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Risorse per
l’orientamento
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Le professioni della musica
Il compositore
3. Risorse per l’orientamento
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Il musicista che sente in sé il bisogno di creare, prima ancora di quello di fare musica, si dedica alla
composizione. Il compositore è un musicista che conosce a fondo il linguaggio della musica, con il
quale crea dei messaggi personali.
Il suo forte istinto creativo lo conduce dentro i meccanismi della musica,
permettendogli di scrivere note che possono essere dedicate al canto, a uno
o più strumenti o ai mezzi sonori delle tecnologie più avanzate. Egli ha spesso delle preferenze per uno strumento e un genere musicale, per i quali
compone più volentieri: come il violino per Paganini o il pianoforte per
Chopin.
Anticamente il compositore era anche cantante o strumentista e in lui si
concentravano il momento creativo e quello interpretativo; oggi compositore e interprete sono spesso persone distinte e la consulenza tra di
loro è a volte indispensabile: i compositori si rivolgono agli strumentisti per
conoscere a fondo le possibilità tecniche ed espressive dei loro strumenti,
mentre gli strumentisti chiedono ai compositori delucidazioni sui loro intenti espressivi.
L’aspirante compositore deve studiare tutta una serie di discipline, l’armonia, il contrappunto, l’analisi formale, la strumentazione, l’orchestrazione, linguaggi e stili musicali di ogni tempo. Il Conservatorio è il
luogo dove si impartisce l’insegnamento della composizione. Qui si possono
seguire anche corsi di composizione per strumenti elettronici. Esistono corsi
di perfezionamento di composizione all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
a Roma e all’Accademia Chigiana di Siena.
Spartiti e matite, gli «strumenti» di lavoro
del compositore.
Ne parliamo con…
Azio Corghi
Compositore, musicologo, accademico di Santa Cecilia e docente in questa istituzione nei corsi superiori di composizione. È legato alla grande tradizione della musica cosiddetta «cólta», ma è anche proiettato nel futuro. Corghi
sostiene che non esiste differenza tra musica antica e nuova, ma che è possibile apprezzare sia un Minuetto di una
sinfonia di Mozart, sia un bel pezzo di jazz o rock.
Il catalogo delle sue opere comprende lavori destinati al teatro musicale (di solito con organici molto vari, per
voci cantanti e voci recitanti, coro, orchestra ed elettronica), al balletto, ai piccoli complessi da camera. È stato tra
i primi a proporre l’intreccio tra generi musicali diversi. Una sua recente opera è Tat’jana (2000), su libretto tratto
da Čechov, che con Blimunda (1990) e Divara (1993) fa parte di una trilogia dedicata a personaggi femminili forti.
l’intervista
Come si è avvicinato alla musica?
Nell’immediato dopoguerra ero adolescente, quindi ascoltavo il boogie-woogie, una
musica e un ballo che venivano dall’America, e mi divertivo a suonare con la fisarmonica valzerini e canzoni dalle armonie molto semplici. Un bel giorno mio padre, accortosi della mia voglia di fare musica, mi regalò un pianoforte. Cominciai a sperimentare
armonie diverse da quelle che mi offriva la musica da ballo. Inevitabile fu la decisione
di entrare in Conservatorio a Torino e, sotto la guida di un buon maestro, dal pianoforte arrivai quasi senza accorgermene alla composizione.
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Dal boogie‑woogie
al Conservatorio
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Quali furono le scoperte?
Più studiavo composizione e più mi accorgevo di interpretare diversamente la musica.
Poiché entravo dentro i suoi meccanismi, potevo capire l’andamento delle parti, il
perché della forma, delle cadenze, del discorso musicale: elementi che invece nella
musica da ballo risultano meno complessi.
Molta voglia
di studiare...
Suona ancora il pianoforte?
Non ho mai pensato di smettere di suonare perché facevo il compositore. Anzi, ancora
oggi, quando posso, mi metto al piano. Ho cercato però di approfondire al massimo le
conoscenze tecniche, ossia quelle materie inerenti alla composizione, dalla polifonia
alla strumentazione.
... e uno
strumento nel
cuore
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Qual è il suo rapporto con il mondo dei giovani?
Tra le mie opere, Isabella, ispirata all’Italiana in Algeri di Rossini, mi fu commissionata
dal Festival rossiniano di Pesaro proprio perché coinvolgesse nella manifestazione anche un pubblico di giovani. Gli intrecci tra generi diversi che si trovano nella mia musica sembravano particolarmente adatti al caso. Mi ha aiutato la collaborazione di Elio
(sì, quello delle Storie Tese!), che viene dal Conservatorio, suona bene il flauto e ora fa
del rock.
E il rock non è altro che una forma evoluta del boogie-woogie, quello della mia adolescenza. Divertiamoci, allora, mi sono detto e conoscendo bene l’Italiana in Algeri, di
cui ho curato la revisione negli anni Settanta, ho lavorato con il contrappunto, in
modo da far passare sulle battute rossiniane, che si succedono con un processo di
simmetrie, il giro armonico suggerito dal boogie-woogie.
Isabella,
Elio e l’opera
Il compositore di musica elettronica
Oggi l’elettronica applicata alla musica è in pieno sviluppo: le nuove tecnologie permettono la costruzione di macchine sempre più potenti, che aprono nuovi orizzonti ai compositori. Programmi
informatici sofisticati, creati a volte dai compositori stessi, rendono sempre più approfondita l’indagine e quindi la manipolazione del suono. Il compositore di musica elettronica rielabora il suono, modificando alcuni suoi elementi, quali formazione, durata, frequenza, intensità, timbro.
Il compositore ha tre modi di esprimere la sua creatività in concerto:
• usa strumenti simili a quelli tradizionali, ma funzionanti con dispositivi elettrici;
• memorizza su nastro dei suoni che poi, nell’esecuzione pubblica, vengono diffusi attraverso
altoparlanti, da soli o con suoni prodotti dal vivo;
•elabora in tempo reale, dal vivo, il suono prodotto dalle voci o dagli strumenti acustici (live electronics): in questo caso il pubblico vede i suoni prodotti dal vivo, ma li percepisce modificati
dall’intervento dell’elettronica.
La diffusione dei computer rende la creazione e la manipolazione dei suoni alla portata di tutti.
Sono ormai a disposizione di chiunque, con computer e con tastiere di serie, ritrovati straordinari
come il Midi: il protocollo chiamato Musical Instruments Digital Interface (interfaccia digitale per
strumenti musicali), brevettato nel 1983, che permette l’interscambio standardizzato tra strumenti
musicali.
Un esempio, tra i tanti, del suo utilizzo: programmi di scrittura musicale come Finale, Sibelius e
il recente Opus, italiano, permettono di elaborare al computer partiture anche complesse e poi di
ascoltarle attraverso il collegamento a una tastiera Midi. Per non parlare della possibilità di ascoltare su Internet o scaricare brani di musica in versioni compatibili. L’impiego dell’elettronica è ormai
inevitabile per generi di musica come il rock e il pop e d’altronde tutti i dischi che ascoltiamo, di
musica classica o leggera, sono elaborati elettronicamente, con riverberi, mixaggi e altro. Tuttavia,
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per il compositore “cÓlto”, che ha studiato prima di tutto l’uso degli strumenti tradizionali, l’elettronica rimane solo una prospettiva in più, pur se ricca di spunti e di suggestioni.
La musica elettronica si studia nei Conservatori. Sono numerosi i corsi e i seminari organizzati da centri di ricerca e da istituzioni private.
3. Risorse per l’orientamento
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Ne parliamo con…
Michele Tadini
È uno dei compositori italiani più impegnati nel campo della musica elettronica. Diplomato al Conservatorio di Milano, ha al suo attivo esecuzioni
in sedi importanti come il festival Milano Musica (Teatro alla Scala di Milano) o il Festival di musica contemporanea Musica di Strasburgo. Inoltre è
direttore generale di Agon, uno dei principali centri di produzione e ricerca musicale con l’ausilio delle tecnologie elettroniche informatiche.
l’intervista
Come si è accostato alla musica elettronica?
Ho una formazione totalmente musicale, non ho seguito specifici corsi di informatica,
tranne quelli tenuti in Conservatorio e alcuni seminari. Mi sono accostato alla musica
elettronica per pura passione: a dodici anni ho comprato il mio primo registratore, poi
il quattro piste, il primo sintetizzatore e così via; è stato naturale per me, dopo che ho
iniziato a comporre, impiegare accanto agli strumenti tradizionali anche l’elettronica.
La passione
di un dodicenne
Altri hanno avuto un approccio molto diverso, vero?
Nel mondo della musica elettronica ci sono persone che spesso non hanno studiato in Conservatorio, ma provengono dall’informatica o da studi musicali meno rigorosi. Qua e là nascono cose degne di nota che un musicista di estrazione «cólta», magari, non avrebbe neanche potuto immaginare. L’enorme diffusione dei mezzi informatici ha però abbassato
notevolmente il livello medio di qualità musicale.
Vantaggi
e rischi
Che cosa trova più affascinante nell’impiego delle nuove tecnologie?
Mi piace lavorare con il suono come il pittore lavora con il colore, “sporcarmi le mani”
allo stesso modo. Ormai possiamo utilizzare macchine di una potenza mostruosa e,
paradossalmente, più la macchina è sofisticata e più hai l’impressione di toccare con
mano, di impastare tu stesso il suono.
Toccare
il suono
con la mano
Ha un consiglio per i giovani che si avvicinano alla musica elettronica?
