VENEZIA, LA FABBRICA DELLA CULTURA Fabio Isman Marsilio Editori 1998 1) CINQUE “VOCAZIONI MANCATE”. CITY, CAMPUS, TURISMO, CAPITALE DI CULTURA, CITTÀ VIVA Che cosa è oggi Venezia, intesa come il suo Centro storico, la sua parte più “nobile”, la porzione della città costruita nei tempi antichi sulle isole, e quindi sul mare? Poco più che un paesotto; per giunta, anche assai scomodo da percorrere e alquanto umido da vivere, dove tutto costa inevitabilmente più caro. Un borgo abitato da nemmeno 70 mila anime, con una percentuale di anziani assai più elevata che non altrove. Una piccola città, popolata pressappoco quanto lo è Grosseto, o quanto Trapani: meno ad esempio di Pavia, di Piacenza, o di Cosenza (ma anche di Treviso); soltanto poco più che non Cuneo, Lodi, Lecco (e Rovigo); all’incirca la metà di Monza, Siracusa e Pescara; un terzo di Padova e, grosso modo, un quarto di Verona. Che, come tale, non avrebbe quindi diritto a nessun teatro degno di questo nome: ma, tutt’al più, soltanto ad una sala visitata, di quando in quando, da qualche “compagnia di giro”, durante le proprie tournées; che di locali cinematografici può riuscire a mantenerne al massimo un paio, e nemmeno di prim’ordine; magari, questo sì, provvista di un’università e perfino di un conservatorio: perché in Italia questi e quelle certamente non scarseggiano, anzi spesso abbondano; e poco importa se poi – così sovente – sfornano soprattutto giovani disoccupati di lungo periodo. O invece no. Che cosa è Venezia, oggi? È quanto ancora ci rimane di una città nobilissima, che, durante parecchi secoli, fu tra le più importanti al mondo, e perfino nei campi più disparati (anche se, non di rado, in qualche modo, gli uni connessi agli altri: la grande stagione del dipingere, ad esempio, non sarebbe mai potuta esistere senza una committenza assai ricca, fondata su un forte potere economico e politico): dalla marineria, ai commerci, allo stesso sistema istituzionale; dalla pittura, alla musica, alle arti, e, in genere, alla cultura. Tanto da stupire l’astronomo francese Joseph Jérôme Le Français de Lalande (1732-1807), poiché i libri vi si vendevano «come le noci»1: «La città più libera d’Europa», per ricordare quanto Charles de Brosses scriveva nel 17402; quella che, notava Fernand Braudel, dalla seconda metà del Tre a tutto il Quattrocento è stata ciò che poi, a turno, sarebbero diventate – per citarne soltanto alcune – Anversa, Londra e New York. E quindi, anche se le sale cinematografiche magari languono, può invece vantare chiese e palazzi, squarci di storia e di cultura, panorami urbani e scorci sentimentali; elargisce ricordi antichi e offre perfino non pochi suggerimenti e spunti attuali, oltre a quell’unicum di essere costruita sull’acqua che, da sempre, calamita comunque il mondo intero. Insomma, «tot capita, tot Venetiae», come celiava (ma non troppo) Diego Valeri3: ognuno, di questa città, può vedere il profilo, il dettaglio e perfino l’assieme che più gli aggradano; ciascuno può avere in mente, e magari anche serbare nel cuore, una Venezia diversa, che è la sua. Ma certo, con alcuni dettagli di fondo comuni; che sono, comunque, quelli del decadimento urbano; di un agglomerato cittadino che stenta a vivere per davvero; di un luogo che c’era, ed invece è ormai costretto appena a (malamente e stentatamente) campare. Forse, è abbastanza semplice sapere, capire, “leggere” oggi quel che Venezia non è, non è stata, non è riuscita, o non le è stato permesso di diventare, da quando ha smesso di essere una capitale. Ma infinitamente più difficile è invece immaginare, delineare, ipotizzare quale futuro la Serenissima potrebbe ancora avere: quali delle sue “vocazioni”, cioè, sono suscettibili di sviluppi positivi e di essere realizzate; secondo quali percorsi ed itinerari potrebbe evolversi e migliorare la sua condizione attuale; come creare le premesse e gettare le fondamenta perché, se non proprio prosperare e (davvero impossibile) ritornare alla gloria antica, la città possa almeno sperare in un (suo) mondo migliore; sopravvivere in maniera più degna e decorosa che non ora; offrire speranze e futuro a chi la abita; magari, anche attrarre nuovi residenti, anziché continuare, incessantemente, a perderne. La speculazione è assai più complessa di una semplice radiografia; e la “progettazione di un futuro” per Venezia è un esercizio così improbo e controverso, che, almeno da alcuni decenni e un po’ in tutto il mondo, vi si esercitano parecchie tra le cosiddette menti migliori e tra i più accreditati maîtres à penser. Eppure, qualcosa, forse, si deve poter cambiare: una città non può certamente nutrirsi soltanto ed unicamente del proprio passato, per quanto illustre esso sia; e, per converso, spesso non basta un passato, nemmeno il più preclaro, ad assicurarle un avvenire, che non sia quello del museo. Del luogo cioè da visitare ed ammirare; ma dove abitare riesce davvero troppo arduo, complicato, difficile, insoddisfacente. E allora, vediamo: l’ex Dominante non è, purtroppo, nemmeno il centro decisionale della Regione di cui fa parte; e di cui, magari soltanto nominalmente, è anzi il capoluogo. Non è riuscita neppure a diventare un campus universitario: un luogo, cioè, i cui atenei attirino da fuori studenti residenziali, che stabilmente vengono a viverci; e questo, anche se la popolazione universitaria ammonta a ben trentamila unità (quasi la metà dell’intero centro storico), di cui tremila, circa un quinto dei residenti, «vengono da fuori: non sono veneziani, ma abitano a Venezia»4. Non è un luogo votato al turismo, cioè “costruito” (o adattato) per ottimizzare e sfruttare al meglio questa rilevante risorsa economica. E non è più, da tempo, nemmeno una capitale di cultura, intesa come centro di elaborazione e di creazione delle novità. La città che «ha inventato l’imposta sul reddito, la statistica, i titoli di Stato, la censura dei libri, la lotteria, il ghetto, gli specchi di vetro»5, la cui pittura è «la più affermativa e libera e gaudiosa che il mondo conosca»6, o, come diceva Bernard Berenson, «l’espressione più completa del Rinascimento italiano: di quell’età di giovinezza pura che s’impadronisce della vita intera come d’una materia plastica»7, la città della grande musica barocca italiana (ma anche di tante “prime” d’importanti opere liriche: da Rossini a Verdi, fino a Stravinskij), oggi, quando proprio le va bene, si ritrova al centro del mondo soltanto per un paio di settimane all’anno: in occasione del Festival del cinema, o delle Biennali d’arte. Oppure, tanto è ritenuta in ogni dove preziosa, unica e irripetibile, torna ad essere “famosa” (a parte l’inconscio collettivo: perché ciascuno di noi ne conserva un’immagine; e chi non la possiede ancora, certo ne nutre almeno l’aspirazione) ogni volta che l’acqua della laguna cresce più del solito e la invade: un metro in più sul medio mare, ne allaga l’11,7 per cento; un metro e trenta, e siamo già al 90,2 per cento. Anche perché quella di Venezia per la propria sopravvivenza è una lotta antichissima: la città, racconta Ugo Martegani citando il diplomatico e scrittore francese Paul Morand (1888-1976), «non ha opposto resistenza ad Attila, a Bonaparte, agli Asburgo, ad Eisenhower, perché ha avuto di meglio da fare: sopravvivere. Quelli ritennero di costruire sulla roccia; Venezia ha scelto la parte dei poeti, e ha costruito sull’acqua. A dispetto della statica, a dispetto della logica, sta su»8. Eppure, la terribile e indimenticabile notte tra il 3 e il 4 novembre 1966, «il giorno della Vittoria e delle alluvioni [in cui] Venezia è come se avesse subito un infarto»9, parecchi temettero che potesse riuscirne sopraffatta, e grande fu, in tutto il mondo, la paura. Moltissimi si mobilitarono, e «l’allarme ha mosso il governo italiano a intraprendere la strada del più grande intervento pubblico mai compiuto […]. Ma, come spesso accade in Italia, non è stato fatto niente. O quasi. Ai grandi proclami non sono seguiti i fatti. Per trent’anni, trenta lunghi anni, Venezia è rimasta prigioniera di sterili dispute tra fazioni contrapposte»10 e intanto, si calcola che il fenomeno dell’“acqua alta” costi alla città qualcosa come 260 mila ore di lavoro perdute ogni anno11. Il problema è ancora tutt’altro che risolto, se «all’inizio del secolo, piazza San Marco finiva sott’acqua sette volte all’anno; nel 1989, il fenomeno si è ripetuto quaranta volte, nel 1996 quasi cento»12; se «negli Anni Venti, l’onda di marea arrivava a Marghera in un’ora e mezzo, e oggi ci mette mezz’ora, come fosse in autostrada»13; se qualcuno prefigura scenari da tregenda: «Tra quaranta o cinquant’anni, l’acqua alta sarà quasi quotidiana: senza interventi, la città è destinata a sparire»14. 1.1) Oltre alla salvezza fisica, occorre anche quella “civile” Da quando i flutti, quella volta, si alzarono assai più del solito e del prevedibile, raggiungendo i 194 centimetri, sono ormai quasi 35 anni che si studia e si lavora (ma, in realtà i primi interventi a difesa del mare «nascono nel ’500, quando la Repubblica decise di deviare il corso di due fiumi come il Brenta e il Piave, per evitare che la Laguna si interrasse»15), anche profondendo migliaia di miliardi («ottomila dal 1984 ad oggi»16), su come salvare “fisicamente” la città. Ma assai meno interesse, e quindi anche assai meno risorse, ha invece calamitato un altro salvataggio, di cui Venezia ha una non minore, né meno impellente e irrinunciabile, necessità: quello del suo “tessuto”. Della città intesa non soltanto nei suoi muri, nelle sue strade (o, per meglio dire, calli) e nei suoi palazzi, cioè nella sua “fisicità”, ma come agglomerato urbano composto di gente, di persone, di abitazioni vissute, di contesti vivibili. Qualcuno lo notava già assai bene ormai quasi trent’anni fa: in un capitolo intitolato alla «tragedia demografica della città storica», scriveva infatti che «quando si parla del problema della morte di Venezia, si allude quasi sempre all’aspetto fisico (statico, geologico, idraulico) e all’aspetto ecologico: si arriva da parte di taluni a riconoscere gli aspetti monumentale ed edilizio, e da parte di pochi quelli abitativi, dei servizi e dei trasporti. Ma ben pochi hanno avvertito fin qui la questione di fondo, che tutte le sottintende e le ingloba: quella dei veneziani, della loro vita nella struttura della città, della fruizione di essa per vecchie e nuove funzioni civili»17. Perché alle città talora capita anche, spesso senza nemmeno che perdano nessuno dei loro connotati esteriori e visibili, di smarrire la propria “anima”. E allora, diventano altro: un museo, un teatro, una quinta a disposizione dei turisti, un simulacro di se stesse e di quel che sono state. «È evidente che una città può essere salvata soltanto insieme ai suoi abitanti, e con il loro aiuto», scriveva già trent’anni fa l’allora direttore generale dell’Unesco René Maheu, nella prefazione a un rapporto che fece abbastanza epoca18, e che già valutava in «pessimo stato» l’8,8 per cento delle case di Venezia, Burano e Murano, e il 25,3 in condizioni «cattive o mediocri». Eppure, il decadimento che Venezia purtroppo vive non è un fatto soltanto episodico. Il fenomeno, infatti, è iniziato almeno un secolo e mezzo fa; e, se si esclude una parentesi prima della metà del Novecento, attorno al ventennio fascista, dura, senza che se ne intravedano apprezzabili segni di alcuna inversione di tendenza, almeno da oltre cinquant’anni. Acutamente, Mario Isnenghi osserva che «le ex capitali degli Stati pre-unitari hanno tutte avuto problemi di messa a fuoco dell’evento e di rielaborazione identitaria, dopo essere state “retrocesse” a capoluoghi di provincia del Regno d’Italia»19; e, tra le tante, la crisi veneziana è certo una delle peggiori. Resa tale, oltre a tutto, da ulteriori e non lievi accentuazioni durante il secondo dopoguerra. Psicologicamente, ha ragione Isnenghi: «Il male che divora l’ex Dominante è di sentirsi postuma»20; forse, però, c’è anche dell’altro: qualcosa di meno introspettivo, meno freudiano, ma sicuramente di più strutturale. Tra i tanti che hanno indagato le ragioni di questo “malvivere”, anche proponendovi qualche rimedio, citiamone soltanto uno, certo non dei meno acuti, Alberto Cavallari: «Venezia consente tre economie: turismo, artigianato, cultura. Come piccola city, come città universitaria, come centro intellettuale, si salva. Occorrono solo tre cose: trasporti rapidi per via d’acqua, difesa idraulica, un mondo culturale»21. Così, ormai quasi 40 anni fa, scriveva un giornalista già famoso, che poco dopo, dal 1969, avrebbe anche diretto per un anno «Il Gazzettino» (allora, l’unico quotidiano in laguna), riferendo il pensiero di chi sicuramente era un “grande veneziano”: il conte Vittorio Cini. Non molto difforme, del resto, da quello, pure riportato, di un autorevole economista come Pasquale Saraceno, allora docente a Ca’ Foscari, che Cavallari sintetizzava così: «Venezia ha bisogno di un “piano di decadenza” e non di sviluppo; secondo questo piano, è prevedibile che in futuro la città perderà ancora popolazione, fino a scendere sotto gli 80 mila abitanti. Il reddito turistico non può avere ulteriori sviluppi, e consente solo una popolazione di queste proporzioni. Per evitare a Venezia d’essere solo un albergo immenso, o un museo, occorre quindi trovare il modo di immettere nella città una società nuova; questo tipo di società esiste: è la società intellettuale che dà vita a Cambridge, a Oxford, a Uppsala. Non più cultura come spettacolo e carnevale, ma quella cultura viva che alimenta Cambridge, o Grenoble». Quell’inchiesta, poi raccolta in volume, apparve sul «Corriere della Sera», quando ancora i quotidiani italiani usavano praticare l’arte, e le virtù, del giornalismo migliore: era il frutto di una non breve stagione d’indagine a più mani, in lungo e in largo per la penisola. Leggiamone ancora un brano, perché può essere istruttivo: può illuminarci, oggi, su tante “occasioni mancate”. Venezia, scriveva Cavallari, «ha un solo problema: salvarsi. Per l’isola più bella del mondo si teme l’irreparabile. La città perde popolazione. L’isola affonda tre millimetri all’anno. Ci sono poi gli abbracci mortali di chi la distruggerebbe, volendola vivificare: con ponti, grattacieli, autostrade lagunari. Tutti amano Venezia, ma tutti la fuggono. Finita l’estate, la fuggono i turisti. Venuta la sera, la fuggono i giovani, i professori che tornano a Padova, gli operai del porto che tornano a Mestre. Il venerdì, la fuggono i tecnici delle industrie di Marghera». 1.2) Mezzo secolo dopo, la realtà è peggiore delle previsioni A distanza di quasi mezzo secolo, non poche tra le previsioni già formulate allora si sono puntualmente verificate. E le altre, che invece non si sono tramutate in realtà, hanno soltanto reso più complesso il volto della città, e anzi, contribuito a deteriorarlo ulteriormente. Nel frattempo, infatti, Venezia non è diventata per nulla una city. Anzi, negli ultimi anni, dall’esodo delle Assicurazioni Generali in poi, e perfino degli stessi quotidiani veneziani finiti in terraferma, ha perduto l’essenza delle ultime imprese che ancora mantenevano la propria sede nel suo centro storico, e resta soltanto il capoluogo (assai più di nome che di fatto) di una Regione, i cui gangli maggiormente vitali le sono peraltro abbastanza estranei: a dimostrarlo, valgono in misura altrettanto significativa le parole del presidente delle Giunta regionale, Giancarlo Galan («Ci sentiamo veneti, e non certo padani; ma, soprattutto, non sentiamo Venezia come una capitale»22), o il giudizio di Gianni Scarabello, docente di Storia veneta a Ca’ Foscari («Nelle province si sente ancora, ma a livello di umore e di pelle, un’antipatia verso Venezia»23). Mezzo secolo dopo, altre previsioni ancora si sono dimostrate veritiere: le due università veneziane, per esempio, non sono state certamente in grado (e sarebbe troppo lungo, nonché certo avulso dai nostri fini, indagare perché) di assumere dimensioni sovranazionali, né caratteri davvero trainanti per lo sviluppo cittadino: per cui non è mai sorta quella “società nuova”, in cui pure Saraceno confidava. In compenso, si fa per dire, gli abitanti sono diminuiti ben oltre quanto venisse preconizzato: la cifra paventata degli 80 mila residenti era già stata valicata, s’intende in basso, nel 1989; e da allora, la discesa è continuata. Nel 1997, gli abitanti del centro storico erano 68.564; le ultime cifre24, parlano di 67.817 abitanti nella frazione insulare, oltre ai 34.108 dell’estuario, e ai ben 178.640 di Mestre. Tra i modi e i mezzi per salvarla dalle acque, alcuni sono in via di realizzazione (tra l’altro, è fortunatamente ripresa l’opera di pulitura dei rii, che la Serenissima periodicamente garantiva, e che troppo a lungo era invece stata dimenticata; alcune porzioni del centro storico e della gronda lagunare sono state poste in maggiore sicurezza); mentre su altri, come per esempio le paratie del “Mose”, ancora si discute. E già Lord Byron sentiva «il grido delle Nazioni sui palagi che affondano». Dei presunti “abbracci mortali”, a lungo si è dibattuto: e, comunque, nessuna nuova realizzazione, fosse più o meno “rivoluzionaria”, e nessuna grande iniziativa innovatrice sono mai state intraprese, né tanto meno divenute realtà, nell’eterno dilemma tra conservazione e sviluppo, che spesso – è vero – possono essere, e forse sono, termini antitetici; ma altrettanto sovente rischia di condurre a un immobilismo assolutamente dannoso, se non perfino diventare quasi esiziale. E l’antinomia tra conservazione e sviluppo, un po’ da sempre fa litigare; e fa litigare anche dei grossi nomi tra loro. Per esempio, Vittorio Gregotti, architetto assai radicato a Venezia, se la prende, pur chiamandolo «adorato amico», con Leonardo Benevolo, che del piano regolatore della città è l’autore: «Benevolo scrive che “in tutta la città antica non si prevedono nuovi edifici, né una trasformazione di quelli esistenti, che conduca a organismi architettonici sostanzialmente nuovi”: siamo di fronte a un massimalismo tale, che Stalin, al confronto, fa ridere»25; e, più oltre, spiega: «È difficile stabilire se la città antica, anche Venezia, così perfetta nell’immagine collettiva, sia davvero completa. Venezia è piena di buchi, di posti da modificare, di cose da sistemare. Naturalmente, ciò va fatto dialogando con la città antica, con i suoi principi, facendo in modo che quanto si costruisce non sia in contraddizione con essi. Al contrario, ha una vitalità, esige trasformazioni, che possono essere fatte a patto che chi costruisca sia in grado di aprire quel dialogo, si renda conto che quell’edificio non è un monumento a lui medesimo, o alla modernità, o al progresso, ma un monumento al dialogo con l’esistente». E un altro urbanista, il bolognese Pier Luigi Cervellati, è perplesso: «Peccato che finora questo dialogo non abbia prodotto alcun risultato positivo»26. Ma non trova un alleato in un altro storico dell’architettura, Marco De Michelis: «Nel 1961, il rettore dell’università fece un famosissimo progetto per Venezia, in cui proponeva di eliminare fisicamente tutte le parti incoerenti del centro storico, e riportare la città alla sua immagine storica perfetta. Era un’idea del passato. Oggi, a Venezia viene proposta tutta una serie di progetti a volte più dirompenti dello stesso [bocciato: n.d.a.] di Franck O. Gehry per Modena […] stiamo andando avanti con il progetto di costruire sull’acqua, all’ingresso della città, un edificio d’avanguardia. Sono progetti che procedono senza sollevare lo scandalo che dieci anni fa avrebbe contrassegnato simili imprese […]. Perfino a Venezia, dove Gehry sta lavorando all’ingresso nella città che dall’aeroporto guarda verso la laguna, il suo progetto disegna una relazione con il paesaggio davvero interessante»27. E conclude: «Sarebbe un peccato, se la strada del confronto si fermasse per via dei veti incrociati. E da veneziano quale sono, non ne posso più di progetti traditi»28. Del resto, quella lagunare è una città che ha detto no a Charles Edouard Jeanneret, assai più noto come Le Corbusier (che pure la immaginava «timone del mondo, città funzionale, modello per l’urbanistica contemporanea, testimone del rigore del fenomeno urbano»; e recentemente, il suo progetto di ospedale è stato completamente ricostruito e documentato29); ha detto di no a Frank Lloyd Wright; e, in tempi meno remoti (lo ricordava l’ex rettore di Ca’ Foscari ed ex ministro dei lavori pubblici Paolo Costa, a un dibattito organizzato proprio da Venezia 2000 e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia30), a Louis Khan. Ma, per fortuna, ha saputo dirlo anche ad Andrea Palladio che, dopo l’incendio del 1577, progettava di ricostruire Palazzo Ducale secondo i canoni del proprio tempo. È abbastanza vero, come afferma Mario Pirani, che «il nostro paese non riesce a programmare la trasformazione delle città, l’ammodernamento delle reti, la difesa del patrimonio storico ed ambientale, senza farne una camicia di forza contro ogni indispensabile innovazione»31; ma questo vizio italiano, o questa carenza nazionale, in laguna si manifesta rafforzato all’ennesima potenza: sia per la quantità di beni (culturali) che richiedono tutela, protezione, salvaguardia e quindi intangibilità, sia per la maggior difficoltà, dettata anche dai paradigmi ambientali, che nel luogo ogni innovazione comporta. Per cui, il binomio «immenso albergo/grande museo», che Saraceno avrebbe tanto voluto scongiurare, purtroppo si è, almeno in parte, realizzato; e oggi Venezia resta, essenzialmente e pressoché soltanto (anche se certo non è poco), uno dei massimi “templi della cultura” (che fu) e dei più visitati poli del turismo: nel nostro paese, e anzi, nel mondo intero. Del resto, tale è da sempre: fin dai tempi del Grand Tour, che non fu soltanto un’avanguardia elitaria dell’odierno voyeurismo turistico; quando la città faceva parte delle mete privilegiate di quanti visitavano la penisola: e allora, il voyage en Italie costituiva davvero pressoché un obbligo. Per esempio, non si poteva essere ammessi all’esclusivo “Club dei dilettanti” di Londra senza dimostrare d’averne compiuto almeno uno, di cui la Serenissima era, quasi sempre, una tappa irrinunciabile. Ancora oggi Venezia rimane un must: almeno una volta nella vita, per qualsiasi viaggiatore; quasi come la Mecca per chiunque si professi islamico. Anche se chissà quanti (probabilmente assai pochi) imitano Goethe: il quale, sbarcandovi il 28 settembre 1786, esclamò «sia lodato Iddio», e lo ripetè prima di andarsene, il 14 ottobre, portando con sé lo struggente ricordo di una «ricca, singolare, unica visione»; e anche se chissà quanti (certamente ancora di meno) almeno sanno di queste parole del grande tedesco. Un fine e dotto conoscitore di Venezia, Alvise Zorzi, definisce così quella città che è anche la sua: «Spopolata; invasa dal più sbracato turismo di massa; travagliata da vicino da mille problemi che toccano la sua stessa sopravvivenza»32. E un altro intellettuale che la laguna ha “stregato”, Paolo Barbaro, in una specie di diario 33, che in realtà è una sorta d’atto d’amore, registra in questo modo il medesimo fenomeno: «Gli amici continuano ad andarsene da Venezia, fuggono dalle isole, mi disperano. Se ne vanno per un mucchio di ragioni: perché se ne va via il lavoro», le case costano troppo, i trasporti sono lenti ecc. Insomma, un mezzo sfacelo. «Negli ultimi cento anni, le cose si sono messe male, un po’ naturalmente, un po’ colpevolmente», annota Giorgio Lago34; «il fatto è che a Venezia sono venuti a mancare 23 preziosi centimetri: per il mare che si alza (eustatismo), per il suolo che si compatta (subsidenza), per le maree favorite dall’anarchia economica (sviluppo incompatibile); anche per l’abbandono dell’arte della manutenzione». E «non è soltanto una questione di civiltà e amore»35: occorre anche ben altro; forse, per citare il titolo di un articolo di Mario Pirani36, non siamo davvero lontani dall’«ultimo metrò per salvare la Serenissima». Tuttavia, l’ex Dominante, lo indica assai bene il soprannome stesso, ha indubbiamente vissuto dei secoli davvero d’oro: quelli di Bellini, Carpaccio, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, per citare soltanto qualche nome; o di Vivaldi, Gabrieli, Tartini, Albinoni, per evocarne altri. La sua, era una presenza culturale (e perfino interdisciplinare) così accentuata, che quando la città decade, proietta in mezzo mondo quasi una singolare “diaspora dei cervelli”. Francesco Algarotti va a Potsdam; Antonio Caldara a Vienna, dove finirà i suoi giorni; Carlo Goldoni preferisce Parigi, estrema tappa terrena anche per lui; Giambattista Tiepolo è prima a Würzburg e poi, fino all’ultimo, a Madrid, dove sarebbe diventato un maestro per Goya; Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, migra in Inghilterra, e Bernardo Bellotto prima a Dresda e quindi a Varsavia; l’architetto Giacomo Antonio Domenico Quarenghi e lo scenografo Pietro Gonzaga, a Pietroburgo e Mosca; Giovanni Battista Piranesi e Antonio Canova, a Roma e Parigi; infine, dopo aver toccato Dresda, Vienna e Londra, Emanuele Conegliano, assai più noto come Lorenzo da Ponte, il grande librettista di Mozart, conclude le sue peregrinazioni, in tutti i sensi, addirittura a New York. Venezia, allora, era la terza città d’Europa, dopo Parigi e Napoli; più popolata di Roma, Londra, Lisbona: altro che misurarsi, come oggi le accade, con Cosenza, Potenza, o Varese. Rialto era la Wall Street del Mediterraneo («fra il 1400 e il 1425, troviamo ricordati in atti giudiziari e notarili, e molti altri se ne potranno trovare, 14 banchi che esercitano la loro attività a Rialto, tenuti per la maggior parte da patrizi quali i Priuli, i Soranzo, i Balbi»37); San Marco non già una ricca cattedrale, quale oggi ci appare, bensì soltanto la cappella privata del doge; la Serenissima possedeva un sistema costituzionale e politico più aperto e illuminato che le altre signorie e gli altri potentati d’allora, e per darsi questa «vera forma di perfetto governo» non aveva avuto nemmeno bisogno – come oggi succede – di estenuanti tornei bicamerali. L’Arsenale, applicava, già trecento anni in anticipo, la catena di montaggio che sarebbe diventata un vanto di Henry Ford; e in città era stato addirittura inventato una sorta di topless, se un viaggiatore annotava «l’espoitrinement à l’usage de Venise». Al Lido, esisteva perfino un cimitero dei Crociati; e ancor oggi la città, osserva Vittorio Emiliani, «rimane, con Roma ma soprattutto per la presenza del papa, una delle più cosmopolite d’Italia»38; come, del resto, i toponimi che vi sopravvivono sono certamente sufficienti a ricordare. Forse per tutto questo, e anche per assai altro, Fernand Braudel, nel 1984, affermava che il suo ruolo è, e doveva essere, quello di capitale culturale del mondo. E invece, no: non è successo; anzi, tutt’altro. Come vedremo, oggi la città “va stretta” a molti; manifesta rilevanti problemi di qualità della vita; e non per nulla viene abbandonata dai propri abitanti, secondo una progressione pressoché costante. Risiedervi, costa indubbiamente una fatica assai maggiore che non visitarla come turisti. Già Paul Morand, trent’anni or sono, scriveva39, poco prima di morire, che «Venezia è la città più cara d’Italia, ma i suoi veri piaceri non costano niente: cento lire il vaporetto dal Lido alla stazione, con l’accelerato, ossia con il servizio più lento»: a parte che non si può certo trascorrere un’intera vita a bordo, e prima o poi bisogna pur sbarcare, ma, da allora, gli stessi prezzi dell’azienda di trasporto municipalizzata si sono ormai abbondantemente adeguati. A proposito di costi, tuttavia, qualcuno ha calcolato40 che, rispetto alla terraferma, nel centro storico gli affitti richiedono tra il 40 e il 67 per cento in più, ed anche gli acquisti sono molto più cari (addirittura dal 79 al 137 per cento); incredibilmente più onerose sono poi le stesse manutenzioni urbane, il differenziale del cui costo oscilla perfino tra 143 e 220 punti percentuali. Nel centro storico di Venezia, tutto è comunque più caro che altrove: perfino morire, come spiega qualcuno ben titolato a farlo, Loredano Ferraresso, titolare di un’impresa di pompe funebri dal nome, davvero perfetto, di “La Serenissima”41. E, logicamente, sono assai più costosi anche gli stessi taxi, che qui, si intende, sono motoscafi: un tragitto di due chilometri, cioè la lunghezza del Canal Grande, costa 90 mila lire, mentre, per esempio a Parigi, per duemila metri di taxi si pagano appena 6.500 lire42. Questo, soltanto per sottolineare un unico aspetto, uno dei tanti che generano disaffezione ed abbandono, legato a un fattore prettamente economico: senza tener conto, cioè, di chi invece aspira all’automobile posteggiata sotto casa, o a un’abitazione dai locali confortevoli; di chi è nemico dell’umidità, o magari non sopporta quello spreco di tempo, peraltro deliziosissimo, che inevitabilmente comporta vivere nella città edificata sull’acqua, muoversi in essa, o anche solo raggiungere la terraferma, dove da tempo si sono trasferite pressoché tutte le attività produttive. Evidentemente, la sempre più galoppante modernizzazione della civiltà, e i tempi più stretti che essa concede, rischiano di trasformare ormai certi valori del passato quasi in un lusso; o di farli restare comunque appannaggio, intellettuale ma anche reale, di un numero più esiguo di persone: di chi, per cultura, ma anche per tipo di lavoro, realmente “può”. E poco importa, allora, se Morand43 proclamava, trent’anni fa, che «a Venezia, l’uomo conosce una gioia nuova: non avere automobili, come a Zermatt, come un tempo alle Bermude, felice in una città senza marciapiedi, senza semafori [forse, ne esiste ancora uno soltanto, a un incrocio di Rio Novo: n.d.a.], senza fischietti, dove la passeggiata a piedi scorre simile all’acqua: eccomi partito, senza peso specifico, un vero palloncino». Già: ma sia Zermatt, sia le Bermude sono soltanto luoghi di villeggiatura, e non altro; cosa che certo non si può chiedere ad una città come Venezia. Né, soprattutto, ai veneziani che abitano nel centro storico. Tuttavia, non pochi pensano che l’assenza di automobili, perfino la “pedonalità”, esigenza largamente imposta dalla città stessa, possono anche trasformarsi in qualcosa di positivo, almeno sotto il profilo della qualità della vita. Per esempio, Mario Fazio osserva come Venezia sia rimasta «l’unica grande città di tutto l’Occidente che conservi la misura umana: la sola destinata a permanere identica a se stessa, come l’Eutropia delle Città invisibili di Calvino, a dispetto della decadenza, del tempo, dell’incuria e del cattivo uso che oggi se ne fa»; e aggiunge: «I veneziani parlano molto più degli altri italiani, perché hanno spazi liberi, punti d’incontro, possibilità continue di sostare senza l’incubo del traffico». In un mondo dove qualsiasi altra città “normale” di solito impiega anni, o anzi decenni (perfino quando le riesce: Roma, ad esempio, non è stata ancora in grado di farlo), per pedonalizzare magari addirittura una misera fettina di se stessa, anche questo non è forse poco. 1.3) Un passato di gran pregio, un presente di grandi scomodità Eppure, il luogo che fu capitale dei dogi possiede indubbiamente tante e tali singolarità che, se da un lato, oggi possono costituire un pregio e un motivo di richiamo assolutamente straordinari per il visitatore, dall’altro si possono anche facilmente tradurre in grandi pesi e grosse scomodità per chi vi abiti. Sostanzialmente, da quasi un millennio Venezia, nei suoi caratteri principali, è rimasta immutata: «Nel XIII secolo era, più o meno, già la medesima che oggi»44, fortunatamente, possiamo ancora ammirare; «nel XIV secolo, i suoi abitanti assommavano già a 130 mila: all’incirca, quanti se ne potranno ancora contare alla fine della Repubblica»45. Sarà per questo, per la sua sostanziale inalterabilità, che Hermann Hesse46 ha potuto affermare: «Di tutte le città che visitai in Italia, ad eccezione di Ravenna, è Venezia quella che più di tutte mi stimola a tristi pensieri sul declino di un grande passato»? Certo che, quando rimane intatta, ma anche immutata per