo della
stessa;
Progettare e distinguere, attraverso esercizi mirati,
i momenti
squisitamente linguistici, da quelli in cui la lingua straniera diviene mero
veicolo di contenuti scientifici.
La cosa più importante, comunque, è la consapevolezza, che ogni docente deve
avere, è che contribuire a far sviluppare competenze negli alunni è imprescindibile dall'acquisizione del linguaggio specifico della disciplina. Per cui si deve procedere curando sia il linguaggio necessario per l'alfabetizzazione scientifica, sia i
contenuti, in modo tale che gli stessi siano facilmente compresi, perché strutturati
in sequenze che gli alunni possono facilmente associare fra loro, costruendo così,
in piena autonomia, l'oggetto del loro apprendimento.
4. Conclusioni
4.1 Conclusioni della II parte
Che il cambiamento sia necessario per restituire efficacia all'insegnamento è fin
troppo evidente! La prima fase di questo cambiamento parte necessariamente dal
fatto che i docenti devono essere consapevoli della necessità di spostare l'attenzione dall'insegnamento al processo di apprendimento, conoscendo i meccanismi
che lo favoriscono e gli strumenti per come monitorare l'apprendimento stesso, in
modo da rendere più efficace la loro azione d'insegnamento. Il docente deve motivare l'allievo, utilizzando modi e procedure brain-compatible, conoscendo i processi che favoriscono l'apprendimento e sapendo cosa ne inibisce il funzionamento. Per cui, se un docente ama e conosce l'importanza della propria disciplina
deve impegnarsi ad assecondare i processi che favoriscono negli studenti la curiosità, prima fondamentale premessa di ogni apprendimento.
Due anni di applicazione del metodo CLIL nelle mie classi mi hanno spinto a
continuare e diventare sempre più esperta di questi processi. Gli alunni durante le
attività sono veramente tutti impegnati, anche i più deboli sembrano molto di più
motivati e coinvolti: fanno domande, forniscono interpretazioni discutendo con i
loro compagni in una buona condizione di tranquillità emotiva. E', infatti, diminuita la competizione, ognuno di loro nel procedere si trova nella condizione di
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aiutare ed essere aiutato. Cambiano le dinamiche fra loro, ma cambia anche il
ruolo del docente, che diventa un tutor d'aula che aiuta i ragazzi a seguire il processo esattamente come egli stesso lo ha pensato, evitando salti non richiesti che
potrebbero inficiare l'intero processo.
Spero che queste poche indicazioni possano aiutare qualche docente a proseguire sulla scelta del cambiamento cogliendo i benefici notevoli che può portare al
proprio insegnamento. Lavorando in questo nuovo modo si riaccende la speranza
e la fiducia che mi è sembrato di non trovare più in tanti miei colleghi. Credo di
poter dire che attraverso l'impegno costantemente profuso si può diventare nuovamente il riferimento più importante della formazione di ogni studente moderno.
4.1 Conclusione finale
Che il tema della Scuola Estiva SPAISS per gli insegnanti è chiamato Scientificamente dimostra che il mondo dell'educazione è sempre più cosciente del fatto che,
quando insegniamo, insegniamo a cervelli. Più di qualsiasi altra professione, gli
insegnanti hanno a che fare con il cervello. Nemmeno un neurologo vede tanti
cervelli come un insegnante in una sola giornata di scuola. Purtroppo, chi insegna
è consapevole del fatto che ciò che insegniamo spesso non ha molto in comune
con ciò che i nostri studenti hanno imparato. Il rinnovamento degli stili educativi
devono pertanto considerare non tanto quello che gli istruttori insegnano, quanto
il come apprendiamo. Se saremo in grado di usare le nostre conoscenze sul come
gli esseri umani imparano per cambiare il come gli insegnanti insegnano, senza
dubbio saremo in grado di aumentare l’efficacia dell’istruzione dell’obbligo. La
sfida è pertanto duplice: da un lato bisogna rendere accessibili agli insegnanti i
risultati della ricerca su come si impara, dall’altro bisogna trovare il modo di
aiutare gli insegnanti ad usare questa informazione per modificare il loro
approccio all’insegnamento. Piuttosto che affrontare queste due sfide
separatamente, possiamo considerare il fatto che l’apprendimento è reale e
concreto solo in relazione alla sua compatibilità con il funzionamento del nostro
organo cerebrale, il cervello: cioè solo quando è “brain-compatible”. Esistono
iniziative che spingono nella direzione di rendere accessibili agli insegnanti i
risultati della ricerca neuroscientifica sull’apprendimento, come per esempio
Understanding the Brain: The Birth of a Learning Science pubblicato dal Centre
for Educational Research and Innovation dell’OCSE (2007), il Centre for
Neuroscience in Education della Cambridge University e l’iniziativa Mind, Brain
and Education e l’omonima rivista della Harvard Graduate School of Education.
