Il Punk rivive al Jailbreak di Roma con Marky Ramone e la sua band Dopo un opening act di tutto rispetto orchestrato dai Gorilla Pulp, band stoner italiana giovane e prorompente, le luci sul palco del Jailbreak si spengono. Il pubblico romano è in fermento, cosciente che di lì a poco si sarebbe materializzata sul palco l’epicità. Marky Ramone non ha bisogno di presentazioni, ha militato come batterista nei Ramones fin dal 1978, dopo la dipartita di Tommy Ramone, ed è senza esagerazioni una leggenda vivente e unico membro ancora in vita della storica band newyorkese. E’ in Europa con la sua band, i Marky Ramone’s Blitzkrieg, e in onore del quarantesimo anniversario della nascita del Punk Rock, ripropone un vasto repertorio di classici dei Ramones, canzoni che hanno davvero fatto la storia, e rimarranno per sempre immortali. Fin dalle prime note, o meglio dal primo “one-two-three-for!”, la folla va in visibilio. Giovani cresciuti a pane e CBGB (storico music club dell’East Village, New York, anni Settanta), e non più giovani che saltano come ragazzini, nostalgici di quegli stessi anni e scenari. I novanta minuti del concerto sono i novanta minuti più veloci della storia, un flusso continuo di hits, non c’è spazio tra la fine di un pezzo e l’inizio di un altro. Beat on the Brat, Needles and Pins, I Don’t Care, I Just Want to have Something to Do, Rockaway Beach, Surfing Bird, Pet Cemetary, The KKK Took my Baby Away, solo per citare alcuni. Le canzoni si inseguono instancabili. E’ esattamente come una performance dei Ramones sarebbe stata. Veloce, sudata, esplosiva. Marky Ramone osserva dalla sua postazione, con la sua insostituibile frangetta nera, mentre senza scomporsi suona pezzi che hanno ormai quarant’anni suonati. C’è del magico in tutto questo. Una canzone può essere per sempre e allo stesso tempo non avere età. Può essere semplice, fatta di tre accordi, eppure essere determinante per un’esistenza intera. Per generazioni intere. Sebbene l’attenzione ricada inevitabilmente su Mark, è doveroso riconoscere la bravura e solidità della band che lo supporta ormai da anni, perfettamente all’altezza di riprodurre in maniera impeccabile, fedele, e per questo apprezzatissima, il sound inconfondibile dei Ramones. Una menzione a parte merita senza dubbio Ken Stringfellow, il cantante, per l’impressionante somiglianza stilistica e vocale con l’indimenticabile Joey Ramone. Ken che ci ha fatti emozionare e per un attimo, il peso di un’assenza incolmabile nel mondo della musica e non solo, è parso più sopportabile. Che dire, come al solito, come solo la musica sa fare, si va via un po’ strapazzati, rimescolati emotivamente. Il Jailbreak si svuota, fuori l’aria è frizzante. Una leggenda ci ha appena salutati con una bellissima What a Wonderful World. E’ tempo di andare…hey, ho! Let’s go! di Giorgia Atzeni Bob Dylan, discorso intorno ad uno dei maggiori poeti di questo secolo “Non ci riesco a suonarla Francis… mi sono scordato le parole…”. Così, ubriaco fradicio e assiso fra i bidoni dell’immondizia, il Dexter Gordon di Round Midnight regala una verità che i suoi colleghi delle generazioni successive paiono aver scordato: la musicalità delle parole. Quando vogliono liquidare il mondo del rock e della canzone, affermare la superiorità del proprio idioma, i jazzisti ricorrono spesso al medesimo luogo comune: quella è musica che non sta in piedi da sola, non basta a se stessa, per essere apprezzata e ricordata ha bisogno delle parole. Nel momento in cui ha scelto di diventare “arte”, il jazz ha adottato l’opzione asemantica, di “linguaggio dei sentimenti”, per dirla con Susan Langer, gioco di passioni ed emozioni svincolato dai significati. O forse, più che una scelta, è stata una contingenza, l’esaurimento di un ciclo storico. Dove sono finiti, dopo gli anni Cinquanta, gli autori in grado di scrivere “frasi ritmiche” come quelle di Lush Life (“where one relaxes on the axes of the wheel of life, to get the feel of life, from jazz and cocktails”), di I’ve Got a Feeling I’m Fallin’, di Lullaby of Birdland, o di quella stessa Autumn in New York che il povero Dexter non riusciva a ricordare? Maestri dell’allitterazione (così importante nella poesia anglo-americana, sia dotta che popolare: da John Donne fino a Louis McNeice), oltre che dei contenuti, nipotini del reverendo Gerard Manley Hopkins più che di