Non c’è bisogno di consigliare a un bambino o a un ragazzo come accostarsi alla musica elettronica: conosce il computer meglio di noi. Piuttosto consiglierei di non farsi
troppo affascinare dalla macchina in quanto tale. Chi crea musica elettronica non può
limitarsi a usare i suoni precotti dell’ultimo sintetizzatore uscito. Può essere più interessante, ad esempio, rendere un suono cinquanta volte più grande (più lungo) di
quanto sia in natura e sezionarlo, analizzarlo, scomporlo e risintetizzarlo; o vedere
riassunta in una pagina, in un sonogramma, una composizione di dieci minuti e individuarne l’architettura.
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Attenti
al fascino
della macchina...
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ritratti dal vivo
VIDEO 47
Massimiliano Messieri
Nel DVD 2, il Video 47 presenta il ritratto di Massimiliano
Messieri, compositore di musica elettronica, nato a Bologna
nel 1964. Le sue composizioni sono state eseguite in importanti manifestazioni di musica contemporanea. Messieri trova nel passato spunti tematici che sono ancora attuali, ma li
traduce in un linguaggio d’avanguardia sapientemente distribuito fra voci, strumenti acustici ed elettronici.
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Il direttore d’orchestra
Lo strumento del direttore è tutta l’orchestra, formata da strumentisti appartenenti alle diverse famiglie (fiati, archi, percussioni), ognuno con la propria sensibilità, la propria cultura e la propria
idea della musica che sta suonando. Il direttore può essere la loro guida autorevole e carismatica,
se ha una profonda conoscenza della partitura da dirigere e buone capacità comunicative.
Dopo aver studiato la partitura, egli realizza la sua interpretazione durante le prove: cura il fraseggio e l’espressione dei vari strumenti, fissa la dinamica, porta al giusto tempo i passaggi difficili
e cura vari altri dettagli.
Egli deve possedere doti intellettuali, ma anche psicologiche per dare consigli a strumentisti
e cantanti e affrontare con sicurezza i più diversi stili musicali.
La formazione fondamentale di un direttore d’orchestra avviene in Conservatorio con lo studio
di varie discipline e di almeno uno strumento. Indispensabile è poi una specializzazione presso una
delle molte scuole di perfezionamento che esistono in Italia e all’estero.
Ne parliamo con…
Daniel Harding
Nato a Oxford nel 1975, dirige molte tra le più importanti orchestre nel mondo ed è stato assistente di grandi
direttori, quali Simon Rattle e Claudio Abbado. È stato
nominato direttore musicale della Deutsche Kammerphilharmonie di Brema. Harding ha un grande talento e
ha già fatto molte esperienze musicali, ma conserva
sempre l’aria scanzonata e simpatica di uno studente.
l’intervista
Come ha deciso di fare il direttore d’orchestra?
C’è chi vorrebbe giocare nella nazionale di calcio, chi andare sulla luna, chi fare il cantante rock: tutti i ragazzi hanno un sogno. Il mio era diventare un direttore d’orchestra. Ho cominciato a dirigere a 13 anni, spinto dalla voglia di tentare qualsiasi cosa
che fosse di natura musicale. Fare musica è uno dei mezzi per esprimere se stessi, per
simpatizzare con altri, ma ancor più per sperimentare e comprendere le emozioni
universali che tutti gli esseri umani sentono e tentano di capire. La musica spiega
delle cose che sono difficili da mettere per iscritto.
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Calciatore
o musicista?
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La sua è una famiglia musicale?
Mio padre insegna alla Facoltà di Ingegneria a Oxford, ma in casa tutti suoniamo uno
strumento. Io ho incominciato a suonare la tromba e il pianoforte in un’orchestra giovanile, ma a un certo momento mi sono reso conto che come suonatore di tromba
non sarei mai stato sufficientemente libero dalle difficoltà tecniche per potermi esprimere nel modo migliore. Ho scoperto invece che la direzione d’orchestra è per me la
forma più naturale di espressione e di comprensione. Sento che sono me stesso quando dirigo, più che nella maggior parte degli altri momenti.
3. Risorse per l’orientamento
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Dalla tromba
alla
bacchetta
Quali e quando, finora, le emozioni più intense?
I pezzi da dirigere che mi danno più soddisfazione sono quelli che rappresentano una
sfida, mutevoli come sono davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie. Uno di questi
è il Don Giovanni di Mozart. Mi sembra che la sua forza, nel dramma e nella musica, sia
tale da poter cambiare la vita. Con un gruppo di giovani cantanti e musicisti sono partito per questa avventura lunga un anno sotto la guida di due grandi uomini della
musica e del teatro, Claudio Abbado e Peter Brook. Per tre mesi, durante le prove e poi
durante le recite siamo stati continuamente sfidati e commossi da questo capolavoro.
E ogni giorno ci sentivamo cambiati attraverso l’esperienza della musica.
La sfida
di Don Giovanni
Qual è il compito del direttore?
Il direttore avrà un futuro solo se saprà collaborare sempre di più con le orchestre. Bisogna imparare dagli allenatori di calcio, lavorare sodo durante gli allenamenti e riuscire a
valorizzare gli uomini che si hanno a disposizione. Lo scopo è sempre lo stesso: buttare
la palla in porta; il modo migliore sta a te trovarlo!
ritratti dal vivo
Goal!
VIDEO 45-42-43
Mario Lamberto
Nel DVD 2, il Video 45 presenta il ritratto di Mario Lamberto, direttore d’orchestra e insegnante di Direzione d’orchestra presso il
Conservatorio di Torino. Nel DVD 2 sono presenti delle riprese
audiovisive di un concerto realizzato dalla classe di Esercitazioni
orchestrali sotto la guida del maestro Lamberto (Video 42) e la
presentazione delle singole sezioni dell’orchestra (Video 43).
L’insegnante di direzione d’orchestra
Il direttore di coro
Nella stragrande maggioranza, i musicisti che scelgono di dedicarsi alla direzione di coro provengono da un’esperienza diretta del canto corale: una spinta molto potente verso questa professione è
infatti l’aver provato, magari fin da bambini, l’emozione di cantare insieme a più voci. Questa emozione, per fortuna, non è riservata a pochi eletti: in Italia, accanto ai grandi cori di professionisti dei
maggiori teatri d’opera, ci sono i cori amatoriali, che si sono moltiplicati fino a diventare alcune
migliaia, talvolta di buon livello. Tutti questi gruppi hanno bisogno di un direttore che indichi le
giuste entrate delle diverse sezioni (come accade in un’orchestra per le file degli strumenti), la scansione del tempo, la dinamica, il fraseggio, l’articolazione della frase musicale. Il direttore di coro ha
il compito, difficile ed esaltante, di formare un suono dove prima non c’era; di ricavare da una
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materia grezza, fondendo insieme tutte le voci dei diversi coristi, un timbro e un colore unico e
sempre cangiante, ogni volta adeguato al genere di musica che si vuole eseguire.
Direttori di coro si diventa con gli studi in Conservatorio. Ci sono due possibilità: frequentare
il Corso di musica corale e direzione di coro (presente in quasi tutti i conservatori italiani), al quale
si accede dopo i primi anni del corso di Composizione; oppure, ma solo dopo aver compiuto studi
avanzati di Composizione, ci si può iscrivere al Triennio sperimentale superiore di direzione di
coro istituito presso numerosi Conservatori italiani.
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Ne parliamo con…
Marco Berrini
Musicista milanese, direttore dell’Ars Cantica Choir, complesso corale
professionale di Milano, Marco Berrini ha studiato presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e si è diplomato in Pianofor­te, Musica Corale e Direzione di Coro e Composizione Polifonica Vocale, e fin da giovanissimo si è dedicato alla musica corale. Ha vinto premi e ottenuto
riconoscimenti per la sua alta professionalità.
l’intervista
Quando è nata in lei la passione per la musica e quando ha iniziato a
dirigere un coro?
Non ricordo esattamente quando in me è nata la passione per la musica: ricordo
soltanto che ho sempre cantato, fin da piccolo, in casa, all’asilo e subito dopo all’interno di un coro di voci bianche. Cantare, “fare musica” con la voce, è sempre stata
una gioia impagabile, che ha fatto crescere in me, giorno dopo giorno, il desiderio di
avvicinarmi sempre più consapevolmente alla musica. Ho iniziato a dirigere lo stesso
coro di voci bianche in cui cantavo, quasi per caso e un po’ per forza, il giorno che il
nostro maestro non potè più seguire, preparare e dirigere il gruppo: avevo 13 anni.
Far musica con
la voce: una gioia
impagabile!
Qual è la prima difficoltà che si presenta quando si dirige un coro?
Tra le tante e diverse difficoltà tecniche e musicali alle quali il direttore di coro deve
prestare attenzione segnalerei innanzitutto la necessità di sviluppare al massimo grado la capacità di comunicazione, verbale e non verbale. Il direttore di coro deve essere in grado di creare un rapporto speciale con le persone che ha di fronte a sé, un
rapporto di reciproca fiducia, di grande intesa e stima umana e professionale. Se mancano questi prerequisiti difficilmente potrà realizzarsi la “magia” della condivisione di
un’idea interpretativa. Al direttore di coro non potrà poi assolutamente mancare un
chiaro progetto musicale, un’idea interpretativa, frutto di quell’approfondito studio
della partitura che egli dovrà condurre prima di presentarsi di fronte al coro.