secoli interi, una città accresce indubbiamente il proprio fascino e il proprio prestigio per il visitatore culturale; ma rischia anche di deludere profondamente chi invece vi è insediato stabilmente, a meno che non sia spinto da motivazioni, diciamo così, superiori: di campanile, storico-artistiche, legate – insomma – alla cultura, oppure alle abitudini. Tanto che, talora, Venezia riesce anche ad essere addirittura troppo ingombrante perfino per lo stesso viaggiatore: Riccardo Bacchelli, per esempio, teorizzava che «non c’è più fina maniera e occasione di intenderla e fruirne, che quella di claustrarsi, per un’ora della giornata, fuor del tempo nella fantasia»47. Cioè, quasi, di non viverla. Le idee e le proposte sul modo di farla risorgere, certo nel tempo non sono mancate. Il poeta russo Iosif Brodskij (1940-96), premio Nobel per la letteratura nel 1987, esiliato dalla madrepatria nel 1972 e da allora cittadino americano, ha per esempio affermato che «a prescindere dallo sbarco sulla Luna, il nostro secolo si assicurerebbe un ottimo titolo per essere ricordato se lasciasse intatto questo posto, se lasciasse le cose come sono»48. Ma subito, ha aggiunto che «certo, l’idea di trasformare questo posto in una capitale della ricerca scientifica è una soluzione accettabile, specialmente se si considerano i probabili vantaggi che ogni sforzo mentale trarrebbe da una dieta come quella veneziana, così ricca di fosforo. Si potrebbe usare la stessa esca per ottenere il trasferimento della sede della Cee da Bruxelles, o del Parlamento europeo da Strasburgo. E certo, meglio ancora sarebbe attribuire a questa città, e a una parte del circondario, lo statuto di parco nazionale. Vorrei invece far notare che l’idea di trasformare Venezia in un museo è tanto assurda, quanto quella di rianimarla con l’immissione di sangue nuovo»; insomma, anche il più acceso fautore del «lasciare le cose come stanno» si rende conto che quella della città-museo non è un’alternativa praticabile, e che, comunque, qualcosa va fatto. Anche se la città, probabilmente, reggerebbe assai male ai colpi di un’organizzazione così elefantiaca, e sottoposta a continue pressioni (visite, summit, “vertici”, incontri), come ogni sede di rappresentanze sovrannazionali sempre è. Sul “malessere” di Venezia, del suo centro storico e di chi ci abita, sono stati profusi ettolitri d’inchiostro, se non interi vagoni del medesimo; ma, quantunque l’indagine riguardi l’intero comprensorio provinciale e non la città in senso stretto (né tanto meno la sua porzione insulare), un buon indicatore della difficoltà che camparvi comporta può essere forse rappresentato dalla graduatoria della qualità della vita nelle 103 province italiane, che, tenendo conto di molteplici indicatori, è redatta ogni anno dal quotidiano «Il Sole 24 Ore». La sua più recente edizione49, colloca Venezia appena al 72° posto: testimonia, cioè, che nemmeno in un terzo delle province del nostro paese si vive peggio che in quella veneziana: una mezza débâcle. Non solo: ma la situazione del comprensorio che fa capo alla città lagunare si va, evidentemente, sempre più deteriorando, se è vero che, nella “classifica” dell’anno precedente, esso si situava in un rango assai migliore; quasi nel primo terzo delle province considerate, cioè esattamente al 47° posto. In un solo anno, ne ha perduti ben 25. Vediamolo allora un po’ più nel dettaglio, questo studio tanto penalizzante per l’area di cui l’ex Serenissima è il capoluogo. Intanto, quella di Venezia, capoluogo del Veneto, si colloca all’ultimo posto tra tutte le sette province della Regione, e perfino di gran lunga distanziata da esse. Infatti, nell’ordine, Treviso, Belluno, Vicenza e Padova occupano, nell’elenco, i posti che vanno dal numero 32 al numero 36 (prima di Padova, viene Forlì); Verona, al ventesimo posto, è considerata la provincia del Veneto (ma non dell’intero Nord-Est: la precedono, infatti, sia Gorizia che Trieste) in cui si vive meglio; e Rovigo, al 54°, quella in cui si vive peggio. Se si prescinde, appunto, da Venezia, che segue con quasi venti lunghezze di distanza: viene collocata dalle parti (s’intende non geografiche) di Oristano, Chieti, Benevento, Massa Carrara e Teramo; insieme con Imperia, che la segue ma non di molto, nel Nord della penisola è l’ultima provincia: in assoluto, la peggiore di tutte. Nella Regione, da quando la medesima graduatoria era stata compilata l’anno precedente, è stata superata, e anche abbondantemente distanziata, da Treviso, Vicenza e Padova, che, nella “classifica” del 1998 le era immediatamente alle spalle. Per carità: tutti i valori medi e tutte le indagini valgono sempre quel che valgono; e questa, poi, oltre che dell’intero bacino provinciale, tiene conto di una gamma assai vasta di indicatori (per l’esattezza, ben 36), che dall’economia spaziano alla criminalità. Passando, tuttavia, anche per la cultura, l’intrattenimento, le loro infrastrutture, e la spesa che ad essi viene riservata. Venezia e la sua provincia si collocano, buone ultime nella Regione e con un arretramento di quattro posizioni rispetto all’anno precedente, al 65° posto per quanto riguarda il tenore complessivo di vita (ma al 26° per la quantità di ricchezza prodotta: tuttavia, pur sempre dopo Verona e Vicenza, che sono tra le prime dieci in Italia; e anche dopo Padova e Treviso). Nella graduatoria del “caro casa”, soltanto Milano e Roma risultano essere più costose della provincia veneziana; che in compenso è al 38° posto, ma sempre l’ultimo nella Regione, nel settore “affari & lavoro”. Mentre invece evidentemente langue lo “spirito imprenditoriale”: qui Venezia, infatti, è appena la 52a provincia italiana. Ma addirittura assai peggiore ancora è la situazione, se si guarda ai servizi e all’ambiente: dal 44° posto nel 1998, all’attuale 81°; pesa moltissimo la “pagella ecologica”, tratta dalle rilevazioni di «Legambiente», che relega la provincia lagunare (e forse soprattutto della zona industriale di Mestre e Marghera) nello scomodo ruolo di “fanalino di coda”, insieme con Oristano, Agrigento, Nuoro e Reggio Calabria. Pressoché analogo lo score per quanto concerne la criminalità: un 84° posto che non soltanto peggiora di dodici punti il risultato dell’anno precedente, ma costituisce anche, in assoluto, il dato peggiore di tutta la Regione (nei grandi agglomerati metropolitani, da Milano a Roma, da Bologna a Torino, Firenze e Genova, gli esiti appaiono, tuttavia, ancora più disastrosi: su Venezia e dintorni, pesa soprattutto la microcriminalità, maggiormente virulenta solo in altre sette province italiane). Netto è invece l’arretramento rispetto al 1998 anche per quanto riguarda il complesso degli indicatori demografici e famigliari: la provincia di Venezia precipita dal 37° all’87° rango nella percentuale dei decessi per tumore sul totale delle morti registrate nell’anno, risultando così la terzultima in tutto il paese, seguita soltanto da Bergamo e Sondrio: e qui, forse, il centro storico fornisce un apporto basato soprattutto sull’elevata età media della popolazione, mentre ben altri contributi si devono invece alla terraferma. Infine, il tempo libero e la cultura: un campo in cui la provincia di Venezia migliora di tre punti, e si piazza al 37° posto. Nella Regione, soltanto Verona fa meglio: ma soprattutto in virtù dell’Arena e della sua stagione estiva. La spesa media per assistere a spettacoli teatrali e musicali risulta sicuramente elevata (solo altre 19 province, e Verona è la prima di tutte, offrono un dato superiore), mentre lo è meno (41° posto) quella sportiva. Quasi altrettanto lusinghiera risulta la percentuale di librerie rapportata al numero degli abitanti (il 28° posto in Italia, e il miglior risultato nella Regione), quando invece Rovigo, Vicenza e Padova possono vantare una miglior dote di sale cinematografiche, e, in Italia, la provincia di Venezia è appena 46a. Non induce, tuttavia, a un grande ottimismo nemmeno un altro parametro, questo rilevato dal Censis e sempre riferito al territorio provinciale50, secondo cui anche nell’indice di dispersione scolastica Venezia viene dopo tutte le altre province della Regione, ed appena al 66° posto tra quelle italiane. Sono dati, lo ripetiamo, da prendere, come si usa dire, con le molle, almeno se rapportati ai problemi del centro storico della città lagunare; ma, tuttavia, servono forse a fornire una prima indicazione, un quadro d’insieme, sia pur di larga massima. 1.4) un destino possibile: la capitale dell’“immateriale” Ecco, allora, un possibile ritratto della Venezia di oggi, intesa come il complesso di isole su cui ha fondato la sua città più antica: cinque “vocazioni mancate”, cinque forme di “sviluppo impossibile”, e forse ancora una strada da tentare, da saggiare, da provare; magari, anche da costruire. La città non è riuscita ad essere city, e non è diventata un campus. Non è neppure, come vedremo tra breve, un luogo “costruito” per il turismo, o che ad esso abbia saputo adeguarsi: bensì piuttosto un centro urbano che, dopo essersi egregiamente difeso da tante tra quelle che i barbari tentavano, subisce oggi le quotidiane ed incontrollate invasioni di chi aspira a visitarla (anche, e anzi soprattutto, quelle degli escursionisti “mordi e fuggi”, e molti lo sono anche per necessità: tenuti lontani dai pernottamenti veneziani a causa del loro abbastanza improbo costo; si trasformano in quei “pendolari della vacanza”, che così spesso più risorse consumano, di quante invece non ne elargiscano). Manca infatti ogni tentativo di programmarne i flussi, e anche qualunque seria intenzione di deviarne almeno i percorsi da quelli “canonici”, i più abituali, scontati e battuti, spesso perfino i più scomodamente intasati. E dire che (citiamo ancora Valeri51) «andare in giro per calli e campi, senza un itinerario prestabilito, è forse il più bel piacere che a Venezia uno possa prendersi; beati i poveri di topografia, beati quelli che non sanno quel che si fanno, ossia dove vanno, perché a loro è serbato il regno di tutte le sorprese, di tutte le scoperte straordinarie». Ma troppi questo «bel piacere» se lo negano e non lo conoscono affatto. Venezia, infine, non è nemmeno più una capitale della cultura, anche se indubbiamente lo è stata, ed assai a lungo, nel passato. Ma oggi, non più: perché assai scarsa ne è ormai la sua produzione; ben poco numerosi gli artefici, gli artisti, i musicisti; spesso secondarie, periferiche e di scarso impatto le scelte che vi vengono operate; perfino non troppo abbondanti, ormai, i fondi a disposizione della creazione e dello stesso humus culturale. È una città che sa conservare abbastanza egregiamente (come d’altronde quasi dappertutto nel paese: in questo, siamo davvero e incontestabilmente all’avanguardia nel mondo) le straordinarie e irripetibili ricchezze di storia e cultura, assolutamente uniche al mondo, di cui il passato e la sua antica grandezza l’hanno beneficata, e che il presente ha l’irrinunciabile imperativo di mantenere inalterate, anche per trasmetterle alle future generazioni. È una città che si misura, forse più di tante altre della penisola, con una difficoltà, anch’essa tipicamente italiana, che riguarda la valorizzazione del patrimonio storico, culturale e artistico (nel campo specifico, assai spesso all’estero si sa fare molto più che non da noi); è una città che dal reddito turistico e dei visitatori deriva una buona parte dei propri proventi, diretti e indiretti, ma che purtroppo fa ben poco, anche se negli ultimi tempi qualche spiraglio si è aperto, per migliorare quella che, con una parola abbastanza terribile, si chiama la fruizione di se stessa. È una città che, assai spesso, sembra adagiata nell’ineluttabilità di una rendita di posizione, pensando che, tanto, il reddito turistico non le farà mai difetto, e quindi si mostra assai poco motivata ed impegnata a migliorarne ed elevarne i parametri. E, purtroppo, più che un luogo vivo sembra – a scelta – un museo affollato o un ambito palcoscenico; mentre invece è un agglomerato urbano che, se non in uno stato di autentica pre-agonia, appare almeno in preda a malanni assai gravi: sempre più depauperato di abitanti; scarsissimo di servizi; un paesotto da 60 mila anime, piuttosto che non l’antica capitale di un tempo. Eppure, verosimilmente aggiornando la speranza di Braudel, forse potrebbe tornare perfino ad essere una capitale: magari, non già della cultura, come il grande storico francese immaginava, ma di qualcosa di più vasto. Giuseppe De Rita, “anima” del Censis di cui è segretario generale e presidente del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, da anni impegnato in laguna come presidente della Fondazione Venezia 2000, questo “destino possibile” lo sintetizza così: «La capitale di tutto quello che potremmo racchiudere sotto il nome di “immateriale”; e che non è soltanto cultura, ma anche multimedialità, tecnologia, e molto, molto altro ancora»52. Qualche passo, in questo senso, si sta già realizzando; ma forse è vero che «Venezia deve compiere una scelta culturale di fondo, che non ammette più le mezze parole, i rinvii, le incertezze», come affermava, già nel 1996, l’attuale sindaco Massimo Cacciari53. Certo, quanto è stato realizzato non è ancora risolutivo: ma, almeno, indica una linea di tendenza. Costituisce un primo approccio per combattere alcuni di quelli che sono i “malanni” della città, e che tra poco cominceremo a vedere più nel dettaglio, analizzando le condizioni, i meccanismi, le lacune, gli sprechi (ma anche le potenzialità ed i segnali di ripresa) della “fabbrica della cultura”. Cioè di quella che, insieme con il turismo, di cui anzi rappresenta assai spesso anche una delle non secondarie né meno rilevanti motivazioni, è stata, almeno nel passato, la massima “azienda” veneziana; la più importante attività “produttiva” del bacino lagunare; quella per la quale il nome della città va ancora, e giustamente, rinomato nel mondo. La “fabbrica della cultura” è composta da tanti “capannoni” e tanti “reparti”: l’arte e lo spettacolo sono certamente i maggiori; ma c’è anche molto altro, più moderno ed attuale, maggiormente legato all’innovazione e al futuro. Soprattutto, però, la “fabbrica della cultura” è una componente essenziale, e certamente non rinunciabile, di quell’«immateriale», che è tanto caro a Giuseppe De Rita. 1 Citato in Venezia, Milano, Touring Club Italiano, 1998 («Le vie del mondo. Viaggi d’autore», iii, 1998, n. 13). 2 Charles de Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, presentazione di Carlo Levi e Glauco Natoli, Milano, Parenti, 1957 (L’Italia nel tempo) (Roma-Bari, Laterza, 1992, Storia e memoria: prefazione di Carlo Levi, traduzione di B. Schacherl). 3 Diego Valeri, Guida sentimentale di Venezia, Venezia, Le Tre Venezie, 1942 (Firenze, Giunti Martello, 1978; Firenze, Passigli, 1994, Le lettere). 4 Così il Rettore dello Iuav, Marino Folin, nel dibattito Lo spettacolo a Venezia: evento, produzione, servizi, promosso da Venezia 2000. Cultura e impresa e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia (Incontri per Venezia, 5), Venezia, Ca’ Mocenigo Gambara, 26.3.1999. 5 Paul Morand, Venise, Paris, Gallimard, 1971 (ivi, 1987, Collection L’Imaginaire); Veneze, traduz. di Massimo Ferrara, introd. di Leopoldo Carra, Vicenza, Neri Pozza, 1995. 6 Valeri, Guida sentimentale di Venezia, cit. 7 Ivi. 8 Ugo Martegani, L’apocalisse rinviata, in Ugo Martegani, Carlo Della Corte, Giampietro Puppi, Un punto chiamato Venezia, introduzione di Paola de Paoli, Milano, Periodici scientifici (Roma, Il Crogiolo), 1971. 9 Giulio Obici, Venezia fino a quando?, prefazione di Teresa Foscari Foscolo, nota storica di Cesare De Michelis, Padova, Marsilio, 1967; Venezia, Marsilio, 1996 [Venice, how long?..., preface by Teresa Foscari Foscolo, storic note by Cesare De Michelis, Padova, Marsilio, 1967]; poi, Tascabili Marsilio, 1996. 10 Roberto Bianchin, Acqua granda. Il romanzo dell’alluvione, presentazione di G.A. Cibotto, Venezia, Filippi, 1996. 11 «Colors», agosto-settembre 1999, riferito in «Il Foglio quotidiano», 9.8.1999. 12 Riccardo Chiaberge, «Corriere della Sera», 10.12.1998. 13 Così Gianfranco Bettin, prosindaco di Mestre, in Elia Baffoni, «il manifesto», 11.12.1998. 14 Jacopo Giliberto, «Il Sole 24 Ore», 11.12.1998. 15 Alessandra Carini, «La Repubblica», 4.12.1998. 16 Riccardo Chiaberge, «Corriere della Sera», 10.12.1998. 17 Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura storia interessi nella questione della città e della laguna, Roma, Officina Edizioni, 1973 (Queste istituzioni, collana diretta da Sergio Ristuccia). 18 Unesco, Rapporto su Venezia, prefazione di René Maheu, Milano, Mondadori, 1969 (Edizioni scientifiche e tecniche, Biblioteca dell’Est). 19 Mario Isnenghi, Fine della storia?, in Venezia, itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri, Giovanni Levi e Pierandrea Moro, Bologna, Il Mulino, 1997 (Biblioteca storica). 20 Ivi. 21 Alberto Cavallari, Indro Montanelli, Piero Ottone, Gianfranco Piazzesi, Giovanni Russo, Italia sotto inchiesta. «Corriere della sera» 1963-65, Firenze, Sansoni, 1965 (Biblioteca di tuttitalia). 22 «Il Foglio quotidiano», 8.4.1997. 23 Ivi. 24 Gianni Montagni, Bruxelles versus Venezia. La città lagunare e la procedura della Commissione Europea contro gli sgravi contributivi alle imprese, Venezia, Ed. vvv Venezia vuole vivere, 1999. 25 Giovanni Maria Pace, Città storiche. Se il nuovo sfida l’antico, in «La Repubblica», 12.1.2000. 26 Ivi. 27 Ivi. 28 Ivi. 29 Amedeo Petrilli, Il testamento di Le Corbusier, Venezia, Marsilio, 1999. 30 Ca’ Mocenigo Gambara, 31.10.1998. 31 Mario Pirani, Se Roma è sotto stress, il Vaticano ha le sue colpe, «La Repubblica», 4.1.2000. 32 Alvise Zorzi, La vita quotidiana a Venezia nel secolo di Tiziano, Milano, Rizzoli, 1990 (bur). 33 Paolo Barbaro, La città ritrovata. Quaderni veneziani, Venezia, Consorzio Venezia nuova, 1997 (cfr. anche Id., La città ritrovata. L’idea di città in una guida sentimentale, Venezia, Marsilio, 1998, Gli specchi della memoria). 34 Giorgio Lago, L’anno zero della Serenissima, «La Repubblica», 12.12.1998. 35 Ivi. 36 «La Repubblica», 7.12.1998. 37 Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall’XI al XVI secolo, introduzione di Marino Berengo, Venezia, Marsilio, 1995. 38 Vittorio Emiliani, Se crollano le torri, Milano, Rizzoli, 1990. 39 Morand, Venise, cit. 40 Montagni, Bruxelles versus Venezia, cit. 41 «Colors», agosto-settembre 1999, citato in «Il Foglio quotidiano», 9.8.1999. 42 Ivi. 43 Morand, Venise, cit. 44 Venezia, cit. 45 Ivi. 46 Hermann Hesse, Diario italiano, 1901-1903, Roma, Biblioteca del vascello, 1989 (Viaggi). 47 Riccardo Bacchelli, Parole fugaci di non fugace segreto dell’isola, in Tutte le opere di Riccardo Bacchelli, xxi, Viaggi all’estero e Vagabondaggi di fantasia, Milano, Mondadori, 1965. 48 Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, trad. di Gilberto Forti, Venezia, Consorzio Venezia nuova, 1989 [Milano, Adelphi, (1991) 1997 (Piccola biblioteca Adelphi)]. 49 «Il Sole 24 Ore», 27.12.1999, dossier a cura di Rossella Cadeo, elaborazioni di Roberto Del Giudice e Carlo Vaghi. 50 Fondazione Censis, 33° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 1999, con il patrocinio del Cnel, Roma, Franco Angeli, 1999. 51 Valeri, Guida sentimentale di Venezia, cit. 52 Colloquio con l’autore, luglio 1998. 53 Massimo Cacciari, Quale idea per Venezia, in Venezia, il nuovo piano urbanistico, a cura di Leonardo Benevolo, Roma-Bari, Laterza, 1996. 2) CINQUE “C’ERA UNA VOLTA”. MUSICA, TEATRO, CINEMA, BIENNALE, TURISMO D’ÉLITE Per capire che cosa Venezia non è più oggi, vediamo che cosa è stata nel suo passato, più o meno remoto. Per misurare in qualche modo l’entità del declino che la città, e in particolare il suo centro storico, hanno vissuto e purtroppo stanno ancora vivendo, per comprendere il valore e il significato delle perdite che la Serenissima ha subito nel tempo, vale forse la pena di ripercorrere, sia pur per sommi capi, in maniera assai schematica e sommaria, qualche significativo ed istruttivo dettaglio di quella che essa fu. Magari rievocando (per carità: soltanto per esempi, senza pretese di completezza, o di esaustività) perfino qualcuno dei tanti primati, spesso anche assoluti e addirittura a livello mondiale, che nel tempo ha detenuto, e che sicuramente hanno contribuito a renderla, quale è, unica al mondo. Perché se parecchi sanno che, nei tempi andati, Venezia è stata grande, importante, autorevole, assai progredita e anzi modernissima, forse non tutti ricordano quanto lo fu, né, nel dettaglio, le ragioni ed i motivi per cui questo è potuto accadere; e certamente meno ancora sono capaci di raccontare di quali stagioni ed eventi la città che «giace sopra cento isole raggruppate insieme, ed è circondata da altre cento»1 è stata la protagonista: sono stati tali e tanti che, in molteplici campi e in diversi periodi, spesso non c’è stato alcun rivale al mondo in grado d’insidiare la Dominante. Dominatrice dei mari, questo è sicuro; dei commerci, e questo pure è altrettanto noto; ma anche in diversi settori della cultura e dello spettacolo, che spaziano dalla musica, al teatro, dall’arte, al cinema, fino al turismo “colto” o d’élite: perché in ciascuno di essi, in qualche modo, la città, a suo tempo, ha saputo essere una capitale universalmente riconosciuta. Del resto, qualcuno ha scritto che «uno degli aspetti più sorprendenti – e talora, bisogna pur dirlo, anche più irritanti – della popolazione veneziana durante i secoli è stata la sua capacità di cimentarsi pressoché in tutte le attività umane, ottenendovi superbi successi»2. Quindi, cominciamo. Per esempio, dalla musica: non fosse altro perché forse in nessuna abitazione di chi ami o frequenti quella classica, ma anche in molte di quelle dove il genere non è assolutamente in voga, mancano, sicuramente, quattro degli almeno 454 concerti3 di Antonio Vivaldi (1678-1741), detto «il prete rosso» – in realtà, un ministro del culto consacrato interamente alla musica: «Appena ordinato sacerdote, un anno o poco più», per un malanno, forse l’asma, smise di dire messa, come egli stesso rivela in una lettera del 1737 al marchese Guido Bentivoglio d’Aragona di Ferrara – cioè Le quattro stagioni (o, per essere filologicamente più corretti, i primi quattro concerti dell’opera 8, Il cimento dell’armonia e dell’invenzione, pubblicati ad Amsterdam, per i tipi di Le Cène, nel 1725). Uno dei più accreditati cataloghi discografici, l’americano Schwann4, ne elenca ben 119 diverse edizioni attualmente in vendita, incise su compact disc – quattro in più, ad esempio, della stessa IX Sinfonia di Ludwig van Beethoven – e forse non esiste brano musicale che possa vantarne altrettante in commercio. La musica ha avuto Venezia come sua grande protagonista almeno per due secoli e mezzo: diciamo dal Settecento, fino a circa la metà (ed ecco il primo sintomo della crisi) del secolo che se n’è appena andato. Johann Caspar von Goethe (1710-82), certo assai meno famoso del figlio, il maggiore poeta tedesco con il quale non va assolutamente confuso, dopo aver studiato a Lipsia, nel 1740 compie il suo voyage en Italie. Poi, tornerà nella natia Francoforte; spererà, ma invano, in un incarico accademico; rimarrà deluso, e si ritirerà nel privato; la moglie, Katharina Elisabeth Textor, gli darà un figlio, la cui fama – si spera – lo avrà certamente consolato delle proprie frustrazioni; e, fino alla morte, lavorerà alla stesura dei propri ricordi di viaggio5. Scriveva, tra l’altro: «La cetra non è per anche stanca di decantare le meraviglie di Venezia; mancherei molto se non toccassi i pregi della musica che s’ammirano in questa dominante con stupore de’ forastieri. Dirò dunque ch’essa vien pubblicamente esercitata in diversi chiostri, chiamati gl’Incurabili, la Pietà ed i Mendicanti». Per circa un secolo e mezzo, le sue impressioni e i suoi ricordi non furono nemmeno pubblicati; ma certo, non li deve aver lesinati, in forma orale, al figlio Wolfgang, se questi, giunto a Venezia 46 anni più tardi, nel 1786, annotava, mentre si recava in gondola in Piazza San Marco, dopo un lungo giro (altri tempi) «intorno alle isole di Santa Chiara fino alle lagune, [poi] per il canale della Giudecca fin verso la Piazza San Marco, e mi credevo già padrone del mare Adriatico, come del resto si sente ogni buon veneziano non appena si è sdraiato nella sua gondola»: «Ho pensato, in quest’occasione, al mio povero padre, che non sapeva trovar di meglio che discorrere di queste cose. Non succederà un giorno, anche a me, così? Tutto ciò che mi circonda è pieno di nobiltà, è l’opera grandiosa e veneranda di forze umane riunite, è un monumento maestoso non di un solo principe, ma di tutto un popolo»6. Anch’egli cita la chiesa dei Mendicanti, dove «ha sede il Conservatorio, che, al presente, gode il mio maggior favore», e passa di spettacolo in spettacolo: giacché, come aveva scritto de Brosses una quarantina d’anni prima, nel 1740, «non c’è quasi serata che non vi sia qualche accademia da qualche parte [...] l’intera nazione va pazza per quest’arte in modo inconcepibile. Vivaldi è divenuto mio amico intimo, per vendermi i suoi concerti a carissimo prezzo. C’è in parte riuscito; e io pure ho ottenuto ciò che desideravo: ascoltarlo, e avere spesso buoni intrattenimenti musicali»7. Tale era la produzione di musica, nella Venezia del Settecento, quando «fra tutte le città-stato italiane, poteva a buon diritto asserire di essere rimasta la più grande»8, che quella «dell’anno avanti non si esegue più»9: quasi come oggi succede alle canzonette del Festival di Sanremo. Del resto, e Vivaldi stesso lo certifica apponendo di suo pugno allo spartito del Tito Manlio la notazione «fatta in cinque giorni»10, gli autori, all’epoca, sapevano anche essere rapidissimi, e certo erano assai prolifici (de Brosses parla di «furia prodigiosa»); quando occorreva, sapevano anche suddividersi perfino il lavoro: de La virtù trionfante dell’amore e dell’odio ovvero il Tigrane (altrimenti nota anche come Mitridate), scritta per essere eseguita al Teatro Capranica di Roma nel 1724, solo il secondo atto fu musicato dal «prete rosso» (che Goldoni descrive alquanto bigotto, sempre intento a leggere il breviario, e chissà se era vero: divenne certamente assai intimo di una delle maggiori cantanti del tempo, Anna Giraud, a tal punto che nel 1737 gli fu vietato dal cardinale Fabrizio Ruffo di allestire una stagione a Ferrara, anche «per l’amicizia con la Girò cantatrice»), e gli altri da due autori, il Micheli e il Romaldi, dei quali ci restano i nomi di battesimo, Benedetto e Nicola, ma che oramai non sono nemmeno più degni di una propria voce perfino nei compendi più accreditati11. Vivaldi, lo sappiamo da documenti certi, spesso diventava perfino impresario di se stesso e dei Carnevali, conferendo ad altri, per esempio nel 1738 a un certo «Giuseppe Tonini quondam Giuliano», l’incarico di riscuotere gli affitti dei palchi. La Pietà era il dominio di Vivaldi; gli Incurabili, quello di Galuppi. «Quello dei quattro ospizi dove vado più spesso e mi diverto di più è l’ospizio della Pietà; è questo anche il primo per la perfezione dell’orchestra. Che rigore di esecuzione! Soltanto lì si può sentire quel famoso primo colpo d’archetto tanto a torto vantato all’Opera di Parigi. La Chiaretta sarebbe senza dubbio il primo violino d’Italia, se la Anna Maria delle Ospedalette non le fosse anche superiore», scriveva de Brosses nella sua Lettera XVIII al Signor de Blancey12. Vivaldi, assai osannato per esempio a Dresda dove tuttora esistono molti suoi spartiti, era definito, abbastanza enfaticamente, «il nuovo Orfeo dei giorni nostri», il «Cristoforo Colombo della musica», il «Principe di tutti i musicisti»13. Dei sei teatri maggiori allora esistenti, tre (San Cassian, San Moisé, San Giovanni Grisostomo) rappresentavano soltanto opere liriche; gli altri tre (San Salvador, Sant’Angelo, San Samuele) le alternavano alla Commedia dell’arte; tre, e senza intervalli tra loro, erano anche, ogni anno, le stagioni: da Carnevale all’Ascensione, dall’Ascensione all’autunno, dall’autunno al Carnevale. E anche se «gli arsenali sono fermi [e] ho modo di meditare su le tante tristezze che fanno la vita della città», come scriveva Benedetto Marcello al conte Daniele Florio l’8 marzo 1736, la vita musicale non risentiva granché della congiuntura. Le orchestre degli istituti, ed era assai singolare anche per il tempo, erano totalmente femminili: «Formate da fanciulle bastarde od orfanelle, e da quelle che i loro genitori non sono in grado di educare; sono educate a spese dello Stato, e le istruiscono esclusivamente per farne degli eccellenti musicisti. Quindi, cantano come angeli, e non c’è strumento, per grosso che sia, che possa far loro paura: musica eccezionale, qui, è quella degli ospizi»14. Nel 1780, dopo una visita ai Mendicanti, William Beckford (1759-1844), scrittore inglese autore di due libri di viaggi, notava che «il ricordo dell’orchestra mi fa ancora sorridere. Voi sapete, immagino, che è totalmente femminile: e che non c’è niente di più comune che vedere una delicata mano bianca che viaggia attraverso un enorme contrabbasso, o un paio di guance rosse tutte gonfiate dagli sforzi fatti per soffiare in un corno d’armonia. Alcune, divenute vecchie Amazzoni, hanno abbandonato violini ed amanti, per consacrarsi vigorosamente ai timpani; e una povera gentildonna sbilenca, un tempo avversata nei suoi amori, attualmente regala una splendida immagine di sé con il suo fagotto»15. 1 Johann Wolfgang von Goethe, Italienische Reise, in Goethe’s Werke. Vollständige Ausgabe letzter Hand, Stuttgart und Tubingen, J.G. Cotta, 1827-1842, xxvii-xxix (1830); Viaggio in Italia (1786-88), introduzione e commento di Lorenza Rega, traduzione di Eugenio Zaniboni, Milano, Rizzoli, 1991 (bur). 2 H.C. Robbins Landon e John Julius Norwich, Five Centuries of Music in Venice, London, Thames and Hudson, 1991. 3 Almeno, secondo il Nuovo dizionario Ricordi della musica e dei musicisti, a cura di Riccardo Allorto, Milano, G. Ricordi e C., 1976; altri, come Michael Talbot nel Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, diretto da Alberto Basso, Torino, Utet, 1985, avvertendo che «le statistiche devono essere considerate assai approssimative», ne ricorda 329; mentre il catalogo, a cura della redazione, ne elenca 547. Tra i loro grandi estimatori, c’era anche Johann Sebastian Bach, che ne trascrisse alcuni per organo. 4 Schwann Opus, Santa Fé, New Mexico, Stereophile Inc., 1998, volume 9 n. 2, primavera. 5 Johann Caspar von Goethe, Viaggio in Italia, 1740, a cura di Arturo Farinelli, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1932. 6 Goethe, Viaggio in Italia, cit. 7 De Brosses, Viaggio in Italia, cit. 8 Michael Levey, Painting in Eighteenth Century Venice, 1994, La pittura a Venezia nel Settecento, traduzione di Grazia Lanzillo, Milano, Leonardo, 1996. 9 De Brosses, Viaggio in Italia, cit. 10 Walter Kolneder, Profilo biografico di Antonio Vivaldi, in Antonio Vivaldi da Venezia all’Europa, a cura di Francesco Degrada e Maria Teresa Muraro, Milano, Electa, 1978. 