Articolo per il manifesto, 26 gennaio 2010 Conflitti a Davos Mario Pianta Quest’anno niente scontro al vertice. Domani inizia il Forum economico mondiale (Wef) a Davos, tra le montagne svizzere, e non si troverà a rivaleggiare, come da dieci anni a questa parte, con il Forum sociale mondiale, che l’anno scorso aveva portato 150 mila persone nella città brasiliana di Belem. A fronteggiare i 2500 rampolli dell’élite mondiale arrivati alla 40ma edizione del Wef da 90 paesi diversi c’è da ieri a Porto Alegre solo un seminario di riflessione sui dieci anni di Forum sociali. Seguiranno 27 appuntamenti decentrati in tutti i continenti, ma che non faranno notizia come il vertice sulle Alpi. Anche le proteste locali saranno limitate, con qualche manifestazione nelle valli e la conferenza “L’altro Davos” organizzata venerdi e sabato da Attac svizzera a Basilea. Quest’anno lo scontro potrebbe invece essere dentro il vertice. Innanzi tutto il nuovo scontro estovest: la Cina quest’anno è sulla via di superare il Giappone come seconda economia più grande del mondo (a dir la verità, l’economia più grande sarebbe quella dell’Unione europea, ma sembra che nessuno ci faccia caso, neanche a Bruxelles o Francoforte). Nell’ultimo trimestre la crescita del prodotto interno lordo (Pil) cinese è tornata al 10,7 per cento, la produzione industriale è balzata del 18,5 per cento. Se a Davos Zhu Min, numero due della Banca popolare della Cina, dovrà respingere le pressioni che vengono da Washington per una rivalutazione della moneta cinese (il renminbi), la delegazione di Pechino si potrà fare forte dell’editoriale del 5 gennaio sul Quotidiano del popolo, l’organo del Pc cinese, (ripreso dal New York Times di qualche giorno fa): “quando la crisi finanziaria ha portato il sistema economico neoliberale in un vicolo cieco, i limiti del sistema capitalistico sono diventati evidenti agli occhi di tutti”. Il secondo conflitto che si vedrà a a Davos sarà tutto interno agli Stati Uniti. L’atto d’accusa lo pronuncerà domani Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia e critico da sinistra della politica di Barack Obama. E’ contenuto nel suo nuovo libro, uscito giusto in tempo - Freefall. America, free markets and the sinking of the world economy (“Caduta libera”, pubblicato da Norton) – in cui attacca la teoria e la pratica del neoliberismo. Per Stiglitz, “i fallimenti del nostro sistema finanziario sono emblematici di fallimenti più ampi del sistema economico”, che riflettono a loro volta i problemi profondi della società americana. Il crollo della banca d’affari Lehman Brothers nel settembre 2008 ha rappresentato per il fondamentalismo di mercato quello che “la caduta del muro di Berlino è stata per il comunismo”, ma in quest’anno la politica della Casa bianca si è limitata a “risistemare le sedie a sdraio sul Titanic”, senza rendersi conto che “il periodo del trionfalismo americano è finito”. A difendersi da queste critiche ci saranno vari esponenti dell’amministrazione Obama e Robert Thomson, direttore del Wall Street Journal, ultima trincea del neoliberismo Usa. Per gli interlocutori del Sud del mondo Stiglitz ha un altro messaggio: dimenticate le ricette del Fondo monetario sulla liberalizzazione dei mercati e tornate alle politiche industriali. Non c’è sviluppo senza la costruzione di una base produttiva avanzata, alimentata da investimenti e processi di apprendimento, e sostenuta dall’intervento dello stato e da solidi mercati interni. E’ questa la tesi dell’altro suo libro, uscito da qualche mese, Industrial policy and develoment (Oxford university press), curato con gli economisti italiani Giovanni Dosi e Mario Cimoli. Il terzo scontro – che non ci sarà – riguarda l’Europa e i suoi rapporti con gli Usa. Sarà il presidente francese Nicolas Sarkozy, nel discorso di apertura del forum di Davos, a rivendicare l’intervento dello stato di fronte alla crisi finanziaria e la tassa sui “superbonus” dei banchieri, ma la partita sulla riforma del sistema finanziario internazionale si sta giocando al G20 dove l’influenza europea è ormai minima, indebolita dal muoversi in ordine sparso di Gran Bretagna, Francia e Germania (l’Italia, come sempre, c’è ma non si vede). Su questo fronte la principale novità europea viene dalla piccola Svezia, che ha deciso di tassare le banche sul serio. Considerando che le crisi finanziarie sono inevitabili, che il salvataggio delle 1 grandi banche è obbligatorio e può costare intorno al 2,5 per cento del Pil, il governo svedese di centro-destra ha deciso di fare in modo che a pagare il conto siano le banche stesse. L’Ufficio del debito pubblico ha costituito un “fondo di stabilità” che in quindici anni dovrà accumulare quell’importo attraverso una tassa sulle passività delle banche (capitale azionario escluso) che sarà quest’anno dello 0,018 per cento e dal 2011 raddoppierà allo 0,036 per cento, con aliquote più alte per chi ha bilanci più a rischio. Si tratta di un’imposizione fiscale a tutti gli effetti (il fondo potrà essere utilizzato dalla stato a piacimento), che assicura però l’intervento pubblico in caso di crisi. La Svezia aveva già tentato negli anni novanta la strada di tassare le transazioni finanziarie, ma allora molti scambi vennero trasferiti sul mercato di Londra per eludere l’imposta. Di qui la scelta di tassare i bilanci, un modello ripreso anche nella proposta dell’amministrazione Obama: negli Usa si pensa di tassare le grandi banche per dieci anni per recuperare i fondi spesi per il loro salvataggio, ma c’è anche chi ripropone una Tobin tax sulle transazioni valutarie. In primo piano a Washington sono ora le misure di sostegno ai redditi e all’occupazione e Obama ha appena annunciato una serie di piccoli interventi per bambini, anziani e studenti indebitati. Perfino a Davos ci si rende conto che la finanza dovrà fare un passo indietro, ma lo scontro è aperto su tutto il resto: la ripresa dell’economia reale, il ritorno dello stato, l’egemonia internazionale. Le proposte che qualche anno fa circolavano solo nei Forum sociali - tassare e ridimensionare la finanza, abbandonare il dogma della liberalizzazione dei mercati, difendere occupazione e redditi – sono ora al centro delle discussioni sulle Alpi svizzere. Ma aspettano ancora di trasformarsi in un nuovo orizzonte politico – radicato nell’esperienza europea e nei valori della sinistra - per il mondo del post-liberismo. 2