Dirigere è
saper
comunicare
Qual è l’atteggiamento di chi canta in coro, verso i compagni cantori
e verso il direttore?
Il coro è una società civile in miniatura. Le regole della corretta e sana convivenza fra
le persone sono anche quelle che debbono gestire le relazioni fra i componenti di un
coro. Cantare in coro educa e forma al vivere correttamente nella società. È pertanto
fondamentale imparare ad ascoltarsi, imparare ad ascoltare l’altro, ascoltarlo per essere in grado di rispondere coerentemente alle sue proposte; imparare a rispettare
l’altro, nella sua identità di persona così come nella sua identità vocale che potrebbe
essere diversa dalla mia; imparare a rispettare le regole della “convivenza corale”: la
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Prima regola
nel coro: saper
ascoltare
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puntualità alle prove, il silenzio durante la prova, l’attenzione alle richieste del direttore… Il microcosmo corale lavora per ottenere “concordanza nella discordanza”, ovvero un’unità d’intenti e un unico risultato musicale nel pieno rispetto e nella valorizzazione del contributo dei singoli, di ogni singola voce, riunita assieme a voci
simili in “sezioni vocali”, a loro volta riunite nella grande formazione corale. Tutti
lavorano per essere uno: il coro!
Quali sono i suoi obiettivi principali quando dirige un coro?
3. Risorse per l’orientamento
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Il coro è uno strumento in tutto e per tutto. Per questo, come tutti gli altri strumenti, deve avere una sua identità timbrica, frutto di una sapiente unione dei singoli
timbri vocali. Il primo obiettivo che cerco di raggiungere lavorando con un coro è
quindi la sua naturale fusione timbrica: un po’ come fa un pittore con i suoi colori,
così cerco di fare altrettanto con le voci e le sezioni vocali. Naturalmente questo lavoro non può prescindere dalla ricerca di una perfetta intonazione, di una precisa
risposta ritmica del gruppo, di una appropriata lettura stilistica del repertorio che ne
valorizzi pienamente tutte le componenti, prima fra tutte la forza espressiva della
parola cantata; perché chi canta, canta le parole, non le note!
L’espressività
del coro sta
nel suono
e nella parola
La tecnica che usa un direttore di coro è diversa rispetto a quella di
un direttore d’orchestra?
Nelle sue linee generali no. Entrambi i direttori partono da presupposti tecnici che
trasformano il movimento delle mani in segnale ritmico per l’esecutore (vocale o
strumentale) che hanno di fronte.
Il coro auspica e nel contempo ti permette un gesto rivolto alla ricerca di quel
dettaglio interpretativo che, in certi particolari momenti, può fare anche a meno del
basilare segnale ritmico. Spesso non bastano le mani: il viso, lo sguardo, gli occhi, il
corpo diventano uno strumento essenziale per il direttore di coro. Il cantore, l’artista del coro, sviluppa la capacità di leggere e interpretare i segnali che gli provengono da “tutto” il direttore.
Il direttore
di coro dirige con
tutto il corpo
Un episodio della sua carriera che le piace ricordare?
Ho molti ricordi che conservo con gioia nella mia memoria. Ma sopra a tutti rimane
l’esaltante esperienza che si rinnova all’inizio di ogni esecuzione, quando lo sguardo
incrocia quello dei tuoi cantori e il primo soffio di suono accarezza l’aria… È la magia
di sentire che in quel momento non c’è alcuna barriera fra te e loro; in quell’istante
l’unità delle intenzioni dà vita al grande miracolo: il coro!
L’unità di
intenzioni dà
vita al coro
Il cantante lirico
Cantare può essere l’espressione di ogni tipo di sentimento: allegria, dolore, gioia, religiosità, esultanza, gratitudine, malinconia, amore. Ciò vale per tutti indistintamente e da molti secoli. Tuttavia,
cantare sulla spinta di un’emozione qualsiasi è una cosa molto diversa dal cantare per mestiere.
In questo caso qual è la qualità fondamentale richiesta? Si racconta che Rossini, autore di partiture
che spesso richiedevano grande padronanza della tecnica vocale, rispondesse a questa domanda
con una battuta che ancora fa testo: «Voce, voce, voce!». Per cantare si deve possedere prima di tutto
uno “strumento” capace di produrre suoni di una certa qualità e sonorità. Uno strumento umano,
che è nel corpo, ma che ha bisogno di essere impostato attraverso uno studio costante e un continuo esercizio. La voce però non è tutto, il suo bel suono deve essere accompagnato da altre doti: fisiologiche (controllo della funzione muscolare che produce il suono) e mentali (temperamento,
senso del ritmo, musicalità). Bisogna avere un fisico sano, nervi saldi, pazienza, disciplina, perseveranza nello studio e gusto interpretativo.
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Inoltre può essere utile una bella presenza. Il cantante deve anche osservare alcune precauzioni:
guai al troppo freddo e al troppo caldo, attenzione al raffreddore!
Il canto è materia di studio in tutti i Conservatori italiani e in moltissime scuole di musica.
Vi sono inoltre Scuole di perfezionamento alle quali il giovane cantante può accedere attraverso
concorsi e selezioni.
Tra le sedi più importanti, l’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala, l’As.Li.Co, sempre a Milano, l’Istituzione Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto Adriano Belli, la
Fondazione William Walton a Firenze e l’Accademia d’Arte Lirica e Corale di Osimo.
303
Ne parliamo con…
Elisabetta Andreani, contralto
Ha studiato canto e composizione al Conservatorio di Pesaro, poi interpretazione del Lied tedesco ad Acquasparta con Elio Battaglia, a Barcellona e a
Firenze con Paul von Schilhawsky, quindi ha frequentato il Corso di perfezionamento al Teatro alla Scala con Giulietta Simionato, diplomandosi con
Melina Pignatelli. Ha completato gli studi con Maria Luisa Cioni. Nel 1989 ha
vinto due concorsi: l’As.Li.Co e il Cilea di Reggio Calabria.
l’intervista
Quando ha scoperto la musica?
Ho amato la musica fin da bambina: a 13 anni rimasi profondamente colpita dalla
Sinfonia n. 1 di Mahler ascoltata al Musikverein, la grande sala dorata di Vienna, un
tempio della musica sinfonica. Da allora Mahler mi è rimasto per sempre nel cuore.
Per caso,
all’improvviso...
E come ha scoperto il canto?
Non amavo il canto lirico. Avrei voluto studiare composizione e direzione d’orchestra, ma quando decisi di entrare in Conservatorio avevo già superato i limiti d’età
richiesti per la frequentazione di quei corsi. Mi rimaneva la possibilità di seguire un
corso di canto. Non la respinsi. Avevo una vocina piccola, ma ben intonata, niente di
più. Poi è successa una cosa straordinaria: cantando mi sono innamorata del canto.
... e poi un grande
amore!
Ha incontrato delle difficoltà?
Non ho avuto sempre un rapporto facile con la mia voce, anzi, soprattutto all’inizio
il rapporto è stato un po’ conflittuale. Quando ho capito di averla, anche se piccola,
ho iniziato una ricerca per “farla uscire fuori”. Perché la voce esce da noi, da una
parte del nostro corpo con problemi di tutti i tipi, fisiologici e psicologici.
Le conquiste
della voce
Qual è il suo rapporto con la scena?
Anche se la mia predilezione va al repertorio oratoriale e sinfonico, ho avuto interessanti occasioni di lavorare nell’opera. Ho debuttato nel 1990 nel Don Chisciotte di
Giovanni Battista Martini. Ricordo il Rigoletto rappresentato allo Sferisterio di Macerata con la regia di Henning Brockhaus e la direzione di Gustav Kuhn. Interpretavo
Maddalena e il regista, buon conoscitore della musica e della partitura, mi diede indicazioni ben precise sul modo di rendere questo personaggio, che voleva un po’
trasgressivo.
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Cantante,
ma anche attrice
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C’è stato un incontro che ha determinato una svolta nella sua
carriera?
Sì, con il maestro Aldo Ceccato, che è stato molto importante per la mia crescita
musicale. A lui ero stata indirizzata per cantare in un’opera di Donizetti. Con onestà
artistica, Ceccato mi disse subito che non avevo la voce adatta alla parte in questione, una voce comunque interessante anche se ancora un po’ grezza. Mi propose
parti più adatte e mi fece lavorare con lui al pianoforte per perfezionare il fraseggio
e dare maggior mordente alla voce.
Studiare,
studiare
molto!
3. Risorse per l’orientamento
304
ritratti dal vivo
VIDEO 44
Adelina Scarabelli, soprano
Nel DVD 2, il Video 44 presenta il ritratto del soprano
Adelina Scarabelli, che, dopo aver debuttato giovanissima
alla Scala di Milano ne Le nozze di Figaro diretta da Riccardo Muti, ha cantato nei teatri di tutto il mondo sotto la
direzione dei più importanti direttori, realizzando registrazioni per le principali case discografiche.
L’insegnante di canto
ritratti dal vivo
VIDEO 47
Paola Romanò, soprano
Nel DVD 2, il Video 46 presenta il ritratto del soprano
Paola Romanò, nel ruolo di insegnante di canto. Dopo
aver cantato a fianco di Luciano Pavarotti, Paola Romanò
ha avuto una brillante carriera internazionale che l’ha
condotta in vari teatri del mondo e per ben cinque anni
all’Arena di Verona. Si è affermata come uno dei soprani
verdiani di punta della nuova generazione.