11 Per esempio, il già citato Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti. 12 De Brosses, Viaggio in Italia, cit. 13 Francesco Degrada, Attualità di Vivaldi, in Antonio Vivaldi, cit. 14 De Brosses, Viaggio in Italia, cit. 15 In Robbins Landon e Norwich, Five Centuries of Music, cit. 2.1) Opere a centinaia, nella “capitale musicale d’Europa” Nel 1709, il 26 dicembre al Teatro di San Giovanni Grisostomo, si esegue la prima dell’Agrippina di Georg Friedrich Händel, la sesta delle sue quasi 50 opere teatrali (su libretto del veneziano Vincenzo Grimani, cardinale e viceré di Napoli, protégé di Leopoldo i d’Austria: giusto per indicare quale potenza fosse allora la Dominante); nel 1728, il Miserere di Johann Adolph Hasse, non ancora trentenne16; «il “consumo” di musica, nelle sale veneziane e nelle “scuole”, là dove Vivaldi ha già fatto trionfare i suoi capolavori e dove hanno insegnato il Porpora e il Galuppi, è enorme. Sessantanove opere saranno state scritte da Antonio Lotti fino al 1740, anno della sua morte; sessanta libretti avrà musicato Carlo Francesco Pollarolo; venti melodrammi avrà composto Francesco Bianchi. E se di alcuni non resterà traccia nella storia della musica, ben vale, a definire il rigoglio dell’epoca, la definizione di Atlantide del canto data a Venezia dal Combarieu», scrive ancora Ugo Martegani17. Curiosamente, ma non troppo, l’apogeo musicale veneziano non coincide con il massimo apice politico della Dominante, bensì è di poco posteriore ad esso. Nel giugno 1570, i turchi sbarcano a Cipro; nell’agosto successivo, l’isola capitola, e Marcantonio Bragadin, dopo aver negoziato una resa onorevole con il comandante ottomano, viene scuoiato vivo a Famagosta; Antonio Vivaldi, Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e Giuseppe Tartini appartengono invece tutti al secolo successivo, e quasi al Settecento. Del XVI fanno però parte Andrea e Giovanni Gabrieli, zio e nipote; i fiamminghi Adrian Willaert, che per 35 anni, fino al 1562 quando muore, è maestro di cappella a San Marco, dove per primo adotta il doppio coro; Cipriano De Rore (1516-65), che gli succede brevemente; Claudio Merulo, che prende stabilmente il loro posto. E, soprattutto, precede Vivaldi & Company anche Claudio Monteverdi, che nella Serenissima si spegne nel 1643, e che vi era stato nominato maestro di musica a San Marco nel 1613. Già con Willaert, «per Venezia cominciò un’era di crescente importanza musicale, sì che in breve tempo la città divenne il centro della cultura musicale europea»18. L’importanza e il significato che l’arte musicale rivestiva allora nella città ci sono anche documentati da un’infinità di dipinti, e basterà citarne alcuni: una banda di pifferi nella Processione della Croce in piazza San Marco, opera del 1496 di Gentile Bellini; tamburi e trombe nella tela, di Andrea Michieli detto «il Vicentino» (1539-1614), dedicata all’incoronazione della moglie del doge Marino Grimani; e perfino tre spartiti in bella vista e un’intera orchestra da camera (in cui l’autore, tra i componenti del quartetto di suonatori, ha voluto ritrarre se stesso, insieme con Tintoretto, Tiziano e il fratello Benedetto) nel primo banchetto moderno nella storia dell’arte, le Nozze di Cana di Paolo Caliari («il Veronese»), immensa tela di quasi dieci per poco meno di sette metri. Fu terminata nel 1563 per la parete di fondo del refettorio benedettino di San Giorgio maggiore (Palladio), e, subito dopo la caduta della Repubblica, trasferita in Francia; era al sesto posto nella lista dei dipinti da predare; viaggiò sulla fregata La Sensible, 32 cannoni, e poi per via fluviale, fino all’ingresso trionfale a Parigi, con una festa di ben due giorni, su un carro adornato con un’iscrizione composta dal famoso archeologo Antoine Mongez19. In realtà, il tema delle Cene, «per l’artista [è un] felice pretesto per rappresentare la realtà quotidiana della vita mondana a Venezia»20; e questo verismo gli costerà anche caro, se nel 1573 incappa perfino nell’Inquisizione: se la caverà trasformando in Cena in casa Levi il titolo dell’Ultima Cena, oggi alle Gallerie dell’Accademia. Dipinti come questi servono per ricostruire visivamente, assai più che non lo concedano gli stessi testi d’archivio, la Venezia d’allora. Anche la figlia di Tintoretto, Marietta Robusti, ella pure artista, realizza il proprio Autoritratto nelle vesti della musicista che era: uno spartito nella mano sinistra, e la destra poggiata su una tastiera; e nel Concerto di donne del padre, al centro della composizione campestre svetta perfino un organo, presente, del resto, anche in Venere e l’organista di Tiziano. Insomma, i tempi, a Venezia, erano davvero assai favorevoli alla musica. D’altronde, ogni perfetto gentiluomo deve essere «anche musicista e, oltre alla capacità di leggere uno spartito, suonare diversi strumenti», scriveva già Baldassar Castiglione nel suo Cortigiano21; e le solenni cerimonie e feste nella città dei dogi, che, nel medesimo tempo, erano tanto regali quanto di popolo, sacre e civili insieme, richiedevano, anzi pretendevano, intonazioni solenni; la Basilica di San Marco, almeno fino al primo Ottocento, resta, insieme con i teatri, «il vero centro della vita musicale veneziana, poiché il suo maestro di cappella era il capo riconosciuto della professione»22. Ma questi esordi della grande musica a Venezia sono poi accompagnati da un altro fenomeno, in qualche misura perfino ad essi correlato, cioè quello della stampa. L’arte di Gutenberg, introdotta in laguna nel 1469, con tanto di permesso dogale, da Giovanni di Spira, dal fratello Vindelino e da Cristoforo Valdarfer, che due anni più tardi vi giunge dal Nord23, si sviluppa assai rapidamente, fino al punto da trasformare Venezia nel «più importante centro librario in Europa»24; e così «le grandi famiglie veneziane acquisirono ambizioni intellettuali che ebbero come risultato lo sviluppo del collezionismo e del mecenatismo; i Vendramin e i Contarini, i Grimani e i Venier, i Loredan e i Corner accolsero accanto agli umanisti, ai filosofi e ai poeti, pittori la cui ispirazione veniva sollecitata dal clima élitario di questa società raffinata e sensibile»25. Superfluo ricordare, qui, quello “principe” di Aldo Manuzio, o altri cognomi; più utile, invece, sottolineare che, in breve tempo, la città dei dogi attira stampatori provenienti da tutt’Italia, da Forlì come da Parma, Firenze e il Piemonte, fino a giungere all’incredibile quantità, presunta, di circa 1.500 torchi, i quali davano lavoro a 2.500 abitanti su una popolazione che assommava a circa 150 mila persone26; che «le innovazioni tecniche della stampa, partite da Magonza, tornarono in Europa passando da Venezia»27; e che, nel Cinquecento, «circa due terzi del totale dei libri stampati in Italia [venivano] prodotti a Venezia»28, nelle «cinquanta tipografie in attività»29, dove, durante il XVI secolo si è potuto calcolare che siano stati editi «un numero di libri tre volte e mezzo maggiore di quelli che erano complessivamente usciti dalle tipografie di Milano, Firenze e Roma [...] un autentico predominio, che si consolidò anche in ambito europeo»30. 16 Il compositore tedesco (1699-1783) visse a lungo nella città dei dogi; del giugno 1730 è un suo contratto di matrimonio segreto, rinvenuto nell’archivio della Curia patriarcale, con il contralto Faustina Bordoni (1693 o 1700-1781), detta «la nuova sirena», già allieva di Benedetto Marcello e formatasi all’Ospedale della Pietà: una delle massime e più richieste virtuose del tempo, rivale di Francesca Cuzzoni Sandrini detta «la Parmigiana» (1700-70), con la quale, alla “prima” dell’Astianatte di Giovanni Bononcini, nel 1727, passò anche, con immenso scandalo, a vie di fatto (Dizionario enciclopedico, cit.). 17 Martegani, Della Corte, Puppi, Un punto chiamato Venezia, cit. 18 Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, cit., alla voce Willaert. 19 Les Noces de Cana de Véronèse. Une oeuvre et sa restauration, a cura di Laurence Posselle, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1992, in occasione dell’esposizione al Louvre (16 novembre 1992-29 marzo 1993) della tela restaurata. 20 Così Gabriella Repaci-Courtois, nella voce dedicata all’artista in Dizionario della pittura e dei pittori, diretto da Michel Laclotte con la collaborazione di Jean-Pierre Cuzin, edizione italiana diretta da Enrico Castelnuovo e Bruno Toscano, con la collaborazione di Liliana Barroero e Giovanna Sapori, traduzione di Renato Pedio, Torino, LarousseEinaudi, 1994. 21 Baldassar Castiglione, Il Libro del Cortegiano (1528), introduzione di Amedeo Quondam, note di Nicola Longo, Milano, Garzanti, 1981 (I grandi libri Garzanti). 22 Robbins Landon e Norwich, Five Centuries of Music, cit. 23 Marino Zorzi, La stampa, fattore di mutamento nell’Europa dei secoli XV-XVII, in La città e la parola scritta, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Milano, Libri Scheiwiller (Garzanti, per il Credito italiano), 1997. 24 Così Emilia Terragni, alla voce Venezia, in Dizionario della pittura e dei pittori, cit. 25 Ivi. 26 Zorzi, La stampa, cit. 27 Bernd Roeck, Venezia e la Germania: contatti commerciali e stimoli intellettuali, in Il Rinascimento a Venezia e la pittura del Nord ai tempi di Bellini, Dürer, Tiziano, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 5 settembre 1999-9 gennaio 2000), a cura di Bernard Aikema, Beverly Louise Brown e Giovanna Nepi Scirè, Milano, Bompiani, 1999. 28 Ivi, citando Paul F. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian press 1540-1605, Princeton, Princeton University Press, 1977. 29 Luzzatto, Storia economica di Venezia, cit. 30 Ivi. 2.2) La “città più libera d’Europa” attira tantissimi intellettuali «È chiaro che Venezia, con i suoi ricchissimi mercati, non offriva più soltanto cose, ma anche idee», annota un attento studioso31. L’habitus veneziano, del resto, era caratterizzato (allora) dalla sensibilità per il discorso estetico e le arti liberali; in più, il Senato concedeva al vescovo, ancora insediato a San Pietro in Castello, un ruolo abbastanza marginale: qualche “eretico”, rifiutato in mezz’Europa, riusciva a trovare rifugio in città; gli stessi ebrei, anche se il nome di ghetto deriva da Venezia, che fu la prima ad istituirlo (dove c’erano i Getti, cioè le fonderie, dell’antico Arsenale: zona certamente assai poco salubre), non se la passavano certo peggio che in tante altre regioni e zone del Continente vecchio. Ange Goundar, un singolare personaggio (1720-91) a lungo vissuto in Italia, ci ha lasciato, tra l’altro, un’opera alla quale Casanova narra d’essersi divertito a collaborare, L’espion Chinois, ou l’envoyé secret de la Cour de Pékin, pour examiner l’état présent de l’Europe, apparsa a Colonia nel 176632; vi sintetizza efficacemente così la situazione della Serenissima: «In tutti gli altri Stati d’Italia, il papa occupa il primo posto, al disopra del governo; a Venezia, non ha che il secondo. Se emana un’ordinanza che non piace al Senato, la considerano carta straccia. E se i bonzi si dimostrano disobbedienti, la Repubblica li scaccia». Insomma, Venezia era uno Stato indipendente, lontano da Roma, perfino assai ben protetto dalle sue “mura d’acqua”; alla fine, terra di notevoli libertà. Anche per questo motivo, e per il primato nel campo della stampa, vi approda, per esempio, Erasmo da Rotterdam; le opere edite nella città lagunare, vengono diffuse in tutto il mondo; i trattati d’architettura di Sebastiano Serlio (1475-1554), Andrea Palladio (1508-80) e Vincenzo Scamozzi (1553-1616) fanno testo in ogni dove, ed alcuni di loro vengono ben presto tradotti oltralpe. Per ritornare alla musica, l’autore più eminente dei suoi tempi, cioè Orlando di Lasso, nel 1555 pubblica proprio a Venezia, da Antonio Gardano, il suo Primo libro di madrigali a cinque voci; parecchi altri vengono qui con lo scopo di far stampare i propri spartiti: tra quanti vi suonano e vi si esibiscono, e quanti accorrono a farsi pubblicare, a Venezia, in quel torno di tempo, non mancano davvero i buoni musicisti; anzi, in nessun altro luogo europeo ve n’è altrettanta abbondanza. «L’editoria musicale contribuì a legare indissolubilmente il nome di Venezia alla storia della musica»33. Ma, fin qui, siamo ancora agli esordi di quella che proprio a Venezia diverrà, per la prima volta in Italia ed anzi nel mondo, un’autentica “industria”. E se questa, sommariamente delineata, ne è la genesi, ancor più rilevanti ne sono stati gli sviluppi. Infatti, per due secoli la città dei dogi ha mantenuto contemporaneamente in vita sette compagnie teatrali; a fine Settecento possedeva otto sale, ma era addirittura arrivata ad averne anche sedici nel secolo precedente; ancora nel 1839, il Veneto era la Regione che in Italia ne poteva vantare di più. I primi a metterle in crisi, furono i Francesi: già al loro arrivo, ed alla fine della Serenissima Repubblica, ne erano rimaste in vita appena quattro in tutto, che, tuttavia, tornano almeno ad essere sei nel periodo della dominazione austriaca. Ma, intanto, il Sant’Angelo e il San Cassiano se ne sono andati per sempre. Escono di scena le antiche famiglie patrizie, e tante sale passano di mano. Il San Moisé (dove aveva esordito Rossini) va a picco, e la sua fine sembra quasi emblematica dei tempi che mutano: dapprima, diventa una falegnameria; riapre dopo mezzo secolo, ma come teatro di marionette; quindi, si trasforma in un cinema; poi basta. Da alcune di queste sale, il Malibran e il Rossini, prenderà anzi il via una nuova forma di spettacolo, cioè il cinema; il cui primo passo sarà, però, alla Minerva, l’ex San Moisé che ha riaperto come luogo di burattini: un cinematografo Lumière, il 9 luglio 1896, proietta il primo film nella città che diverrà la sede di uno dei massimi Festival cinematografici al mondo. Andiamo avanti. L’antica capitale della musica era arrivata, tra il 1637 e il 1700, a produrre ben 358 opere34, e a metterle in scena nei 16 teatri di musica che possedeva a fine secolo. Sale perfino assai moderne e dotatissime, se, nel 1676, Giovanni Legrenzi, per il Germanico sul Reno al Teatro San Salvatore, grazie ad un argano fissato al tetto, può far scendere un immenso telaio in legno su cui, lo mostrano ancora alcuni disegni, erano disposti i cantanti. E per Venezia passano molti dei grandi nomi di una lunga stagione della musica, italiana e non. Il Teatro Sant’Angelo vede la prima messa in scena di una ventina tra le opere di Antonio Vivaldi, delle forse cinquanta che il «prete rosso» scrisse e rappresentò nel solo ventennio tra il 1714 e il 1738; il San Moisé del marchese Cavalli, tiene a battesimo il Gioacchino Rossini operistico (La cambiale di matrimonio, 3 novembre 1810, scritta di corsa, per rimpiazzare un improvviso “buco” nel cartellone35; e tanto apprezzata che, nel 1812, lo stesso teatro gli commissiona quattro “farse veneziane”: la terza è Il signor Bruschino, nella cui sinfonia i violinisti battono l’archetto sui leggii, e L’inganno felice terrà la scena tutto il Carnevale), e nel 1813, anche la sua Semiramide; il Teatro La Fenice, le prime rappresentazioni di molti successi di Giuseppe Verdi (nel 1844, l’Ernani; nel ’46, Attila; nel ’51, Rigoletto; nel ’57, Simon Boccanegra; e quattro anni prima, la Traviata, che tuttavia fu un fiasco). Infine, la città, ha anche ospitato nel 1951, per ricordare anche quella che forse è la sua performance più recente, la prima assoluta di The Rake’s Progress di Igor Stravinskij, in quella che ormai era rimasta la sua ultima sala; e che oggi, mentre scriviamo, è anch’essa tristemente perita e tuttora lontana dal risorgere. Nel Settecento, invece, di teatri ne esistevano ancora 14, tra grandi e piccini; il loro quartiere prediletto era il sestiere di San Marco, lungo la riva sinistra del Canal Grande, dove, a pochi passi l’uno dall’altro, se ne succedevano ben cinque, tutti intitolati a personaggi di devozione: San Samuele, Sant’Angelo, San Luca, San Giovanni Grisostomo, San Benedetto36. Del resto, alla città le chiese, e i patronimici di santi veri o presunti, non hanno davvero fatto mai difetto; ancora oggi, nonostante i 28 distrutti durante la dominazione napoleonica e i 142 incamerati dal demanio, possiede quasi un luogo sacro per ogni santo, angelo, apostolo o profeta, sia maggiore che minore; e alcuni, come a fine Seicento stupiva lo scrittore e viaggiatore François Maximilien Misson, perfino «dedicati a santi non canonizzati: si chiama così la chiesa intitolata all’onesto uomo Giacomo, ai profeti Mosé, Samuele, Geremia, Daniele, Zaccaria». Attualmente, le chiese sono ancora più di un centinaio (119 ne elenca la “Guida rossa” del Touring Club Italiano37, che resta la fonte più esaustiva ed affidabile: almeno fin quando il nostro paese non riuscirà a completare una catalogazione più completa, o anche soltanto meno sporadica e casuale, del proprio patrimonio; e cioè della sua più importante risorsa: l’unica che lo renda davvero diverso da ogni altro); ma il turismo di massa, e anche di questo parleremo, di tutte queste chiese ne conosce e ne frequenta soltanto una dozzina, o poche più. In quello stesso secolo, che è tempo in cui «il confine tra libertà e arbitrio si sfuma, nelle luci ambigue della decadenza veneziana»38, e di cui Giacomo Casanova, «ridotto a spia del Consiglio dei Dieci», ci lascia una descrizione assai colorita «dei teatri e delle stanze» («donne di mala vita e giovani prostituti commettono [...] quei delitti che il governo, soffrendoli, vuole almeno che non sieno esposti all’altrui vista»39), nasce anche La Fenice, in violazione di una legge del 1753 che limitava il numero delle sale alle sette allora esistenti: la Nobile Società, estromessa nel 1787 dalla proprietà del Teatro San Benedetto ceduto ai proprietari del fondo su cui sorgeva, Nicolò e Alvise Venier, decide, appena due giorni dopo, di edificarne uno nuovo, che fosse non solo «il più bello di Venezia, ma gareggiasse fra i primi d’Italia, vuoi per la grandiosità e la qualità della costruzione e della decorazione, vuoi per la sontuosità degli spettacoli»40. Per farlo nascere nel centro geografico della città, si scava un canale e si distruggono alcune case: sarà il primo teatro-monumento, con la facciata costruita in marmo; e le sue Sale Apollinee, quasi il simbolo stesso del lusso e della gioia di vivere. Per realizzare il pur discusso progetto dell’architetto Giannantonio Selva, prescelto in un concorso tra altri 27, bastano appena quattro anni: il teatro è inaugurato il 16 maggio 1792, nel giorno della Fiera dell’Ascensione e cioè di una tra le più importanti solennità celebrate a Venezia, con l’opera I giochi d’Agrigento (oggi dimenticata: nemmeno un’incisione in commercio) di Giovanni Paisiello, autore napoletano che all’epoca andava per la maggiore, assoldato prima come direttore di corte da Caterina ii a Pietroburgo, in seguito incaricato perfino della cerimonia del Sacre, l’incoronazione, a Parigi, di Napoleone in Nôtre Dame. Ecco quale, e quanta, è (stata) la storia musicale veneziana. Dapprima, la capitale della polifonia (quando, alla morte di papa Leone x de’ Medici, 1521, i cantori della Cappella Sistina si disperdono); poi, il luogo dove viene ideato un genere musicale nuovo, come il melodramma. Lo inventa, facendo debuttare la voce solista in teatro, Claudio Monteverdi, maestro di cappella in San Marco dal 19 marzo 1613 (assunto un mese dopo la morte del predecessore, Giulio Cesare Martinengo; e non senza che i procuratori della Basilica l’avessero convocato per un’audizione preventiva, finita, logicamente, nel migliore dei modi: con l’incarico e il pagamento di ben 50 ducati come spese di viaggio). A Venezia, dove è sepolto ai Frari, nella cappella dei Milanesi, restano tra l’altro celebri la sua Messa in San Marco per la cessazione della peste, 1631; come anche l’Apollo in casa Bembo, 1620; Il combattimento di Tancredi e Clorinda, 1624, e la Proserpina rapita, 1630, entrambi in Palazzo Mocenigo, ma, stando ad altre fonti, la seconda a Ca’ Dandolo, divenuta oggi l’albergo Danieli: di quest’ultima, vive ancora il libretto di Giulio Strozzi, purtroppo, però, non lo spartito. L’Incoronazione di Poppea, l’ultimo grande lavoro di cui rimangono due manoscritti (a pubblicarla, fu Malipiero; oggi sappiamo che molti brani sono di pugno, forse trascritti, del migliore allievo di Monteverdi, Francesco Cavalli), fu creata per il Teatro dei Santi Giovanni e Paolo, di cui sopravvive ancora una pianta; e ci mostra una scena tanto grande da occupare un intero lato della sala, con le poltrone convergenti, a formare quasi una prospettiva. 31 Ivi. 32 In Venezia, cit. 33 Victor Ravizza, alla voce Willaert, in Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, cit. 34 Taddeo Wiel, I Teatri musicali veneziani del Settecento. Catalogo delle opere in musica rappresentate nel secolo XVIII in Venezia (1701-1800), Venezia, Visentini, 1897 (Sala Bolognese, Forni, 1978, Bibliotheca musica Bononiensis. Sez. 2). 35 Damien Colas, Rossini. L’opéra de lumière, Paris, Gallimard, 1992 (Découvertes Gallimard); Rossini, l’opera e la maschera, traduzione di Alessandro Di Profio, Milano, Universale Electa-Gallimard (Trieste, Editoriale Lloyd per EinaudiGallimard), 1999. 36 Maria Teresa Muraro, Gran Teatro La Fenice, Venezia, Corbo e Fiore, 1996. 37 Venezia, Milano, Touring Club Italiano, 19853 (Guida d’Italia). 38 Francesco Sforza, Grandi teatri italiani, presentazione di Carlo Maria Badini, Roma, Editalia, 1993. 39 Ivi. 40 Pietro Faustini, Memorie storiche ed artistiche sul «Teatro La Fenice», in Venezia, Venezia, A. Pellizzato, 1902. 2.3) Per la prima volta al mondo, la musica diventa un’industria Sì, Venezia era la città di cui, insieme con quasi tutto il resto, anche le musiche strabiliavano: ecco allora, ad evocarne una soltanto, una Messa a quattro cori per l’ingresso in San Marco (1587) degli ambasciatori giapponesi. Era la città dove un viaggiatore inglese del Seicento, Thomas Coryat, poteva raccontare d’aver ascoltato musica per tre ore nella Scuola grande di San Rocco, in un concerto con ben sette organi, dieci tromboni, quattro cornetti, due viole ed un solo, miserrimo violino. E la sua fama, quella dei secoli andati, dura, e nemmen poco, ancora oggi. Tanto che, tra le incisioni discografiche accolte con maggiore successo, si moltiplicano le ricostruzioni, spesso anche alquanto artificiose, ma dove, evidentemente, il richiamo della città dei dogi promette buoni ritorni. Così, esistono una Messa veneziana di Pasqua («come potrebbe essere stata celebrata nella Basilica di San Marco, attorno al 1600»: musiche di Giovanni Gabrieli e Orlando di Lasso, edizione Archiv), e, insieme a molto altro, Lo sposalizio, Le nozze di Venezia con il mare («come potrebbe essere stato celebrato nel giorno dell’Ascensione del 1600»: grossolana compilation con brani di Andrea e Giovanni Gabrieli, Cesario Gussago, Gioseffo Guami, Lodovico Grossi da Viadana, Tiburtio Massaini, Giovanni Girolamo Kapsberger e Monteverdi, edizione Hyperion): e se di alcuni di questi autori non è nemmeno certa la presenza a Venezia, mentre altri vi hanno almeno pubblicato i loro brani, davvero degno di nota è quel sottotitolo «come potrebbe» essere stato eseguito, ad indicare l’assenza di qualsiasi certezza, con la conseguente arbitrarietà della presunta ricostruzione. Di indubbio maggior rilievo, invece, altri recenti, ed assai fortunati, recuperi discografici: il Requiem alla maniera veneziana di Benedetto Marcello, eseguito per la prima volta alla Scuola grande di San Rocco, in età moderna, il 12 settembre 1996, e ricomposto assemblando brani diversi di tre differenti archivi musicali (disco Chaconne per Chandos, serie Early music); e, soprattutto, le undici arie vivaldiane, di opere non più eseguite e ormai scomparse, recentemente incise (per la Decca, con il complesso Il Giardino armonico diretto da Giovanni Antonini) dal mezzosoprano romano Cecilia Bartoli, e tratte da frammenti manoscritti ritrovati in svariati collezioni e archivi del mondo, tra cui anche alcuni di quelli, ahinoi quasi del tutto inaccessibili agli studiosi, di conservatori italiani. È nel Seicento, dunque, e proprio a Venezia che, anche alla «ricerca di nuove sedi fuori dai palazzi, si afferma un nuovo modo di ricevere e consumare la musica» 41. Un musicologo attento, Sandro Cappelletto, per giunta anche veneziano, spiega che nei Passatempi per cembalo commissionati a Baldassarre Galuppi nel 1781, in occasione dell’arrivo in laguna dei duchi del Nord da Pietroburgo (il futuro zar Pietro i e sua moglie, dei quali sia Francesco Guardi, sia Antonio Baratti immortalano lo splendido ricevimento al Teatro San Benedetto), si realizza una significativa «sintesi tra produzione, nuova edizione, distribuzione, consumo e innovazione»42; ed aggiunge che, «l’industria» della musica «è nata a Venezia nel febbraio 1637, quando una compagnia di attori e cantanti romani chiede in affitto il Teatro San Cassiano, e inventa il teatro pubblico a pagamento». Va in scena l’Andromeda di Francesco Mannelli (1595-1667) e Benedetto Ferrari (1597-1681): è la prima opera lirica al mondo cui, per assistere, si paghi il biglietto, quando «i Barberini e i Rospigliosi chiamavano Bernini per fare le scene dei loro spettacoli, toglievano le panche da tutte le chiese di Roma per far sedere i 3.500 spettatori del Teatro Barberini alle Quattro Fontane, ma tutto questo facevano per motivi di rappresentanza, di immagine politica»43. Il Teatro San Cassiano viene invece affittato per gli schei, i quattrini, e quindi bisogna fare anche i conti con la produzione: così, tra gli interpreti ecco gli stessi autori, con la moglie di Mannelli, Maddalena, celebre cantante44. Intraprendenza premiata: l’anno successivo, Mannelli è infatti assunto quale basso nella Cappella di San Marco; lavora per i teatri veneziani e di Bologna, prima di trasferirsi a Parma, come cantore di corte, e di diventarvi, infine, maestro di cappella. Così nasce un’industria. Ancora Cappelletto certifica che «come racconterà Benedetto Marcello nel 1720, nel suo Il Teatro alla moda, mettere su un’opera significa dare lavoro a una quantità enorme di gente: falegnami, architetti, scenografi, pittori delle scene, imprese di pulizia, maestri ripetitori, musicisti, cantanti, venditori di biglietti, e perfino di candele per illuminare il teatro, stampatori»; inoltre, tanti viaggiatori internazionali vengono a Venezia «proprio per assistere a questo nuovo fenomeno, dello spettacolo pubblico a pagamento». La consapevolezza della cultura musicale come industria è ancor viva nel 1792, continua il musicologo, «quando, in un momento politico certamente assai difficile per lei, Venezia, ribadendo l’autonomia della creatività culturale rispetto alle sorti della politica, inaugura La Fenice»; e la fiducia nella “fabbrica del pentagramma” come possibile volano economico «esiste ancora nel 1836, quando La Fenice brucia e viene ricostruita in un anno»45: altro che quanto succede adesso e che, più avanti, esamineremo maggiormente nel dettaglio. Comunque, «oggi, la musica non serve ormai più come industria, non produce più margini di profitto». E, purtroppo, non solo a Venezia, dove, almeno come fenomeno di produzione, è ormai abbondantemente tramontata. Gli ultimi sprazzi, nella città della Laguna (che, nel 1883, fu anche la prima in Italia a ospitare l’integrale del Ring di Richard Wagner, l’Anello del Nibelungo: doveroso omaggio a chi vi aveva trascorso gli ultimi suoi sprazzi, dirigendovi il 24 dicembre 1882, un mese e mezzo prima d’andarsene, la propria Sinfonia in do maggiore, per celebrare il compleanno della moglie Cosima), risalgono ormai a mezzo secolo fa. Durante il fascismo, la personalità di Gian Francesco Malipiero (nato nel 1882, e deceduto nel 1973: proprio l’anno in cui Benjamin Britten compone Morte a Venezia) domina e garantisce autonomia: «Ha avuto gesti di un coraggio politico e culturale straordinario: ha fatto eseguire Schönberg alla Biennale, quando Schönberg era già musica degenerata nella Germania nazista»46. Ma, non troppo dopo, altri due importanti musicisti veneziani, Bruno Maderna (1920-73) e Luigi Nono (1924-90), sono costretti ad emigrare, poiché la città già non offriva più loro l’indispensabile. Ancora Cappelletto: «Maderna fonda con Luciano Berio il Centro di fonologia della Rai di Milano, e poi va a lavorare ad Amsterdam; Nono invoca un Centro a Venezia, ma cambiano tutte le giunte comunali e non se ne fa mai niente; compone e mette in scena un Prometeo per la Biennale del 1984, e poi va a lavorare, ed a realizzare le sue opere, al Centro di fonologia di Friburgo»47. L’ultimo grande sprazzo della musica a Venezia data forse al 1951: quando, l’11 settembre alla Fenice, Igor Stravinskij, tanto innamorato della città da eleggerla come proprio definitivo domicilio (al sepolcro, penserà Giacomo Manzù) accanto al compatriota Sergej Diaghilev, creatore dei Ballets Russes, vi fa eseguire l’attesa prima di The rake’s Progress, la Carriera d’un libertino. Oggi, e lo vedremo, a rappresentare la musica intesa come industria, oltre a un teatro sotto un padiglione da circo restano quasi esclusivamente, ed è francamente abbastanza poco, le varie orchestrine, più o meno in costumi settecenteschi, e dal suono e repertorio più o meno barocchi, certo assai maggiormente dedicate alle frequentazioni (e alle orecchie) dei turisti, che non alla brama di conoscere dei musicologi. 41 Roberto Leydi, Encyclomedia, enciclopedia multimediale a cura di Umberto Eco, vol. v, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 1999. 42 Nel dibattito L’industria culturale a Venezia, promosso da Venezia 2000 Cultura e impresa e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia (Incontri per Venezia, 3), Venezia, Ca’ Mocenigo Gambara, 31.10.1998. 