Jelly Roll Morton. A loro, i vari Mel Tormé, Billie Holiday, Ella Fitzgerlad, Nat King Cole, prestavano voci esperte nel “rubato”, nell’anticipo e nel ritardo sul tempo, capaci di adagiarsi morbide sulla frase, o, per contro, di “pulsarci” dentro come il piatto di una batteria. Il rock ha ereditato dal jazz tante cose. La varietà genetica, anzitutto. Oltre alla vocazione ad essere “musica d’uso”, funzionale al commento, all’immagine, e alla danza, agevolata in questo dalla prevalenza dell’elemento ritmico, da una certa spiccata “fisicità”. Forse ha ereditato anche la percezione di quell’implicita musicalità del “discorso”, sottile, più difficile da cogliere proprio perché ingombra di significati diretti. Nelle sue espressioni migliori, infatti, il rapporto di simbiosi fra testo e musica si traduce in un reciproco arricchimento dei linguaggi e dei processi ideativi. Anche nel rock, autore ed esecutore sono spesso una sola e stessa persona, e, come nel jazz, la lettura dell’opera altrui è talvolta assai disinibita, il testo si trasforma in puro pretesto, tanto è distante dall’originale. Di questa particolarissima schiera di moderni poeti, il più grande è Bob Dylan, che ha sviluppato come nessun altro l’arte spericolata di mettere insieme parole che si attraggono fra loro come le note, navigando in quella zona di confine fra il talkin’ blues e T.S. Eliot che è una delle tante fascinose stranezze della poesia di questo secolo. Solo che mentre Eliot recitava le sue poesie con deliberata piattezza, con una voce del tutto atona e neutrale, Dylan le ha radicalmente modificate ad ogni nuova “lettura”, spostando in ogni concerto accenti, intonazioni, timbro vocale, talvolta perfino omettendo intere strofe. Così trattandole, appunto, come degli standard jazzistici, e implicitamente incoraggiando ognuno a fare altrettanto, a riprodurre quelle opere con la stessa libertà con cui sono state concepite. Lo sa bene Springsteen, ad esempio, che, per “eccesso di rispetto”, di Dylan non ha mai interpretato le canzoni. Con l’unica eccezione di Chimes of Freedom. Ma l’ha fatto mutuando l’arrangiamento con cui la lanciarono i Byrds, che cantavano solo tre strofe delle sei di cui si componeva. La versione di Springsteen ne prevede invece quattro… Delle tre versioni, oltretutto, nessuna (neppure quella di Dylan!) rispetta interamente il testo pubblicato. Come dire, fatene ciò che volete, di quest’inno ai “countless, confused, accused, misused, strung out ones and worse”, per i quali le “campane della libertà” non hanno mai suonato. Giocate pure con le frasi, senza inibizioni né limiti. Per Dylan, la libertà nell’uso delle parole, l’allentamento del vincolo “logico”, agevolano non poco la ricerca della musicalità, e derivano anche dal radicamento in una tradizione letteraria recente che quel vincolo ha allentato da tempo, e che arriva fino a Ginsberg. Se nello stream of consciousness di Joyce i concetti si inseguono disordinati, nell’apparente delirio dylaniano la struttura letteraria convenzionale si frantuma ulteriormente: ogni parola è un concetto e può richiamarne un’altra anche per semplice assonanza (o dissonanza), perché il pensiero stesso cerca di liberarsi nella rivoluzione psichedelica, nell’allargamento della consapevolezza, condita di un istinto visionario degno di William Blake. Nella loro magnifica ambiguità, i difficili testi dylaniani sembrano a tutti accessibili, proprio perché si prestano a diversi gradi di lettura ed alle più disparate interpretazioni. Non tutti possono decifrare il “colto” W.H. Auden, ma ogni under 23 occidentale si sente in diritto di decifrare il colto Bob Dylan, che di Auden si nutre abbondantemente, ma traveste la sua Età dell’Ansia da “cantilena”, la nasconde dietro un assetto sconnesso che non richiede necessariamente l’individuazione dei meccanismi associativi, del vezzo delle citazioni. Occorre forse sapere chi fosse la Sad Eyed Lady of the Lowlands per godere della musica contenuta in questo verso? No davvero. Che “senso” ha lo spremi agrumi piangente (“the lonsome orangegrinder cries”) di I Want You? Forse nessuno. E ancora: “Mona Lisa must a’ had the highway blues”, “Way out in the wilderness a cold coyote calls”, “One of us must know”: talvolta i versi dylaniani raccontano magnifiche storie, ma spesso sono soprattutto suoni che evocano immagini, suggestioni tirate