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Lo strumentista d’orchestra
Non tutti gli strumentisti si esibiscono nei recital; più spesso suonano in complessi strumentali più
o meno ampi, dove talvolta hanno anche l’occasione di eseguire passi solistici.
In orchestra lo strumentista deve seguire le indicazioni del direttore, ma trova anche spazio per
la sua capacità interpretativa. Il direttore Claudio Abbado afferma: «A volte la collaborazione con
alcuni musicisti dell’orchestra, che conoscono a fondo la parte, può portare a un arricchimento
reciproco e allo scambio di opinioni interpretative».
Far parte di un’orchestra, piccola o grande che sia, significa realizzare al livello massimo quella
gioia e quel piacere che, per un musicista, derivano dal suonare insieme. Ossia “ascoltarsi” e sentirsi tasselli indispensabili nel mosaico della musica.
L’insegnamento degli strumenti è impartito nei Conservatori, dove, oltre ad affrontare la
formazione tecnica e musicale individuale, si frequentano corsi che preparano a fare musica d’insieme: musica da camera, quartetto, musica d’insieme per fiati o archi, esercitazioni corali e orchestrali.
Dopo il diploma in un dato strumento, si possono frequentare accademie o corsi di perfezionamento e specializzazione, che forniscono ai giovani una buona dose di esperienza per suonare in
orchestra ad alto livello professionale. Per far parte delle orchestre bisogna superare dei concorsi.
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Ne parliamo con…
Antonello Manacorda
Violinista e direttore d’orchestra. Nato nel 1970, è diventato violino di spalla (o primo violino, che fa da tramite tra il direttore d’orchestra e gli strumentisti) della
Gustav Mahler Jugend Orchestra e nel 1997 ancora violino di spalla e vicepresidente della Mahler Chamber Orchestra. Dall’autunno 1999 è docente di violino presso la
Fondazione Gustav Mahler di Bolzano. Il suo violino è il
Ferdinando Gagliano che appartenne alla grande violinista Gioconda De Vito. Conduce un’intensa attività anche come direttore d’orchestra.
l’intervista
Che cosa pensa del mestiere dello strumentista?
Ho sempre pensato che fare musica non fosse un lavoro vero e proprio. Ciò che spinge un ragazzo a dedicare la propria vita alla musica è senza dubbio una forte passione che fa dimenticare ogni rapporto lavoro-denaro.
Almeno per me è così. Ogni scelta della nostra orchestra è determinata non da
fattori economici o di carriera, ma principalmente artistici. Ciò non esclude che si sia
obbligati a prendere in considerazione anche gli aspetti pratici della vita, in quanto
siamo persone di carne e d’ossa. Realtà che la musica porta spesso a dimenticare.
Passione
prima di tutto
Come è avvenuto l’incontro con la musica?
Ho cominciato a suonare il violino molto presto. Il Concerto per violino e orchestra di
Beethoven, ascoltato durante una serata musicale con i miei genitori, suscitò in me
una tale impressione da farmi desiderare di essere al posto del violinista. L’ingresso
in Conservatorio fu l’inevitabile conseguenza.
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Il fascino di
Beethoven
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Come ha scoperto la gioia del suonare insieme?
Già nei primi anni di studio musicale avevo cercato di convincere i miei compagni e i
miei amici a fare musica da camera, ma cominciai a vivere più intensamente il “suonare insieme” quando entrai come Konzertmeister (così è chiamato il violino di spalla
nelle formazioni austriache e tedesche) nella Gustav Mahler Jugend Orchestra. Da
allora condivido la musica con altre persone: i musicisti che stanno con me sul palco
e il pubblico che sta in sala. Ho a che fare con tutte le famiglie degli strumenti: si
impara a conoscerli, a rispettarli e a interagire con loro.
3. Risorse per l’orientamento
306
Konzertmeister
Come si preparano gli strumentisti a un concerto o a un’opera?
Dapprima ogni strumentista prepara per proprio conto la sua parte e poi, alla prima
lettura con il direttore, si individuano i punti da correggere, modificare, approfondire. Segue un lavoro a sezioni e le prove vere e proprie con il direttore, che comunica
all’orchestra la sua interpretazione del pezzo.
Nel caso di un’opera lirica, tra orchestra e cantanti sul palcoscenico, con la mediazione del direttore, può e deve nascere uno stretto, intenso rapporto, condizione
primaria per la buona riuscita di uno spettacolo.
Dalle prove
al concerto
Il solista
Il solista, grazie al proprio talento musicale e a uno studio incessante, conosce alla perfezione la
tecnica del proprio strumento, al punto da potersi esprimere con esso, anche senza fondersi in altri
complessi strumentali.
Per prepararsi alla carriera concertistica è necessario costruire un repertorio vasto e adatto al
proprio temperamento. Con instancabile costanza, bisogna dedicarsi alla ricerca del suono, che
deve adattarsi allo stile di ogni composizione e all’epoca da cui proviene. Per questo sono necessari
carattere forte e resistenza fisica. Diceva il grande pianista Arthur Rubinstein: «Se non studio
per un giorno me ne accorgo solo io, se non studio per due giorni se ne accorgono gli amici, se non
studio per tre giorni se ne accorgono tutti».
Il concerto di un solista è detto recital; tuttavia egli esce dal suo isolamento quando entra in relazione con gli strumentisti di un complesso da camera (duo, trio, quartetto, quintetto ecc.) o di un’orchestra e con il suo direttore.
La preparazione tecnica del solista deve iniziare dall’infanzia, poiché il percorso dell’apprendimento musicale di uno strumento è lungo e impegnativo. La sua formazione avviene in Conservatorio, ma può continuare in una delle molte scuole di perfezionamento che si trovano in Italia e
all’estero.
Ne parliamo con…
Andrea Lucchesini
Andrea Lucchesini, pianista. Nato nel 1965, ha studiato sotto la guida della celebre
concertista Maria Tipo, ottenendo precoci riconoscimenti, tra i quali il premio
A. Cortot. A soli diciotto anni ha debuttato sulla scena internazionale con un recital
al teatro parigino degli Champs-Elysées. Pochi mesi dopo vinceva il primo premio al
Concorso Internazionale Dino Ciani presso il Teatro alla Scala di Milano. È stato
ospite delle maggiori orchestre europee e americane e ha suonato sotto la guida di
importantissimi direttori.
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l’intervista
Come si è avvicinato al pianoforte?
Nella maniera più naturale. Mio padre è musicista e le sue lezioni di tromba riempivano la casa di musica da mattina a sera. Io ascoltavo e già a cinque anni cercavo di
ripetere sul pianoforte i pezzi che gli allievi di mio padre eseguivano. A sei anni entrai in Conservatorio dopo un’audizione con Maria Tipo, che mi accettò subito e che
fin dall’inizio è stata la mia insegnante.
Figlio d’arte...
Quali sono gli aspetti più belli ed esaltanti del mestiere del solista?
Certamente la profonda emozione che si prova per ogni scoperta musicale nello
sterminato patrimonio della musica strumentale, quindi la possibilità di comunicare
attraverso la musica le proprie emozioni al di là di qualsiasi confine segnato dalla
geografia, dalle lingue, dall’età.
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Emozioni
senza confine...
Come è la vita del concertista?
Ho saputo ben presto che avrei dovuto fare i conti con una disciplina molto dura, un
lavoro artigianale fatto di pazienza, concentrazione e innumerevoli prove di esecuzione, ma anche con la solitudine di una vita di viaggi, il cui scopo – il concerto – impedisce quasi del tutto ogni distrazione turistica.
Gioie e fatiche
E i problemi di un pianista, in particolare?
Un pianista non può naturalmente portare con sé lo strumento sul quale ha lavorato
a casa e deve approfittare delle brevi prove in teatro per poter prendere confidenza
con un pianoforte sconosciuto, le cui caratteristiche possono anche essere molto
differenti da quelle dello strumento abituale.
Uno strumento
difficile da
trasportare!
Ci racconta un episodio emozionante della sua carriera?
In occasione del concerto per pianoforte e orchestra scritto da Luciano Berio mi è stato
possibile discutere la partitura con l’autore. Di solito bisogna trovare il pensiero, le intenzioni di un compositore nei segni delle partiture che ci ha lasciato.
A tu per tu
con l’autore
Una svolta importante?
L’incontro con il violoncellista Mario Brunello. Non c’è voluto molto tempo per decidere di suonare insieme musica da camera. Ho subito capito come era bello far parte
di un insieme: ciascuno collabora con la propria sensibilità e nello stesso tempo può
anche trarre, dalle inevitabili divergenze di idee, un grande arricchimento. Ho scoperto qualcosa che della musica ancora non conoscevo: come sia stimolante e divertente condividerla con altri.
Solista,
ma non troppo...
L’insegnante di strumento
Durante le sue lezioni, l’insegnante di uno strumento musicale deve tener presente l’impostazione del corpo dell’allievo, lo studio approfondito degli stili musicali delle diverse epoche e dei
compositori più importanti; inoltre deve sviluppare nel suo allievo la componente creativa: fare
musica non vuol dire solo riprodurre con precisione meccanica le note scritte sulla partitura, ma
anche interpretare le indicazioni del compositore alla luce della propria natura. Qualità ed espressività del suono, senso del tempo musicale variano da esecutore a esecutore e rendono ogni interpretazione diversa dalle altre. L’insegnante asseconda lo sviluppo della personalità e del gusto
dell’allievo, ne amplia i confini culturali.