43 Sandro Cappelletto, ivi. 44 Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, cit. 45 Cappelletto, cit. 46 Ivi. 47 Ivi. 2.4) Tanti teatri (anche singolari), tante compagnie, tante feste Probabilmente meno complesso, ma certo non meno nobile, è invece il discorso per un altro (antico) “reparto” della “fabbrica” dell’arte e della cultura a Venezia, cioè quello che riguarda il teatro. Anche qui, conviene forse partire da uno dei momenti più “alti” della Serenissima, il XVI secolo. Quando, in «una città che in seguito avrà un’importanza capitale nella storia del teatro europeo»48, il «tema del teatro stabile è posto», tra i primi nel mondo, «da una delle menti più fervide, Alvise Cornaro, circa nel 1560, come nucleo di ristrutturazione dell’intero Bacino di San Marco; il teatro è presentato dal Cornaro entro un sistema che abbraccia tutto il rapporto fra la città e la terraferma». L’idea è di «fabbricare un’isola sulla barena che separa i due corsi d’acqua principali che attraversano il bacino, e in questa erigere un teatro all’antica, con una scena stabile che prospetta su una “piazza che sarà nel mezo circondata da gradi per sedere, che saranno tanti in numero che ognuno haverà luogo”. Il teatro è visto come un centro di vita pubblica, opposto allo spettacolo più o meno privato», ed ha la funzione «non solo di rendere accessibile a tutti ciò che ora appartiene a pochi, ma anche di sollevare il pubblico da feste e spettacoli, gare e divertimenti, ritenuti “brutti, bassi e vergognosi”»49. Del resto, «il teatro di pietra di Alvise Cornaro era stato preceduto da altri, in legno o su zatteroni galleggianti» che già avevano percorso le acque della laguna (lo rifaranno Aldo Rossi e Maurizio Scaparro, molti secoli dopo: lo vedremo più avanti, parlando della Biennale). Un teatro, ai Santi Giovanni e Paolo, l’aveva costruito Giorgio Vasari nel 1542, appositamente perché la Compagnia dei Sempiterni potesse recitarvi la Talanta di Pietro Aretino; e il 27 febbraio 1565, per l’Antigone messa in scena dalla Compagnia degli Accesi, lo stesso Andrea Palladio edificherà un luogo provvisorio, «un mezzo teatro di legname, ad uso di Colosseo». Anche perché, allora, ogni occasione era buona non soltanto per fare festa, ma anche per far teatro: nel 1515, nel cortile di Palazzo Pesaro, a San Beneto, tocca, per esempio, al Miles gloriosus di Plauto, e nel convento di Santo Stefano un «gruppo di homeni dotti, zoveni populari»50 recita l’Asinaria; cinque anni più tardi, sarà la volta ancora di Plauto e Terenzio, a Palazzo Loredan. Ma un giorno, a Palazzo Arian, una pièce viene fischiata, perché contiene troppe «parole sporche»; e, nel 1533, alla festa nuziale di Francesco Diedo, un altro spettacolo troppo osé provoca uno stop del Consiglio dei Dieci, che rimettono in vigore il divieto di recitare commedie, peraltro davvero assai provvisorio o almeno assai poco osservato, come ben ricorda Alvise Zorzi51. Contro il teatro, e i teatri, si schierano, in particolare e abbastanza comprensibilmente, i Gesuiti: scendono in campo ad avversare gli spettacoli, a loro giudizio troppo sboccati, e i palchi, per le «molte scelleratezze, con scandolo» che assumevano vi si commettessero e consumassero. Allora, dedicate totalmente alla prosa, esistevano due vecchie sale, a San Cassiano e ai Crociferi, più altre due, secondo Francesco Sansovino bellissime, «l’una in forma ovata e l’altra rotonda, capaci di gran numero di persone»52. Fa un certo effetto leggere, oggi, che, per esempio, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, la città possedeva (le aveva contate Lionello Venturi) ben 23 Compagnie della Calza, cioè associazioni di giovani patrizi con il compito precipuo, se non addirittura esclusivo, di organizzare feste e banchetti. Nel 1533, Marino Sanudo elenca ben 34 accolite di questo tipo. E restano celebri certe accoglienze in onore dei potenti in visita che, come vedremo, dureranno finché durerà la Repubblica: per il corteo acqueo dedicato al duca d’Urbino, nel 1542, viene perfino sospesa la domenicale seduta del Maggior Consiglio. E poi, va soprattutto ricordato Carlo Goldoni: quando nasce, all’inizio del XVIII secolo, almeno quattro teatri, a Venezia, offrivano delle rappresentazioni quotidiane; pur essendo figlio di medico, qualche gene doveva «pur possederlo, se il nonno materno campava, così almeno si racconta, girando per città e paesi con le marionette»53, e se la sua vocazione si manifestò davvero precocemente, in modo magari furtivo, perfino prima della conclusione del previsto iter di studi. All’epoca, gli impresari erano i proprietari degli stessi teatri: i Tron, i Michiel, i Grimani del San Giovanni Grisostomo, i Giustinian del San Moisé, i Vendramin del San Luca, più tardi anche i Venier del San Benedetto. Dopo il primo successo a Milano, con il Belisario, a significare quanto spesso – già allora – i generi fossero commisti, gli tocca di adattare una Griselda, opera lirica di Apostolo Zeno messa in musica da Vivaldi. E nel teatro italiano, dopo aver ben studiato quello francese e segnatamente Molière, apporta due novità: toglie la maschera agli attori, e scrive l’intero copione, battuta per battuta; all’epoca, non usava ancora. Come altri suoi contemporanei, Canaletto, Longhi, o Guardi, rappresenta, dei suoi concittadini e della società in cui vive, i vizi ed i difetti; più raramente, anche le virtù; «dal palcoscenico della vita quotidiana, trasferisce i propri personaggi su quello del teatro»54. Ma è chiaro che «il realismo dava fastidio, e la conservazione si difendeva come è, in questi casi, sua consuetudine»55. E così, Giuseppe Baretti (1719-89) lo accusa «di essere andato a pescare nella livrea e nelle botteghe il prototipo dei galantuomini»56; tra i contemporanei che gli sono avversari e rivali, non mancano nemmeno Gaspare e Carlo Gozzi (tra l’altro, anche gestori, finché non devono rinunciarvi per gli scarsi affari, del Teatro Sant’Angelo). Né è forse un caso che Gaspare Gozzi fosse anche tra quanti avversavano l’altro “cantore”, ma su tela, della Venezia d’allora, Pietro Longhi: con un assai icastico ossimoro, chiamavano le sue opere «imitazioni inventate»57. E invece, i due perseguivano lo stesso modo «“di osservare, e di riflettere e di ritenere”, che è un “effetto del genio comico”, il quale “proviene dalla natura”»58. La loro, era una Venezia borghese e prospera: un terzo dei 140 mila abitanti, è stato calcolato, vi conduceva una vita agiata59. La città possedeva diecimila domestici (come se oggi, in tutt’Italia, fossero quasi quattro milioni); altrettanti addetti nel settore del tessile e dell’abbigliamento; un numero analogo di botteghe alimentari, più 800 di vestiario; tanta manodopera specializzata impiegata dai grandi atelier statali, tra cui soprattutto l’Arsenale e la Zecca. I patrizi maschi sopra i 25 anni, che sedevano nel Maggior Consiglio, costituendo così il corpo sovrano della Repubblica, erano un migliaio: 216 famiglie, suddivise in 667 casate60 (antichissime abitudini di supremazia: nel Trecento se ne contavano un centinaio di famiglie, di rilevante ricchezza, cui si potevano paragonare solo sei famiglie di ceto borghese61). Quelli che oggi chiameremmo i “marginali” erano circa 20 mila; l’intero Stato contava su quasi tre milioni di sudditi. La città proteggeva se stessa anche prescrivendo che un immigrato, il quale «volesse divenire cittadino, acquisendo così i diritti commerciali veneziani, salvo casi particolari dovesse risiedere a Venezia» per la bellezza di 25 anni consecutivi62; del resto, «la classe dirigente di Venezia era costituita di ricchi mercanti, e il governo si impegnò a proteggere i loro interessi»63. Spesso, la città degli ultimi dogi aveva per palcoscenico la strada. Le feste solenni; i grandi ricevimenti; le sagre; le regate; le lotte sui ponti; perfino le cacce ai tori; e quella lunghissima, quasi interminabile, mascherata di cui parleremo a parte, cioè il Carnevale, che calamitava frotte di visitatori e durava sei mesi. Le grandi famiglie ostentavano il loro potere, anche festeggiando; la stessa Repubblica offriva ricevimenti che coinvolgevano l’intera città, e sono, giustamente, passati alla storia; magari, li offriva anche a personaggi non di primissimo rango, ma pazienza. Del resto, più che non ad épater il visitatore, spesso l’accoglienza serviva a fini assai squisitamente diplomatici. Antonio Morosini, forse il primo vero cronista veneziano, ci racconta della visita dell’imperatore Sigismondo, venuto nel 1397 per ottenere alleanza e soprattutto aiuti in danaro: «Gli fu preparato l’alloggio nei due Palazzi Corner e Dandolo, oggi, sotto il nome di Ca’ Loredan e Ca’ Farsetti, sede del Comune, fra i quali fu costruito un ponte per passare dall’uno all’altro; per il mantenimento dell’imperatore e del seguito, per 15 giorni, e per i doni, si spesero in tutto 20 mila ducati d’oro; ma, in compenso, non gli si concesse nulla di quanto chiedeva»64. I grandi ricevimenti erano feste importanti, e ricorrenti. Soltanto nel secolo del proprio epicedio, la Serenissima ne organizza in onore di Federico IV di Danimarca nel 1710; del principe ereditario di Modena dieci anni più tardi; nel 1738, per la regina delle due Sicilie; nel 1749, per i duchi di Modena; nel 1753, è la volta del principe ereditario di Brandeburgo Federico Cristiano e di quelli di Württemberg-Stuttgart; nel 1754, per il duca di Ponthièvre; l’anno dopo, per i margravi di Brandeburgo; nel 1767, per il duca Carlo Eugenio di Württemberg; 1769: l’arciduchessa Amalia, sposa del duca di Parma; 1770: i granduchi di Toscana; 1771: il principe Saverio di Sassonia; 1775: l’elettore palatino, i duchi di Gloucester e l’arciduca Ferdinando; 1777: il principe Federico Adolfo di Svezia; 1782: i granduchi di Russia e conti del Nord; 1783: il principe Federico Luigi di Württemberg65. E proprio il Carnevale del 1796, l’ultimo prima che arrivi Napoleone e ne sopprima la celebrazione, è singolarmente ricordato come forse il più sfrenato di tutti, da tanti secoli in poi. E ancora: uno studio comparato tra i committenti di Pietro Longhi e la «griglia politicopatrimoniale, le “situazioni e le ricchezze” messa a punto da Giacomo Nani San Vidal intorno al 1750 allo scopo di “saggiare” il corpo aristocratico della Repubblica»66, indica che dei 21 mecenati dell’artista che è possibile individuare, dieci appartengono alla prima classe nobiliare (famiglie «assai ricche»), sei alla seconda (che hanno «più del loro bisogno»), cinque alla terza (che hanno «il loro bisogno»); e nessuno, logicamente alle due rimanenti classi. Non solo: il “tasso di penetrazione” delle tele del Longhi nelle famiglie di ciascuna classe, era del 22 per cento nella prima, del dieci per la seconda, e appena del tre per cento nella terza classe. Forse, anche calcoli simili a questo, quando ormai il patriziato veneziano è abbondantemente tramontato almeno nelle proprie ricchezze e le sue storie sono buone per gli archivi o per l’indagine del passato, possono spiegare qualcosa della crisi che la città ha cominciato da tempo a vivere (ricordate Isnenghi? L’inizio della recessione è il declassamento da capitale a provincia del nuovo Stato italiano), e che ha provocato la fine di tanti sogni, per secoli avveratisi, di gloria. O anche sogni, a lungo realizzati, di arte e di cultura. 48 Carlo Bertelli, Da Sforzinda a Thélème, itinerario rinascimentale, in La città Gioiosa, Milano, Libri Scheiwiller (Garzanti per il Credito Italiano), 1996. 49 Ivi. 50 Zorzi, La Stampa, cit. 51 Ivi. 52 Francesco Sansovino, Venezia città nobilissima e singolare, Venezia, 1581 (rist. anast., Venezia, Filippi, 1968). 53 Paolo Scandaletti, Venezia è caduta, Vicenza, Neri Pozza, 1997. 54 Ivi. 55 Vincenzo Ceppellini, Due figli del loro tempo, in Venezia, Milano, Giorgio Mondadori, 1999 (allegato a «Bell’Italia», 1999, n. 40, settembre). 56 Ivi. 57 Adriano Mariuz, Pietro Longhi: «un’originale maniera», in Pietro Longhi, catalogo della mostra omonima (Venezia, Museo Correr, 4 dicembre 1993-4 aprile 1994), a cura di Adriano Mariuz, Giuseppe Pavanello e Giandomenico Romanelli, Milano, Electa, 1993. 58 Ivi, citando di C. Goldoni la prefazione al v tomo delle Commedie, Venezia, Pasquali, 1761-78 (cfr. Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di Giuseppe Ortolani, i, Milano, Mondadori, 1935). 59 Giovanni Scarabello, La società veneziana settecentesca, in Pietro Longhi, cit. 60 Ivi. 61 Luzzatto, Storia economica di Venezia, cit. 62 Frederic C. Lane, I mercanti di Venezia, traduzione di Enrico Basaglia, Torino, Einaudi 1982 (Biblioteca di cultura storica), poi 1996 (Tascabili, Saggi) (da Andrea Barbarigo, Merchant of Venise, Baltimora, Johns Hopkins Press, 1944, Venice and History, Baltimora, Johns Hopkins Press, 1969, e Rythm and Rapidity, 1949): citazione desunta da Pompeo Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, Torino 1880 e Bergamo 1922 e 1926. 63 Dennis Romano, Patricians and Popolani. The social foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore, The John Hopkins University Press, 1987, Patrizi e popolani. La società veneziana nel Trecento, traduzione di Mario Sepa, Bologna, Il Mulino, 1993 (Biblioteca storica). 64 Luzzatto, Storia economica di Venezia, cit. 65 Gino Benzoni, Verso la fine? A proposito dell’ultimo secolo della Serenissima, in Venezia, itinerari per la storia della città, cit. 66 Piero Del Negro, «Amato da tutta la Veneta Nobiltà»: Pietro Longhi e il patriziato veneziano, in Pietro Longhi, cit. 2.5) Da Carlo Goldoni alla “nuova arte”, il cinema Ma torniamo a Goldoni: ai suoi capolavori che hanno sicuramente contribuito a nobilitare un idioma dialettale il quale, all’epoca, era perfino qualcosa di più (parlando della «costa adriatica fino in Albania», Enzo Bettiza, che è profondamente dalmato, osserva come, ancor oggi, «anche chi non ne conosce il dialetto, ne utilizza termini, specialmente marinari, che derivano dalla parlata veneziana: per esempio, “puppa” anziché “poppa”»)67. Ed hanno concorso a trasformare Venezia in una vera capitale europea dello spettacolo, nel medesimo periodo in cui, a soli sedici anni e quindi nel 1741, nella chiesa di San Samuele proprio antistante a Palazzo Grassi, il dottissimo abate Giacomo Casanova tiene la sua prima predica68, al termine della quale «raccolse denaro e biglietti d’amore dalle donne accorse in gran numero ad ascoltarlo», dando così inizio a una nuova, e ben più rinomata sua fase dell’esistenza. I principali titoli di Goldoni ne segnano, passo a passo, l’esistenza: dalle Baruffe chiozzotte, a Sior Todaro brontolon, dal Servitor di due padroni, alla Bottega del caffè, ai Rusteghi; all’elogio esplicito che gli tributa Voltaire; a una prima sospensione della sua attività (per tre anni, torna addirittura a fare l’avvocato a Pisa: che ogni città, ed ogni stagione, abbiano il proprio “Avvocato”?); fino alla troppa concorrenza, al nuovo modo di mettere in scena teatro, al suo abbandono dei campielli e dei campi (anche di battaglia) veneziani: finisce per fare il direttore del teatro italiano di Parigi. E non molto spesso un esilio s’è rivelato altrettanto provvidenziale: ritroverà il successo, insegnerà l’italiano alle figlie del re, alloggio a corte, ottimo stipendio di seimila franchi all’anno. Tuttavia, ben presto perduti al gioco; e in soli tre anni, Goldoni, il grande commediografo dell’epoca sua, si gioca anche il posto. Dalla polvere, per un’ultima volta, ritorna agli altari: nel 1771, Luigi XVI sposa Maria Antonietta; lui scrive in francese Il burbero benefico, che alla Comédie Française tiene il cartellone – nient’affatto male – fino al 184869. Restano ancora le Memorie, finché la Rivoluzione non gli toglie la pensione reale; e ci rimangono 120 opere per il teatro, e altrettante in versi, per gli intermezzi e quant’altro; Baldassarre Galuppi ne fu il musicista ufficiale: un po’ come Jean-Baptiste Lully lo era stato per le comédie-ballets di Jean-Baptiste Poquelin, passato alla storia con il nome di Molière. Nessuno di quanti verranno più tardi, per esempio Giacinto Gallina, non solo non riuscirà ad essere paragonato a lui, ma non porterà nemmeno gli stessi benefici, perfino a livello internazionale, alla popolarità della città. A quell’epoca, Venezia, l’abbiamo detto, possedeva parecchie compagnie di attori, numerosi teatri (a inizio Ottocento, il San Giovanni Grisostomo diverrà perfino il Teatro Emeronitto, perché aperto giorno e notte), molteplici sale. Oggi, e lo vedremo, gliene sono rimaste assai di meno; anzi, davvero pochissime. Ma le prime che se ne andarono, lo fecero per convertirsi alla nuova “musa”: a quel nuovo grido dell’arte che è (stato) il cinema. Oddio: Carlo Ponti diceva che «se un film ha successo, è un affare; se non ha successo, è arte»; ma pazienza; d’altro canto, «per essere considerato un classico, un film deve riuscire a far sbadigliare almeno tre generazioni di spettatori», ha spiegato un giorno Marco Ferreri. Il cinema, a Venezia sbarca prestissimo: i fratelli Jean-Louis ed Auguste Lumière costruiscono la loro prima macchina da proiezione nel 1895, e in quella che ormai era stata la Serenissima, città all’epoca evidentemente assai più à la page di quanto non sia adesso, i primi spettacoli precedono perfino il nuovo secolo: al Minerva, il primo data addirittura al 9 luglio 189670; e alla Birreria Santa Chiara, erano perfino gratuiti. Non solo: nel 1900 e 1901, lo stesso Teatro Minerva, diversificando il pubblico da quello proprio abituale, ammette le signore a «serate nere» in cui ammirare le «celebri raffigurazioni della parigina che si sveste nella sua toilette notturna»71, mostrate «con vedute nitide e interessanti», anche se la strada maestra del cinema per affermare se stesso non sarà quella dell’assalto alla pruderie, fenomeno tutto sommato sempre abbastanza d’élite, bensì quella popolare e di massa, «ambitissimi i pubblici familiari, le scolaresche, le caserme»72. E già nel 1906, allo stesso cinematografo Lumière, cioè il fu Teatro Minerva, i veneziani possono perfino beneficiare del piacere di vedere se stessi: Approdo di una gondola ai Ss. Giovanni e Paolo, I vaporetti di Rialto e Piccioni di San Marco sono i primi film della storia, di tantissimi a sfondo veneziano. E nel 1911, al cinema capitolerà, perfino, anche La Fenice; ma proiettando – almeno questo – pellicole istruttive e patriottiche. Nessuno pensava, ancora, che un giorno, al Lido, vi sarebbe stato perfino un Festival internazionale dei più importanti al mondo. Grazie al quale, la città, che da tempo aveva cessato di essere una capitale almeno per i commerci e la politica, si è ritrovata ad esserlo di nuovo: una sorta di capitale del cinema. Infatti, con lo scopo dichiarato di «portare la nuova arte del cinema allo stesso livello delle altre arti», nel 1932, al Lido, si inaugura la prima Mostra internazionale dedicata al “grande schermo”: un’iniziativa che, allora (oggi, ci sono i festival di Cannes, Berlino, ed altri ancora), non aveva riscontro in nessuna altra parte del mondo. Per i più curiosi, il primo anno non furono distribuiti premi di sorta; vennero proiettati circa 40 lavori73, tra cui À nous la liberté di René Clair, Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, e Assisi, un documentario di Alessandro Blasetti. Ma oltre che per questo, Venezia è stata capitale del cinema anche perché, ha scritto Pier Maria Pasinetti74 «è probabilmente la città più fotografata al mondo»: nel tempo, vi sono state girate e ambientate almeno mille pellicole (prima tra tutte, ancora ai primi albori della nuova arte, quella di un operatore di fiducia della premiata imagerie Lumière, Albert Promio75), che ora, assai lodevolmente si stanno collezionando in una videoteca giustamente intitolata al nome di Francesco Pasinetti, appunto un artista del cinema veneziano, scomparso nel 1949. La videoteca (alla quale il bilancio di previsione del Comune riesce purtroppo a destinare appena 20 milioni all’anno) possiede già 2.039 pellicole, un migliaio delle quali dedicate a Venezia, «in una città dove, per esempio, la Biennale non ha mai provveduto a raccogliere nemmeno tutti i film che ha premiato», come spiega chi si occupa di questa interessante iniziativa. Per un periodo poi, durante il fascismo ed anzi ormai al suo tramonto, la città che era stata dei dogi (e non a caso, L’ultimo Doge s’intitola un’agiografica biografia di Giuseppe Volpi, conte di Misurata, governatore della Tripolitania, ministro delle finanze di Mussolini, propugnatore del ponte automobilistico con la terraferma e dell’area industriale di Porto Marghera, proprietario di giornali, ma anche presidente della Biennale diventata Ente autonomo nel 193076), fu anche un luogo di qualche rilievo dell’industria cinematografica. La Scalera Film, i cui teatri di posa alla Giudecca, ormai da tempo ridotti a capannoni in assoluta rovina, sono stati abbattuti circa un anno fa, tra il 1941 e il ’52 produsse, o distribuì, dodici pellicole, alcune delle quali anche davvero di non secondaria grandezza: Amanti perduti di Marcel Carné (1945), I bambini ci guardano di Vittorio De Sica (1944), I commedianti di George Pabst e La nave bianca di Roberto Rossellini nel 1941, fino all’Otello di Orson Welles, che la società (dapprima, anche produttrice; ma dal 1947, solo distributrice, e perfino di due uniche pellicole in tutto) portò appunto nelle sale, come suo autentico canto del cigno, nel 1952. Era la fine, anche un po’ stiracchiata, di una tra le tante illusioni del Minculpop fascista: che, «in fuga da Cinecittà nel ’43, se ne potessero trapiantare in laguna usi e costumi, miserie e splendori»77. Rimangono le immagini dei bianchi vestiti di lino e seta di due sfortunati artisti, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Ma ancora prima, lo ricorda assai bene Leopoldo Pietragnoli78, nello stesso 1932 in cui debutta la Mostra del cinema, «si inizia l’attività del Cine Guf di Venezia – raccogliendo anche l’eredità di un Cine Club – che svolgerà, tra l’altro, un ruolo prioritario nel lanciare definitivamente in Italia il 16 mm quale formato ridotto ufficiale». La città di cui forse esistono più “pizze” («in Rai, possediamo 380 mila filmati: dallo spezzone d’attualità allo spettacolo di fama mondiale, che hanno per soggetto Venezia», certificava, ormai quasi vent’anni fa, Nino Vascon79), a quei tempi era debitamente fornita anche di sale dove fosse possibile vedere le pellicole. Prima che la tv ne mettesse in crisi il settore (se non perfino l’arte), il cinema a Venezia è giunto, nel 1972, a poter vantare addirittura 86 luoghi deputati alle proiezioni, contro i 15, più uno a tempo parziale che oggi le rimangono, e di cui soltanto quattro nel centro storico; come fosse una piccola borgata di provincia. Si chiamavano Modernissimo e Eureka (ma questi, erano già scomparsi negli anni quaranta), o Imperiale, Massimo, Garibaldi, Savona, Progresso, Santa Margherita, San Marco; ma né l’autorevolezza dei loro nomi, né perfino la protezione delle celesti figure cui erano spesso intitolati, sono stati sufficienti a salvarli. Ne parleremo quando esamineremo le tante crisi che la città sta oggi vivendo: per ora, dopo aver raccontato i pregi e le virtù che in laguna possedevano la musica, il teatro e il cinema, vediamo invece quali e quanti ha potuto vantarne la Biennale: è il nostro quarto, e penultimo, “c’era una volta”. 67 «Il Foglio quotidiano», 8.4.1997. 68 Venezia, allegato a «Bell’Italia», cit. 69 Scandaletti, Venezia è caduta, cit. 70 Mario Isnenghi, La cultura, in Emilio Franzina, Venezia, Roma-Bari, Laterza, 1986 (Storia e società). 71 Ivi. 72 Ivi. 73 Enzo Di Martino, La Biennale di Venezia 1895-1995. Cento anni d’arte e cultura, Milano, Giorgio Mondadori, 1995. 74 Ivi. 75 L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, catalogo della mostra (Venezia, 8-27 agosto 1983), a cura di Roberto Ellero, con la collaborazione di Norma Dalla Chiara, Mirano, Grafiche Tonolo, 1983. 76 Fabrizio Sarazani, L’ultimo Doge. Vita di Giuseppe Volpi di Misurata, Milano, Edizioni del Borghese, 1972 (Il nostro tempo). 77 Roberto Ellero, Offerta e domanda cinematografica. Il territorio veneziano: analisi e proposte, Venezia, Marsilio, 1978. 78 Venezia nel cinema di Francesco Pasinetti, Venezia, Comune di Venezia, 1997 (Quaderni della Videoteca Pasinetti). 79 L’immagine e il mito, cit. 2.6) Con la biennale, Venezia decolla un’altra volta La Biennale è «un brano importante, e anzi determinante, nella storia della Venezia moderna»80; e ancor oggi, la sua presenza è non soltanto significativa, ma anzi assolutamente fondamentale. Si tratta, infatti, della maggiore istituzione che a Venezia si occupi di cultura e di spettacolo; e le sue manifestazioni godono, quanto poche altre di quelle che vengono organizzate in laguna, di una vasta eco e di un largo credito internazionali. Non meraviglia, quindi, che molti, anche tra gli esperti e gli “addetti ai lavori”, per contribuire alla soluzione di almeno alcune tra le numerose (e gravi) crisi della città e specialmente del suo centro storico, contino e confidino, appunto, nell’apporto di questo ente, che fu fondato nel 1895, e la cui prima manifestazione venne inaugurata «alla presenza delle Loro Maestà»81, mentre assistevano anche, per dar conto dell’importanza che l’evento ebbe, il ministro della pubblica istruzione, che tenne la prolusione inaugurale, e Gabriele D’Annunzio, che riserva a sé una di quelle finali82. Allora, l’evento internazionale contribuì a far uscire la città da una stretta quasi esistenziale, che riguardava un po’ tutti i settori e che a quei tempi indubbiamente l’attanagliava, se nel 1851 era stata raccontata come «un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza, che qualche volta, quando ammiriamo il suo languido riflesso sulla laguna, rimaniamo incerti quale sia la città e quale la sua ombra»83, mentre, 35 anni prima, altri aveva potuto sostenere che «di tredici secoli di ricchezza e di gloria, non rimangono che ceneri e pianto»84: a tal punto la conquista da parte di Napoleone, e la pur breve stagione dell’occupazione austriaca, nonché soprattutto le nuove rotte dei mercati e delle navi, che grandemente penalizzavano l’Adriatico, avevano messo in ginocchio l’antica regina dei mari. E proprio nella porzione di Venezia che è “più mare”, cioè i Giardini e il Lido, s’insedia la nuova manifestazione. La lingua di sabbia dove a Venezia si fanno i bagni aveva già vissuto, e da tempo, il suo primo decollo. Assai prima che, nel 1938, vi sorgesse il Palazzo del Cinema, e anche uno degli antesignani tra gli aeroporti italiani (peraltro, distruggendo un singolare Camposanto dei Crociati, che risaliva al 1202), e che vi s’inaugurasse un luna park – come informano le cronache del tempo – con il concorso, davvero eccezionale per allora, di ben 50 mila persone, Massimiliano d’Asburgo l’aveva scelta, tanto era ancora isolato e deserto, quale suo buen retiro. E tra Massimiliano e la rinascita nel ventennio fascista, in tanti avevano cantato il luogo; tra gli altri, George Gordon, cioè Lord Byron, Alfred de Musset, Théophile Gautier, Percy Bysshe Shelley, per non dire di Thomas Mann. Il Lido era diventato di gran moda fin dalla metà dell’Ottocento; ha avuto nuovo impulso attorno agli anni trenta del nostro secolo, e anche più recentemente è stato protagonista di qualche buon revival, che ha contribuito, spesso, a rilanciare il mito della sua spiaggia: un mito all’interno del mito, assai più grande, che da sempre Venezia è. Come quando Luchino Visconti vi ambientò Morte a Venezia, trasferendo sul grande schermo la vicenda di Gustav von Aschenbach, il protagonista di Der Tod in Venedig di Thomas Mann, 1912, il quale, la prima volta che, arrivando per mare, si affaccia sul Bacino di San Marco, capisce subito di trovarsi nella «più inverosimile delle città». O come quando, più recentemente, Woody Allen l’ha scelta per girarvi Tutti dicono: ti amo. Il Lido e la laguna hanno costituito e rappresentato, da sempre e ancora oggi, un’ambientazione assolutamente incomparabile: anche l’anno scorso, la città è stata scelta da altri due importanti registi che vi hanno girato non poche scene di altrettanti loro film: Antony Monghella, con Matt Damon e Gwyneth Paltrow come protagonisti, e Hugh Hudson, con Kim Basinger e Vincent Perez. Ma torniamo alla Biennale: la stessa area dei Giardini, dove tradizionalmente si svolge la Mostra d’arte, è stata sicuramente trasformata, anzi quasi tenuta a battesimo, dall’importante manifestazione. La «facciata in gesso del primo padiglione con le sue dieci sale, a mo’ di tempio», viene «tirata su in fretta»85 dall’eccentrico pittore Marius De Maria, noto anche per la sua casa coi oci in gran bella vista alla Giudecca. E così nascono, spesso perfino all’inizio del secolo, i “padiglioni nazionali”, alcuni dei quali anche architettonicamente assai significativi (per esempio, quello canadese, opera dello studio Bbpr, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers, 1953; quello finlandese, di Alvar Aalto, 1956; quello svizzero, di Bruno Giacometti, 1952; quello del Venezuela, di Carlo Scarpa, 1956; il padiglione del libro, di James Stirling, 1991; quelli belga, francese, tedesco, inglese, russo e ungherese, del primo ventennio del Novecento); e anzi, parlando di Venezia, un grido d’allarme va elevato per le opere di Carlo Scarpa, di cui del resto la bellissima rivendita di libri della Biennale è già andata a fuoco negli anni settanta: il negozio Olivetti in Piazza San Marco, dacché ha mutato destinazione, è in pratica irriconoscibile, mentre invece era assolutamente un modello; il giardinetto angolare del Padiglione Italia, ai Giardini della Biennale, è stato descritto come «prossimo al crollo»86, e malmesso appare il padiglione del Venezuela; infine, è ormai totalmente e irrimediabilmente andato demolito l’arredamento originario della sua stessa abitazione in Rio Marin, ad opera di un ignaro e subentrante inquilino. Ma la Biennale, inoltre, è stata forse anche la prima, già anni fa, a mettere piede in quella che fu la gloria di Venezia sui mari, facendo conoscere al mondo almeno le immense e lunghissime Corderie del possente ma ormai abbandonato Arsenale: l’Arzanà in cui Dante Alighieri ambienta il settimo girone dell’Inferno, e che, prima della battaglia di Lepanto, fu il maggior cantiere navale al mondo; in appena dodici ore, forte dei suoi perfino 16 mila lavoratori, riusciva ad assemblare una nave da guerra, armata di tutto punto. Anzi, forse il primo passo, ormai remoto, della decadenza della città lagunare si misura anche con il divario nella quantità di grandi galee che riusciva a varare: nel 1535, furono 26, per un totale di quattromila tonnellate; e tre anni più tardi, appena quattro soltanto, anche se, per lo scontro con i Turchi a Cipro, in appena due mesi del 1597 l’Arsenale era ancora in grado di allestire e varare ben cento navi da guerra87, forte dei sedicimila uomini che vi lavoravano, e che a Venezia hanno da sempre costituito una “classe” temuta e osservata con riguardo. Con la scorsa edizione, alle Corderie si sono aggiunti altri luoghi dell’ex cantiere navale, tanto stupendi quanto ormai “ruskinianamente” abbandonati, ridotti a rovine, albergo soltanto di spontanee vegetazioni, come i capannoni delle antiche Artiglierie lunghi ben 180 metri (quanto l’immensa basilica romana di San Pietro) e il bacino coperto delle Gaggiandre, grandiosi cantieri acquatici, «una sorta di hangar coperti e sospesi sull’acqua, che servivano per armare le navi»88, costruiti tra il 1568 e il ’73, su progetto attribuito a Jacopo Sansovino, che, forse perfino ancor più delle stesse opere d’arte selezionate dallo svizzero Harald Szeemann e ivi esposte, hanno sicuramente rappresentato una delle maggiori attrazioni della Biennale d’arte del 1999. Del resto, gli stessi luoghi erano già stati al centro dell’attenzione popolare, quando Marco Paolini li aveva scelti, come inedito e interessante “teatro d’acqua”, per la ripresa televisiva del suo Milione, di cui tratteremo quando passeremo ad esaminare la “politica degli eventi”: quella realizzata a Venezia, e quella, forse, ancora possibile. La stessa Biennale 1999, inoltre, ha favorito e anzi realizzato un altro importante recupero storico: quello del Teatro Verde sull’isola di San Giorgio maggiore, un anfiteatro all’aperto di marmo bianco, 1.500 posti a sedere, opera del 1953 degli architetti Vietti e Scattolin, che, da almeno un ventennio, era in assoluto disarmo. E sono spazi, questi, di cui Venezia, che già spreca tanto di se stessa, ha forse assolutamente bisogno. Le vere glorie della Biennale («nata al Caffè Florian come, almeno così leggenda vuole, tutte le “rivoluzioni” veneziane»89) recano, tuttavia, datazioni ben più antiche, e risalgono a tempi ben più remoti. A ripercorrerne oggi le pagine, vengono quasi i brividi, per quanto ci si può ancora accorgere che quella manifestazione fosse importante; up to date, come direbbero gli inglesi; perfino, qualche volta, anticipatrice: in grado di suscitare dibattiti e spesso addirittura polemiche (si sa che, assai sovente, le discussioni non solo costituiscono un po’ il “sale” dell’arte, ne sono un utile complemento, ma hanno anche l’indubbio potere di accrescere l’attenzione attorno agli eventi). E le querelles divampano fin dalla primissima edizione: a un indubbio grande dell’arte, come Giulio Aristide Sartorio, che ne esaltava «il ruolo nel progresso delle arti italiane»90, si contrappone infatti il critico Vittorio Pica che, non senza qualche ragione, sottolinea «negativamente la totale mancanza alla Biennale degli impressionisti e dei simbolisti»91. Ma quella “prima volta” della Biennale, nel 1895 perché l’anno precedente, come si sarebbe voluto, non si era fatto a tempo, non soltanto premia Francesco Paolo Michetti, per La figlia di Jorio, ma, soprattutto, si trova anche al centro del primo scandalo. tabella 1. Visitatori e artisti alle Biennali, dalla nascita a oggi Anno Art. ital. Art. stranieri Tot. artisti Opere Visitatori 1895 1897 1899 1901 1903 1905 1907 1909 1910 1912 1914 1920 1922 1924 1926 1928 1930 1932 1934 1936 1938 1940 1942 1948 1950 1952 1954 1956 1958 1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1993 1995 1997 1999 129 164 157 162 186 214 209 176 211 245 274 288 326 363 365 476 611 325 608 748 394 445 587 664 574 235 213 312 94 57 92 119 85 73 106 220 338 276 44 69 61 20 49 41 144 19 9 14 156 327 277 254 154 330 400 408 402 310 424 309 388 609 511 567 718 591 827 515 428 490 291 444 347 405 392 432 402 285 222 370 192 174 190 474 454 300 410 98 551 138 208 181 601 280 181 88 285 491 434 416 340 544 609 584 613 555 698 597 714 972 876 1 043 1 329 916 1 435 1 263 822 935 878 1 108 921 640 605 744 496 342 314 489 277 247 296 694 792 576 454 167 612 158 257 122 745 290 190 102 516 224 327 892 265 054 1 134 309 141 899 289 071 916 289 553 1 234 263 827 1 295 357 356 1 759 457 960 3 036 345 851 2 027 431 742 2 474 337 904 1 805 240 510 2 564 380 544 3 307 319 953 2 573 201 025 2 725 172 841 3 000 193 003 3 229 249 960 4 222 361 917 3 650 194 702 3 388 175 619 3 204 87 391 3 560 76 679 3 065 216 471 3 342 171 414 3 439 183 107 3 638 171 600 4 564 188 487 3 240 172 545 2 898 150 902 3 214 154 000 2 918 161 772 2 785 181 383 1 987 160 000 1 678 115 500 2 626 242 000 1 327 692 000 2 176 320 000 1 569 365 318 1 709 226 397 1 810 196 518 837 155 000 1 284 90 915 858 125 000 2 317 1 286.211 900 265 000 420 147 479 300 215 000 Comprende i 110 mila visitatori delle mostre di Francis Bacon al Museo Correr e di Peter Greenway a Palazzo Fortuny. 