da catene di parole quasi ipnotiche… Dylan non è solo uno dei maggiori poeti anglosassoni di questo secolo, ma è anche l’ultimo erede di quella Tin Pan Alley che tanto disprezzava (esplicitamente in Bob Dylan’s Blues), di quella fabbrica di canzoni che ognuno poteva adattare alle necessità del proprio umore, della propria voce, del proprio strumento. Buone per tutte le stagioni, oltretutto. A molti grandi poeti degli anni Sessanta è toccata la strana sorte di diventare delle hit discografiche, per poi essere completamente dimenticati: pochissimi si ricordano di Keith Reid, o di Pete Brown (autori rispettivamente dei testi di Procol Harum e Cream). Le lyrics dylaniane, al contrario, sono diventate evergreen malgrado le intenzioni dell’autore, disposte a lasciarsi vivere in bocca a personaggi tanto distanti quanto i Guns ‘n Roses (Knockin’ on Heaven’s Door) e George Harrison (If Not for You), appunto. Il repertorio dylaniano è ormai diventato quasi una “proprietà collettiva”, nello spirito di quella tradizione dei folksinger dalla quale Dylan indubbiamente proviene, attraverso la mediazione di Woody Guthrie. Per cantare Dylan non occorre una bella voce, perché la sua non lo è; per suonarlo non serve essere musicisti esperti, perché sono pochi accordi semplici semplici, che si prestano alle più svariate elaborazioni. Per possedere Dylan basta essere dei poeti, e chi può negare che lo siamo tutti? di Filippo Bianchi [Articolo tratto da L’Unità, 1992] Nobel per la letteratura a Bob Dylan L’Accademia di Svezia ha fatto quest’anno una scelta inedita: ha assegnato il Nobel per la letteratura al cantautore Bob Dylan, un personaggio che ha tracciato un solco nella musica contemporanea, dando voce ai venti di cambiamento culturale degli anni Sessanta e Settanta e all’America degli esclusi, quella messa ai margini del sogno a stelle e strisce. Nella motivazione il Comitato di Stoccolma riconosce a Dylan – al secolo Robert Allen Zimmerman – di aver “creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana”. Una tradizione che affonda le sue radici nel blues dolente dei neri, nel country e nel folk dei pionieri e dei vagabondi americani, fondendoli in maniera unica con l’energia nascente del rock n’ roll. La sua narrativa musicale ha mantenuto vivo lo spirito popolare delle ballate di protesta di Woody Guthrie e di altri artisti come T Bone Burnett, è culminata nell’incontro tra la musica americana degli hobo e la narrativa colta, la poesia, la letteratura e la sperimentazione della beat generation. Il suo nome d’arte “Dylan” è infatti ispirato allo scrittore gallese Dylan Thomas. Canzoni come The Times They Are a-Changing, Like a Rolling Stone, Blowin’ in the Wind, sono diventate inni del movimento controculturale di fine anni Sessanta, quello dei figli dei fiori, del festival di Woodstock, dei pacifisti che protestavano contro la guerra in Vietnam. La sua musica, nata dalla voce esile e da una chitarra essenziale, veicola messaggi di impegno sociale e politico. La sua carriera comunque ha superato quegli anni effervescenti e per alcuni distruttivi, continuando per decenni e proseguendo anche oggi. Tantissimi i concerti, diverse le esibizioni insieme ad altri nomi di spicco per la promozione dei diritti civili, tra cui la compagna del passato Joan Baez. Con il passare degli anni ha collezionato riconoscimenti anche fuori dall’ambito strettamente musicale, come un Oscar nel 2001 per Things Have Changed, migliore canzone originale nel film Wonder Boys, il Pulitzer nel 2008 con menzione speciale, per il “profondo impatto sulla musica e la cultura popolare d’America”, e la Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza insignita dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. La rivista Rolling Stone l’ha consacrato con il secondo posto tra i 100 migliori artisti, il settimo tra i migliori cantanti, con 10 dei suoi album tra i migliori e 12 canzoni nella classifica delle più apprezzate. Dopo anni di tentativi, ora arriva anche l’incoronazione tra i grandi della letteratura nella sua espressione più ampia e alta, quale “grande poeta della tradizione in inglese”. Come spiega il comitato per il Nobel nella motivazione: “Se andate indietro nel tempo, diciamo 2 mila e 500 anni, scoprite che Omero e Saffo scrivevano testi poetici composti per essere ascoltati”, “per essere messi in scena