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Non sempre chi sa suonare uno strumento sa anche insegnare musica con successo: ci vuole una
particolare vocazione. Ma saper suonare bene il proprio strumento è condizione indispensabile per
insegnarne la tecnica. Ecco perché quasi sempre i musicisti che hanno deciso di dedicarsi all’insegnamento continuano nello stesso tempo una regolare attività concertistica.
In Conservatorio si tengono corsi di Didattica della musica; inoltre, una volta raggiunto il diploma in un dato strumento, il neodiplomato può svolgere tirocinio come insegnante collaboratore di
altri insegnanti, così da apprendere le arti del mestiere. Tuttavia molti docenti italiani sostengono di
aver imparato il mestiere dell’insegnante sul campo, ossia nel rapporto diretto con gli allievi dopo
aver terminato gli studi.
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3. Risorse per l’orientamento
Ne parliamo con…
Cinzia Barbagelata
Insegnante di violino. È docente nello stesso Con­servatorio in cui si è diplomata,
il Giuseppe Verdi di Milano, e nello stesso tempo sta percorrendo una brillante
carriera di strumentista, con un repertorio che spazia dalla musica barocca alle
novità assolute dei compositori del nostro tempo. È fondatrice e direttrice del
gruppo strumentale Aglaia e protagonista di numerose e importanti incisioni discografiche.
l’intervista
Perché per lei è importante continuare a insegnare?
Suonare uno strumento, anche da professionista, vuol dire non smettere mai di studiare. Rifare un percorso di formazione insieme a ciascuno dei miei allievi, che hanno dagli
8 ai 25 anni, è utilissimo per me come musicista e come persona.
Ci può spiegare perché?
Ho iniziato a insegnare il violino giovanissima e ho subito scoperto che per me si trattava di un lavoro ideale: sono, per natura, curiosa (perciò la mia attività è così varia) e, su
musica e violino, mi pongo continuamente domande; quando trovo le risposte, amo
comunicare con entusiasmo le mie scoperte ai miei allievi, cercando poi con loro una
verifica delle mie intuizioni. Non uso certo gli allievi come cavie, ma partecipiamo insieme a una ricerca, individuando un percorso comune.
Anche
l’insegnante
impara
Un utile
scambio di idee
Quali sono le principali difficoltà nell’imparare a suonare il violino?
Il corpo umano ha una sua struttura, lo strumento anche, ed entrambi devono essere assecondati senza conflitti: da questo punto di vista direi che imparare a usare un violino
non è molto diverso dall’imparare a usare una racchetta da tennis.
Bisogna che l’allievo arrivi a conoscere e padroneggiare le proprie sensazioni fisiche
e a verificare i risultati della propria applicazione attraverso l’ascolto analizzando la
qualità del suono, l’intonazione, il timbro. Non è sempre facile. Ma non sono qui i problemi di più difficile soluzione per un insegnante di strumento.
Il violino,
quasi una
racchetta
Dove sono, allora, i problemi principali?
È difficile riuscire a convincere i ragazzi dell’importanza di questa disciplina in un
paese come l’Italia, dove la musica “cÓlta”, nonostante la sua grande tradizione, viene sottovalutata. Anche i più interessati, quelli che affrontano con consapevolezza
ed entusiasmo gli studi in Conservatorio, vedono davanti a sé un percorso che, almeno apparentemente, offre pochissime prospettive. Ma la più grande soddisfazione per me e per gli altri insegnanti è vedere che i nostri allievi, nonostante le difficoltà, prendono la loro strada e amano ciò che fanno, che diventino grandi violinisti
o meno.
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A ciascuno
la propria strada
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Il costruttore di strumenti musicali
Ancora oggi, come nei secoli passati, gli strumenti musicali di migliore qualità non nascono
nei reparti di una fabbrica, ma dalle mani di un bravo costruttore. Gli strumenti realizzati a
mano, diversamente da quelli di produzione industriale, hanno ciascuno una personalità ben definita, oltre a una qualità di suono assolutamente superiore.
Tutte le fasi di realizzazione di uno strumento musicale richiedono la cura e la sensibilità di un esperto, che sceglie i legni e le vernici, dà forma ai diversi pezzi e li mette insieme, rifinisce i particolari: tutto
in funzione dell’arricchimento armonico del suono prodotto dallo strumento.
I costruttori di strumenti musicali sono abili artigiani che forgiano con amore e pazienza strumenti nuovi, o restaurano quelli del passato. Essi vengono chiamati «liutai» se si dedicano agli strumenti ad arco o a corde pizzicate, e semplicemente «costruttori» se si occupano di strumenti a
fiato o a tastiera. I costruttori e riparatori di organi sono detti «organari».
Un aspirante liutaio può trovare buone scuole a Milano e Cremona, mentre per gli strumenti
a tastiera attualmente nel nostro Paese non esistono corsi di studio. Per imparare a costruire clavicembali, un giovane deve prima di tutto diventare un bravo falegname, esperto in restauro ligneo, e
poi recarsi all’estero: a Londra vi sono i corsi del Royal College, ottimi ma costosissimi.
Chi si avvia a costruire strumenti deve mettere in conto non soltanto gli anni di studio, ma anche la grossa spesa iniziale per impostare un laboratorio con attrezzi, scorte di legname e di altro
materiale, libri e disegni che fungano da progetti di costruzione. Deve poi sapere che si avvia verso
un lavoro che richiede grande applicazione: per costruire un solo clavicembalo ci vogliono, a seconda della complessità del modello, dalle 500 alle 1400 ore di lavoro.
309
Ne parliamo con…
Andrea Restelli
Uno dei più noti costruttori italiani di strumenti. Lavora a Milano e si è dedicato fin da ragazzo ai clavicembali, ai piccoli organi portatili («positivi») e ai fortepiani, cioè ai pianoforti antichi. Il suo strumento
più noto, creato nel 1996, viene impiegato in tutta
Europa per concerti, conferenze e incisioni: è la copia
di un fortepiano appartenuto, con molte probabilità, a
Johann Sebastian Bach. Gli strumenti di Restelli sono
tutti copie di modelli antichi, i cui originali sono sparsi nei musei e nelle case di mezzo mondo.
l’intervista
Perché costruisce soltanto copie?
Prendiamo ad esempio i clavicembali costruiti fino al Settecento: costituiscono un
modello insuperabile, il massimo della perfezione tecnica possibile. Non c’è nulla da
modificare, tanto che chi nel nostro secolo ha tentato di “migliorare” i modelli antichi non è approdato a nulla. Dunque il lavoro di chi costruisce strumenti consiste nel
riprodurre continuamente i modelli del passato. Io, ad esempio, ancora ai tempi della scuola ho passato tante vacanze all’estero per procurarmi i piani e i disegni degli
strumenti conservati nei vari musei, che poi ho potuto riprodurre.
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Strumenti
perfetti
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Gli strumenti che lei realizza sono di vario tipo?
Il mio laboratorio, in questo momento, di soli 70 metri quadri, contiene ben sei clavicembali oltre ai banchi di lavoro, gli attrezzi e i macchinari (è uno spazio per persone magre!) Non rifaccio sempre lo stesso modello: è emozionante scoprire il timbro
e la personalità di uno strumento che non avevo mai realizzato prima. Anche quando
faccio più copie, non produco strumenti di serie e nemmeno se volessi farne due
identici ci riuscirei: due pezzi di legno, anche se presi dallo stesso tronco, sono diversi: con la piallatura a mano, ad esempio, non si potranno mai ottenere spessori
assolutamente identici.
3. Risorse per l’orientamento
310
Oltre alle scuole, quali altre opportunità ci sono per diventare un buon
liutaio?
L’alternativa è cercare di diventare apprendista presso uno di quei famosi costruttori stranieri che hanno grandi botteghe e qualche volta cercano aiuti. Bisogna comunque sapere fin dal principio che questo è un mestiere che non fa diventare ricchi e
che richiede una gran dose di passione.
Una bottega
affollata
L’apprendista
costruttore
Il regista d’opera
Nei secoli scorsi, se si escludono alcune indicazioni di Richard Wagner, la regia negli spettacoli di
teatro musicale era affidata alla tradizione e all’iniziativa dei cantanti. Oggi invece tutto ciò che il
pubblico vede sul palcoscenico e che serve per raccontare le vicende dei libretti d’opera, secondo la
sensibilità contemporanea, si affida al regista, che cura appunto l’aspetto teatrale e scenico della
rappresentazione, rende attuale uno spettacolo, comunica nella maniera più comprensibile il significato di un’opera, senza disturbare il flusso della musica.
Prima di affrontare una regia il regista deve leggere la musica, approfondire e interpretare il libretto, progettare nei minimi particolari ciò che succederà sul palcoscenico, confrontare le proprie idee con l’interpretazione musicale del direttore d’orchestra e dialogare con lo scenografo
per la definizione di scene, costumi, luci.
Il regista è aiutato da un gran numero di persone: falegnami, fabbri, pittori, scultori, sarti, calzolai,
cappellai, piumai, pellicciai, attrezzisti, parrucchieri, truccatori, tutti artigiani di altissimo livello che
hanno a loro disposizione laboratori attrezzati ed efficienti.
Dopo la fase preparatoria inizia il lavoro vero e proprio di regia: prima le prove in sala, poi in
palcoscenico a scene montate, quindi interviene l’orchestra e si arriva alla prova generale. Finalmente tutto è pronto per la prima rappresentazione.