1 Fonte: Ente Autonomo La Biennale di Venezia, Ufficio Stampa. Infatti, il patriarca, che è il cardinale Giuseppe Sarto il quale diverrà poi San Pio x, si rifiuta di visitarla, per via di uno dei dipinti esposti. Si tratta di Supremo convegno, una tela di Giacomo Grosso, docente all’Accademia di Torino, la quale, nonostante l’expertise di un celebre scrittore e filosofo cattolico come Antonio Fogazzaro – chiamato, con Enrico Panzacchi, Giuseppe Giacosa ed Enrico Castelnuovo, in un’apposita commissione – dichiari che «non reca oltraggio alla morale pubblica», fa davvero molto discutere (e magari proprio per questo, vincerà poi un premio, forse non per caso immediatamente abbandonato dopo questa unica esperienza: quello del “referendum popolare”), a tal punto che il patriarca diffida perfino, preventivamente ma inutilmente il sindaco Riccardo Selvatico dal metterla in mostra. Raffigura infatti un feretro, da cui emerge, cadaverico, il volto d’un uomo (Don Giovanni?), attorniato da cinque avvenenti donne («ignude», come fu scritto allora), in pose non si sa se più disperate, o, assai probabilmente, più voluttuose. Va anche aggiunto che l’opera, acquistata dopo la mostra da una società, la Venice Art & Co., che le fa iniziare una tournée promozionale nelle principali città americane, andrà quasi subito, e chissà quanto provvidenzialmente, distrutta in un incendio. Ma questo primo scandalo non è che l’anticipazione di tante altre polemiche, che seguiranno in futuro; ben presto, non mancheranno nemmeno le contestazioni e gli episodi si secessione: dalle rassegne d’arte contemporanea a Ca’ Pesaro prima della guerra, a quella degli artisti rifiutati all’hotel Excelsior, nel 1914. È vero: la Biennale avrà qualche esitazione, per usare un eufemismo ed essere piuttosto buoni, ad aprirsi al nuovo; e il caso forse più clamoroso è rappresentato da Pablo Picasso, che dovrà attendere addirittura fino al 1948. A quasi quarant’anni, per dirne soltanto qualcuna, da quando ne avevano già acquistato opere, anche di notevole rilievo, alcuni grandi collezionisti assai più lontani dal cuore dell’Europa, come i moscoviti Sergej Schukin e Ivan Morozov92, ma anche lo stesso Albert Coomb Barnes nella remotissima Merion93, sobborgo di Philadelphia negli Usa, per tacere poi di Leo e Gertrude Stein94, e di altri ancora. Ma almeno, prima della fine del secolo, nel 1897, ai Giardini faranno capolino due Monet (che lasceranno «atterrito» Ugo Ojetti95); nel 1903 toccherà a Renoir, Pissarro, Sisley; e nel 1910, a Gustav Klimt, cui viene riservata una personale che comprende anche la famosa Giuditta, la quale, anzi, verrà addirittura comperata dal Comune (erano i tempi in cui anche lo Stato acquistava, perfino per la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma). Vanno evocati due grandi organizzatori culturali, che all’epoca si occupano della Biennale: Nino Barbantini e Antonio Fradeletto; ma, dei due, è certamente il primo ad offrire più spunti innovatori. 80 Giandomenico Romanelli, La vitalità della Biennale, in Di Martino, La Biennale di Venezia, cit. 81 Adriano Donaggio, L’istituzione della Biennale, in Biennale di Venezia, un secolo di storia, Firenze, Giunti, 1988 («Art & Dossier», 1988, luglio-agosto). 82 Mario Isnenghi, La cultura, in Franzina, Venezia, cit. 83 John Ruskin, The Stones of Venice, London, Smith, Elder and co., 1851-1853. 84 Byron, Ode a Venezia. 85 Isnenghi, La cultura, in Franzina, Venezia, cit. 86 Franco Posocco, Grido d’allarme per le architetture di Carlo Scarpa, in «Il Gazzettino», 9.1.1999, edizione Venezia, p. 17. 87 John Kent, Venezia. La guida diversa, Milano, Rizzoli, 1988. 88 Paolo Conti, Fate spazio alla Biennale, in «Corriere della Sera», 29.11.1998. 89 Isnenghi, La cultura, in Franzina, Venezia, cit. 90 Fabrizio Magani, in Dizionario della pittura, cit., alla voce Venezia. 91 Ivi. 92 Albert Kosténévich e Natalia Sémionova, Matisse et la Russie, Mosca, Avant Garde, 1993, edizione francese, traduzione di Antoine Garcia, Paris, Flammarion, 1993; e Bruno Contardi, Parigi 1910 circa, in I cento capolavori dell’Ermitage. Impressionisti e avanguardie alle Scuderie papali del Quirinale, catalogo della mostra (Roma, 22 dicembre 1999-11 giugno 2000), Milano, Electa, 1999. 93 Anne Distel, Dr. Barnes in Paris, in Great French Paintings from The Barnes Foundation. Impressionist, Postimpressionist, and early Modern, catalogo della mostra (Washington, National Gallery, 2 maggio-15 agosto 1993), New York, Alfred A. Knopf e Lincoln, Lincoln University Press, 1993; poi Le docteur Barnes est à Paris, in De Cézanne à Matisse, chefs-d’oeuvre de la Fondation Barnes, catalogo della mostra (Paris, Musée d’Orsay, 6 settembre 1993-2 gennaio 1994), Paris, Gallimard-Electa, Réunion des Musées Nationaux, 1993. 94 Giovanni Carandente, Picasso e la realtà italiana, in Picasso 1817-1924. Il viaggio in Italia, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 1.3-28.6.1999), a cura di Jean Clair con Odile Michael, Milano, Bompiani, 1998. 95 Isnenghi, La cultura, in Franzina, Venezia, cit. 2.7) Ascesa, caduta e rinascita di una grande manifestazione E i risultati non si faranno attendere: come si suol dire, né quelli di critica, né quelli di pubblico. Alla prima rassegna, sono già presenti 129 artisti italiani e 156 stranieri (rispettivamente con 188 e 328 opere), ed i visitatori ammontano alla bellezza di 224.327, in un’epoca in cui certamente viaggiare non era semplice come oggi è ormai diventato. Nel 1909, raggiungono perfino la cifra di quasi mezzo milione (457.960); ma il primato spetterà all’edizione del 1976 (presidente Carlo Ripa di Meana; segretario generale Floris Ammannati; direttore delle arti visive Vittorio Gregotti: ben dieci mostre organizzate): addirittura 692 mila appassionati, ma con molti biglietti gratuiti e in un clima assai poco – diciamo così – istituzionale. Torniamo però agli esordi: la mostra del 1905 (Sartorio, Galileo Ghini, il gruppo dell’Aemilia Ars) rappresenta «il momento più qualificante per la conoscenza delle arti italiane»96; l’esposizione «negli anni assunse sempre maggiore spessore internazionale»97; e, parallelamente, si sviluppa la fondazione creata nel 1898 dalla duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, con sede a Ca’ Pesaro, che dal 1902 avrebbe ospitato la Galleria d’arte moderna. Sarà, appunto, quella felice stagione nota come «Gli anni di Ca’ Pesaro»98, ed animata dai vari Amedeo Modigliani, Felice Casorati, Guido Cadorin, Pio Semeghini, Guido Marussig; ma segnata soprattutto dalle 42 opere esposte da Umberto Boccioni nel 1910, quando aveva appena 28 anni. La fronda e la rottura tra le due istituzioni, Ca’ Pesaro e la Biennale, avviene nel 1914: quando questa rifiuta le opere di Arturo Martini e Gino Rossi, i quali, con Casorati, vanno ad esporre a Roma. «Da questo momento», scrive ancora Fabrizio Magani99, «si può ritenere chiuso l’apporto di una cultura strettamente veneziana, essendo venutisi ad allargare gli orizzonti artistici, ormai agganciati alle avanguardie che si svilupparono in centri come Milano e Roma»; anche «l’ultimo grande artista veneziano, Emilio Vedova»100 preferisce esporre a Milano. È il tramonto definitivo di una lunga stagione, iniziata assai lontano, poiché «la scuola di pittura fiorita a Venezia tra la seconda metà del Quattrocento e il Cinquecento è stata sempre considerata un contributo decisivo alla storia dell’arte occidentale»101. Una stagione che, forse, trova i propri esordi perfino negli arrivi di Gentile da Fabriano (attivo in città dal 1408 almeno fino al 1414, specialmente nella decorazione della sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale), Paolo Uccello (mosaicista in San Marco nel 1425) e Andrea del Castagno (affreschi nella chiesa di San Zaccaria nel 1442), e chissà se anche in Andrea Mantegna («Si dice sempre che Mantegna è il padre della pittura veneziana, ma sono disposto al massimo ad ammettere che ne fu uno zio, e non certo dei più attenti all’educazione dei nipoti», scrive un autore le cui capacità e la cui stessa originalità sanno essere sempre assai accattivanti102). Ma che ha i suoi natali certi, e, soprattutto, sicuramente decolla, con i tre Bellini, Jacopo, Gentile e Giovanni («il padre della pittura veneziana è indiscutibilmente Jacopo Bellini»103); Carlo Crivelli; forse più Bartolomeo e Alvise che Antonio Vivarini. E poi, gli autentici “giganti della pittura”, da Vittore Carpaccio, a Giorgione, Tiziano («l’unico pittore del Rinascimento italiano il cui contributo alla ritrattistica come genere sia paragonabile a quello di Raffaello»104; «sulla traccia di Giovanni Bellini, Giorgione e Tiziano, nel primo decennio del secolo, hanno inventato una nuova pittura»105) e compagnia dipingente: una «grande fioritura, che poi ha fecondato tutta la cultura pittorica europea moderna, da Velázquez a Rubens, da Poussin a Rembrandt»106, tanto che «mentre nel Settecento la Repubblica è in crisi, la sua pittura trionfa a Londra, a Parigi, a Madrid, a Würzburg, a Dresda, a Vienna, a Varsavia; con l’avvento del Neoclassicismo, che corrisponde alla caduta della Repubblica, la grande arte veneziana ha chiuso il suo ciclo storico; dai primi dell’Ottocento ad oggi, si potrà parlare di arte a Venezia, ma non di arte veneziana»107. Come dimenticare, giusto per evocarne uno soltanto, il peso e l’influenza che Venezia, e in particolare Giovanni Bellini, ebbero su un caposcuola come Albrecht Dürer, per «l’imperatore Massimiliano, “il più rinomato tra i maestri dell’arte della pittura”»?108. «Verso la metà dell’ultimo decennio del Quattrocento, a Venezia sembra esserci stato come un appuntamento: la presenza di Perugino [...], il soggiorno di Dürer [...], la circolazione dei dipinti di Bosch [...] e forse, io credo, la presenza del maestro olandese in persona», scrive uno studioso attento a Venezia109. Eh, sì: quello fu davvero un grande periodo: «Nel 1516, Giovanni Bellini muore a Venezia; nel 1519, Leonardo da Vinci si spegne in Francia; il 6 aprile 1520, Raffaello scompare a Roma. Nella cattedrale di Treviso, Giovanni Antonio Pordenone comincia a dipingere a fresco la cappella Malchiostro, per la quale Tiziano esegue, più o meno nello stesso periodo, un’Annunciazione. Carpaccio e Cima da Conegliano sono sempre più lontani dalla capitale che è Venezia, per le loro attività in provincia»110. E a metà secolo, «la renovatio urbis voluta dalla Serenissima sotto la direzione del doge Andrea Gritti e gli auspici dei rappresentanti dell’élite culturale veneziana, i Giustinian, i Corner, i Pisani, i Barbaro, i Soranzo, i Grimani, prende straordinario slancio»111. Ma torniamo alla Biennale, la quale, tuttavia, esce ben presto dal seminato, forse un po’ ristretto, della sola arte figurativa. E alle mostre d’arte, quasi subito accompagnate da altre rassegne storiche e speciali, da retrospettive di “grandi nomi” famosi e da altre personali di celebri (o quasi) artisti italiani stranieri, oltre che da una serie di esposizioni all’estero, accompagna dal 1930 il Festival della musica; dal ’32 quello del cinema; dal ’34 quello del teatro; e dal ’75, le rassegne d’architettura, e anche una serie di progetti speciali, ipotizzati a partire dal 1973 e tuttavia realizzati soltanto per un breve periodo durante gli anni ottanta. Troppo lungo, e forse inutile qui, ricordare i momenti più significativi di quest’ampia e composita operazione culturale, i suoi maggiori successi, e le contestazioni più rilevanti di cui è stata fatta oggetto. Vale solo la pena d’accennare al fatto che, ancor oggi, le rassegne del cinema e d’arte costituiscono uno dei massimi eventi, nei rispettivi settori, a livello certamente mondiale; ma anche che, invece, le edizioni precedenti all’ultima, almeno sotto il profilo dell’affluenza di pubblico, non sono sicuramente andate altrettanto bene. A parte quella del 1988, scesa a livelli quasi bellici (90.915 presenze, contro le 87.391 del 1940 e le 76.679 del 1942: le uniche tre volte, in oltre un secolo e in 48 manifestazioni, in cui non sono stati raggiunti nemmeno i centomila visitatori), sono stati infatti 125 mila nel ’90, risaliti a 176 nel ’93, a 265 mila nel ’95, ma ripiombati a 147.479 nel 1997. Per fortuna, il “nuovo corso” voluto dal neo-presidente Paolo Baratta ha subito cominciato a dare i suoi frutti: nominati tutti i nuovi direttori di sezione; riprese manifestazioni da tempo dimenticate; ristrutturati spazi della città da tempo in abbandono; un maggior carattere “permanente” delle stesse iniziative. E i risultati non si sono fatti attendere: nel 1999, la Biennale delle arti visive è già tornata oltre il livello di 200 mila visitatori. Soprattutto, sono riprese anche manifestazioni che da tempo erano state dimenticate. Per esempio, quelle dedicate alla danza, o alla musica: da quando, nel ’30, fu aggiunto ai programmi della Biennale, pur senza che da allora abbia mai assegnato nessun premio né alcun riconoscimento, il Festival della musica, all’inizio organizzato ogni anno da Alfredo Casella, Adriano Lualdi e Mario Labroca che, ormai in tarda età, tornerà a reggerne il timone nel dopoguerra, e perfino – di nuovo – sei lustri dopo il suo esordio, ha infatti avuto un ruolo davvero non secondario. Nel tempo, ha beneficiato di direttori insigni: da Goffredo Petrassi, a Nino Sanzogno, da Guido Mortari fino, recentemente, a Sylvano Bussotti. Ed è stato luogo privilegiato dell’avanguardia, spesso con echi a livello mondiale. Igor Stravinskij, oltre a riservarvi la “prima” della Carriera di un libertino (1951), nel ’59 fece risuonare nella Basilica di San Marco il suo Canticum sacrum, dedicato proprio alla musica veneziana. Jeu de cartes (’37) fu eseguito a Venezia l’anno stesso dell’esordio al Metropolitan di New York; cinque anni prima, era stata la volta di Maria Egiziaca di Ottorino Respighi. E sono solo alcuni episodi. Successivamente, il Festival della musica ha perduto la periodicità annuale (osservata fino al ’72, con due sole sospensioni di tre anni ciascuna, per cause belliche), molto smalto, e parecchi dei suoi caratteri costitutivi. Questo, nonostante alcuni interessanti esperimenti anche monografici, condotti negli ultimi vent’anni: da quello consacrato alle “Musiche del dissenso” nel 1977, al ricordo di Luigi Nono nel 1993, alla rassegna (1995) dedicata alla spiritualità nella musica contemporanea; tra le curiosità, anche lo sbarco in laguna (1974) dell’ormai notissimo (ma oggi assai meno di moda, anche se ha notevolmente proliferato) complesso di musica popolare cilenoandina degli Inti Illimani. Comunque, il ritorno di manifestazioni dimenticate, e lo stesso aumento dei visitatori, fanno ben sperare. Oltre a tutto, non si tratta di visitatori qualsiasi, bensì di turisti, si presume, di qualità superiore, più “alta” ed elevata. Cioè quelli che Venezia – e così veniamo all’ultimo dei nostri “c’era una volta” – un tempo possedeva, e che forse maggiormente languono oggi: l’hanno, in una certa misura, dimenticata, travolti anch’essi dal fenomeno del turismo di massa, dalle disfunzioni e dagli scomodi che esso comporta, nonché dal diminuito peso culturale della città stessa. È vero: il turismo nelle città d’arte, come spiega l’economista Paolo Leon, docente all’università La Sapienza di Roma e fondatore di un istituto di ricerca economico, il Cles, che è tra i pochi ad occuparsi continuativamente d’arte e cultura, «è l’unica forma di turismo che, in Italia, non abbia mai conosciuto il significato della parola recessione»112. E i turisti stranieri che vengono nel nostro paese spendono, in media, 160.000 lire al giorno, mentre soltanto 130 mila gli italiani che viaggiano nella penisola113 (secondo altri, però, il turista medio spende «tra le 250 e le 320 mila lire» 114). Ma, certamente, chi si sposta nel nome dell’arte e della cultura è meglio disposto a mettere mano al portafoglio. È quel “turista colto”, o d’élite, che Venezia ha calamitato in massimo grado nei tempi andati, e che ora, invece, appare alquanto dismesso, in laguna si vede assai più raramente. Quel «gran vascello fatto di pietra, che l’arte e la natura tengono all’ancora da più di tredici secoli»115, attira sempre più le comitive chiassose, i turisti “mordi e fuggi”; invita e consiglia sempre maggiormente a visite assai rapide e sommarie. I nuovi visitatori non sono certo quelli vecchi, i tempi sono cambiati, e forse non sanno nemmeno che cosa hanno detto o scritto alcuni di quelli che li hanno preceduti, ai tempi in cui Venezia era ancora una meta fondamentalmente culturale. Ecco, per esempio, cosa scriveva, nel 1728, Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755): «Il primo colpo d’occhio a Venezia è charmant, e io non so davvero in quale mai città si potrebbe maggiormente amare d’essere, il primo giorno, che a Venezia, sia per la novità dello spettacolo che dei piaceri»116. O, il 13 agosto 1739, il già citato de Brosses: «Quando si vede uscire l’acqua da tutti i lati dei palazzi, delle chiese, delle vie, delle città intere, perché non è che si tratti di una città sola; quando insomma non si può fare un passo per la città senza mettere il piede nel mare, ebbene questa cosa è talmente sorprendente che ci sono abituato, oggi, ancor meno che il primo giorno [...]. In una parola, la città è così singolare per il modo come è fatta, per i costumi, le abitudini di vita ridicolissime, per la libertà che vi regna e la tranquillità che vi si gode, che non esito a considerarla come la seconda città d’Europa, e dubito che Roma mi faccia cambiare idea»117. Ma nel 1852, Théophile Gautier (1811-72) annotava anche che «andare a piedi per Venezia è cosa difficile per uno straniero; la nostra prima cura fu dunque di noleggiare una gondola»118, e poi tesse le lodi del mezzo, con cui subito si fa condurre in Piazza San Marco, e dei suoi due rematori; mentre oggi, avrebbe forse dovuto aggiungere almeno anche qualche postilla sul prezzo richiesto. Perché non cambiano, purtroppo, soltanto i viaggiatori, ma anche, come vedremo, le stesse città; e, ahinoi, non sempre in meglio. La capitale dell’arte e della cultura, che tale più non è («Venezia non è un luogo di produzione culturale degno della sua storia: vorrebbe esserlo, ma non lo è; è un luogo espositivo, un luogo di vetrina», dice il rettore dello Iuav, Marino Folin119), ha anche smesso di rappresentare una capitale del turismo d’élite: torna ad esserlo, al massimo, pochi giorni all’anno, in occasione dei maggiori eventi che si svolgono in laguna; anzi, come pure vedremo, con un incredibile affastellamento di avvenimenti e una terribile compressione di date. Oggi, la sola vera industria che l’ex Serenissima ancora possiede, è il turismo. Con tutti i malanni ed i difetti che gli vengono quando è soltanto subito; sempre accettato; ma mai orientato, incanalato, educato. In una sola parola, quando viene sfruttato, senza che ci si investa troppo per migliorarlo: tanto, esiste comunque, e continuerà ad esistere per sempre. È esattamente ciò che esamineremo nel prossimo capitolo. 96 Magani, Venezia, cit. 97 Ivi. 98 Venezia, gli anni di Ca’ Pesaro, 1908-20, catalogo della mostra (Venezia, Museo Correr, 19 dicembre 1987-28 febbraio 1988), a cura di Chiara Alessandri, Giandomenico Romanelli e Flavia Scotton, Milano, Mazzotta, 1987. 99 Venezia, cit. 100 Ivi. 101 Peter Humfrey, Painting in Renaissance Venice, Yale, Yale University Press, 1994, La pittura a Venezia nel Rinascimento, traduzione di Silvia Saibene, Milano, Leonardo, 1996. 102 Augusto Gentili, Per una storia contestuale della pittura in Venezia, 1450-1515, in Venezia. L’arte nei secoli, a cura di Giandomenico Romanelli, Udine, Magnus Edizioni, 1997, i. 103 Ivi. 104 John Shearman, Only Connect... Art and the Spectator in the Italian Renaissance, Washington D.C., Trustees of the National Gallery of Art, 1992; Arte e spettatore nel Rinascimento italiano, traduzione di Barbara Agosti, Milano, Jaca Book, 1995. 105 Michel Laclotte, Avant-propos, in Le siècle de Titien. L’âge d’or de la peinture à Venise (catalogo della mostra omonima, Parigi, Grand Palais, 9 marzo-14 giugno 1993), Parigi, Réunion des Musées Nationaux, 1993. 106 Vittore Branca, Nota preliminare, in Storia di Venezia. Temi. L’arte, a cura di Rodolfo Pallucchini, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana (Istituto poligrafico e Zecca dello Stato), 1994, i. 107 Ivi. 108 Peter Burke, The European Renaissance. Centres and Peripheries, Oxford, Basil Blackwell, 1998, Il Rinascimento europeo. Centri e periferie, traduzione di Vittorio Giacopini, prefazione di Jacques Le Goff, Roma-Bari, Laterza, 1999 (Fare l’Europa). 109 Alessandro Ballarin, Une nouvelle perspective sur Giorgione: les portraits des années 1500-1503, in Le siècle de Titien, cit. 110 Giovanna Nepi Scirè, Titien, les années 1520-50, ivi. 111 Francesco Valcanover, Le dernier Titien et la fin du siècle à Venise, ivi. 112 Colloquio con l’autore, marzo 1998. 113 Touring Club Italiano, L’annuario del turismo 1999, a cura del Centro studi Tci, Milano, Tci, 1999. 114 Montagni, Bruxelles versus Venezia, cit. 115 Goundar, op. cit. 116 Charles de Montesquieu, Voyage en Italie, da Voyages, Bordeaux, 1894-96, in Yves Hersant, Italies, anthologie des voyageurs français au XVIII et XIX siècles, Paris, Robert Laffont, 1988. 117 De Brosses, Viaggio in Italia, cit. 118 Théophile Gautier, Italia, Paris, V. Lecou, 1852, in Hersant, Italies, cit. 119 Nel dibattito L’industria culturale a Venezia, cit. 3) CINQUE “PECCATI” DEL TURISMO. PENDOLARI, PREZZI, CONGESTIONE, STRUTTURE, SPAZI SPRECATI Inquadriamo subito il problema del turismo, cominciando da quelli che, indubbiamente, ne rappresentano e costituiscono alcuni dei non indifferenti meriti e dei maggiori tra i suoi numerosi pregi. I “consumi turistici”, nel nostro paese, sono stati valutati, nel 1997, pari a 131.248 miliardi1: rappresentano il 10,7 per cento dei consumi interni, e il 6,7 per cento del prodotto interno lordo, cioè davvero non poco. Quella del turismo è un’industria che “tira”: stando alle rilevazioni, in un anno, la spesa dei viaggiatori italiani è aumentata del 3,7 per cento; e addirittura quasi del dieci (per essere precisi, il 9,7) quella degli stranieri che scelgono il nostro paese per le proprie vacanze. Le cifre ufficiali, parlano, tra italiani e stranieri, di 70 milioni e mezzo di arrivi all’anno (per l’esattezza, 70.635.0122); ma le stime, perfino di oltre 105 (105,4 milioni, di cui 69 gli italiani e 36,4 gli stranieri3). Il turismo occupa direttamente 1.622.000 persone, e, indirettamente, dà di che vivere ad altre 400 mila famiglie: su dieci lavoratori italiani, uno opera nel settore, il cui fatturato globale è calcolato in 234.371 miliardi, pari al 12,1 per cento del prodotto interno lordo4. La Regione italiana che da questo fenomeno ricava i maggiori benefici è proprio il Veneto (introita l’11,8 per cento della spesa turistica totale, cioè 15.472 miliardi); seguono, nell’ordine, Toscana, Lombardia, Lazio ed Emilia-Romagna. Soltanto queste quattro Regioni sono, ciascuna, sopra il livello del dieci per cento delle entrate turistiche globali. E, invece, di quanto gli stranieri spendono nel nostro paese, una quota non dissimile, appunto il dieci per cento, spetta a tutto il Mezzogiorno, globalmente considerato (e davvero ancora troppo arretrato, in quanto a ricettività ed appeal): il Sud, infatti, raccoglie il 18 per cento del totale dei turisti (e il 19 per cento delle giornate di soggiorno in Italia); ma il 23 per cento di quelli italiani, e appena l’11 per cento di quelli che arrivano dall’estero nella penisola. Sempre dai rilevamenti del Touring Club, e da quanto spiega il suo presidente Giancarlo Lunati, sappiamo che nel mondo, tra il 1960 e il 1996, il movimento dei turisti internazionali si è pressoché decuplicato, passando da 69,3 a 593,7 milioni di viaggiatori all’anno. All’inizio, le uniche mete che ne raccogliessero una porzione significativa, cioè almeno un milione di turisti, erano l’Europa, con 50,4 milioni, e le Americhe, con 16,7: due valori pari, rispettivamente, a quote del 72,7 e del 24,1 per cento. Dal 1996, invece, il panorama è totalmente mutato, per lo svilupparsi del turismo in alcune Regioni del mondo e l’apparire sullo scenario di altre, fino ad allora scarsamente frequentate. Così, se le Americhe sono diventate la destinazione di ben 114.7 milioni di viaggiatori (e l’Asia del Pacifico di 87), l’Europa mantiene ancora saldamente la prima posizione, con 351.6 movimenti nell’anno; però, perde nettamente terreno in quanto a quote di mercato, con una flessione dal 72,73 al 59,22 per cento. In particolare, il nostro paese, che nel 1985 era ancora il terzo al mondo per arrivi di turisti stranieri (dopo la Francia e la Spagna, e prima degli Usa), dal 1990 è passato ormai, abbastanza stabilmente, al quarto posto. Nel 1996, hanno raccolto quote maggiori di traffico, nell’ordine, Francia, Usa e Spagna; mentre, dopo la nostra penisola, vengono invece Gran Bretagna, Cina, Messico, Ungheria, Polonia, Canada, Austria, Repubblica Ceca, Germania, Federazione Russa, Hong Kong, Svizzera, Portogallo, Grecia, Turchia e la Tailandia, che completa così il quadro dei top 20. «L’economia ha scoperto l’importanza del turismo come fenomeno di massa», dice Lunati; e «il nostro paese occupa una posizione certo preminente: ma ancora più importante è il suo potenziale di sviluppo, se si saprà rapidamente dotare di alcune componenti essenziali per una moderna cultura del turismo», gli fa eco Armando Peres5, direttore generale dello stesso Touring Club Italiano. E, tra le condizioni necessarie, indica anche «la formazione professionale, la capacità di pianificare e decentrare i flussi, di prevedere, di lavorare insieme, di “fare sistema”»6. tabella 2. Arrivi di turisti internazionali (in milioni di passeggeri) Africa Americhe Asia orient. Asia merid. M. Oriente Europa Totale 1960 1970 1980 1990 1993 1994 1995 1996 0.7 16.7 0.7 0.2 0.6 50.4 69.3 2.4 42.3 5.3 0.9 1.9 113 165.8 7.3 61.4 20.9 2.3 6 188.3 286.2 15.1 93.6 53.1 3.2 7.6 286.7 459.3 18 103.7 69.6 3.6 9 313.7 517.6 18 106.3 76.9 3.9 9.9 329.8 544.8 19.2 110.4 79.7 4.3 13.7 336.4 563.7 20.6 114.7 87 4.5 15.3 351.6 593.7 tabella 3. Quote percentuali degli arrivi di turisti internazionali Africa Americhe Asia orient. Asia merid. M. Oriente Europa Totale 1960 1970 1980 1990 1993 1994 1995 1996 1.01 24.1 1.01 0.29 0.87 72.73 100 1.45 25.51 3.2 0.54 1.15 68.15 100 2.55 21.45 7.3 0.8 2.1 65.79 100 3.29 20.38 11.56 0.7 1.65 62.42 100 3.48 20.03 13.45 0.7 1.74 60.61 100 3.3 19.51 14.12 0.72 1.82 60.54 100 3.41 19.58 14.14 0.76 2.43 59.68 100 3.47 19.32 14.65 0.76 2.58 59.22 100 Fonte: Settimo rapporto sul turismo italiano , coordinamento generale Emilio Becheri, a cura di Piero Barucci et alii, Firenze, Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento del turismo, Bnl, Aci, Insud spa, Unioncamere (Turistica-Mercury), 1997. Il Veneto è al top, al primo posto in Italia, sia per numero degli arrivi (nel 1997, oltre nove milioni e mezzo, pari al 13,54 per cento del totale italiano), sia per quantità di presenze (quasi 42 milioni, che elevano la sua quota al 14,34 per cento); in quanto a giornate di soggiorno, al terzo posto si colloca il Trentino-Alto Adige: ma con ben sei milioni di unità in meno del Veneto, cioè con un distacco di quindici punti percentuali in assoluto, nonché un gap di due punti rispetto ai valori nazionali. Inoltre, anche il trend della Regione è assai positivo: miglioramenti dell’ordine del cinque per cento annuo, anche se, nell’ultimo biennio, altre aree hanno spiccato performances ancora migliori: dal 10 per cento del Friuli-Venezia Giulia, al 9 per cento in più nelle presenze della Sardegna7, allo stesso incremento di un milione di turisti nel Trentino-Alto Adige. Ma nelle graduatorie che riguardano le presenze degli stranieri, il Trentino ormai lo supera (14.997.189 giornate, contro 14.414.229), mentre negli alberghi di fascia superiore (cinque e quattro stelle), per numero di presenze il Veneto (che nel 1997 ne ha avute per 6.706.972) è secondo soltanto al Lazio (6.982.215)8; nella fascia intermedia (tre e due stelle), dove ne vanta 11.209.632, al Trentino (14.887.753) e all’Emilia (12.639.233); ed è terzo, dopo Emilia e Trentino, anche nella fascia inferiore. tabella 4. Percentuali di arrivi e presenze dei turisti in Italia Regioni Piemonte Valle d’Aosta Lombardia Trentino-Alto Ad. Veneto Friuli-Ven. Giulia Liguria Emilia-Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Italia Arrivi % Presenze % Arrivi/1000 ab. Arrivi/Kmq 3.1 1.3 11.1 8.8 13.9 2.3 4.8 9.5 12.2 2.5 2.5 10.7 1.5 0.2 5.5 2.3 0.3 1.2 4.3 2.1 100 Fonte: Istat 1997, dati relativi al 1996. 