DOVE FINISCE IL TEMPO Stava a guardare il cielo con le stelle … Le guardava e taceva. Erano molte, incontabili, e la via lattea poi … Sabbia, i cui granelli erano stelle. E tra una stella e l’altra spazi insondabili Le guardava e pensava... Cercava di capire quale fosse la stella più lontana. Aveva letto che gli scienziati dicevano che le stelle del «confine» dell’universo distavano quindici miliardi di anni luce. Immaginava di essere il raggio di luce di quelle stelle. Dopo quindici miliardi di anni arrivava sulla terra. L’immagine che portava era di quindici miliardi di anni fa. Era come se quei quindici miliardi di anni non fossero passati per lui, raggio di luce. Lui non era invecchiato. Era l’immagine della nascita di quelle stelle. Forse erano già morte nel frattempo, ma lui aveva ancora con sé il momento della nascita. Il tempo era passato per noi, quaggiù, ad aspettare quindici miliardi di anni e per le stelle lassù in cielo, ma non per lui, raggio di luce. Lui era contemporaneo alla nascita delle stelle e contemporaneo a noi. Per questa sua dote consentiva pure a noi di essere contemporanei ad un passato di quindici miliardi di anni. Il tempo passava per tutti, allora, tranne che per la luce. La luce era la più libera delle creature. L’unico essere libero dal tempo. Guardava le stelle e pensava... L’universo era immenso. Ed era immerso nel tempo. Eppure era trafitto, trapunto, attraversato in tutti i sensi e in tutte le direzioni da una creatura, la luce, che era libera dal tempo. Un universo temporale cucito con un filo senza tempo. Guardava estasiato e taceva. ... Ci sarà stato qualcosa di simile nel mondo dello spirito? Lui era un uomo affannato. Dalla mattina alla sera era condannato a correre, a fare. Aveva appreso a fare tutto di corsa, non perché gli piaceva correre, ma perché era costretto dall’inestensibilità del tempo a fare tutto il più in fretta possibile, per riuscire a compiere i suoi numerosi doveri lungo il giorno, per riuscire a racimolare una mezz’ora per mangiare e per riuscire a dormire un po’ di notte. Ma il suo cuore sognava la pace e il silenzio, il poter fermarsi a contemplare, senza più affanno e preoccupazioni, o interruzioni, il mistero di Dio. In una prima fase aveva cominciato a pensare che, per raggiungere questo suo sogno, non c’era altra soluzione che cambiare vita. Che bisognava vendere tutto, darlo ai poveri e poi seguire Dio. La vita però, molto spesso, non è così semplice: tutto quello che lui possedeva, lo possedeva in comproprietà con gli altri, e non poteva disfarsene senza danneggiare i suoi soci. Passò un certo tempo a studiare il modo di andarsene senza dar problemi a nessuno, ma non riuscì a trovare una soluzione accettabile. Allora cominciò a vagliare altre soluzioni. La prima fu quella di valorizzare tutti i piccoli intervalli. In altre parole: siccome aveva poco tempo, cercare tutti i modi per risparmiarlo. Eliminare tutte le attività superflue, diminuire gli intervalli vuoti, coordinare le attività, organizzare un orario, raccogliere certe azioni come lo scrivere o il leggere o lo studiare, in orari prestabiliti. Certo, ottenne risultati positivi e anche gratificanti, però rimaneva un limite invalicabile oltre il quale non poteva andare. Cercò, ma inutilmente, altre soluzioni. Rinunciare al suo cuore di contemplativo non poteva più; cambiare vita, per il momento almeno, gli era impossibile, accontentarsi dei risultati raggiunti voleva dire darsi per vinto, di fronte al problema che si insinuava in lui, in tutte le pieghe della giornata. Viveva così da molto tempo: gli pareva di essere come il vapore in pressione in una caldaia, che spinge, fruga, tenta e ritenta, forza e preme, alla ricerca di ogni minimo pertugio o incrinatura per poter uscire. Finché, quella notte, rimase a guardare le stelle e a pensare. La soluzione di tutto forse stava nel tempo. Da sempre ci si era abituati a pensare il tempo come qualcosa di oggettivo, di esterno a noi, implacabilmente esatto ed inesorabile, un fiume enorme che scorre, trascinando con sé, alla sua velocità, tutto l’universo. Ma guardando le stelle aveva capito che la luce, che viaggiava