Non esistono corsi per aspiranti alla regia lirica, bensì corsi dedicati alla regia teatrale (teatro
di prosa). Un regista lirico deve avere sufficienti nozioni musicali per poter leggere una partitura e una
solida cultura generale di carattere umanistico.
Una buona preparazione si forma anche sul campo, ossia in palcoscenico: molti degli attuali e più famosi registi hanno conquistato il mestiere lavorando,
ancora giovanissimi, come assistenti di registi già affermati.
Allestimento scenico di uno spettacolo.
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Ne parliamo con…
Pier Luigi Pizzi
Architetto per formazione, scenografo all’inizio poi anche regista, ha allestito
un grandissimo numero di spettacoli nei più importanti teatri di tutto il mondo, da Milano a Parigi, da Venezia a Chicago, da Pesaro a Ginevra, da Aix-enProvence a Buenos Aires, affrontando opere che ricoprono un ampio arco
temporale della storia della musica: dal Barocco al periodo contemporaneo.
Inoltre ha programmato spettacoli che, creati per un determinato palcoscenico, sono stati poi richiesti da vari altri teatri italiani e stranieri.
311
l’intervista
Come ha cominciato a fare teatro?
La mia è stata una formazione di architetto, ma ho sempre saputo che avrei costruito solo l’effimero. Ero iscritto ad architettura e scelsi l’indirizzo di scenografia.
Quando cominciai, a ventun’anni, a fare teatro (perché questa era la mia passione)
era logico che scegliessi quel modo di esprimermi che più si avvicinava all’architettura, la scenografia, appunto.
Volevo fare
l’architetto
Quando è “entrata in scena” l’opera?
Nel 1952, con la scenografia per un Don Giovanni di Mozart, a Genova, con un cast eccezionale. Un debutto felice, ben augurante. Da quel momento le offerte si susseguirono. La prima regia lirica arrivò improvvisa nel 1977 in seguito alla rinuncia di un regista. Anche in questo caso un Don Giovanni, che realizzai sullo sfondo di una scenografia
tutta bianca ispirata all’architettura palladiana. Nel 1978 affrontai il primo spettacolo
barocco, l’Orlando furioso di Vivaldi, al Teatro Filarmonico di Verona e decisi, dopo tanti anni d’esperienza accanto a registi diversi, sia in prosa sia in lirica, di assumere
l’intera responsabilità teatrale dello spettacolo: regia, scene e costumi.
Il debutto
Perché l’Orlando furioso è stato così decisivo per la sua carriera?
Con quest’opera ho scoperto un genere di teatro a me particolarmente congeniale: il
teatro barocco, cioè il «Teatro della meraviglia». La mia lunga carriera di scenografo
mi aiutava a inventare le macchine di cui avevo bisogno per animare questa forma di
spettacolo tutta affidata all’immaginazione.
Il Teatro
della
Meraviglia
Qual è il rapporto di un regista con i cantanti?
A un cantante si chiede disponibilità, attenzione, concentrazione, partecipazione.
Dopo avergli illustrato l’impostazione del personaggio, si deve trovare con lui l’interpretazione migliore, saper mettere in luce le sue qualità e persino, talvolta, alcuni
suoi difetti, che possono essere utili alla caratterizzazione del personaggio. Il cantante moderno deve essere anche un buon attore. È opportuno dargli fiducia, rassicurarlo, correggerlo se occorre, senza scoraggiarlo. Bisogna occuparsi del suo costume, del trucco, costruendo il suo personaggio anche attraverso complete
trasformazioni.
Alla scoperta
dei personaggi
Quale impegno richiede oggi l’opera lirica?
La volontà di prenderla e farla nostra, rendendola attuale. Anche mettendo in conto
i disagi, i problemi, le difficoltà, le incomprensioni, a volte le sofferenze, fare teatro
è un gran bel mestiere!
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Un gran bel
mestiere!
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Il musicologo e il critico musicale
Fare il musicologo significa pensare il mondo dalla parte della musica, ossia avere come materia
del proprio lavoro Bach, Mozart, Beethoven, Miles Davis, il rock, il valzer di Strauss e infinite altre
cose; cercare di capire che cosa sia successo con loro e grazie a loro nella storia e che cosa ci possano
trasmettere ancora oggi.
È una professione molto utile oggi, soprattutto in Italia. Da noi, infatti, si consuma molta musica: nei concerti e soprattutto attraverso la radio, i dischi, le registrazioni in cuffia, in automobile…
musica di tutti i tipi. Ma la cultura musicale è scarsa: solo pochissimi sanno suonare uno strumento, pochi cantano in un coro e ancor meno sanno leggere la musica. E tutta l’esperienza di ascolto
che si addensa su di noi viene quasi sempre presa a caso, senza saperci bene orientare, senza riflettere su che cosa questa musica possa accendere nella nostra mente. I musicologi suscitano e guidano la riflessione sulla musica di quanti ne fanno uso e favoriscono la diffusione della cultura musicale; sono detti «critici» quando esprimono giudizi sulla qualità di una composizione o di
un’esecuzione musicale, sia dal vivo, in concerto, sia registrata. Essi hanno vari mezzi per svolgere
questa loro funzione: scrivere su giornali, quotidiani o periodici, le recensioni e le presentazioni
degli spettacoli, fornendo informazioni sulla vita musicale in genere; partecipare ai dibattiti sulle
grandi questioni musicali; lavorare nelle istituzioni o nei teatri per aggiornare il pubblico sulle
produzioni nuove e sui nuovi interpreti; insegnare e produrre o curare pubblicazioni presso le università, gli istituti culturali e i Conservatori; lavorare infine come consulenti tecnici o culturali per
la musica alla radio o alla televisione, o nelle case discografiche.
Per la carriera di musicologo è necessario conoscere la musica, almeno a livello di diploma di
Conservatorio. L’iter normale prevede anche studi musicali a livello universitario nelle Facoltà
di Lettere e Filosofia, in particolare nei corsi di laurea del Dams (Discipline delle Arti, della Musica e
dello Spettacolo), oppure alla Scuola di Paleografia e Filologia Musicale che ha sede a Cremona. Lo
stesso vale per la professione di critico musicale, per la quale non esistono in Italia corsi di preparazione specifica, se non occasionali ed episodici: starà quindi all’iniziativa del singolo darsi da fare,
ascoltare, leggere, mettersi alla prova con la scrittura, confrontare e infine proporsi alle diverse testate giornalistiche.
3. Risorse per l’orientamento
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Ne parliamo con…
Lorenzo Arruga
È uno dei più noti musicologi e critici musicali italiani. Autore di numerosi
libri e saggi, collaboratore per diversi giornali, è critico musicale del settimanale «Panorama»; ha fondato e diretto per quasi vent’anni la rivista
mensile «Musica viva».
l’intervista
Quali sono le difficoltà più comuni del musicologo e del critico musicale?
In Italia è poco considerata l’importanza della musica nella formazione e nell’esperienza di ciascuno: bisogna spesso convincere a fatica le persone che la musica fa
parte della cultura e più ancora della vita di ciascuno; che non è un ornamento, un
pennacchio; che mettere chi ama la musica in condizioni di viverla meglio non è un
optional, ma una questione di libertà. E poi ci sono un mucchio di pregiudizi: si crede
che lo studioso di musica non ami il resto delle cose; si pensa che il critico sia quello
che deve passare all’esame gli artisti, che il suo lavoro consista soprattutto nel dare
pagelle, nello stilare classifiche; a volte addirittura che il critico più bravo sia quello
che si lamenta di più.
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Niente
pregiudizi!
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Quali sono i requisiti necessari?
Il musicologo deve conoscere bene la musica, nella sua storia e nella sua struttura,
saper leggere le partiture e avere un’intensa esperienza di ascolto; possibilmente
deve saper suonare qualche strumento, quel tanto che basta per assaporare il piacere del far musica.
Il critico deve conoscere abbastanza il tipo di lettore e di ascoltatore cui si rivolge, oltre a saperne di musica, altrimenti finisce per diventare un triste individuo
pomposo, o una macchinetta un po’ ridicola, o tutti e due.
Bisogna saper
ascoltare...
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Qual è l’aspetto più bello del suo lavoro?
È meraviglioso dedicarsi alle cose che si amano.
Diventa molto gratificante sentire che si instaurano rapporti con gli artisti e con
i lettori.
È di grande soddisfazione scoprire che, comprendendo meglio e amando la musica, si capiscono e si amano di più tutte le altre cose.
ritratti dal vivo
... e amare
la musica
VIDEO 51-64
Sandro Cappelletto
Nel DVD 2, Video 51-64 presenta un’intervista al critico
Sandro Cappelletto, nato a Venezia nel 1952. Laureato in
Filosofia, giornalista professionista e critico musicale, collabora con importanti testate, quali «La Stampa» e «Le
Monde», ed è autore di trasmissioni radiofoniche.
Il tecnico del suono
Il tecnico deve saper registrare gli strumenti acustici (pianoforte, archi, chitarra classica) e saper
lavorare con quelli elettronici (tastiere, computer) per realizzare registrazioni e correzioni del
suono, avendo a disposizione microfoni, registratori e tutta la strumentazione controllata dalla
consolle, cioè il banco di missaggio, vero cervello dell’operazione, al quale convergono tutti i suoni
prima di essere registrati.
Nello studio di registrazione i musicisti possono suonare tutti insieme (è il caso di un’orchestra d’archi), o uno dopo l’altro: in quest’ultimo caso il tecnico incide su piste diverse i suoni dei singoli strumenti,
poi li sovrappone e decide le caratteristiche del suono finale da fissare sul Cd.