2.3 1.2 7.9 12.1 14.7 2.9 5.5 12.1 10.7 1.5 3.7 6.8 1.9 0.2 0.6 2.6 0.3 1.6 3.3 2.6 100 48 718 84 648 210 131 193 163 232 204 114 138 79 41 64 37 37 40 57 83 117 81 261 313 435 507 198 591 289 356 199 170 417 93 31 273 78 23 54 114 57 223 tabella 5. Turisti in Italia, Regione per Regione, nel 1997 Regioni Totale arrivi Totale presenze Piemonte 2 404 366 8 027 024 Lombardia 7 776 915 22 871 517 Trentino-A. A. 6 308 098 35 978 061 Veneto 9 569 777 41 918 281 Friuli-V. Giulia 1 480 741 7 585 468 Liguria 3 270 612 15 647 024 Emilia-Romagna 6 395 765 32 352 975 Toscana 8 591 222 31 448 543 Umbria 1 597 583 4 385 657 Marche 1 715 726 11 401 524 Valle d’Aosta 862 294 3 376 883 Lazio 7 857 464 21 061 286 Abruzzo 1 067 655 5 605 314 Molise 159 397 498 376 Campania 4 141 187 18 570 421 Puglia 1 553 509 7 091 509 Basilicata 281 457 1 132 630 Calabria 845 143 4 914 227 Sicilia 3 220 422 10 292 337 Sardegna 1 535 679 8 117 266 Italia 70 635 012 292 276 323 Giorni 3.3 3.9 2.9 5.7 4.4 5.1 4.8 5.1 3.7 2.7 6.6 2.7 5.3 3.1 4.5 4.6 4.0 5.8 3.2 5.3 4.1 Arrivi stranieri Presenze stranieri 946 721 3 173 752 3 323 093 10 131 181 3 385 469 19 135 199 5 871 741 24 667 556 658 389 3 505 527 1 022 123 3 978 800 1 607 490 7 993 599 4 368 403 13 863 073 494 021 1 418 833 297 330 1 964 408 231 647 833 537 4 304 625 11 385 504 129 661 740 938 12 023 48 264 1 517 853 8 146 877 191 512 1 020 832 23 808 143 177 68 821 368 713 1 179 633 3 951 100 329 307 1 708 916 29 963 670 118 359 759 Fonte: Sistema statistico nazionale, Istituto nazionale di statistica, Annuario statistico italiano 1999 , Roma, Istat, 1999. Ancor più importante è tuttavia sottolineare come, tra le varie tipologie di turismo che le statistiche considerano, quello delle città d’arte, di cui Venezia fa assolutamente parte ed è anzi meta tra le più significative, non soltanto costituisce uno dei segmenti più rilevanti; ma anche quello che, da sempre, fa notare un andamento più positivo. Per esempio, denota un incremento, assolutamente notevole, di oltre un quarto del proprio totale dal 1991 al ’96; e un ritmo d’accrescimento che non accenna a diminuire. Nel ’96, le città d’arte hanno garantito la massima quota di arrivi dall’estero: 11,4 milioni di turisti, contro i 5,6 di quelli balneari; la cui presenza, tuttavia, si prolunga maggiormente, e costituisce quasi un terzo delle presenze alberghiere totali, contribuendo così al fatturato turistico per il 26,2 per cento (contro il 21,3 per cento del turismo d’arte)9. Logicamente, invece, il comparto delle presenze extralberghiere, quasi totalmente composto da chi sceglie i campeggi, premia in maggior misura il turismo “da diporto” che quello “artistico”, il cui posizionamento globale, tuttavia, resta certamente assai lusinghiero, ed anzi ne dimostra tutta la potenzialità. tabella 6. Presenze alberghiere e extralberghiere per tipo di turismo Città d’arte Montagna Laghi Mare Terme 1991 1992 1993 1994 1996 1991/1996 43.2 27.3 15.7 83.8 13.9 46.4 27.3 14.5 84.5 13.4 47.5 27.5 14.2 85.9 12.2 50.6 29.9 15.8 93.1 12.5 55.0 37.1 18.7 98.5 24.0 + 27.3 % + 35.8 % + 19.1 % + 17.5 % + 72.6 % Dati in migliaia. Fonte: Istat 1997. tabella 7. Quanto spendono e soggiornano i vari tipi di turisti Tipo Indice Presenze Percentuale Soggiorno di vacanza di spesa (milioni) medio (giorni) Città d’arte Lago Mare Montagna Terme Congressi 197 89 58 86 178 337 55.0 18.7 98.5 37.1 24.0 30.8 19.0 6.4 33.8 12.7 8.2 10.6 2.7 4.7 5.9 5.7 6.5 1.7 Fonte: nostre elaborazioni da Ciset in VII Rapporto sul turismo italiano 1997 , e Tci, Annuario 1999. Tra tutte le varie tipologie di turisti – ed anche questo certamente non è secondario – il “viaggiatore d’arte” è quello disposto a spendere in misura maggiore di chiunque altro, a parte chi si muova per il mondo (ma con viaggi assai rapidi e soggiorni assai brevi) nel nome dei congressi o delle conventions: un indice di spesa che, facendo 100 quello del turista medio in Italia, è valutato quasi il doppio, ben 197 punti; seguito soltanto dai 178 del turista termale, mentre quello in assoluto più “povero” è proprio colui che finisce sulle spiagge: rispetto alla media, spende poco più della metà; un indice di appena 58 punti. Inoltre, se tra il 1996 e il 1997 le entrate turistiche nazionali sono aumentate del 9,9 per cento, quelle garantite dal turismo culturale denotano un incremento pari al 12,1, raggiungendo così i 20 mila miliardi di lire. Abbastanza diverso è, invece e purtroppo, il discorso sulla durata media del soggiorno dei singoli tipi di viaggiatori: ai quasi sette giorni del “turista termale”, e degli ancora non molti che scelgono gli esercizi di agriturismo, si contrappongono infatti i 5,9 giorni di permanenza media nelle località marine; i 5,7 in quelle montane; i 4,7 ai laghi. Mentre la vacanza del “turista d’arte” non raggiunge nemmeno i tre giorni. Per l’esattezza, sono soltanto 2,7: superiori unicamente alle nemmeno due giornate di chi viaggi nel nome dei congressi, la cui capacità di spesa, tuttavia, è invece altissima, valutata in ben 325 mila lire al giorno. Per cui, il mix di turismo culturale e turismo marino e montano che il Veneto può offrire, colloca la Regione, nonostante sia quella che beneficia del maggior numero di arrivi, appena al quarto posto negli indici di spesa pro-capite dei viaggiatori stranieri in Italia, dopo Friuli, Lazio e Lombardia; e con un valore di poco superiore (appena il cinque per cento) alla media italiana. Tuttavia, il saldo turistico della Regione relativo al 1996, è davvero lusinghiero: attivo per 5.672 miliardi, colloca il Veneto al terzo posto, dopo il Trentino (con un saldo di 7.635 miliardi) e la Toscana (6.324). Da notare, tuttavia, che i turisti originanti dal Veneto sono anche coloro che, dopo quelli della Lombardia, più spendono per andare all’estero; invece, viaggiano assai meno su e giù per la penisola: infatti, nelle uscite turistiche erogate in Italia, si collocano soltanto al quinto posto, con una quota di 3.437 miliardi, dopo la Lombardia (che ne spende 12.900), il Piemonte (5.920), il Lazio (4.844), l’Emilia-Romagna (4.074), e subito prima della Campania (con 3.294 miliardi). Detto – sia pur sommariamente – degli arrivi, cioè della domanda di mercato, parliamo invece dell’offerta. Il Veneto è la terza Regione più “ricettiva” d’Italia; nella graduatoria dei posti-letto alberghieri (nel 1997, erano 179.665), è superato soltanto dall’Emilia-Romagna, con 257.472, e dal Trentino-Alto Adige con 237.60210. E se la Regione, due anni prima, si collocava al quarto posto per quanto riguarda quelli di lusso, classificati con cinque stelle, si posizionava invece al secondo nella categoria “quattro stelle” (32.551 posti-letto; infatti, ne possedeva di più, 40.391, soltanto la Lombardia). Notevole anche il non eccessivo indice di saturazione: 2.652 posti-letto ogni 10.000 abitanti nel Trentino; 2.013 in Val d’Aosta; 645 in Emilia-Romagna; 494 nella Liguria; e soltanto 407 nel Veneto: segno indubbio d’un affollamento di esercizi non eccessivo e quindi, presumibilmente, nemmeno troppo penalizzante per l’ambiente. Ma dove la Regione svetta assolutamente, infine, è nel turismo “all’aria aperta”: infatti, con 194.192 posti-letto11 nel ’97, detiene il primato assoluto nell’offerta di campeggi e villaggi turistici; la seguono la Toscana (con 154.646), la Calabria (121.750), che negli ultimi tempi ha compiuto notevoli balzi avanti, e la Puglia con 110.943. Questa, dunque, è la “cornice” in cui si colloca il problema che dobbiamo esaminare: l’impatto del turismo sulla città di Venezia, e in particolare sul suo centro storico; i vantaggi e gli svantaggi che esso arreca; i problemi che esso propone e comporta. 1 Touring Club Italiano, L’annuario del turismo 1999, cit. 2 Sistema statistico nazionale, Istituto nazionale di statistica, Annuario statistico italiano 1999, Roma, Istat, 1999. 3 Touring Club Italiano, L’annuario del turismo 1999, cit. 4 Ivi. 5 Ivi. 6 Ivi. 7 Settimo rapporto sul turismo italiano, coordinamento generale Emilio Becheri, a cura di Piero Barucci et alii, Firenze, Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento del turismo, Bnl, Aci, Insud spa, Unioncamere (Turistica-Mercury), 1997. 8 Sistema statistico nazionale, Annuario, cit. 9 Touring Club Italiano, L’annuario del turismo 1999, cit. 10 Sistema statistico nazionale, Istat, Annuario, cit. 11 Ivi. 3.1) Settore appetibile: alberghi più lussuosi, ma pochi nuovi Negli anni novanta, in controtendenza con il resto del paese, l’offerta di Venezia registra non solo una stasi, ma anzi una recessione, sia pur lieve. Considerando i tradizionali segmenti in cui si usa dividere il Comune veneziano (centro storico, Mestre e Marghera, Lido, Cavallino), tra il 1988 e il 1997 la disponibilità di posti-letto denota infatti un saldo negativo. Da 21.064, a 20.45012, con una differenza di 614 letti in meno, ma con una ripresa nel biennio successivo, e forti speranze del futuro, quando l’Ava prevede che, nel giro di un paio d’anni, altri duemila posti letto saranno disponibili grazie al restauro di interi palazzi da destinare all’attività alberghiera. Tuttavia, negli ultimi 12 anni è intanto mutata, e anche in modo e misura sensibili, la composizione territoriale dell’offerta stessa: in lieve aumento (207 unità: un misero 1,85 per cento) nel centro storico; di poco incrementata a Mestre e Marghera, peraltro in sensibile crescita negli anni precedenti; in netta flessione (465 letti: una non irrilevante perdita del 15 per cento) l’offerta del Lido; come (216 letti, equivalenti al 15,29 per cento) quella del Cavallino, il quale, però, nel 1999 s’è del tutto ripreso. In particolare, al Lido non esistono più, o più spesso sono stati tramutati in residences, alcuni alberghi anche di non piccole dimensioni, come il Grand Hotel, Venezia 2000 (cui, quindi, il nome non ha recato fortuna: è mancato all’appuntamento con la data indicata nella propria insegna), e l’ex Bartoli. E tra le insegne “storiche” che nel Comune sono state cancellate, o anzi di solito hanno mutato destinazione d’uso, non mancano nemmeno l’ex Manin Pilsen, e lo Sheriman. Se però ci limitiamo a considerare le differenze tra il 1996 e il ’99, vediamo che è lievemente aumentata (229 letti, il due per cento in più) la disponibilità nel centro storico; si è leggermente contratta quella al Lido (30 posti letto in meno); sono invece in ripresa le altre. Ma più ancora dei dati quantitativi, tutto sommato abbastanza statici, possono invece interessare quelli qualitativi, certamente assai più dinamici e in continua evoluzione. Sempre tra il 1988 e il ’97, infatti, il centro storico ha registrato un significativo decremento (– 60,9%) nell’offerta di lusso, cioè di posti letto in alberghi a cinque stelle, che tuttavia sono aumentati in misura sensibile durante il ’99 (in vista del Giubileo? Durante il 1999, oltre al Mulino Stucky, il cui restauro è ancora lontano dall’essere completato, si stavano riadattando 80 camere nell’ex convento di Sant’Anna, si parlava di cento stanze nella zona dietro Sant’Elena, altre 120 nelle ex Conterie di Murano, e anche alcuni frati del centro storico rimettevano a posto, aumentandone la capienza, i loro pensionati); cui però si contrappone un incremento ancora maggiore (+ 65,7 per cento) nella disponibilità in hotel a quattro stelle. Nel complesso, tra il 1988 e il ’97, il segmento formato dalle due categorie superiori (quattro e cinque stelle) è cresciuto dell’8,7 per cento; e quello inferiore (alberghi a tre, due e una stella) si è invece ridotto di tre punti e mezzo. Inoltre, nell’intero Comune, la maggiore crescita nell’offerta di letti si è verificata proprio nella fascia medio-alta degli hotel a quattro stelle, con una crescita, davvero interessante, addirittura del 75,5 per cento. tabella 8. L’offerta di letti, in 12 anni, negli alberghi di Venezia 1988 Centro storico Mestre/Marghera Lido Cavallino Totale 1997 1999 Diff. 97/88 Diff. 99/88 11 169 11 230 11 376 5 403 5 406 5 549 3 080 2 618 2 615 1 412 1 196 1 405 21 064 20 450 20 945 61 3 – 462 – 216 – 614 207 146 – 465 –7 – 119 Fonte: Ava, Associazione veneziana albergatori. tabella 9. L’offerta di letti nel Comune, nell’ultimo quadriennio Centro storico Mestre/Marghera Lido Cavallino Totale 1996 1997 1999 Diff. 99/96 11 147 5 403 2 648 1 196 20 394 11 230 5 406 2 618 1 196 20 450 11 376 5 549 2 615 1 405 20 945 229 146 – 33 209 551 tabella 10. L’offerta, per categorie e zone della città, dal 1988 al ’99 5 stelle lusso 4 stelle 3 stelle 2 stelle 1 stella Totale 5 stelle lusso 4 stelle 3 stelle 2 stelle 1 stella Totale 5 stelle lusso 4 stelle 3 stelle 2 stelle 1 stella Totale 5 stelle lusso 4 stelle 3 stelle 2 stelle 1 stella Totale 5 stelle lusso 4 stelle 3 stelle 2 stelle 1 stella Totale Centro storico Letti 1988 Letti 1997 1 655 647 2 025 3 355 3 149 3 889 2 913 2 339 1 427 1 000 11 169 11 230 Mestre e Marghera Letti 1988 Letti 1997 = = 1 029 2 469 2 196 1 723 1 238 652 940 562 5 403 5 406 Lido Letti 1988 Letti 1997 402 378 798 937 1 166 882 585 322 129 99 3 080 2 618 Cavallino Letti 1988 Letti 1997 = = = = 376 830 444 209 592 157 1 412 1 196 Intero Comune Letti 1988 Letti 1997 2 057 1 025 3 852 6 761 6 887 7 324 5 180 3 522 3 088 1 818 21 064 20 450 Letti 1999 Diff. 99/88 1 183 – 472 3 268 1 243 3 881 732 2 062 – 851 982 – 445 11 376 207 Letti 1999 Diff. 99/88 = = 2 629 1 600 1 735 – 461 660 – 578 525 – 415 5 549 146 Letti 1999 Diff. 99/88 378 – 24 1 061 263 766 – 400 336 – 249 74 – 55 2 615 – 465 Letti 1999 Diff. 99/88 = = = = 999 623 233 – 211 173 – 419 1 405 –7 Letti 1999 Diff. 99/88 1 561 – 496 6 958 3 106 7 381 494 3 291 – 1.889 1 754 – 1.334 20 945 – 119 Fonte: Ava, Associazione veneziana albergatori, gennaio 2000. Dall’insieme di questi dati si evince che, nel decennio 1987-97, a Venezia il numero delle imprese nel settore è rimasto pressoché costante, come anche la loro dotazione di letti. Ma, in compenso, quelle esistenti hanno migliorato e riqualificato le loro rispettive proprietà, migliorando sensibilmente quantità e qualità dei servizi, magari anche a scapito della stessa dotazione numerica di camere. Questo, logicamente, ha permesso il numero assai ampio di passaggi alla categoria superiore: per l’imponenza del fenomeno, si può anzi sicuramente parlare di un riposizionamento dell’intera industria turistica veneziana. Con un’offerta che si è così indirizzata verso le fasce più alte, alla ricerca di una clientela se non proprio più esigente (e tra un attimo vedremo perché), sicuramente disposta a spendere in misura maggiore. Va da sé che tutto ciò implica logici ed intuibili benefici, sia per il giro d’affari complessivo del settore, sia per gli stessi margini di guadagno degli imprenditori. Infatti, il miglioramento qualitativo significa anche un’offerta a prezzi più sostenuti; e quindi, con margini certamente più interessanti. Del resto, anche se in questo settore è praticamente impossibile disporre di dati precisi e assolutamente credibili, si sa che i prezzi negli alberghi di categoria superiore, nella città che fu dei dogi, sono, in assoluto, tra i più cari nell’intera penisola. Chi paghi la tariffa piena, senza facilitazioni, convenzioni o sconti, arriva ormai non lontano dal milione a notte per una camera singola, almeno nei pochi alberghi di categoria superiore del centro storico; e spesso, senza nemmeno disporre di una “camera con vista”, che cioè prospetti sugli incomparabili fondali del Canal Grande o del Bacino di San Marco. Ovvero, dove si realizzano in misura certamente maggiore che non altrove le asserzioni di René Descartes (da noi detto Cartesio, ma per fortuna non Renato: 1596-1650) e Guy de Maupassant (1850-93), secondo i quali, rispettivamente, «viaggiare è quasi lo stesso che conversare con quelli dei secoli passati», e «il viaggio è una specie di porta, attraverso la quale si esce dalla realtà». Riuscire a vivere tutto questo, in una stanzetta magari striminzita e poco confortevole, e per giunta con una piccola finestra che dà su un esiguo cortile interno, è, ammettiamolo, abbastanza più precario. Il primato dei prezzi, comunque, spetta forse all’hotel Cipriani alla Giudecca, dove il costo a notte di una camera varia dal milione e 650 mila lire, fino ai quasi cinque milioni di una suite che guarda su Piazza San Marco13. 12 Rilevamenti dell’Ava, Associazione veneziana albergatori, colloquio con Stefano Falchetta, ottobre 1998. 13 «Colors», agosto-settembre 1999, riportato in «Il Foglio quotidiano», 9.8.1999. 3.2) Tantissimi stranieri, e camere (quasi) sempre piene Nel mercato del turismo, oltre a quello di prezzi tra i più elevati, la città più cosmopolita d’Italia vanta però anche altri primati. Per esempio, negli alberghi dell’intero Comune, la percentuale degli stranieri, rispetto al totale, è assai elevata: pari al 79,04 per cento nel 1995; al 78,9 nel 1996; al 79,45 nel 1998, e dell’81,60 fino ad ottobre del 199914. E, nel centro storico, ha raggiunto perfino una quota dell’84,25 per cento nel ’97, dell’85,23 nel ’98 e dell’88,10 nel ’99 (fino ad ottobre): cioè, di gran lunga superiore, ma davvero tanto, alla media italiana. La stessa conformazione di questa clientela straniera è assai difforme dalla media italiana: subito dopo il 22 per cento costituito dagli italiani, viene infatti (dati 1996) un 13,8 per cento di americani (la cui presenza, nei valori medi del nostro paese, non supera invece il 5,86 per cento). I giapponesi sono il 9,8 per cento (contro una percentuale media, in tutt’Italia, del 2,78); seguono i francesi (il 9,6 a Venezia, contro il 6,12 per cento della media nazionale), i tedeschi (che costituiscono il 7,5 per cento, ma, insieme con gli austriaci, formano anche, con una buona metà dei 22 milioni che le affollano, la più numerosa clientela sulle spiagge venete), e infine gli inglesi, con il 5,8 per cento15. Gli americani sono dunque molto amati, perché visitano la laguna in proporzioni assai maggiori che non tanti altri luoghi di vacanza e di svago in Italia; e certamente lo sono anche i tedeschi, che risultano i più spendaccioni di tutti: nel 1998, hanno cambiato, in città, valuta per 96,5 miliardi di lire, e ne hanno addebitati altri 155,9 sulle loro carte di credito16; ma qualcuno, preferisce i giapponesi, perché «vanno in giro con un sacco di soldi e non gridano», come dice il rumeno Sabo (nome, diciamo così, d’“arte”?), 54 anni, la tranquillità futura già assicurata per esempio da «una casa da 600 milioni, una macchina per me e mia moglie, un discreto conto in banca»17, di professione borseggiatore s’intende a Venezia, con un giro “d’affari” davvero di tutto rispetto, che egli stesso valuta oscillare tra i 30 e i 60 milioni al mese. E anche questo, probabilmente, sa di primato. Ma i dati sicuramente interessanti, per Venezia assai difformi da quelli del resto d’Italia e dalle stesse medie nazionali, non finiscono certamente qui. Un altro, per esempio, è sicuramente costituito dalla percentuale di occupazione delle camere negli alberghi della città lagunare. Sono indicatori dell’Azienda di promozione turistica, e quindi non provengono dall’associazione di categoria, e dicono che nel 1997 la percentuale di occupazione dei letti negli alberghi, riferita all’intero Comune, è stata pari al 65,99 (e nel 1998, addirittura al 66,99), e anche qui con notevoli scostamenti tra area ed area. Per esempio, gli hotel del centro storico hanno registrato un buon 72,55 per cento (e nel 1998, perfino il 74,78); quelli della terraferma il 67,0 (69,20 nel 1998), e invece quelli del Lido appena il 42 per cento (45,48 l’anno successivo). tabella 11. Percentuali di stranieri negli alberghi veneziani, 1997-98 Mese Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre Totale Anno 1997 Anno 1998 Centro storico Intero Comune Centro storico Intero Comune 80.9 20.38 75.38 69.25 82.69 71.58 83.34 76.84 81.81 56.51 82.46 75.5 83.22 59.55 86.38 80.23 87.67 84.1 87.92 82.29 87.08 74.54 88.13 83.32 88.06 69.49 89.38 84.29 83.59 60.57 87.04 80.27 84.64 71.05 87.31 80.92 86.35 78.99 88.27 82.55 80.39 44.59 78.41 72.24 76.3 31.4 75.45 70.25 84.25 68.94 85.23 79.45 Fonte: Ava, Associazione veneziana albergatori. tabella 12. Percentuali di occupazione dei letti d’albergo nel 1998 Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre Totale Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre Totale Centro storico 5 stelle 4 stelle 36.27 39.21 57.55 63.89 61.89 74.2 76.11 89.07 79.8 94.45 77.45 92.01 63.47 93.3 56.91 88.5 73.65 93.94 78.29 95.48 56.83 69.6 38.67 50.12 62.99 78.74 Intero Comune 5 stelle 4 stelle 26.3 39.28 41.74 56.85 52.71 66.02 70.38 80.3 77.91 88.17 78.42 87.03 69.95 88.65 64.49 86.51 73.44 89.48 73.56 86.23 51.05 60.46 29.31 43.86 58.97 72.75 3 stelle 46.31 68.68 77.34 94.71 99.03 94.49 90.54 86.13 99.96 98.97 69 57.2 81.83 2 stelle 25.81 50.31 60.29 84.22 83.55 78.15 73.31 68.3 93.05 91.81 53.15 37.4 66.52 1 stella 25.8 50.95 60.5 85.08 82.01 82.92 78.43 76.09 84.66 83.06 50.06 37.59 66.4 Totale 37.45 61.01 70.1 88.84 91.35 87.88 84.1 79.48 92.86 93.08 63.22 47.82 74.78 3 stelle 36.25 55.91 60.75 81.64 86.93 85.5 84.12 83.09 89.9 77.56 51.04 41.64 69.67 2 stelle 25.23 44.81 52.42 74.86 74.3 71.97 69.48 69.67 85.92 76.88 44.17 31.84 60.12 1 stella 25.83 43.13 48.08 65.08 64.93 63.73 63.25 67.56 71.32 66.31 41.85 30.37 54.32 Totale 33.75 52.24 59.37 77.87 82.78 81.45 80.04 79.3 86.31 78.95 52.15 38.89 66.99 Fonte: Ava, Associazione veneziana albergatori, settembre 1998. Limitando però l’osservazione al solo, tradizionale periodo di alta stagione, che spazia da aprile fino ad ottobre, si osserva che i valori crescono in misura davvero assai sensibile: una percentuale di occupazione dell’85,96 nel centro storico (88,15 nel 1998 e nel 1989); dell’81,80 a Mestre e Marghera (i cui alberghi, quindi, per oltre la metà dell’anno sono assai prossimi anch’essi alla saturazione); e del 61 per cento al Lido. Degno di nota il fatto che, a settembre ’97, le camere degli alberghi a tre stelle del centro storico risultino perfino occupate oltre il 100 per cento nel 1997 e nel 1999, e al 99,96 nel 1998 (quanti day-use? Forse, a chi spende cifre non indifferenti, se s’intende “coltivare” il cliente, sarebbe opportuno offrire, più spesso, un breve prolungamento del soggiorno, un rinvio nell’orario limite per il check-out, vocabolo tecnico anglosassone rispetto al quale il nostrano “scasare”, anche se dialettale, è sicuramente assai più efficace). Ma interessante è anche il “fenomeno agosto”: tradizionalmente, il mese è ritenuto, nel periodo estivo, sensibilmente il più debole; tanto che, e vedremo anche questo, in città, per esempio, non vengono mai inaugurate mostre, esposizioni ed eventi di un certo prestigio. Ora, questo calo è certamente innegabile, e lo dimostra, per dirne una, anche soltanto l’altalenante andamento mensile delle visite alle Gallerie dell’Accademia, il maggior museo statale di Venezia, che tra breve esamineremo nel dettaglio. Ma è parimenti vero che questo ”deficit agostano” si sta sempre più ridimensionando, ad ogni anno che passa. Nel complesso dell’intero territorio comunale, infatti, le percentuali d’occupazione dei letti alberghieri relative al mese considerato non solo sono costantemente in via di miglioramento, ma anche secondo un ritmo assolutamente notevole. Nel 1996, registravano infatti un abbastanza misero 64 per cento; che si è ormai stabilizzato su valori attorno all’80 per cento negli ultimi tre anni. E questo vale anche per il centro storico, ed è ancor più significativo. Riepilogando, nel 1998 gli alberghi veneziani hanno fatto registrare 5.028.078 giornate di presenza, con un incremento del 3,78 per cento rispetto all’anno precedente, ma con una media di permanenza assai breve, appena due giorni e pochi centesimi. E su cinque milioni di giornate di presenza, quasi quattro (3.994.670: il 79,45 per cento) erano dovuti alla clientela non italiana. Se dall’intero Comune stringiamo lo sguardo al solo centro storico, le giornate di presenza sono state tre milioni (3.062.526), ma aumenta in misura sensibile la percentuale dei turisti stranieri, che, da soli, di questi tre milioni di soggiorni ne garantiscono oltri due e mezzo (2.610.309), con l’invidiabilissima, e anzi assolutamente strepitosa aliquota dell’85,23 per cento. Su dieci turisti che pernottano nella parte lagunare di Venezia, otto e mezzo non sono italiani18: una percentuale che non ha alcun riscontro nel nostro paese. Forse perché, appunto, dormire sul Canal Grande non è troppo alla portata dei nostri connazionali. 14 Ava, Associazione veneziana albergatori, dati del gennaio 2000. 15 Rilevamento dell’Ava, Associazione veneziana albergatori, colloquio con Stefano Falchetta, ottobre 1998. 16 «Colors», agosto-settembre 1999, riportato in «Il Foglio quotidiano», 9.8.1999. 17 Ivi. 18 Ava, Associazione veneziana albergatori, dati del gennaio 2000. 3.3) Milioni di turisti pendolari, non si sa nemmeno quanti Oltre all’incredibile rapporto turisti/abitanti che caratterizza la città («in questo, è assolutamente al primissimo posto», dice Sandro Cappelletto19), e oltre all’elevatissima percentuale di clienti stranieri, il fenomeno più macroscopico che il turismo a Venezia manifesta, è però, senza dubbio, quello del “pendolarismo”: del turismo “mordi e fuggi”, che non pernotta e, spesso, non spende. Valutarne l’imponenza non è semplice: alcuni studi lo stimano pari a quattro volte il turismo che potremmo definire stanziale, cioè a quello che pernotta; «noi siamo invece portati a ritenere che la proporzione sia ancora maggiore; secondo i nostri associati, per ogni turista che trascorre almeno una notte negli alberghi del centro storico, vi sono circa cinque pendolari», diceva Stefano Falchetta, non molto tempo fa, quando era ancora il direttore dell’Associazione veneziana albergatori. Uno studio commissionato proprio da Venezia 2000 e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia20 divide i pendolari in quattro categorie: quanti partono e tornano ai loro luoghi di residenza; quanti pernottano nell’hinterland; quanti provengono da un luogo di vacanza e vi fanno ritorno; e, infine, i turisti di passaggio. Basandosi su fonti dell’Associazione provinciale del turismo e del Ciset, nonché rielaborando i dati disponibili, valuta il fenomeno nella proporzione di 1 a 2,25, cioè due pendolari e un quarto per ogni pernottamento. Secondo questa proporzione, nel 1997 Venezia sarebbe stata la meta di quasi undici milioni (10.901.250) di turisti “mordi e fuggi”; un numero già strabordante, che però, applicando invece i coefficienti suggeriti dall’Ava, diverrebbe assolutamente immenso: qualcosa come circa 15 milioni di persone. Ma, l’attuale direttore dell’Ava, Claudio Scarpa, rifacendosi a stime del Ciset, è più riduttivo: «Si può supporre che ci si avvicina agli 11 milioni di visitatori». Comunque sia, nel migliore dei casi sono almeno 22 milioni di piedi che consumano le pietre di Venezia. Persone che, oltretutto, si affollano in misura particolare soprattutto in alcuni periodi dell’anno, senza “spalmare” certamente la loro presenza nell’intero arco di tutti i dodici mesi. Anche da qui derivano alcuni gravi fenomeni di congestione nei giorni, nelle festività e nei mesi più topici. D’altronde, considerati i prezzi degli alberghi veneziani, più che il frutto di una scelta, buona parte di questo pendolarismo appare dovuto alla necessità; e talora, anche all’impossibilità, nei mesi di maggior affollamento turistico, di trovare un letto disponibile. Per restare al fenomeno veneziano del “turismo di transito”, è forse utile ricordare che Rimini, nell’intento di aumentare il suo potere d’attrazione durante il periodo autunnale ed invernale, quando ormai il mare non è certo più una lusinga, offre ai suoi ospiti proprio una (massacrante) giornata a Venezia, andata e ritorno in pullman; come perfino una rinomata stazione sciistica austriaca: Badgastein, non lontano da Salisburgo, propone ai propri turisti una giornata a Venezia; ma poi, per risparmiare, li fa pernottare a Padova. Perché, se nei giorni feriali, e nei periodi di minor affollamento, è talora possibile ottenere prezzi di favore e sconti negli alberghi veneziani, durante i fine-settimana, ed ancor più con il turista straniero, vige invece la regola del prezzo pieno: «Ci sono incredibili picchi di domanda; se in certi venerdì e sabato avessimo 20 mila letti da offrire, li riempiremmo tutti», dicono ancora all’associazione di categoria. E, normalmente, perfino il turista che pernotta è imbrancato in gruppo: «Su cento di loro, anche nelle fasce alte, almeno 60 fanno parte di comitive; sono organizzati», affermano sempre all’Ava. Ma c’è addirittura l’eventualità, per ora e per fortuna soltanto ipotetica, che l’elevato costo del pernottamento a Venezia rischi perfino di penalizzare fortemente la città lagunare, anche per quanto riguarda la stessa componente dei gruppi “di passo”: cioè quelli che puntano a una vacanza, o a una visita, la più “risparmiosa” possibile. Una buona parte, infatti, già adesso nemmeno vi pernotta; ma un’altra porzione è invece composta da comitive (il turismo veneziano è, nella sua stragrande parte, ormai in mano ai tour operator) che vi trascorrono una notte: così come un’altra ne spendono a Roma, e invece visitano Firenze solo di passaggio. Se, in futuro i prezzi di Venezia dovessero essere giudicati non più sopportabili, questo itinerario potrebbe cambiare; e la città lagunare (anziché Firenze) diventare meta di passaggio. Forse, non vedremmo più le comitive di giapponesi che, nottetempo in gondola, ascoltano perfino O’ sole mio: verrebbero trasferite in orari diurni e – perfino loro – andrebbero ancor più a incrementare la quota dei “pendolari del turismo”, dei “viaggiatori mordi e fuggi”. Di quelli, cioè, che a Venezia lasciano pochi quattrini; anche se, della Serenissima, nel cuore, negli occhi, nelle macchine fotografiche, nelle telecamere (e perfino nei vari servizi cittadini, di cui fanno uso, senza però concorrere alle loro spese), ciascuno di loro porta via non poco con sé. Sta di fatto che questo presumibile numero di almeno sette milioni di turisti pendolari, escursionisti “mordi e fuggi”, è sicuramente elevatissimo e sovente anche assai “stressante” per le stesse strutture della città, che chissà fino a che punto riescono a sopportarlo: ad un viaggiatore del Seicento, quando il centro storico pur aveva la medesima estensione di oggi, sembravano già tanti, e certamente per l’epoca erano moltissimi, i trentamila accorsi per il Carnevale; che però, come vedremo, allora si protraeva per ben metà anno. Bisogna forse chiedersi quale sia lo sviluppo (turistico) compatibile; fino a qual punto la città possa subirne gli assalti, e quanto (poco) sia invece attrezzata per tollerarne le invasioni. Oggi, in svariati periodi dell’anno, calli e campielli vivono un affollamento, spesso non si sa se più incredibile, o invece maggiormente insopportabile. Questo autentico costipamento, nei giorni topici impone perfino dei “sensi unici” pedonali: come è per esempio avvenuto già in occasione del Carnevale 1999. Ha indotto a varare una forma di “telesorveglianza”, sia per evitare gli ingorghi, sia soprattutto per “inseguire” visivamente, grazie a una rete di una ventina di telecamere che comincia fin dal ponte d’accesso nella città lagunare e che qualcuno già paragona al «grande fratello»21, gli eventuali vandali; e nella notte di fine millennio, il sindaco in persona è stato visto dirigere il traffico delle 60 mila persone affluite in Piazza San Marco per ammirare i fuochi d’artificio, e anche, per evitare danni e vandalismi, sequestrare dei “botti” e protestare contro la carenza di controlli delle forze dell’ordine, fino ad essere qualificato come «sindaco sceriffo» dai sindacati della polizia. Il timore del sovraffollamento ha costretto perfino a ipotizzare nell’area di San Marco, per i giorni di “acqua alta”, un inedito sistema di passerelle apartheid, a vantaggio dei residenti cui saranno riservate: essi potranno fruire di tutta una serie di passaggi sopraelevati, sembra 86 e larghi un metro e mezzo, interdetti invece a chi non abiti a Venezia (ma non sarà un po’ complicato verificare gli “aventi diritto”?); turisti e visitatori saranno invece costretti a fare la coda e a procedere lentamente su quella parte di infrastrutture, appena altre 75 e larghe solo un metro, messe invece a disposizione di tutti, e secondo un percorso obbligato che collega la fermata del vaporetto a Palazzo Ducale e alla Basilica22. Anche perché il turismo di massa è assai poco incanalato e “gestito”, i visitatori infatti si stipano sempre, e pressoché totalmente, in una fascia assai ridotta della città, una sorta di “triangolo delle Bermude” (o “dei bermuda”: per lo meno durante la stagione estiva), i cui vertici sono configurati dall’area Marciana, dallo snodo degli arrivi auto-ferroviari (Stazione di Santa Lucia, Piazzale Roma, isola del Tronchetto), e dall’Accademia. Qui, una recente indagine23, che esamineremo meglio tra poco, ha calcolato che si addensi l’85 per cento del turismo. Più in là, purtroppo per lui ma anche per noi, si spinge assai raramente. Ed è assolutamente un peccato grave, visto che «Venezia è una città assolutamente irripetibile perché sfugge a qualsiasi organizzazione geometrica e funzionale, tipica di tutte le fondazioni urbane che seguono il sistema cardodecumanico», e «non esiste una città in cui la frammentazione del territorio giunga a tal grado, e in cui tuttavia l’unità abbia tanto significato», come certifica un veneziano importante ed autorevole, conosciuto in tutto il mondo, quale è il direttore d’orchestra e compositore (nonché appassionato archeologo) Giuseppe Sinopoli24. Così, in questi luoghi, nei terminal della città ma anche nella sua parte monumentale di maggior pregio e rilievo, vengono certamente superate le stesse percentuali di affollamento turistico misurate dall’Unesco, e che collocano Venezia in una posizione assai poco lusinghiera, con una media di ben 89 visitatori ogni cento abitanti, quasi fifty-fifty, contro i 36 di Salisburgo, i 23 di Bruges, i 12 di Oxford, i 10 di Firenze25. Questo non solo va a sicuro scapito della qualità della vita; ma a perderci sono tutti: chi abita la città, e chi vi giunge, appunto, per visitarla, o trascorrervi qualche ora (certo non giorni: la permanenza media raggiunge infatti a malapena le due notti) di vacanza. Per indicare soltanto una delle mille difficoltà che questa così elevata pressione turistica reca con sé, implica e comporta, ed alla quale quindi il Comune di Venezia deve far fronte, occorre forse parlare di qualcosa assai meno edificante di quanto ci ha accompagnato finora, ma forse perfino più inevitabile ed irrinunciabile, impossibile da essere dimenticato e tralasciato. E, precisamente, dei rifiuti solidi urbani; che a Venezia si chiamano, assai più banalmente, scovasse. Quelle, appunto, che quotidianamente gli appositi “operatori ecologici” (ormai questo è il loro nome consacrato in atti) devono provvedere a rimuovere, portare altrove ed avviare alle apposite discariche. A tutte spese – s’intende – dei veneziani residenti: senza alcun concorso, o apporto economico da parte dei famosi “turisti mordi e fuggi” che, tuttavia, normalmente, anch’essi le producono. Recentemente, il Comune di Venezia, non senza qualche polemica, ha raddoppiato, per i non residenti, il costo dell’accesso ai bagni pubblici; peccato, però, che, in tutto il territorio comunale, non ve ne siano più che circa una dozzina: e quindi, almeno alle entrate dello stesso Comune, il provvedimento non recherà di sicuro immensi benefici. Però, torniamo alle scovasse: perché uno studio26 afferma che a Venezia «la produzione pro capite di rifiuti risulta tra le più elevate d’Italia», e confronta i dati di cento capoluoghi di provincia, relativi al 