Naturalmente esistono molte conoscenze neuroscientifiche che non sono di alcun
valore per gli insegnanti: sapere che l’ippocampo (la struttura cerebrale attaccata
dal morbo di Alzheimer) è responsabile del recupero delle informazioni
immagazzinate nella memoria di lungo termine non è di alcuna utilità ad
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insegnanti che non possono certo impiantare elettrodi negli ippocampi dei loro
studenti.
Esiste tuttavia un corpus di dati neuroscientifici che possono invece informare gli
insegnanti ed aiutarli a modificare sostenibilmente le loro prassi didattiche. Nella
prima parte di questi due articoli, è stata presentata brevemente la ricerca sul
N400 che è solo uno dei tanti segnali ed eventi cerebrali che sono attivati per
capire il mondo in cui viviamo. Se sappiamo che l’N400 è ampliato quando
l’input è poco comprensibile, come potremmo continuare a spiegare la chimica
dicendo: “aggiungendo più soluto, la concentrazione aumenta e il solvente si
satura” quando uno studente non capisce una buona parte dei termini usati? e
questo perché è uno studente, e come tale è a scuola per imparare. Spesso il
linguaggio della disciplina – disciplinary discourse – è già una lingua straniera,
anche se insegnata nella nostra madre lingua. Sebbene ci siano diversi motivi per
la demotivazione, uno di essi potrebbe essere il semplice fatto che, quando gli
insegnanti utilizzano il discorso della disciplina per spiegare un argomento
sconosciuto, gli studenti non capiscono il linguaggio dell'istruzione e si annoiano:
come potremmo essere interessati ad un qualcosa di estraneo che, oltretutto, ci
viene spiegato in una lingua che non capiamo? Tale difficoltà è particolarmente
notevole nell’ambito dell’insegnamento delle scienze, che, diventando più
specialistiche, diventano sempre meno visibili e tangibili. Il linguaggio della
disciplina non è quindi una buona fonte da cui imparare. Allo stesso momento,
non potremo dire che gli studenti abbiano “imparato la fisica, biologia, economia
o storia ecc.” se non sono capaci di utilizzare il linguaggio della disciplina in
modo corretto ed appropriato. In questi due articoli, abbiamo dimostrato come la
familiarità con il N400 ci porta ad un modo diverso di “fare lezione” dove il
linguaggio è modulato in modo che diventi comprensibile, il contenuto viene
presentato in aliquote digeribili, e gli studenti lavorano attivamente ed
interattivamente: “...se fare scuola è così, come si può non imparare?”
Ringraziamenti
Un particolare ringraziamento va alla prof.ssa Brunella Perrota per i suoi preziosi
suggerimenti dati in seguito della lettura del presente articolo della parte in
italiano. Una parte della ricerca didattiche sulla Tabella Periodica è finanziata dal
PROGRAMMI DI RICERCA SCIENTIFICA DI RILEVANTE INTERESSE
NAZIONALE (D.M. 1152/ric del 27/12/2011), Tecnologie supramolecolari
integrate per il trattamento dell'informazione chimica: dispositivi e
materiali molecolari avanzati
(InfoChem): Sottoprogetto T3 Education & Dissemination.
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Bibliografia
American Chemical Society.
http://www.inquiryinaction.org/classroomactivities/activity.php?id=2
Bruner, J. (1960). The Process of education. Cambridge, Mass.: Harvard University Press.
Cummins, J. (1984) Bilingualism and Special Education: Issues in Assessment
and Pedagogy, Clevedon: Multilingual Matters.
Fairclough, N. (1991). Discourse and Social Change. Cambridge: Polity Press.
Grandinetti, M., Langellotti, M. & Y.L. Teresa Ting. (2013). How CLIL can provide a pragmatic means to renovate science education – even in a sub-optimally
bilingual context. International Journal of Bilingual Education and Bilingualism,
16(3), 354-374.