da un punto all’altro dell’universo, appunto alla velocità della luce, sfuggiva alla presa del tempo. Il tempo scorreva per chi stava al punto di partenza e al punto di arrivo, ma non per la luce in viaggio. E probabilmente neppure sarebbe scorso per chi fosse riuscito a salire su di un raggio di luce e a viaggiare con lui alla sua velocità. Era necessario trasporre questa intuizione nel mondo dello spirito. Una voce dentro gli diceva che qualcosa di simile era vero anche nel mondo dello spirito. Si trattava di capire come... Rimase lì, estasiato, a guardare il cielo coi milioni di stelle. Fermò il pensiero e restò lì, così, in contemplazione, solo a gustare e a lasciarsi penetrare da quella vista e da quella intuizione. Quando fu sazio, si riscosse e si chiese quanto tempo era rimasto in quello stato di estasi. Non lo sapeva. Già, proprio, non lo sapeva. E non poteva saperlo, perché, in fondo, il tempo non era passato. Non era passato per lui, per il suo spirito. Esisteva allora una doppia qualità di tempo: quello materiale, che tanto per intenderci è misurato dagli orologi, e quello spirituale, di cui si ricordava un’affascinante definizione di s. Agostino: «estensione dell’anima». Era di questo secondo tempo che voleva penetrare il segreto. L’affanno che lui sentiva, costretto a correre dalla mattina alla sera, sempre a fare, fare, fare, sempre più in fretta e con sempre meno intervalli, per poter alla fine afferrare un brandello di tempo per contemplare, era in fondo un problema di questo secondo tempo: della maniera di viverlo. Il tempo materiale scorreva onestamente, sempre uguale, sereno, senza nessun imprevisto, tanto che faceva la felicità di tutti gli orologiai del mondo, che riuscivano a misurarlo e registrarlo senza il minimo errore, in ogni angolo della terra, con qualsiasi tipo di orologio: a sabbia, a pendolo, ad acqua, a pesi, a molla, al quarzo ecc. Non poteva essere quello, così esatto e imparziale, a procurargli affanno. L’affanno gli veniva dal secondo tempo, dall’estensione dell’anima. Quando si alzava al mattino, appena riprendeva possesso del «filo» della vita, ecco apparirgli nitida alla mente, e più ancora nel cuore, l’immagine della giornata, piena zeppa di cose da fare, che si frapponevano fra lui e la piccola area di tempo, alla fine del giorno, che poteva essere riservata per contemplare, cioè, in ultima analisi, per vivere. Tutte le cose da fare costituivano un enorme, faticoso ostacolo, che doveva poco a poco eliminare, appunto, col «fare». Ogni cosa che faceva aveva un suo tempo di durata calcolata. Se, di fatti, durava di più, allora sentiva un acuto dolore, perché in fondo gli consumava una parte del tempo che era riservato per «vivere». Così era per gli imprevisti e i contrattempi, tutto veniva automaticamente pesato nella sua mente in «chilogrammi di tempo», che doveva sottrarre al suo «tesoro» in attesa. Se invece un impegno svaniva o una cosa riusciva a farla più in fretta del previsto, allora era una gioia, perché quel giorno avrebbe potuto «vivere» un po’ di più. Questa era la sua «estensione dell’anima», il suo «tempo spirituale». A pensarci meglio, gli pareva meglio definire il tempo spirituale, vissuto alla sua maniera, più come «estensione della sua anima» che come «estensione dell’anima». La libertà, che cercava da tanto, forse avrebbe potuto trovarla quando fosse riuscito a eliminare quel «sua», e scoprire qual era la vera, suprema, assoluta estensione dell’anima. Guardava le stelle, ma le stelle, ora, tacevano. Cercava l’assoluto, e la risposta ora poteva venirgli solo dal contatto con l’assoluto, penetrando nel segreto di Dio. Quel brandello di tempo di contemplazione era l’occasione che aveva per trovare la chiave del problema. Ma non era una cosa che poteva scoprire col cercare, frutto della sua intelligenza e perspicacia. Era una cosa che poteva soltanto chiedere con umiltà e pazienza, fintanto che la sua anima fosse diventata tanto fine, «spirituale», da decifrare la risposta che l’amore di Dio gli rivelava. Allora, e solo allora, avrebbe capito. Così cominciò con pazienza e fiducia a mettersi di fronte a Dio nell’orazione. Non