1996. In media, ne originano 490 chili per abitante all’anno. Ma Venezia, dove dal 1980 al 1991 la quantità di scovasse è aumentata addirittura del 46 per cento, è invece ormai arrivata a 567 chilogrammi per ogni cittadino residente; e, nel 1998, perfino a 639. Per carità: in parte (ma sicuramente in una parte non troppo ingente) vi contribuiranno anche i 120 mila colombi o piccioni e i seimila gatti randagi che si stima abitino in città (un po’ meno, certamente, i circa 250 mila topi, «quattro per abitante»27, che si valuta esistano nella parte insulare della città); ma, massimamente, sono frutto dell’uomo. E poiché i residenti a Venezia sono pochi, specie nel centro storico, frutto degli uomini (e delle donne) che vi vengono in vacanza. Più di quella lagunare, generano rifiuti soltanto poche altre città italiane (Massa, Terni, Rimini, Brescia, Oristano e qualche altra). Il dato è quindi sicuramente indicativo dell’impatto causato dal turismo. Infatti, per esempio, a un livello simile a quello veneziano si colloca (568 chili all’anno per abitante) anche Firenze: essa pure abbondantemente pervasa di turisti pendolari. Ma la differenza tra Venezia e tanti altri capoluoghi di provincia è, a volte, davvero impressionante: se Sondrio ne produce appena 300 chili all’anno pro capite, Vibo Valentia si ferma a 340 chili, Matera a 361 e Rieti a 363 (sono i valori più bassi della penisola); poco più della metà di Venezia. Ma anche le altre maggiori città, come Roma (481 chili a testa), Milano (idem) e Napoli (521 chili), si situano a quote ben inferiori a quella del capoluogo lagunare. Che supera perfino altri grandi poli delle villeggiature estive, come la costa romagnola. Evidentemente, il fenomeno discende dalla perversa combinazione tra il numero sempre più ridotto della popolazione residente, e l’aumento di quella temporanea (ad esempio, gli studenti) e dei “pendolari del viaggio”. E non sono soltanto le scovasse: il Rapporto Ambiente Italia 2000 di Legambiente28 rileva infatti che per tre dei quattro indicatori da esso considerati (tutti, tranne quello relativo alle automobili, e pour cause) Venezia è, di gran lunga, al primo posto. Consuma più acqua di qualsiasi altra città (562 litri per abitante: Roma è a 392, Bologna a 256, Verona a 394). Produce più spazzatura (639 chili a persona all’anno, contro i 508 di Milano, i 503 di Roma, i 475 di Verona). Impiega più energia elettrica (pur senza possedere ormai più grandi industrie): 6.700 kilowattora per abitante, contro i 3.100 di Roma, i 4.660 di Milano, i 5.230 di Verona, i 2.330 di Bari. E così, Venezia paga la “bolletta” del turismo, ed è, anche in questo, una città «assolutamente fuori scala»29. D’accordo: le scovasse non sono certo un gran bello spettacolo, e anzi, con lo spettacolo propriamente detto non hanno davvero granché da spartire. Come pure c’entrano poco anche gli autobus, che pure esistono a Venezia: poiché il Comune non si ferma al Canal Grande e a quanto vi sta attorno, ma comprende anche una vasta estensione di terraferma. Anche qui, la situazione è abbastanza anomala: una recente indagine di Federtrasporti30, basata su dati del 1997, ha indicato che quelli veneziani sono i più vecchi ed antiquati (quindi, presumibilmente, anche scomodi e, per l’abbondanza di manutenzione che esigono, costosi) nel raffronto tra le 18 maggiori città italiane. Si tratta d’un parco-veicoli abbastanza ragguardevole (585 bus), la cui età media è tuttavia di ben 14 anni. Tra le altre 17 città considerate, nessuna supera i 13 anni di anzianità, e l’età media di alcuni è perfino meno della metà di quella veneziana: sei anni a Palermo, sette a Napoli e Bari. Bus e scovasse, anche se ben poco pertinenti con l’industria dello spettacolo, rappresentano comunque due casi emblematici, tra i mille cui forse potremmo dedicarci, delle tante difficoltà con cui il Comune veneziano deve necessariamente misurarsi. Del resto, per tornare a temi più pertinenti, se in laguna, ai tempi di Claudio Monteverdi (1567-1643), è sostanzialmente nata l’opera lirica, già mezzo secolo più tardi, nel 1728, Montesquieu, annotava nel suo Voyage en Italie31 che «un tempo, venivano a Venezia, per il Carnevale, 30 o 35 mila stranieri, e attualmente non ne arrivano più di 150. Molte ragioni per questi cambiamenti: la prima, è che non c’erano opere altro che a Venezia, ed ora ce ne sono dappertutto, e quelle di Venezia non valgono più che quelle della maggior parte delle altre città». Come dire che una città naturalmente “scomoda”, a chi la visiti deve offrire, perfino oltre ai propri panorami e ai propri tesori d’arte e di cultura, semmai qualcosa in più rispetto alle altre. Ecco perché redigere un bilancio per i settori della cultura e dello spettacolo (che a Venezia sono accorpati in un unico assessorato) non è certo impresa poi così semplice: «Nel settore culturale, si vive con sempre maggiore pesantezza lo scarto tra la domanda e la capacità della amministrazione di dare risposta», esordisce la relazione previsionale e programmatica dell’assessore Mara Rumiz per il bilancio 1999. E continua: «Dall’impostazione del bilancio comunale, emerge chiaramente che la cultura non viene considerata una leva, una risorsa su cui investire». E tanto meno, quindi, lo spettacolo. Eppure, «nella situazione attuale, dopo l’esodo di tutte le attività produttive primarie e di buona parte di quelle terziarie, non turistiche» dal centro storico, il comparto culturale, quello formativo, e il settore dello spettacolo «è assolutamente necessario chiedersi se possano rappresentare un fattore di sviluppo, per costruire una prospettiva a Venezia». E propone di passare da «bilanci da sopravvivenza a interventi di reale incentivazione»: cioè, a un vero e proprio sviluppo del settore; anche perché soltanto così, garantendo l’impegno dell’ente locale, si può sperare di calamitare, in qualche modo, gli investimenti dei privati. Perché da sola, Venezia non può certamente farcela: ha sicuramente bisogno degli sponsor. Ma più che tanto, alla sua risorsa migliore (che non è l’invasione quotidiana dei turisti, bensì l’immenso patrimonio di cultura che possiede), il Comune non può destinare. Almeno finché sarà alle prese, in modo così drammatico, con i problemi delle scovasse e quelli, per esempio, dei bus. 19 Nel dibattito L’industria culturale a Venezia, cit. 20 Francesco Perego e Francesco Sbetti, Vivere a Venezia, Venezia, Venezia 2000. Cultura e impresa, 1998. 21 Luciano Ferraro, E Venezia sorveglierà i turisti con le telecamere per evitare ingorghi nelle calli, «Corriere della Sera», 4.1.2000. 22 Luciano Ferraro, Venezia, Cacciari accelera sulle dighe, «Corriere della Sera», 18.1.2000. 23 Perego e Sbetti, Vivere a Venezia, cit. 24 Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Venezia, Consorzio Venezia Nuova, 1991. 25 Ignazio Musu, Emiliano Ramieri, Valentina Cogo, Indicatori di sostenibilità, uno strumento per l’Agenda 21 a Venezia, Venezia, Fondazione Eni Enrico Mattei, 1998. 26 Riferito in Musu, Ramieri, Cogo, Indicatori di sostenibilità, cit. 27 «Colors», agosto-settembre 1999, riportato in «Il Foglio quotidiano», 9.8.1999. 28 Vedi Agenzia Ansa, ore 11.50 e 11.51 del 26.10.1999. 29 Ivi. 30 Riportata in «La Nuova Venezia», 17.2.1999, p. 20. 31 Hersant, Italies, cit. 3.4) 2.500 miliardi senza nemmeno un centro congressi Comunque sia, tra pernottamenti e pendolarismo, gli albergatori veneziani valutano in «una cifra tra i duemila e i 2.500 miliardi, forse più vicina alla seconda che non alla prima», l’apporto economico del settore turistico; «1.200 provengono da quello stanziale, e almeno altri 900 da quello che a Venezia non si ferma»32; negli ultimi anni, «un incremento del dieci per cento dai 1700 miliardi stimati nel ’95 dal Ciset»33. Se così fosse, molto grosso modo potremmo calcolare in quasi 250 mila lire la spesa media quotidiana di ogni viaggiatore che si fermi a Venezia, e in 80 mila, tutto compreso, quella di ogni pendolare “mordi e fuggi”; una quota, quest’ultima, che, applicando gli indicatori suggeriti dall’Ava, si ridurrebbe, non di molto, a circa 70 mila lire. Qualcuno34 ha calcolato che, delle somme spese da quanti pernottano almeno una notte nel centro storico, il 45 per cento se ne vada per l’albergo, il 21 sia destinato alle spese e agli acquisti, e soltanto un miserrimo due per cento alla cultura. Tuttavia, un reddito tanto significativo prescinde addirittura da uno dei segmenti dell’industria turistica che si sono dimostrati maggiormente redditizi, quello congressuale. Venezia, infatti, in pratica non dispone nemmeno di un centro congressi degno di questo nome, che forse potrebbe contribuire ad assicurarle un ulteriore “volano” nei periodi di bassa stagione. Formalmente l’offerta, nel campo specifico, sembrerebbe, almeno sulla carta, assai elevata: 28 sale in sedici diverse sedi, per ben 9.000 posti complessivi. Invece, la realtà del centro storico è invece ben diversa. Una sala da 900 posti esiste al Lido, all’hotel Excelsior; ma ha carattere puramente stagionale (è proprio attraverso le manifestazioni di questo tipo che, nel 1998, gli alberghi della Ciga al Lido hanno potuto protrarre fino al 10 novembre il proprio periodo d’apertura). Un’altra, da 1.300 posti, è ubicata alla Fondazione Cini, sull’isola di San Giorgio: ma, considerate le finalità dell’istituzione, ospita pressoché soltanto manifestazioni culturali. Sempre al Lido, ci sono poi anche il Palazzo del cinema (capienza, 1.350 persone), e il “Palagalileo” (1.500 posti), utilizzato però soltanto durante la Mostra del cinema. E altre sale ancora, tuttavia di dimensioni assai più ridotte e perciò inadeguate (sui 100/120 posti ciascuna), le possiedono alcuni alberghi tra i più importanti, come l’Europa e Regina, il Bauer, il Sofitel. Alle Zitelle, nell’ex convento alla Giudecca (possibilità di ospitare fino a 1.800 persone), vengono invece organizzate più mostre che non congressi. Qualunque altra città, nel nome di una carenza del genere, tanto palese ed anzi vistosa e macroscopica, forse si mobiliterebbe; ma Venezia no: infatti, sembra quasi soltanto subirla. Questo, perché il turismo arriva senza che siano necessari troppi sforzi per favorirlo e per procurarselo; senza nemmeno che occorra alcuna forma di organizzazione della domanda. Come se uno si trovasse in casa la gallina dalle uova d’oro: finché le sforna, puntuale, ogni mattina, va bene; e non c’è nemmeno ragione di preoccuparsi poi troppo. È per lo stesso motivo, ad esempio, che buona parte anche dei migliori alberghi veneziani non sono assolutamente dotati di un piccolo accessorio, ormai divenuto però pressoché indispensabile: il collegamento telefonico per il modem dei computer. Gli albergatori dell’ex Serenissima, in questo e forse non soltanto, non sembrano affatto essere certo alla pari con i tempi, né con la concorrenza; e non soltanto quella internazionale. Ma, d’altro canto, è assai raro – pensano – che qualcuno scenda in albergo a Venezia per lavorare: nel novanta per cento dei casi, è qui per riposarsi, divertirsi, fare shopping, cultura, o impegnato in un viaggio romantico. «Fino a non molto tempo fa, gli esercizi veneziani non ritenevano nemmeno necessario l’apparecchio televisivo nelle stanze: l’hanno installato, in ritardo rispetto a molti altri, quasi soltanto quando non se ne poteva davvero più fare a meno, o era necessario alla classificazione dell’esercizio», dicono all’associazione di categoria. E non è neppure così raro, nei famosi alberghi dove una camera singola ufficialmente costa un milione a notte, sentirsi rispondere, quando la sera si ordinano i quotidiani per l’indomani, che quelli nazionali saranno recapitati all’orario voluto, ma quelli locali invece no: «Perché sa, dobbiamo mandarli a prendere apposta». Questi sono alcuni dei guasti provocati da una “domanda spontanea”, che non occorre nemmeno vezzeggiare, o coltivare; come vedremo, anche questo dettaglio ha la sua importanza nella latitanza di iniziative che, in alcuni periodi dell’anno, caratterizza la cultura a Venezia. «A noi farebbe molto comodo avere delle buone foresterie a basso prezzo, per potervi sistemare tanti signori, che possono stare più tempo a Venezia: perché l’attività permanente, l’attività durevole, chiedono strutture d’ospitalità che siano adatte per gli studiosi, per gli studenti, per chi opera nel campo dell’arte; questo delle foresterie a prezzi quasi studenteschi è un problema che io pongo con molta precisione, proprio per la coerenza con il disegno di un’attività continuativa», dice per esempio il presidente della Biennale, Paolo Baratta35; e forse, di questa risorsa a prezzo, diciamo così, alquanto calmierato potrebbero giovarsi perfino le due università veneziane. Insomma, quello di Venezia è davvero turismo allo stato quasi brado; turismo che sorge spontaneo; turismo su cui ben pochi investono qualcosa perché possa essere razionalizzato, migliorato, reso meno “pesante” per le strutture stesse (peraltro assai fragili) dell’ex Serenissima, e anche per chi ancora vi abiti. Sono ben rare le iniziative volte a favorire una migliore fruizione della città; magari, a recuperarne, anche agli usi turistici e quindi genericamente produttivi, alcune delle aree ormai dimenticate. Manca totalmente quello che De Rita, auspicandolo, chiama «un patto sociale tra Venezia e il suo turismo»36. L’offerta veneziana di turismo non è coordinata né nello spazio (come vedremo), né, tutto sommato, nel tempo. Pochissimi sono infatti i tentativi di prolungarne la stagione, creando quegli eventi che possano legittimare un simile fenomeno; ma anche assai poche le iniziative che evitino di addensarsi nei periodi in cui maggiore è la frequentazione dei foresti. Una non remota analisi promossa dal Comune di Venezia sulla distribuzione temporale dei programmi culturali, quando ne era assessore Gianfranco Mossetto37, registrava il massimo numero di mostre contemporaneamente aperte nel 1991, a maggio (15) ed aprile (13); seguivano giugno, settembre ed ottobre, con 12; agosto aveva lo stesso numero di esposizioni temporanee (7) dei mesi più difficili e meno frequentati, cioè dicembre e febbraio; novembre, soltanto una di più; gennaio, una di meno. Nel ’92, l’offerta era di 14 mostre a giugno, 13 a settembre, undici a marzo e maggio, nove negli altri periodi; con variazioni in diminuzione per gennaio e febbraio, che si fermavano a quota sei, e in aumento per dicembre, che risaliva a quota 10. L’anno successivo, picchi di 18 per giugno e ottobre, 17 per settembre, 16 e 15 per luglio ed agosto; tutti gli altri mesi, invece, sulla decina, tranne febbraio (soltanto sette eventi). Spesso, «è un affastellarsi pernicioso; non si riesce nemmeno a predisporre un’agenda della città», ammette l’assessore alla cultura Mara Rumiz38. Così, la Venezia del turismo e degli eventi s’addensa nel tempo e nello spazio; e se è comprensibile che pochi organizzatori di cultura vogliano assumersi dei rischi, ospitando o inaugurando mostre proprio nei periodi dell’anno in cui minore è l’afflusso dei visitatori, è parimenti vero che non è certo questa la maniera migliore per organizzare i flussi ed impedirne i picchi. Ai turisti, non si offrono troppi motivi (oltre a quelli, peraltro già immensi, che la città stessa rappresenta e configura) per recarsi a Venezia fuori dai periodi canonici di super-affollamento. Insomma, nessuno osa; tutti preferiscono vivere sul sicuro; non c’è chi investa nemmeno un quid di aleatorietà. E, alla fine, in questo modo si fa veramente ben poco per realizzare un progetto globale di città; per metterne a frutto ed in valore tutte le possibilità e le risorse che possiede. Una sorta di cartina di tornasole è rappresentata dal primo, o talora dai primi due, fine-settimana di settembre: in cui si addensano, perfino pericolosamente per le coronarie dei cronisti: la Mostra del cinema; il Premio Campiello; l’inaugurazione di un’esposizione a Palazzo Grassi, alla quale spesso ne accompagnano una loro sia il Comune, sia la Guggenheim Foundation (ma, qualche volta, anche la Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio); la Regata storica; e, se possibile, forse perfino qualcosa d’altro. Turismo poco coordinato nelle date, ma anche assai scoordinato nello spazio: Venezia, infatti, non soltanto è una città che investe assai poco su se stessa, ma si permette perfino il lusso di abbondanti sprechi. La “regina della Laguna”, infatti, non utilizza una buona fetta del suo, invidiabile, territorio; ed anzi, sembra quasi avervi rinunciato, considerandola pressoché alla stregua di scomode ed inutili propaggini. Perché forse non esistono altri luoghi, in tutto il paese, che riescano – per esempio – a lasciare inutilizzata e vuota un’estensione tanto rilevante del loro stesso centro storico, come quella rappresentata dall’Arsenale. Cioè un quinto della zona a sinistra del Canal Grande, un buon cinque per cento dell’intera area veneziana. Un luogo, per giunta, assolutamente straordinario, e non soltanto perché, senza di esso, Venezia non sarebbe mai diventata la «capitale del più grande “Stato da Mar”»39, ma anche perché, come affermava non molti anni fa l’ammiraglio di squadra Renato Fadda40, «la storia dell’Arsenale è la vera storia di Venezia». E, parimenti, non vi sono altre città, in tutt’Italia che lascino incolto, disabitato, non utilizzato un patrimonio di spazio, di fascino e di possibili risorse come quello costituito dall’elevato numero delle isole lagunari, oggi ormai disabitate e pressoché deserte («tali sono i vincoli, che chi dovesse utilizzarle sarebbe costretto a lasciarle nelle condizioni in cui si trovano attualmente: e chi mai potrebbe essere invogliato a farlo?» si chiede l’assessore Rumiz41). Infine, rarissimi sono anche i Comuni che, disponendo di un centro storico così nobile ed antico, carico di storia e denso di monumenti e capolavori, ben poco facciano, se non quasi nulla, per valorizzarlo interamente, nella sua globalità: anche in quelle parti, cioè, che oggi, in laguna, sono meno note al grande pubblico, meno percorse e meno frequentate. Questo è tanto più grave a Venezia, dove il livello di addensamento antropico nelle zone di maggior pregio è tale, che non solo le mette talora a repentaglio, e comunque le “usa” e le “consuma” a livelli spesso intollerabili e sovente perfino allarmanti, ma sicuramente consiglierebbe una diversificazione dei percorsi ed una maggiore frantumazione nel traffico dei visitatori e degli utenti. 32 Stefano Falchetta, colloquio cit. 33 Claudio Scarpa, colloquio con l’autore, gennaio 2000. 34 «Colors», agosto-settembre 1999, riportato in «Il Foglio quotidiano», 9.8.1999. 35 Nel dibattito L’industria culturale a Venezia, cit. 36 Giuseppe De Rita, Una città speciale. Rapporto su Venezia, Venezia, Marsilio, 1993 (I grilli). 37 Centro internazionale di studi sull’economia dell’arte, Assessorato alla Cultura del Comune di Venezia, I Rapporto sull’offerta culturale a Venezia, Analisi della distribuzione temporale dei programmi culturali, a cura di Stefania Funari, Ivana Simionato e Vesna Delfar, cicl., in pr., 1994. 38 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 39 Giampaolo Rallo, Guida alla natura nella Laguna di Venezia. Itinerari, storia e informazioni naturalistiche, Padova, Franco Muzzio, 1999. 40 Giorgio Bellavitis, L’Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, prefazione di Renato Fadda, Venezia, Marsilio, 1983. 41 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 3.5) Tanti incredibili sprechi (e tanti “vuoti”) di spazio L’Arsenale di Venezia, per chi ha avuto la fortuna di poterlo vedere (e se ne sono sicuramente accorti buona parte dei 200 mila visitatori della Biennale 1999), è bellissimo. Ma del tutto dimenticato. Sono ormai remoti i tempi in cui produceva anche due navi (da guerra) al giorno. Oggi sono 46 ettari densi di reperti, di emergenze storico-artistiche (una lapide ne fa tradizionalmente risalire la fondazione al 1104: il primo documento certo è del 1220; i due grandiosi cantieri acquatici denominati Gaggiandre e tornati visibili per l’ultima Biennale, sono di Sansovino; e si potrebbe continuare assai a lungo), carichi di storia e fitti di cubature ancora utilizzabili; ma del tutto, o quasi, in disarmo. «Io non mi ricordo d’aver mai visto un progetto globale per il recupero di questo insieme», dice Giandomenico Romanelli42; «mai che sia stata partorita un’idea trainante, che fosse possibile riconoscere come prioritaria: ognuno, al massimo aspirava ad averne un pezzetto disponibile per sé»; del resto, continua, «l’argomento è talmente imploso come tematica di dibattito, che è perfino difficile, ormai, parlarne ancora»43. Eppure, nel tempo i progetti, o le idee, non sono mancati; la più recente proposta è forse di ospitarvi un nuovo Museo di archeologia navale, mentre nel passato non sono state avanzate mille altre idee, rimaste sempre allo stadio puro dell’elucubrazione primordiale. Forse, una delle meno astruse è quella di allocarvi una sezione dell’Istituto centrale del restauro: «A me sembra una stortura pazzesca che non debba avervi sede l’Istituto stesso, la grande memoria di Brandi e di Argan che lo fondarono nel 1939: Venezia come luogo di un istituto educativo di tutti quei restauri che, per tutt’Italia, vengono richiesti tutti i giorni, e tutte le ore», dice Andrea Emiliani44, intellettuale di vaglia e fine storico dell’arte, soprintendente per decenni nella “sua” Bologna. Ma, dopo il tramonto della possibilità di trasferirvi tutto intero l’Istituto universitario d’architettura, l’Arsenale manca di un progetto, ed è una parte di città totalmente sottratta a qualsiasi funzione: il comune turista non riesce (neppur volendolo) nemmeno a vederla, poiché in gran parte racchiusa in una cinta di mura. Ed è un insieme che, non solo come pura mostra di se stesso, potrebbe attirare chissà quanti visitatori e turisti; ma che sicuramente sarebbe in grado di ospitare qualsiasi iniziativa, se, finalmente, l’ex Serenissima volesse riorganizzare i propri spazi nel settore dell’arte e della cultura. Un luogo dove “leggere” la storia dei secoli, che è sempre passata per queste strutture: da quando si costruivano le galere da guerra, per rendere possibile l’espansione di Venezia, ai tempi dell’architettura gotica (di cui all’Arsenale rimane ancora qualcosa), ai grandi cantieri rinascimentali della sfida terribile con l’impero ottomano, fino a Lepanto, al Seicento, alle ultime trasformazioni, rese necessarie dai tempi e già dal cammino della tecnologia. Invece, l’Arsenale resta lì: verrebbe da dire, quasi a marcire. Come pure altri ben 86 luoghi della città, compresi un aeroporto, un idroscalo in laguna arricchito da un forte cinquecentesco di Sanmicheli, alcune isole, forti e caserme, sia nel centro storico sia in terraferma, che non troppo tempo fa Beniamino Andreatta, quando era ministro della difesa, intendeva smilitarizzare e restituire, finalmente, alla città; o, qualora il Comune non ne fosse stato interessato, immetterli sul mercato. Del resto, ormai, Venezia ha perso ogni peso militare, che pure un tempo possedeva: il suo territorio è stato oggetto di una forte militarizzazione ai tempi della dominazione napoleonica e della successiva occupazione austriaca; l’eccezionale presenza militare è stata dapprima confermata dal Regno d’Italia, e non smantellata durante il fascismo, né nel dopoguerra: quando importantissima restava la “soglia di Gorizia”, e assai delicato il confine Nord Est del paese. Oggi, caduto il muro di Berlino, francamente potrebbero cadere anche quelli dell’Arsenale, e di tante altre installazioni “con le stellette”. Peraltro, non soltanto non più di alcuna utilità ai fini strategici e difensivi; ma che lo stesso apparato militare fatica a mantenere e a gestire, esso pure interessato come è da una sensibile riduzione degli stanziamenti, nonché anche da una diminuzione degli effettivi in armi, dovuta prima a molteplici fattori storici (il minor gettito demografico; la necessità di immaginare un diverso modello di difesa e di allocare in modo più vantaggioso le ridotte risorse; il fenomeno dell’opzione per il servizio civile, che cresce a velocità esponenziale) e, infine, anche dalla decisione, assunta finalmente perfino dal nostro paese, di passare dall’“esercito di popolo” a una forza armata professionale. Ma tutto questo, riguarda forse più il discorso delle “vocazioni” che a Venezia hanno qualche possibilità di realizzarsi, il ruolo della città come “capitale dell’immateriale”, che non il turismo, le sue pecche e le sue lacune, di cui invece stavamo parlando; ed ai quali invece conviene subito tornare. Oggi, si calcola che «mediamente circolino nel centro storico quaranta turisti ogni cento veneziani residenti»45; come dire che nelle ore diurne, abitandovi 68.564 persone, nella città passeggiano normalmente (e non nei giorni di punta, né nei luoghi più appetiti) centomila anime. La medesima indagine valuta che, dal 1971 al ’97, le sole utenze telefoniche relative alla popolazione stabile sono calate dell’otto per cento; mentre quelle dei servizi al turismo sono invece aumentate dell’85. In quanto a posti di lavoro, poi, i servizi al turismo pesano ormai il doppio del pubblico impiego. E, ancora: dei 14.233 addetti al settore turistico, soltanto un quinto risiede nel centro storico, e gli altri sono tutti pendolari. Quindi, il turismo, finisce certamente per essere il principale “motore”, se non forse purtroppo l’unico, dell’intera vita cittadina. «Un turismo che nel corso degli anni ha cambiato i connotati alla città […] dominata dalla cricca degli albergatori e degli osti da rapina, dagli intromettitori e dai battitori abusivi, dalla gang dei motoscafisti, dalle corporazioni dei gondolieri avidi e dei bancarellari furbi, dal sottobosco malavitoso ed usuraio dei “cambisti” del casinò», come recita un ritratto forse alquanto impietoso46 e senza troppi chiaroscuri. Ebbene, proprio osservando la ripartizione degli addetti agli alberghi e ai ristoranti si può dedurre come nell’area di Giudecca-Saccafisola operi soltanto l’1,36 per cento di loro; e circa il 13,30 per cento nell’area di Dorsoduro-Santa Croce-San Polo. Il che significa che il turismo veneziano, all’85 per cento, si riduce, si comprime, si contrae, si addensa, si accavalla a San Marco, Sant’Elena e Cannaregio; non solo: ma, purtroppo, questa statistica non distingue e non separa il sestiere di Castello; che, invece, è sicuramente dei più penalizzati, almeno nella sua parte meno vicina all’area Marciana. Quindi, il turismo veneziano utilizza soltanto una parte della città paragonabile a circa un terzo della sua reale estensione, e così, più macroscopici ancora diventano, per conseguenza, i fenomeni di addensamento; 40 visitatori per ogni cento residenti in media: ma quanti invece nella ristretta porzione di città realmente utilizzata oggi dal turismo? Così, si realizza anche l’ennesimo paradosso: la Serenissima, i cui primi abitanti si installarono, è vero, a Rivo Alto, cioè a Rialto, ma che successivamente si espanse proprio nell’area di Castello (la cui chiesa di San Pietro fu per sette secoli la basilica vescovile della città: dal 775 al 1451), turisticamente e culturalmente parlando ha pressoché abbandonato quella che era una delle sue “culle”. Un autentico ed ennesimo “spreco”: poiché l’area è invece ancora densa di monumenti, di emergenze storiche ed artistiche, insomma di possibilità e di risorse. Per esempio, nella solita “Guida rossa” del Touring Club Italiano47 (che, lo ripetiamo ancora una volta, in assenza di qualunque inventario, e tanto più di una catalogazione completa, mai compiuta dallo Stato, costituisce il più affidabile dei data-base), il sestiere di Castello “pesa” più ancora di Cannaregio: al primo, sono dedicate infatti 60 pagine, contro le 35 riservate al secondo; più ancora di quante non ne meriti la descrizione dell’area di Dorsoduro; quasi altrettante rispetto a quelle riservate, insieme, ai sestieri di San Polo e Santa Croce. Tante aree dimenticate: per esempio anche una delle zone cittadine sicuramente tra le più panoramiche, cioé quella costituita dalle due rive della Giudecca – una che guarda verso il centro storico, e l’altra che invece dà sulla laguna – che infatti è meta soltanto di locali o di pochi eletti, i quali intendano dedicare alla città qualcosa di più che non un solo sguardo fugace. Più precario ancora, sempre per quanto riguarda il turismo, è il sistema delle isole: soltanto alcune, quelle maggiori, infatti, sono toccate, o sfiorate, dai visitatori; e comunque, sempre in maniera diversa a seconda delle stagioni. Don Gianmatteo Caputo, dell’Associazione Sant’Apollonia che gestisce alcuni luoghi d’interesse storico e artistico aperti al pubblico, ha rilevato che nel 1998, 176.912 persone hanno raggiunto Torcello e ne hanno visitato la splendida basilica48. Ma fino a marzo, erano soltanto 29.532 (una media di 328 al giorno); da aprile a giugno, invece, 87.108 (una media quotidiana di 957 persone); e da luglio a settembre, 60.272 (655 al giorno). Per cui, alla fine, ben due terzi della città sono privi di turismo; e, per conseguenza, del principale (se non, lo ribadiamo, unico) “motore”; e nelle altre, il turismo esiste, ma non in alcuni periodi dell’anno. Non solo: ma perfino i recenti progetti dello Iuav, che intende trasferire la propria attività didattica nella zona di Santa Marta, e costituire nell’area dei Tolentini una biblioteca nazionale d’architettura, rischiano di spostare ancora, squilibrandolo ulteriormente, il baricentro cittadino; di penalizzare ancor di più le aree di Castello e Sant’Elena, anche perché lo stesso piano regolatore generale ribadisce la centralità dell’area di Piazzale Roma, non lontano dalla quale si immagina di costruire un’altra iniziativa espositiva. Insomma, si prefigurano nuovi musei e nuovi poli d’attrazione nei luoghi già quasi saturi di turismo. È una scelta – a prima vista – assolutamente logica: perché, probabilmente, ne beneficerebbero i conti economici; ma con qualche coraggio in più, si potrebbe forse immaginare, anche creando nuove strutture, come cercare di deviare i visitatori dai soliti loro (quattro o pochi più) passi. Ora, certamente non è immaginabile, come pure sarebbe opportuno, che la pressione dei turisti e dei visitatori nella zona di Piazza San Marco possa in qualche modo attenuarsi: è un luogo dove, sicuramente, chiunque arrivi a Venezia vuole, a tutti i costi e comunque, recarsi. Ma forse, una gestione dei flussi potrebbe in qualche maniera essere tentata: diversificando i percorsi (anche quelli dei mezzi pubblici di trasporto) che conducono alla tanto agognata Basilica; modificando il sistema degli arrivi e dei trasporti turistici anche di terra, sui quali oggi non si incide quasi per nulla; contrattando “pacchetti” di misure (contropartite in agevolazioni, e perfino dissuasioni economiche consistenti in aumenti di costi), con chi organizza le comitive dei pendolari e dei visitatori; o anche immaginando politiche tariffarie differenziate, per scaglionare gli stessi orari di visita. Proprio l’appena citato don Caputo, ma mille altri potrebbero imitarlo, riconosce che «l’offerta culturale veneziana oggi risulta dispersiva e non coordinata». Dunque, il turismo a Venezia non fa certo difetto; anzi. Ma perfino chi ne beneficia, fa ben poco perché la sua esistenza possa avvenire in modi, e secondo canoni e criteri, migliori; più avanzati; perfino più produttivi. La città, del resto, bada ben poco – tutto sommato – perfino alla propria stessa immagine, se una delle pagine che informano sul servizio di gondole, diffusa sul Web49 e consultabile da chiunque via Internet, perfino tradotta in altre lingue oltre all’italiano, esordisce in modo davvero assai poco accattivante: spiegando che «l’ora del gondoliere è come quella dello psicanalista, cioè dura 50 minuti»; cioè, sali in barca e ti hanno già rubato almeno un sesto del tempo. Ma oltre a bazzecole come questa, ben altri dati ed indizi mostrano che Venezia investe, tutto sommato, abbastanza poco su se stessa e sul proprio turismo. Per esempio negli Stati Uniti, e precisamente a New York, i proprietari di alcuni immobili di Manhattan si