Ligorio, B. (2006). Come si insegna come si apprende. Carrocci editore ROMA
OECD (2007). Understanding the Brain: The Birth of a Learning Science. Paris:
OECD
OECD PISA (2006). <http://www.oecd.org/dataoecd/15/13/39725224.pdf>.
Pearson, P.D., Moje, E. & Greenleaf, C. (2010) Literacy and science: each in the
service of the other. Science. 328, 459–463.
Ting Y.L.T. (2011). CLIL-Science: towards language-aware science-education,
Madrid, Spain: Subdirección General de Documentación y Publicaciones del
Ministerio de Educación. 2011. pp. 104-126.
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Appendice
Exercise 1a. Here are five questions about M&Ms:
Do M&Ms...
...chocolate does each M&M have?
How many...
...contain almonds?
How much...
...layers does each M&M have?
Does the white layer...
...dissolve in water?
Do red M&Ms dissolve faster...
...than green M&Ms?
Exercise 1b. Answers (6) to the five questions:
A. Just a little layer on the peanut…
B. Each M&M has four layers!
C. I don’t know! I have no idea...
D. No they don’t...they have peanuts...almonds are more expensive!
E. That’s great!
F. Yes it does...it is sugar and it dissolves after the external colorant…
Exercise 2. Now write these five dialogues in the bubbles:
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Q1:
A1:
Q2:
A2:
Q3:
Q4:
Q5:
A3:
A4:
A5:
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Exercise 3a. Writing logically and linking effectively. Here are five sentences for the
Experimental PROCEDURES which describes how to do the experiment. Put the
sentences in the correct order.
- Once you have the plate, pour some water into the plate.
- Put this M&M into the water very carefully.
- First obtain a white plate.
- Observe what happens to the M&M in water and do not touch the plate.
- After you have filled the plate with water, obtain an M&M.
1.
2.
3.
Exercise 3b. Identifying linking devices...Work with your group and identify the word or
words which helped you understand the order of the sentences.
Why isn’t A before C?
Why is D after B?
What word in B tells you to link B after E?
4.
What words in E link this sentence after A?
Exercise 4. SO, let’s do it the experiment! Tell your teacher what to do...
Exercise 5. Let’s watch a video...
Exercise 6a. Now let’s write the Experimental RESULTS which describes your
observations... Remember that when scientists report their experiments, they use the
simple past to talk about what they did and saw. However, if they are speaking about a
fact which is always true, then they use the present simple...
Today we ___________ (observe) that M&Ms ________ (have) four layers. The first
layer on the external surface _______ (be) the colorant which _______ (dissolve)
immediately. In fact, within 3 min after we ________ (put) an M&M in water, it
_________ (become) white. This second white layer ________ (represent) a layer of
sugar which _________ (take) an additional 4 min to completely dissolve, revealing a
brown layer. This third layer which __________ (be) chocolate, which, contrary to
the first two layers ___________ (dissolve/not) within the duration of the
experiment (1 hour).
Exercise 6b. What is the Scientific EXPLANATION for your observations? Choose the
sentence which provides the most effective conclusion to your Experimental REPORT:
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_______ A.
If we use hot water, the chocolate layer may dissolve, like when we
make hot chocolate.
_______ B.
Therefore, not everything dissolves in water: for example, the peanut
would not dissolve in water since water never dissolves solids.
_______ C.
_______ D.
_______ E.
In the conditions of the experiment, cold water dissolved both the
colorant and sugar but not the chocolate.
This demonstrates that water does not dissolve chocolate in the same
way it dissolves the colorant or sugar.
Therefore, water is able to dissolve the colorant of the first layer and
the sugar of the second layer but, not the chocolate of the third
layer.
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Gli Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di
Scienze Sperimentali “ScientificaMente" sono stati pubblicati grazie al finanziamento del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca
Progetto Annuale legge 6 del 10 gennaio 2000. Codice progetto finanziato:
PANN12_01133; codice CUP assegnato al progetto: C73D12000390008
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), Numero speciale 6
Editor in Chief: Claudio Fazio – University of Palermo, Italy
Editorial Director: Benedetto di Paola - University of Palermo, Italy
ISBN: 978-88-907460-4-8
First edition, 19th May 2014
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ISBN: 978-88-907460-4-8