spesso accompagnati da strumenti musicali”: “è lo stesso per Bob Dylan”. di Valentino Salvatore Alan Parsons a Villa Ada, la leggenda del rock festeggia i 40 anni di carriera Ci risiamo. Questa volta la bellissima location di Villa Ada ci regala un altro viaggio, ci porta da un’altra parte, nell’Inghilterra degli anni Settanta. Alan Parsons entra, anticipato dai musicisti della band, elegante come sempre, con la sua giacca e la sciarpa al collo, nonostante i tanti gradi dell’estate romana. Nella sua imponenza fisica, nel suo sguardo fiero, traspare tutta la grandezza delle cose fatte in passato, quest’anno festeggia quarant’anni di onorata carriera. Alan Parsons non è un musicista in senso canonico, nasce come ingegnere del suono ed il suo nome è legato ad alcune delle più grandi produzioni rock di tutti i tempi, basti pensare a The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd e Abbey Road dei Beatles, solo per citarne alcune. L’incontro con Eric Woolfson, musicista scozzese, da vita ad uno dei progetti musicali più interessanti di tutti i tempi, e porta i due ad essere considerati tra i maggiori rappresentanti del progressive rock britannico, insieme a gruppi quali Pink Floyd appunto, King Crimson, e Jethro Tull. Cosi come l’idea che sta alla base dei concept album del “Project” anche il concerto di ieri sera comincia con una strumentale ed affascinantissima I robot, tratta dall’omonimo album del 1977, che lascia piano piano spazio alle lyrics di un altrettanto seducente Damned If I Do, dall’album Eve del 1979, cantata da un Pj Olsson in grandissima forma. Si procede così a suon di hits – il tour è Greatest Hits 2016 appunto – che infiammano un pubblico che a stento riesce a rimanere seduto. Un pubblico sorprendentemente eterogeneo, composto tanto da ultra sessantenni quanto da giovani di almeno tre generazioni prima. Il potere coinvolgente della musica. L’atmosfera si affievolisce leggermente a metà concerto, con canzoni forse un po’ più lente, ma che non lasciano mai dubbio alcuno sulla bravura estrema di tutti i componenti del gruppo, ci tengo a precisare, per poi impennare nuovamente verso la fine, con una bellissima Sirius, tratta da Eye in the Sky del 1982, forse l’album più acclamato della band. Segue il brano omonimo, cantato davvero da tutto il pubblico, che ormai si alza in piedi, rapito dall’atmosfera. Alan Parsons ringrazia sentitamente, cimentandosi anche con qualche parola di italiano, e ci saluta con una travolgente Games People Play ( da The Turn of a Friendly Card, 1980). E mentre il pubblico ancora emozionato si dirige verso l’uscita, nel cielo di Villa Ada riecheggia ancora la frase “Where do we go from here…”. Grazie Alan, penso torneremo tutti negli anni Duemila, dopo questo splendido viaggio indietro nel tempo. di Giorgia Atzeni Foto di Andrea Cavallini Bruce Springsteen annulla concerto in North Carolina: “No a legge anti-gay” Bruce Springsteen, da decenni icona del rock impegnato targato Usa, annulla un concerto previsto domani a Greensboro, in North Carolina, con la sua fidata E Street Band. Una decisione annunciata dal Boss su Facebook per protestare contro una legge appena introdotta, discriminatoria verso le persone omosessuali, bisessuali e transgender. Il gesto eclatante di Springsteen ha contribuito a puntare i riflettori su un caso che a detta di molti fa tornare lo stato americano a un clima da segregazione. Il governatore repubblicano Pat McCory ha firmato proprio giovedì una norma (House Bill 2, Public Facility and Security Act) che vieta agli enti locali di intervenire autonomamente per contrastare le discriminazioni basate su orientamento e identità sessale. Lo stato, attualmente amministrato dai conservatori, avoca a sé questa facoltà di fatto impedendo alle amministrazioni locali più progressiste di intervenire. La decisione infatti è stata presa in tempi da record per bloccare un’ordinanza della città di Charlotte, che dal primo aprile eliminava le discriminazioni contro gay, lesbiche e trans per l’assegnazione di alloggi e l’utilizzo di servizi pubblici. La nuova controversa legge inoltre impone alle persone transessuali di entrare solo in bagni o ambienti come spogliatoi riservati al proprio sesso biologico, cioè quello riportato nel certificato di nascita. Per giustificare questa scelta, i promotori hanno sostenuto che era un modo