Il suo lavoro può dunque essere paragonato alla composizione di un mosaico dove, invece di tessere colorate, ci sono pezzetti di suono.
Per una registrazione live (cioè “dal vivo”) di un concerto, il tecnico porta sul luogo dell’esecuzione
(un teatro, un’arena) un’attrezzatura detta «studio mobile» ed elabora poi i nastri registrati all’interno
del suo studio. Questo mestiere non può essere considerato allo stesso livello artistico di quello di un
compositore o di un interprete, ma rappresenta una forma di partecipazione musicale che in certi casi
può fare la fortuna commerciale di un prodotto.
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Raggiungere un determinato suono, proprio quello che desidera un autore, riprendendo i vari strumenti e convogliandoli in un insieme equilibrato, è un’operazione che richiede talento e sensibilità musicale.
In Italia esistono poche scuole per tecnici del suono, che preparino soprattutto ad affrontare
gli aspetti tecnici di una registrazione. In Inghilterra e negli Stati Uniti vi sono invece scuole specializzate con corsi di carattere sia tecnico sia musicale. L’uso quotidiano e costante delle macchine
di registrazione fornisce comunque una buona esperienza sul campo.
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3. Risorse per l’orientamento
Ne parliamo con…
Marco Olivotto
Nato a Rovereto (TN) nel 1965, dall’età di 16 anni è attratto dal mondo della registrazione sonora. Allestisce
un piccolo studio a casa sua fino a che, nel 1989, fonda
quello che sarà – in forma embrionale – il suo studio attuale: Sonica Studios/LoL Productions. Ha prodotto più
di 300 album nei generi musicali più svariati, e ha lavorato con alcuni artisti di livello internazionale, soprattutto in ambito classico e jazz. Tra questi, Filippo Gamba, Simone Pedroni, Antonio Ballista, Danilo Rossi,
Massimo Moriconi, David Jackson, Judge Smith, Dave
Douglas, Le Mystère Des Voix Bulgares.
l’intervista
Qual è stata la sua formazione?
Non ho avuto una formazione specifica in campo audio. Mio padre si interessava di fotografia e cinema amatoriale, e possedeva un registratore stereofonico per sonorizzare
i suoi film (un fatto raro, all’epoca) su cui ho fatto esperimenti fin da bambino. Ho studiato pianoforte per un periodo, e poi mi sono laureato in Fisica. Credo che l’unione di
tutte queste esperienze mi abbia portato a fare quello che faccio ora. Soprattutto, ho
ascoltato una quantità enorme di musica, senza preoccuparmi troppo del genere… la
musica è musica, a mio parere: classica, rock, jazz, poco importa; se una cosa è fatta
bene, è semplicemente fatta bene.
L’ascolto
della musica
alla base
di una buona
formazione
Vuole ricordare un’esperienza in particolare?
Dovrei scrivere un libro a mia volta! Sentire il coro Le Mystère Des Voix Bulgares nella
loro sala prove a Sofia, il giorno prima di registrarlo, e trovarmi in mezzo a una vocalità
incredibile che avevo conosciuto fin da ragazzo sui loro dischi. Il concerto dei Van der
Graaf Generator a Londra nel 2005: riformatisi a sorpresa dopo trent’anni, alla prima
nota hanno ricreato sul palco quel suono tipicamente loro che non avrei mai sperato di
sentire dal vivo. Senza contare le notti passate con gli artisti ad apportare gli ultimi
frenetici ritocchi ai loro lavori, finendo a volte alle quattro di mattina, disfatti, ma felici di avere realizzato qualcosa che a modo suo è importante.
Quali possono essere le difficoltà di questo mestiere?
Questo non è un mestiere che arricchisca – al di là di quello che si crede. Gli investimenti in tecnologia sono necessariamente enormi. Inoltre, il mio è un mestiere che
tende a distruggere il tempo libero: si lavora spesso la sera, o durante i week-end,
ovvero quando gli amici hanno i loro momenti di riposo.
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Il suono
migliore
è prodotto
all’origine
dagli artisti
Investire
tempo e denaro
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Lei si fida sempre delle sue macchine?
Oggi tutto o quasi si fa tramite computer, quindi i sistemi sono molto precisi e affidabili. In questo senso la risposta è: sì. Allo stesso tempo, credo sia molto più importante fidarsi delle proprie orecchie, a patto che le stesse siano abbastanza educate
dalla pratica! Un aneddoto: quando aprii il mio studio mi resi conto che tendevo più
a guardare gli strumenti che ad ascoltare la musica. Un’esperienza che qualsiasi tecnico prima o poi fa è quella di allungare la mano, ritoccare un controllo e credere di
sentire una differenza… anche se il controllo in questione è disattivato. Per questo
motivo ho fatto una cosa radicale: ho coperto tutto quello che era visibile in studio
con del nastro adesivo nero, e ho lavorato alla cieca per circa sei mesi. All’inizio è
difficilissimo, ma con il tempo si impara a sentire, piuttosto che leggere gli strumenti, e a quel punto si può davvero lavorare senza guardare, anche se tutto è disponibile davanti agli occhi.
Ascoltare...
a scatola
chiusa!
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Il disc-jockey
Qual è la traduzione letterale del termine inglese disc-jockey? Chi gira i dischi, chi li fa correre, chi
“suona” i dischi. Il disc-jockey crea un tessuto, un tappeto musicale, scegliendo determinati dischi
e accostandoli per assonanza o per contrasto.
Il mestiere del disc-jockey è nato con i programmi musicali per la radio. Esistono due categorie
di disc-jockey radiofonici: una è quella dell’intrattenitore, che costruisce un programma alternando battute e chiacchiere a brani musicali. Potremmo considerarlo un amico delle ore diurne o
notturne, che cerca di far compagnia e far sorridere chi è solo o viaggia a lungo in macchina.
L’altra categoria è quella del disc-jockey“puro”, che presenta e propone soltanto pezzi di musica creando intrecci tra generi musicali e dischi diversi (il disco di musica pop, di musica black, di
musica rock ecc.). Far conoscere la buona musica è il suo obiettivo.
Oltre ai radiofonici ci sono i disc-jockey da discoteca. In questo caso sono ancora più puri dei
“puri” radiofonici, in quanto non parlano affatto, ma propongono solo musica. In alcune discoteche
offrono musica esclusivamente commerciale, mentre nei locali “di tendenza” vengono prediletti
alcuni generi: dalla musica house, con brani meno cantati e più melodici, alla musica techno, con
pezzi molto sincopati e molto veloci.
In Italia alcune scuole stanno istituendo corsi specializzati alla preparazione dei
disc‑jockey. Gli esperti sostengono però che conviene imparare sul campo piuttosto che in una
scuola: una scuola può dare le basi, ma quanto si può imparare frequentando una radio, ascoltando
gli amici al lavoro, cercando di scoprire i segreti di un collega più anziano, un professionista, è sicuramente molto più utile.
Ne parliamo con…
Luca Dondoni
Voce storica della radiofonia italiana, giornalista musicale, inviato della
«Stampa» (musica e televisione) e collaboratore di diverse riviste, noto
volto televisivo.
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Come ha cominciato a fare il disc‑jockey?
Ho cominciato in una piccola radio, quando avevo diciassette anni. Ora conto più di
vent’anni di attività.
All’inizio, quando qualcuno mi domandava «Che cosa fai?» e io rispondevo: «Il
disc‑jockey», il mio interlocutore normalmente ribatteva: «E di lavoro?». Adesso finalmente si parla del mestiere del disc‑jockey come di una vera professione. È già un bel
passo avanti: fino a qualche anno fa lo si considerava solo un passatempo divertente.
3. Risorse per l’orientamento
316
Lavoro o
divertimento?
Quali consigli può dare a un giovane aspirante disc‑jockey?
Prima di tutto ci vuole una certa predisposizione e un’istintiva facilità a comunicare.
Come primo passo, l’aspirante disc‑jockey può tentare di inserirsi nelle piccole radio che
raggiungono solo un paesino, ma che sono ideali per scoprire se si ha la stoffa giusta; qui,
probabilmente, presterà una collaborazione del tutto gratuita. Se è bravo, passerà poi
alle radio regionali, che non arrivano in tutta Italia ma hanno buoni ascolti. La sua meta
sono i grandi network, ai quali però è difficile accedere. Come le squadre di calcio di serie
A non prendono giocatori dalla serie B, ma preferiscono reclutarli dalla loro stessa serie o
dall’estero, così i network di solito vanno a “pescare” un disc‑jockey negli studi dei loro
concorrenti.
ritratti dal vivo
Dalla serie C
alla serie A
VIDEO 48
DJ Gero
Nel DVD 2, il Video 48 presenta il ritratto del DJ Gero.
I gruppi rock
ritratti dal vivo
VIDEO 49-50
Perturbazione e Micatone
Nel DVD 2, il Video 49 presenta il ritratto del gruppo
rock italiano Perturbazione, mentre il Video 50 presenta
il ritratto del gruppo rock tedesco Micatone. Entrambi
spiegano i segreti del loro successo e le difficoltà che
incontra un gruppo rock nel mondo della musica contemporanea.
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Il ballerino
Muoversi al ritmo della musica è un piacere istintivo che tutti qualche volta hanno provato,
una manifestazione spontanea che ha accompagnato la storia dell’uomo fin dalle culture primitive,
evolvendosi poi in varie forme di danza e assumendo diversi ruoli: rituale, artistico, spettacolare e
di divertimento.