cercava discorsi o parole, soltanto stava lì, tutto occhi, per cogliere il minimo movimento delle labbra di Dio. Passò, in tal modo, non sapeva più quanto tempo. Le labbra di Dio non si erano ancora mosse, ma sentiva che la sua parola, o meglio il suo silenzio, aveva già incominciato ad agire. Dentro di sé qualcosa mutava o, meglio, maturava o, forse, ancora meglio, moriva! Sì, proprio moriva! Qualcosa che non era vita, che gli succhiava la vita per vivere, si trovava progressivamente con sempre meno alimento, e scompariva poco a poco. Stare di fronte all’Assoluto, gli faceva capire che fuori dall’Assoluto c’era il nulla. Per quanto potesse essere ovvio, capiva appena ora che il Tutto poteva bastargli da solo. A questo punto le labbra di Dio si dischiusero, e senza pronunciare parola, impressero in lui una scoperta sconcertante. L’affanno gli era provocato perché tutto il giorno correva, per cercare il tempo per stare con Dio, più che cercare Dio. Perché sopra quel tempo aveva atteggiamenti di possesso. Perché quel tempo era «suo» e tutte le altre cose e gli altri tempi gli rubavano, senza che potesse impedirlo, parte del «suo» tempo. Se non avesse posseduto nessun tempo, nessuno gliel’avrebbe potuto rubare. Doveva essere povero. La povertà interiore, la povertà dello spirito, quella del vangelo, era senza frontiere e senza eccezioni, sradicata da tutto. Ma era anche l’angelo che il Signore mandava avanti a sé per preparare la sua strada. La strada sua, di lui in quanto Assoluto. L’Assoluto non poteva spartire con altri nulla, altrimenti non sarebbe stato possibile riceverlo come Assoluto. A dirlo con parole era semplice. Ora doveva sperimentarlo con la vita. Il giorno dopo, quando si svegliò, le cose da fare gli si affollarono nella mente come al solito. Formavano una barriera faticosa di fronte a lui, e dietro a tutto vedeva quel piccolo spazio di tempo. Gli veniva sgomento, ma non si lasciò vincere. Ora aveva un segreto da applicare, una forza nuova che gli era stata donata. Si concentrò nell’orazione, per immergersi in Dio, nell’amore dell’Assoluto. Era lui che cercava, e basta. E come segno che era sincero tolse dal suo posto quel pezzetto di tempo e gliene fece offerta. Era disposto a perderlo, pur di poter possedere lui, ed essere posseduto. Le labbra di Dio si dischiusero per la seconda volta, ma non riuscì ad afferrare ciò che gli sussurravano. Lì per lì ci rimase male, ma non si rattristò, perché sapeva già, per esperienza, che era un suo modo di fare per preannunciargli che avrebbe capito qualcosa di nuovo, più tardi, nascosto tra le pieghe della vita. Cominciò la giornata e le cose da fare. Mentre lavorava, di tanto in tanto gli veniva alla mente il suo segreto. Si sentiva libero di fronte al tempo di contemplazione che lo attendeva, e soddisfatto, perché contemporaneamente, si accorgeva che l’esclusività della sua scelta per Dio gli metteva in un certo senso Dio nelle sue mani. L’Assoluto riempiva tutto, dominava tutto, lo accompagnava in ogni azione. Osservava sbalordito che ogni azione aveva, dentro di sé, la presenza ineffabile di Dio, non come un seme di contemplazione, ma come un albero fiorito. E il tempo, cos’era diventato il «tempo secondo», l’estensione dell’anima? Era proprio vero: il tempo era l’estensione della sua anima. Per ognuno il «tempo secondo» era differente, secondo l’estensione di ciascuna anima. Aveva rinunciato a possedere il tempo, per sostituirlo con il possesso di Dio, ed ora si rendeva conto che, nella misura in cui riusciva a vivere quella rinuncia, il suo tempo, l’estensione della sua anima, diventava inesteso, senza dimensioni. Era entrato nel tempo di Dio, inesteso, eppure senza fine, dove il sempre e l’adesso coincidevano. Capiva ora cosa gli avevano sussurrato le labbra di Dio, e anche perché non aveva capito: perché era cosa che le parole non sanno tradurre, ma solo suggerire! Un’intensa felicità lo possedette, mentre pronunciava penetrandolo, per la prima volta fino in fondo, il salmo vecchio di migliaia di anni: «Mille anni sono come un giorno, di fronte a te, Signore, e un giorno solo come mille anni...». Aldo Songo, 1979