per tutelare donne, ragazze e bambini da maniaci sessuali e salvaguardarne la privacy. La legge è passata alla Camera con 83 sì e 25 no al Senato con 32 voti a favore e nessun contrario (dato che i democratici, per protesta, hanno lasciato l’aula). Pubblicato da Bruce Springsteen su Venerdì 8 aprile 2016 “Il North Carolina ha appena approvato l’HB2”, scrive Springsteen nel comunicato, “descritto dai media come la legge ‘sul bagno’”. La norma “prescrive quali bagni le persone transgender possono usare”. Questo è l’aspetto che prevedibilmente ha attirato polemiche, ironie e attenzione dei media. Ma c’è ben altro: “la legge intacca anche il diritto dei cittadini lgbt di fare causa quando i loro diritti umani sono negati sul posto di lavoro”, fa notare il cantante. “Nessun altro gruppo di cittadini del North Carolina deve portare questo fardello. A mio avviso”, sostiene, “è un tentativo da parte di persone che non sopportano il progresso che la nostra nazione ha compiuto nel riconoscere i diritti umani di tutti i cittadini, di ribaltare tale progresso”. Il riferimento è all’ok dato dalla Corte Suprema al matrimonio gay in tutti gli Usa, cui diversi stati a maggioranza repubblicana cercano di opporsi con legislazioni che permettono a funzionari pubblici e aziende private di non fornire servizi agli omosessuali appellandosi alla “libertà religiosa” o all’obiezione di coscienza. Springsteen non è il solo ad aver manifestato la sua contrarietà: le organizzazioni per la tutela dei diritti civili si sono mobilitate. Anche diversi responsabili di aziende come American Airlines,Apple, Facebook, Google, IBM hanno firmato un appello. David Schulman, Ceo di Paypal, ha annunciato che un investimento di 3,6 milioni di dollari destinato al North Carolina per creare strutture e centinaia di posti di lavoro finirà altrove. Sui social si diffonde l’hashtag ironico #PeeingForPat, con foto di water e l’invito a chiamare l’ufficio del governatore (appunto, Pat McCory) per chiedere se si sta usando il bagno a norma di legge. “Sento che è il momento per me e la band di mostrare solidarietà a coloro che lottano per la libertà. Quindi, con le più profonde scuse verso i nostri devoti fan di Greensboro, abbiamo cancellato il nostro show, previsto per domenica 10 aprile”, fa sapere. “Alcune cose sono più importanti di un concerto rock e questa lotta contro il pregiudizio e l’intolleranza – che avviene mentre scrivo – è una di queste.” – conclude il Boss – “È il mezzo più forte che ho per far sentire la mia voce contro quelli che continuano a farci tornare indietro invece di andare avanti.” di Valentino Salvatore Il rock di ‘Janis’ Mostra di Venezia “Janis Joplin era – ed è ancora – una forza della musica, una pioniera del rock amata da milioni di (…) Guardare le immagini di Janis che si un’esperienza semplicemente incantevole” Amy alla natura nella appassionati esibisce è Berg Arriva alla settantaduesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la pellicola dedicata a Janis Joplin, l’icona che ha rivoluzionato la storia del rock conquistando il mondo con il suo inconfondibile sound. Janis verrà presentato fuori concorso nella Selezione Ufficiale della Mostra, domani, 6 settembre, in anteprima mondiale, prima di arrivare nelle sale italiane grazie ad I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection il prossimo 8 ottobre. Un ritratto dell’artista a tutto tondo realizzato, in un arco di tempo lungo sette anni, dalla regista candidata al Premio Oscar Amy Berg, che ricostruisce la turbolenta storia della Joplin – segnata da eccessi e da relazioni sentimentali tormentate – attraverso immagini inedite e le emozionanti lettere che l’artista scrisse alla sua famiglia, ai suoi amici, ai suoi amanti prima della sua prematura scomparsa, a soli 27 anni. La Joplin entrò nel mito, come voce della sua generazione: con Janis la regista mostra l’artista, la sua indimenticabile voce, ma anche la donna, dolce, sensibile e allo stesso tempo forte e tormentata. A prestare voce alle parole della Joplin, Cat Power, acclamata come una delle migliori cantautrici della scena alternative rock contemporanea. L’Italia sarà il primo Paese nel mondo in cui Janis sarà distribuito, il prossimo giovedì 8 ottobre, per commemorare il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa della cantante, avvenuta il 4 ottobre del 1970.