In Occidente la danza come arte ha trovato ampio sviluppo e regolamentazione nel balletto classico dell’Ottocento, i cui princìpi vengono tuttora insegnati ai giovani aspiranti danzatori; nel corso
del Novecento si sono poi sviluppate molte e diverse correnti di grande interesse. Il ballerino professionista si esibisce, come solista o come parte di un corpo di ballo, secondo le coreografie abbinate a
una composizione musicale.
Egli danza in spettacoli esclusivamente dedicati al ballo, oppure partecipa ad altri generi di spettacoli, ad esempio alle opere liriche che prevedono coreografie. La coreografia è l’insieme dei passi
e delle figure che costituiscono la danza, attraverso i quali i ballerini “raccontano” una storia, suggeriscono delle immagini o semplicemente interpretano una musica. Comune a tutti coloro che scelgono di diventare ballerini professionisti è la prospettiva di un’applicazione incessante: l’impegno atletico richiesto dalla danza impone lunghi esercizi quotidiani, una meticolosa cura del corpo,
l’attenzione costante al proprio peso.
L’età giusta per iniziare è intorno ai dieci anni e infatti scuole come quella del Teatro alla
Scala di Milano (la più importante in Italia) accettano i bambini, anche totalmente principianti, a
partire da quell’età. I corsi della Scala durano dieci anni: fino al settimo anno è possibile iscriversi, ma in questo caso è necessario possedere una preparazione pari a quella dei futuri compagni di
studio. Chi però sceglie di imparare a danzare per proprio diletto e non in vista di una carriera ha
vaste possibilità di scelta: corsi di danza classica,
di modern dance, di tip-tap, danze sudamericane e
così via sono proposti da organizzazioni private
praticamente in tutti i centri.
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Ne parliamo con…
Luciana Savignano
Questa ballerina milanese ha studiato in due dei più gloriosi templi della danza, la Scala di Milano e il Bol’šoj di Mosca.
Alla Scala ha lavorato lungamente nel corpo di ballo e come prima ballerina: contemporaneamente il celebre
coreografo Maurice Béjart l’ha voluta come protagonista di molte sue produzioni. Diverse coreografie di Béjart restano tra le interpretazioni memorabili di Luciana Savi­gna­no: prima fra tutte quella del Bolero di Ravel.
l’intervista
Le sue scelte sembrano dimostrare una preferenza netta per la danza moderna: è così?
Mi sono sempre sentita dire che ero una danzatrice del futuro, non del presente.
Béjart e altri coreografi mi hanno scelta per tante creazioni contemporanee, credo
per la mia struttura fisica e insieme per la mia personalità. Ma ho sempre amato e
praticato anche la danza classica.
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Danzatrice
del futuro...
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Come si è accostata alla danza? Per vocazione?
No, per caso. Avevo cinque anni quando mio padre mi portò alla Scala per Il lago dei
cigni e, vedendomi affascinata, pensò di iscrivermi alla Scuola di ballo del Teatro. Così
mi sono ritrovata a fare qualcosa che mi piaceva, ma senza arrivismo e con grande
tranquillità: esercitare la professione di ballerina mi sembrava un sogno assurdo,
lontano. Finché mi sono accorta che la danza era ciò che mi interessava di più.
3. Risorse per l’orientamento
318
Una carriera
nata per caso
Le ha creato problemi la disciplina richiesta per danzare ai massimi livelli?
No, mai. Anche se avessi fatto il medico o il direttore d’orchestra mi sarei comportata
allo stesso modo, con lo stesso impegno. D’altronde il mio corpo era molto portato alla
danza e mi ha facilitato. Certo, ho lavorato tantissimo, sia sul corpo sia sullo spirito, e
continuo a studiare tutti i giorni. Il corpo deve sempre essere messo alla prova, per
danzare bene occorre ricominciare ogni giorno. Ma ci tengo a sottolineare che anche la
testa, lo spirito, contano nella stessa misura.
Anche
lo spirito
conta
Stare sul palcoscenico le ha mai creato dei problemi?
Io sono stata molto timida da ragazzina e, fondamentalmente, lo sono ancora. Ma
sulla scena scatta qualcosa che mi permette di liberarmi, di vivere in modo diverso
anche fuori dal palcoscenico.
Direi che la danza per me ha persino una funzione terapeutica, di cura. Non c’è
niente di più bello che entrare nello stato di grazia che la danza regala: ma solo se
hai una base di grande studio e di grande tecnica, altrimenti l’insicurezza non ti permetterà di goderlo fino in fondo.
Un’ottima
cura per la
timidezza
Il musicoterapeuta
La musica, fonte inesauribile di emozioni profonde, possiede anche un grande potere terapeutico
(cioè curativo) riconosciuto fin dai tempi più antichi.
Soltanto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, tuttavia, in Europa e negli Stati
Uniti ha preso forma una disciplina, chiamata musicoterapia, che si occupa di prevenire e curare alcune malattie. I professionisti che la praticano sono musicisti che si sono specializzati in
animazione.
Il campo di azione della musicoterapia è estremamente vasto, poiché va dai leggeri disturbi del comportamento fino ai gravi handicap, ai grossi problemi di linguaggio, di movimento e di
comportamento, alle malattie cerebrali, fino alla stessa sordità.
Nel campo della musicoterapia, come in quello della psicoanalisi, esistono diverse scuole di pensiero; specialisti che si sono formati in differenti scuole adotteranno metodi diversi: tanto per citare un esempio, c’è chi ritiene meglio far ascoltare al paziente brani di musica registrata, chi invece
trova più utile improvvisare secondo le reazioni del paziente stesso. D’altra parte, data la sua origine
abbastanza recente, la musicoterapia è in continua evoluzione.
Anche dal punto di vista dell’ordinamento scolastico la situazione della musicoterapia, almeno in Italia, è in fase di rinnovamento, in attesa di norme più chiare e di una definizione più precisa e controllata della professione di musicoterapeuta. Esistono comunque numerosi corsi e seminari. In particolare gode di ottima fama il corso, della durata di quattro anni, organizzato ad
Assisi dalla Cep-Pro Civitate Christiana. Lo studio di uno strumento musicale è considerato titolo
preferenziale per l’ammissione, soprattutto se lo studio è avvenuto in Conservatorio.
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Ne parliamo con…
Giulia Trovesi Cremaschi
Una delle più note personalità italiane che lavorano nel campo della musicoterapia. Dapprima insegnante di musica, ha poi fondato un metodo di
musicoterapia che porta il suo nome.
È docente al Corso quadriennale di Assisi e presidente di due importanti associazioni del settore: la Fim (Federazione Italiana Musicoterapeuti) e
la Apmm (Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia). È stata più
volte premiata per la sua attività.
319
l’intervista
Ci può fare un esempio delle possibilità della musicoterapia?
Uno dei casi più significativi con cui ho avuto a che fare è stato quello di Giancarlo, un
bambino che aveva passato i suoi sei anni di vita a piangere continuamente, girando le
spalle a tutto e a tutti. Il suo era un caso di autismo (una malattia che impedisce il contatto con la realtà): le parole delle altre persone non suscitavano nessuna reazione in lui; si
rifiutava di toccare qualsiasi oggetto e teneva le mani sempre in bocca. Tutte le cure tentate erano state fino ad allora inutili.
Un bambino
triste...
Che intervento è stato compiuto?
Invece di parlare a Giancarlo o di fargli delle domande, il musicoterapeuta a cui il
caso era stato segnalato incominciò a suonare su un pianoforte a coda seguendo
ogni gesto del bambino; anche i gesti di rifiuto, le spalle voltate, venivano subito
trasformati in musica.
Dopo venti minuti Giancarlo si è voltato e ha guardato il musicoterapeuta: il suo
primo sguardo verso una nuova realtà. Il primo oggetto che ha toccato è stato il pianoforte. La strada verso il recupero era ormai tracciata.
Una nuova
realtà
La musica fa sempre bene?
La musicoterapia si può applicare a tutti, perché la musica fa bene a tutti e non conosce controindicazioni, tranne una: quando è registrata e viene diffusa a volume
troppo alto, con ritmi ossessivi, allora sì, può far male. Ma dal vivo, e non amplificata, la musica fa sempre bene, e lo fa anche a chi contribuisce a crearla: a chi è attore,
e non solo spettatore, della musica.
Quando la
musica non fa
bene
La musicoterapia serve solo a curare le malattie?
La musicoterapia sceglie gli aspetti benefici della musica e li calibra per persone che
non stanno bene.
Efficace nel caso di gravi handicap della psiche e del corpo, lo è anche nelle situazioni, più diffuse, di disagio e di dolore. Uno dei più grandi risultati di questo lavoro
è riuscire a trasformare il ricordo del dolore in emozioni di gioia.
Gioia
dalla musica...
Che cosa rende così efficaci questi metodi?
La musica è dentro di noi perché tutti abbiamo conosciuto, all’interno del grembo materno, una vita che non conosce un attimo di silenzio, tra il battito cardiaco, la circolazione del sangue, i rumori interni, i passi, la voce. Il bambino si forma in questo ambiente di suoni e di acqua, dove è mosso e cullato: si può dire che l’essere umano prima
ancora della nascita venga a contatto naturalmente con la musica e la danza, che conserveranno sempre un potere terapeutico per lui.
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... come
nella pancia
della mamma!
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