sono consorziati e tassati, per finanziare il recupero, il restauro e l’abbellimento della stazione di metropolitana del proprio quartiere. In alcune città, italiane e non, si sta cercando di misurare i vantaggi che derivano alla rendita fondiaria non soltanto da alcune opere di ripristino compiute, ma anche dall’uso culturale che delle diverse aree viene compiuto. A Venezia, è impossibile applicare un altro indicatore, che deriva da alcuni studi di Legambiente, secondo i quali nelle zone pedonalizzate il valore degli immobili si accresce quasi del 15 per cento; e in una città come Roma, ormai oltre il 20 per cento del prezzo di un edificio dipende da valori legati ai pregi ambientali. Però, da questi dati si può forse derivare una piccola riflessione: anche ai veneziani dovrebbe stare a cuore l’uso che della città viene compiuto, il miglioramento delle condizioni in cui essa viene utilizzata (quindi, una maggiore diffusione dei vantaggi turistici e un minor affollamento di visitatori nelle solite poche aree), e così via. Il che, invece, purtroppo accade ben raramente. Vediamo, ad esempio, proprio il caso degli albergatori: vivono di turismo; il turismo vive della cultura e dei pregi ambientali che la città è in grado di offrirgli; ma gli albergatori, per dirne una soltanto, contribuiscono assai poco alla manutenzione e alla valorizzazione del loro centro storico, da cui, in ultima analisi traggono perfino buona parte delle loro stesse risorse. L’Associazione veneziana albergatori, ammette Stefano Falchetta, «è entrata a far parte della Fondazione del Teatro La Fenice, per la cui ricostruzione ha raccolto mezzo miliardo con cui finanziare il ripristino del palco reale; e di quella per Ca’ Rezzonico», ma non molto altro: dal dicembre 1999 al marzo 2000, un contributo del 60 per cento all’illuminazione di 69 ponti fuori dall’area Marciana, altri 200 milioni all’anno di sponsorizzazioni per il Carnevale (l’Ava è il maggior contribuente dopo il Comune e la Volkswagen) e la Regata storica. Mai, però, che agli albergatori sia venuto in mente di restaurare un monumento (magari poi spendendosi la buona azione nei confronti dei propri ospiti: “Il tal restauro è stato reso possibile anche dall’intervento del proprietario dell’hotel in cui vi trovate”). Sempre secondo l’Ava, quest’assenza di impegno deriva anche dal fatto che «a Venezia vi sono poche famiglie proprietarie di alberghi, e molti invece che li conducono in gestione»; ma, comunque, non è certo una prova di grande lungimiranza. Gli interventi di restauro dei privati (e anche l’aspetto globale degli edifici di una città fa sicuramente parte del suo appeal) sono certamente abbastanza massicci, favoriti dalle provvidenze previste dalla legge speciale: 12.575 domande presentate e 3.142 ammesse, quasi 90 miliardi impegnati in conto capitale ed altri 23 e mezzo in conto interessi (ma fino a non molto tempo fa, ne erano stati erogati rispettivamente soltanto 24 e mezzo, e tre e mezzo); molto ancora resta tuttavia da fare. Gli interventi sono resi più difficili anche dal fatto che il 71 per cento dei contratti d’affitto nel centro storico sono stipulati secondo la tipologia dei “non residenti” (contro il 33,4 nelle aree dell’estuario, e solo l’1,7 in terraferma); che, sempre nel centro storico, l’indice degli appartamenti in proprietà è nettamente inferiore (poco più del 50 per cento, contro il quasi 70 dell’estuario e il circa 65 per cento della terraferma) a quello delle altre zone della città, mentre i contratti di compravendita stipulati a Venezia (nel 1993, ogni mille residenti) sono nettamente superiori a quelli degli altri capoluoghi della Regione (quasi il 18 per mille: contro il 14 di Belluno; il 12 circa di Padova e Verona, l’11 di Vicenza e nemmeno il 10 di Treviso e Rovigo): una certa inerzia nei restauri, certamente assai più interessanti per chi abiti il proprio appartamento che non per chi invece lo lochi, o pensi di disfarsene in breve tempo, può probabilmente derivare anche da questo complesso di cifre, che, se rapportate tra loro, descrivono una situazione, ancora una volta, sicuramente atipica. Sta di fatto che, alla fine, Venezia investe abbastanza scarsamente su di sé: «Per esempio, non ha mai pensato a creare un laboratorio per la manutenzione, che pure sarebbe non solo quanto mai utile, ma anche assai congeniale alla città», dice Francesco Sbetti50, magna pars del centro di ricerche Sistema; e continua: «Un documento dell’Istituto Gramsci, su cui peraltro è nato il programma della giunta, prevedeva una città migliore, grazie allo sviluppo della cultura e della produzione immateriale; ma la domanda è rimasta inevasa. A Marghera, si potrebbe creare una città della musica, unendo un pezzo di Rai a una struttura per le prove e gli allestimenti della Fenice, uno studio di registrazione, sale per concerti e spazi commerciali»; mentre invece tutto procede con tale lentezza, che il cantiere di Piazzale Candiani è rimasto aperto per vent’anni, ed ha così assorbito almeno 40 miliardi. Intanto, la città sembra votata soprattutto alla gestione del benessere esistente. Chi vi ha riflettuto sulle sue possibilità, si trova ormai spesso come disarmato: la stagione dei grandi progetti sembra tramontata; il 35 per cento degli edifici adibiti a musei sono precedenti al Settecento, e tali destinati a restare; «manca un’aggregazione di risorse che permetta di compiere quello che viene sempre chiamato il salto di qualità: l’unico grande investimento è stato quello della Fiat su Palazzo Grassi», spiega Cesare De Michelis51, dalle costole della cui Marsilio («siamo qui dal 1973») «sono nate una dozzina di altre imprese; alcune ormai fallite ed altre che invece esistono ancora». «Esiste un’immensa potenzialità di posti di lavoro nei campi dell’innovazione e della produzione di cultura», dice Giandomenico Romanelli52; ed il rettore di Ca’ Foscari, Maurizio Rispoli, aggiunge: «La conservazione e la tutela della storia sono il primo movente e il grande volano attraverso il quale far diventare produttiva l’attività culturale; se ci lasciamo portare soltanto dalle scelte della libertà d’iniziativa e di mercato, prevarranno le attività che rendono danari a breve, prevarrà il turismo, Venezia diverrà una città soltanto turistica. Per sviluppare tutto il potenziale, occorre una coalizione progettuale che abbia un centro: se non siamo di fronte a un distretto acentrico, ci sono tutti gli operatori, ma non c’è una guida; non c’è la capacità di mettere insieme le forze, e produrre quel salto di qualità. La forza per fare questo, dovrebbe possederla l’amministrazione comunale; diversamente, ognuno resterà nel proprio piccolo orto, cercando di coltivarlo al meglio»53. Insomma, Venezia, in realtà, vive ancora della grande, vecchia, antica, nobilissima ed assai ricca eredità. Anche se forse è un po’ angusto, poco lungimirante ed anzi alquanto miope, l’ex Serenissima sembra accontentarsi di campare sulla rendita di posizione che il turismo le conferisce, e sul suo antico prestigio, insomma su quanto scriveva Thomas Mann: «Le altre città hanno tesori artistici; mentre Venezia è essa stessa un’opera d’arte». 42 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 43 Nel dibattito L’industria culturale a Venezia, cit. 44 Ivi. 45 Perego e Sbetti, Vivere a Venezia, cit. 46 Bianchin, Acqua granda, cit. 47 Venezia, cit. 48 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 49 All’indirizzo http://www.elmoro.com/IT/frmhow.html 50 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 51 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 52 Nel dibattito L’industria culturale, cit. 53 Ivi. 4) CINQUE “MISTERI DOLOROSI”. SPOPOLAMENTO, NEGOZI, POCHE SALE, LA FENICE, GLI EVENTI I dati di base li conosciamo tutti: oggi, il centro storico veneziano non raggiunge nemmeno la metà degli abitanti che possedeva nel 1871, quando erano 139.695 1. Nell’ultimo mezzo secolo, ha perduto quasi il 62 per cento dei propri cittadini: un ben triste primato, probabilmente perfino un record assoluto per il nostro paese, se si eccettuano alcuni piccoli agglomerati della fascia interna appenninica, che purtroppo, essendo stati letteralmente abbandonati, sono ormai proprio del tutto disabitati. Oggi, nella parte insulare del capoluogo veneto vive la medesima quantità di persone che, secondo il primo rilevamento statistico comunale dopo quelli compiuti dall’ultimo podestà austriaco, Pierluigi Bembo Salomon, sempre in quegli anni ed esattamente nel 1869, occupava soltanto i sestieri di Castello e Cannaregio. Come se, allora, San Marco, San Polo, Santa Croce, Dorsoduro e la Giudecca fossero stati completamente deserti, e del tutto privi di ogni abitante. Per giunta, questa grave emorragia di risorse umane certamente non accenna neppure a concludersi. È infatti ormai da mezzo secolo che il centro storico perde abitanti: dal 1981, in controtendenza con il dato nazionale che mostra incrementi sia pur ridottissimi (un decimo di punto, o poco più), li perde al ritmo, pressoché costante, di un buon due per cento, in media, ogni dodici mesi 2; ogni anno, se ne vanno, si trasferiscono stabilmente altrove, ben mille persone. Non solo: ma tra i cittadini che restano a vivere nella porzione insulare del Comune, uno su quattro ha più di 65 anni. In quattro decenni, l’età media dei residenti è passata da 41 a 49 anni; e nel frattempo, metà dei negozi di alimentari hanno dovuto abbassare per sempre le saracinesche. «Chiudono i panettieri, i calzolai, i sarti e le merciaie. Perfino le osterie. Al loro posto, aprono le boutiques delle grandi firme, le multinazionali del fast-food, le botteghe delle maschere fabbricate a Taiwan per un carnevale fittizio che non ha più nulla di spontaneo» 3. L’invecchiamento della popolazione è abbastanza clamoroso: da almeno vent’anni, segue una progressione superiore che non nell’intero Comune; e, giusto per capirci, già il dato dell’intero Comune è, a sua volta, superiore alla media nazionale. Un raffronto a livello mondiale può forse dare misura dell’entità del fenomeno: nel centro storico di Venezia, gli ultra ottantenni sono 7,5 volte più della media mondiale; gli abitanti tra i 75 e i 79 anni, superiori di cinque volte; quelli tra i 70 e i 74, più del triplo che nel resto del mondo. tabella 13. Popolazione veneziana nel 1869, ripartita per sestieri San Marco Castello Cannaregio San Polo 17 013 33 911 30 040 12 121 Santa Croce Dorsoduro Giudecca Intero Comune 12 482 17 412 2 795 125 774 Fonte: Franzina, Venezia , cit. In compenso, si fa per dire, i bambini fino ai quattro anni sono, sempre in questa parte della città, circa un quinto della media mondiale; e un terzo quelli tra i cinque e i nove anni. La sola fascia d’età in cui il “cuore” di Venezia si colloca ai medesimi livelli del resto della terra, è quella delle persone tra i 35 e i 44 anni. Questo produce anche un notevole “vuoto di città” che, intuitivamente, si ripercuote in modo assai negativo, e in misura quanto mai sensibile, anche sulla manutenzione urbana: «Da un censimento comunale, 28 mila abitazioni figurano occupate, mentre 10.600 sono vuote, soltanto un terzo denunciate come seconde case» 4. Logicamente, alla perdita di popolazione, s’accompagna, inevitabilmente, la riduzione delle occasioni di lavoro: infatti, tra il 1990 e il 1995, gli occupati nel centro storico (di cui molti, s’intende, provengono quotidianamente dalla terraferma), da 65.439 che erano si contraggono a 51.629 5, e, nella maggioranza, risultano «inseriti in attività lavorative immateriali (27.179), o turistiche (15.386)» 6, con percentuali rispettivamente del 41,53 e del 23,52 sul totale degli occupati. Ma ancor più significativo è un altro dettaglio: nel centro storico, «la domanda di lavoro generata dal contesto locale è di poco inferiore al numero dei residenti», ed indica «un “tasso d’impiegabilità” dello 0,73 per abitante» (dato del 1994), contro «lo 0,28 dello stesso indicatore, calcolato per l’area comunale» 7. tabella 14. Popolazione mondiale e del centro storico, per fasce d’età Gruppi d’età Indice mondiale 0 – 4 anni 5 – 9 anni 10 – 14 anni 15 – 19 anni 20 – 24 anni 25 – 29 anni 30 – 34 anni 35 – 39 anni 40 – 44 anni 45 – 49 anni 50 – 54 anni 55 – 59 anni 60 – 64 anni 65 – 69 anni 70 – 74 anni 75 – 79 anni oltre 80 anni Totali 12 000 10 000 9 000 9 000 8 000 8 000 6 000 6 000 6 000 6 000 5 000 4 000 4 000 3 000 2 000 1 000 1 000 100 000 Abit. centro storico 1 959 2 089 2 135 2 461 4 026 4 884 4 904 4 410 4 410 4 661 5 288 5 445 4 768 4 807 4 681 3 616 5 362 69 906 Indice Venezia 2 803 2 988 3 054 3 521 5 759 6 987 7 015 6 308 6 308 6 668 7 564 7 789 6 821 6 876 6 696 5 173 7 670 100 000 Nella prima colonna, la popolazione mondiale rapportata al 100 mila; nella seconda, la realtà veneziana; nella terza, la sua proiezione come se nel centro storico vivessero 100 mila persone. Fonti: dati del Registro tumori del Veneto e Assessorato alla statistica del Comune di Venezia, riportati in Musu, Ramieri, Cogo, Indicatori di sostenibilità , cit. Sempre nella prima metà degli anni novanta, rispetto a quelle dell’intero Comune, le performances della sua area più antica, e cioè del centro storico, risultano sensibilmente più negative. Ad un calo di 633 unità nel numero delle imprese a livello comunale, si contrappone infatti, nel centro storico, una riduzione di ben 404 ditte o società (cioè, otto su dieci di quelle che hanno chiuso, erano localizzate nella porzione insulare dell’ex Serenissima). E ad una diminuzione nel numero degli occupati che in tutto il Comune è del 10,5 per cento, corrisponde una contrazione ben superiore degli addetti, fino a un livello del 21,1. Suddividendo i dati globali in tre macro-categorie (economia “materiale”, “immateriale” ed attività turistiche), sempre nel centro storico, e sempre tra il 1990 e il ’95, si osserva una riduzione dell’immateriale pari all’1,3 per cento delle imprese e al 3,55 degli occupati “ufficiali”; contro una diminuzione, a livello comunale, pari rispettivamente al 12 e al 25-30 per cento. Per cui, «il contesto veneziano (sia centro storico che Comune) appare straordinariamente debole proprio nell’incentivazione dell’industria turistica e delle attività connesse» 8. La “radiografia occupazionale” del centro storico di Venezia mostra rilevanti perdite, «un’accentuazione del trend negativo», nei comparti dell’“energia” (10 mila addetti circa) e del vetro di Murano (duemila persone) nel settore economico “materiale”; mentre invece “tiene” ancora abbastanza l’edilizia (con una ragguardevole crescita del 300 per cento nel sia pur piccolo sotto-settore della costruzione, ma soprattutto della riparazione, di macchine per ufficio, che da 63 passa a 260 addetti). Nel campo dell’“immateriale”, invece, denotano tassi di sviluppo rilevabili soltanto tre sotto-settori su 13: e precisamente il commercio al minuto di articoli vari, le assicurazioni e l’istruzione; mentre si contraggono quelli dell’abbigliamento e della casa. Ma negativi, nella zona lagunare della città, sono perfino gli indici del turismo, che, nei cinque anni considerati, ha perduto quasi quattromila addetti. Oltre la metà, nel settore dei bar, ristoranti ed alberghi (e, siccome il numero degli esercizi non è granché diminuito, questa contrazione è sicuro indizio di un servizio peggiore, cioè di una inferiore qualità); non pochi, però, anche nei trasporti terrestri e internazionali, e perfino nelle agenzie di viaggio. tabella 15. Aziende ed occupati del turismo nel centro storico Settori ’90 774 Numero delle aziende ’91 ’92 ’93 ’94 ’95 747 747 742 733 732 ’90 1 425 Numero degli occupati ’91 ’92 ’93 ’94 4 889 5 247 4 904 4 862 ’95 Hotel, bar,rist. 4 901 Trasporti terrestri 12 14 15 12 11 14 3 789 3 731 3 575 3 432 3 310 3 358 Trasporti d’acqua 37 41 42 41 37 41 688 662 667 694 694 702 Trasporti intern.li 199 204 148 141 141 115 2 169 2 164 1 980 1 767 1 817 1 882 Trasporti aerei 1 1 1 1 1 1 11 1 1 1 1 1 Attività di trasp. 4 3 1 1 1 2 760 529 371 625 302 321 Agenzie Viaggio 17 16 16 14 15 14 544 456 523 500 514 444 Totale 1 044 1 026 970 952 939 919 15 386 12 432 12 364 11 923 11 500 11 613 Fonte: Belussi, Indicatori di occupazione dell’economia veneziana , cit. Per cui oggi la Venezia più storica, sfibrata sia dal calo demografico, sia dall’invecchiamento dei propri abitanti, è soprattutto, e lo abbiamo veduto, un luogo di turisti. Nell’area delle isole, il turismo assorbe, da solo, poco meno della metà, esattamente il 40,3 per cento, dei dipendenti occupati nell’economia immateriale (stampa, commercio, riparazioni beni di consumo, istituti di credito, assicurazioni, servizi alle imprese e pubblici, sicurezza e giustizia, nettezza urbana e pulizia, istruzione e sanità, servizi sociali e ricreativi, e quelli alla persona): nel 1995, infatti, erano 30.784, e 76.395 quelli dell’intero settore 9. Il turismo è ormai rimasta pressoché l’unica industria degna del nome nel centro storico: specie da quando anche il Teatro La Fenice ha dovuto lasciare la propria sede, andata bruciata ormai già tre anni fa; e ancor prima, l’esodo aveva invece già riguardato i giornali quotidiani; e non aveva certo risparmiato alcuni centri direzionali anche di lunga tradizione, come ad esempio quello delle Assicurazioni Generali. Dunque, il turismo, composto delle mille attività sulle quali la città in buona misura vive, si calcola che possa “pesare” almeno 2.500 miliardi all’anno: anche consumare le antiche pietre, evidentemente, rende quattrini. In più, Venezia è poi un luogo di studenti universitari (quasi 25 mila: 15.503 a Ca’ Foscari e 9.143 allo Iuav d’Architettura, dove però erano 9.716 nel precedente Anno accademico); ma certo senza essere mai riuscita a diventare quel grande campus, quasi risolutore degli stessi destini moderni dell’antica Serenissima, in cui non pochi confidavano quasi 50 anni fa 10. Quindi, la città ha necessariamente perduto le strutture – anche quelle deputate allo spettacolo e all’intrattenimento – che pure possedeva, e che giustificavano la propria esistenza in vita, magari perfino producendo degli utili, quando, per ricchezza di abitanti, nella penisola la città era seconda soltanto a Napoli; quando era una grande capitale: prima, dei commerci sul mare e nel mondo, poi della cultura umanistica e della nuova scienza. Eppure, nell’immaginario collettivo, nelle attese di chi vi approda, Venezia è rimasta quella d’un tempo: e la sua carenza di strutture, abbastanza clamorosa, stride davvero parecchio sia con quella reputazione, sia con quelle aspettative. In più, la difficoltà oggettiva negli spostamenti e lo stesso invecchiamento abnorme della popolazione hanno da tempo innescato una spirale davvero perversa: da un lato, ad esempio, penalizzano sicuramente gli esercenti dei luoghi di spettacolo, poiché il loro pubblico ne risulta sensibilmente ridotto; e, dall’altro, alla fine ne riescono penalizzati gli stessi veneziani, che negli ultimi anni (poiché la crisi nel settore dello spettacolo si è assai accentuata dal 1970 in poi) hanno visto scomparire ad uno ad uno, i teatri e le sale cinematografiche. Ha davvero ragione Giuseppe De Rita, quando afferma che «Venezia soffre di un paradosso: è vittima del suo essere una città speciale» 11. Non stupiamoci, quindi, se il capoluogo (un tempo non soltanto del Nord-Est d’Italia) che per due secoli ha mantenuto in vita sette compagnie teatrali contemporaneamente, a fine Settecento possedeva otto sale, e addirittura anche sedici nel secolo precedente, ora di teatri ne può vantare uno soltanto di prosa: giustamente intitolato a Carlo Goldoni, ma per giunta anche fifty-fifty, o forse nemmeno, con Padova; più due altri piccoli luoghi deputati a questo genere di spettacolo, ma di stampo sicuramente sperimentale. E c’è anche di peggio: i cittadini che nel 1972, cioè davvero quasi l’altro ieri, potevano ancora contare su ben 86 sale cinematografiche 12, oggi devono accontentarsi di appena 33 esercizi in tutto. Il dato è relativo al 1997, e denota una certa ripresa: nel 1996, infatti, erano soltanto 28; e comprende – si potrebbe dire – i locali “di ogni ordine e grado”: cioè inclusi quelli parrocchiali, o quelli aperti soltanto nei fine settimana 13. Perché se invece si guarda alle vere e proprie sale commerciali, che garantiscono una programmazione continuativa, aperte e funzionanti nell’intero Comune, la situazione è ancor più disperante: Roberto Ellero, responsabile dell’Ufficio cinema del Comune (un ente, come vedremo, davvero benemerito), le elenca così: «Nove a Mestre, una a Marghera più un’altra però non full-time, un esercizio al Lido e quattro in tutto nel centro storico» 14. Il dato evidenzia un autentico, clamoroso e bizzarro contrappasso: perché questa crisi (o meglio, questa débâcle) si manifesta proprio nel luogo che, ormai da ben 68 anni, è sede di uno dei massimi Festival dedicato appunto al cinema. E proprio nella città, l’abbiamo visto, «più fotografata al mondo» 15. 1 Franzina, Venezia, cit. 2 Musu, Ramieri, Cogo, Indicatori di sostenibilità, cit. 3 Bianchin, Acqua granda, cit. 4 Mario Pirani, «La Repubblica», 7.12.1998. 5 Fiorenza Belussi, Indicatori di occupazione dell’economia veneziana, in Fondazione Enrico Mattei e Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Indicatori di sostenibilità: uno strumento per l’Agenda 21 a Venezia, incontro di studio, Venezia, 26.10.1998. 6 Ivi. 7 Ivi. 8 Ivi. 9 Ivi. 10 Ad esempio, si veda Cavallari, Montanelli, Ottone, Piazzesi, Russo, Italia sotto inchiesta, cit. 11 Giuseppe De Rita, Venezia 2000, idee e progetti, a cura di Giuseppe De Rita, Antonio Preieti e Gaia Marotta, Venezia, Marsilio, 1995 (Ricerche). 12 Offerta e domanda cinematografica. Il territorio veneziano: analisi e proposte, a cura di Roberto Ellero, Venezia, Marsilio, 1978 (Documentazione territorio società). 13 Lo spettacolo in Italia, statistiche 1997, Roma, Pubblicazioni Siae, 1999. 14 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 15 Si veda, cap. 2, nota 65. 4.1) Interi quartieri e paesi senza nemmeno un cinema Oggi, in un luogo dove, oltre a tutto, circolare, specie per gli anziani, non è propriamente facilissimo (anche perché, come se il resto non bastasse, «le calli veneziane sono poco – e male – illuminate: non so se per accrescerne il fascino, per risparmio, o per incuria» 16), interi quartieri sono privi di una qualunque sala da cinema: così Castello, San Polo, parte di Dorsoduro, l’intera Giudecca; o, in terraferma, Favaro, o Pellestrina e Ca’ Savio. E in terraferma, quanto esiste è soprattutto insediato a Mestre: anche grazie alla capacità e al dinamismo di un gestore privato, anzi di una famiglia che si tramanda quest’attività di padre in figlio. Perché, e non è soltanto un bisticcio di parole, l’antica città del cinema è rimasta senza i cinema. E stiamo parlando del luogo di spettacolo che era il più diffuso, il più popolare, presso la gente di ogni ceto e livello sociale; che non richiede nemmeno abiti particolari (come invece una soirée a teatro, o a un concerto); che, al contrario d’altre forme di intrattenimento, fondate su una rappresentazione soltanto, cui bisogna assistere spaccando il minuto, permette, tra i diversi orari, di scegliere quello più confacente alle private esigenze individuali. Ma Venezia è invecchiata; e gli anziani stentano, specie di notte, perfino ad avventurarsi oltre le mura domestiche: «Nessuno in giro, tanto per cambiare, alle otto di sera», annota ancora Paolo Barbaro 17. E aggiunge: «“La sera a Venezia”, mi chiedono al telefono gli amici milanesi, “cosa si fa la sera a Venezia? Festival Biennale, mostre, teatro: sarete sempre in giro”. In certi periodi, ammetto, c’è anche troppo da fare, da uscire, da vedere; ma sono periodi brevi, casuali. Il resto dell’anno, poco o niente: i cinema sono un disastro, i trasporti difficili» 18. L’editore Cesare De Michelis, nei panni del “testimone del tempo”, dice: «Le sale sono diventate, quasi tutte, dei supermercati; soltanto qualcuna è adibita ad altri usi culturali. C’è stata una moria progressiva; e i pochi locali rimasti, spesso sono assai poco invitanti: malmessi, con sistemi di proiezione cui ormai il progresso tecnologico ci ha da tempo disabituato. Se a Mestre esiste un bravo imprenditore, nel centro storico di Venezia è rimasto quasi soltanto il Comune» 19. Ne riparleremo. Perché prima è forse il caso di occuparsi di una tra le maggiori glorie veneziane, la cui fama è oggi affidata soltanto al passato ed al ricordo: anche quello dell’evento assolutamente terribile che l’ha fatta perire. Mentre il presente rischia invece di trasformarsi in un grave scandalo nazionale. Ed il cui futuro, purtroppo, appare rimesso più alle mani degli dei, che a quelle dell’uomo. Logicamente, stiamo parlando del Teatro (anzi, “Gran Teatro”) La Fenice, pressoché totalmente bruciato nella bruttissima notte tra il 29 ed il 30 gennaio 1996. Dopo 204 anni di onoratissima attività, ed a 129 e poco più di un mese da un altro incendio, dal quale però risorse in un solo anno (era il 1837, e in soli sette mesi provvidero alla ricostruzione gli ingegneri Tommaso e Giambattista Meduna). E stavolta, invece, rimasto, da allora, soltanto un lodevole progetto di ricostruzione “dove era e come era”, per citare il fortunato slogan che, allora accompagnato anche dall’emissione di uno speciale francobollo, anche divenuto – con il tempo – abbastanza raro, nel decennio tra il 1903 e il 1912 fu alla base della riedificazione del campanile di San Marco, crollato la mattina del 14 luglio 1902. E in questo suo attuale disastro, la Fenice, ahinoi, non è certamente sola: anzi, è in ottima e numerosa compagnia. Il nostro paese è infatti ben disseminato di, diciamo così, croci e lapidi teatrali. Un “qui sorgeva” (e non è stato ancora ricostruito), che fa davvero stringere il cuore. A Bari, il Petruzzelli è andato in fiamme ormai una decina di anni fa, il 27 ottobre 1991, e non è ancora stato restituito; come, ad Ancona, il Teatro delle Muse, colpito da una bomba durante l’ultima guerra. A Milano versa, o giace, in analoghe condizioni, e sempre dopo essere stato bombardato in tempi bellici, il Dal Verme. Palermo, invece, ha più o meno riavuto il proprio Teatro Massimo; ma per questo, ha dovuto attendere circa un quarto di secolo; mentre invece, a Genova, per il Carlo Felice ce n’è voluto quasi mezzo. E, a Roma, anche la costruzione dell’Auditorium di Renzo Piano è in ritardo di un paio d’anni e imbarazza la Giunta Rutelli che ha dovuto rescindere i contratti con le imprese. Per carità, evitiamo la caccia al colpevole: già Franz Kafka (1883-1924) scriveva che «i ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata». Deve essere assolutamente vero, almeno per il nostro paese: perché, in Spagna, Barcellona ha ricostruito il suo Liceu, analogamente combusto, dopo soli cinque anni e mezzo dacché, il 31 gennaio 1994, era andato letteralmente in fumo per la scintilla di un saldatore. La Fenice, invece no. E l’impasse del suo cantiere, mentre scriviamo ormai fermo da mesi e mesi, è quasi emblematica di un certo immobilismo veneziano; dei tempi lunghi che la città possiede. Forse, da sempre e un po’ in tutto, come talora capita alle “città d’acqua”, dove il passo del pedone non cambia di velocità con il progredire della tecnica. Sta di fatto che una prima aggiudicazione del concorso, secondo il progetto di ricostruzione messo a punto da Gae Aulenti, è stata revocata quando già il cantiere era entrato in funzione; il secondo classificato, che a quel punto è diventato il primo, era il progetto di un architetto che, purtroppo, se ne era da poco andato, Aldo Rossi; e il tutto si è impantanato nei ricorsi e controricorsi alla giustizia amministrativa da parte delle tre ditte interessate ad eseguire i lavori 20. Eppure, a Venezia il proprio teatro è assolutamente indispensabile; come stia cercando di surrogarlo finché attende di riaverlo, lo esamineremo più avanti; ma “quel” teatro è pedina fondamentale e irrinunciabile per una città che non è certamente la più indicata ad ospitare fabbriche ed attività comunque materiali; e che senza il teatro ben difficilmente potrebbe aspirare a diventare non soltanto, ancor più che lo sia oggi, una capitale perfino europea della cultura; ma addirittura un grande “capoluogo dell’immateriale”. Cioè, appunto, anche dello spettacolo; e ancor più, perché nessun altro luogo al mondo può forse offrire, quanto questa città, un contesto e uno scenario altrettanto unici ed appetiti. Del resto, questo è anche il trend della stessa economia cittadina che, percentualmente e nel decennio tra il 1981 e il 1991, ha visto contrarsi dal 37,71 al 30,64 per cento i settori della produzione materiale (la parte del leone è costituita dalle attività manifatturiere, passate dal 29,68 al 22,89 per cento); e, per converso, dilatarsi invece dal 62,29 al 69,36 21 quelli della produzione immateriale: il commercio segna invece percentuali positive attorno al 25 per cento; gli alberghi e i ristoranti attorno al 15. Quindi, l’industria dello spettacolo, di cui sicuramente beneficiano i cittadini residenti, ma che è anche in grado di attirare il segmento migliore del turismo, quello d’élite, più colto, che più spende e più a lungo soggiorna, può ancora costituire una valida risorsa per la città: purché venga, con qualche celerità e secondo i criteri più opportuni, debitamente rivitalizzata. Non è certamente ipotizzabile un ritorno ai tempi gloriosi in cui il Carnevale durava per sei mesi (e monsieur François-Marie Arouet, detto Voltaire, fa incontrare il suo Candide con un’intera tavolata di re, venuti appunto a Venezia per trascorrervi questa festa: perché già nel 1640 lo scrittore inglese John Evelyn, il cui Diario di viaggio in Francia e in Italia fu però pubblicato solo nel 1818, aveva annotato che «il mondo intero si rifugia a Venezia per vedere le stravaganze e le follie del Carnevale»); ma in qualcosa si può comunque, e soprattutto si deve, sperare. Se, da un lato, le istituzioni della città che si occupano, di cultura e spettacolo, vanno sicuramente rivitalizzate, dall’altro, va organizzata, e forse maggiormente ripensata e coordinata, una “politica degli eventi”, che pur potendosi giovare di quell’innegabile “teatro” (e non soltanto “quinta”) che la città lagunare è, non lo riduca a puro sfondo. Infine, un occhio di particolare riguardo lo meritano certamente i servizi e le nuove tecnologie – come la “multimedialità”, ma non soltanto – che costituiscono gli scenari di un domani ormai nemmeno più troppo futuribile. Per limitarci soltanto a un piccolo esempio, oggi, Venezia, dove (racconta sempre Roberto Ellero, che con passione le raccoglie nella cineteca intitolata a Francesco Pasinetti) «sono state girate oltre mille pellicole cinematografiche», non ha addirittura neppure la possibilità tecnica di svilupparne una. 16 Paolo Barbaro, Venezia, l’anno del mare felice, Bologna, Il Mulino, 1995 (Intersezioni). 17 Barbaro, La città ritrovata, cit. 18 Ivi. 19 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 20 Si veda, ad esempio, Alessandra Carini, Rinasce il Liceu di Barcellona, ma per la Fenice ancora si litiga, «La Repubblica», 8.10.1999. 21 Musu, Ramieri, Cogo, Indicatori di sostenibilità, cit. 4.2) Una “politica degli eventi”; ma con tanta saggezza Infine, un discorso a parte meritano gli eventi veneziani. Per essi, la città, un tempo, andava famosa. Famosissima. Era rinomata in tutto il mondo e, allora almeno da tutta l’Europa, le sue solennità e le sue feste attiravano i viaggiatori ed i turisti. Oggi, lo vedremo, molto di meno. Eppure, piaccia o non piaccia, i nostri tempi sono ormai assai pervasi di spettacolarizzazione. «Negli ultimi dieci anni, un fenomeno sembra caratterizzare la scena urbanistica internazionale: la concentrazione, temporale, spaziale e tematica, degli sforzi delle politiche municipali su happenings, su grandi eventi. Progetti o azioni, cioè, basati su un grande concorso di folla. Richiamata da occasioni tra loro diversissime»: questo era l’incipit di un volume ormai già vecchio di sei anni 22. E così, il nostro paese ha giocato, e indubbiamente perso, la partita dei mondiali di calcio nel 1990 (investimenti per oltre seimila miliardi 23, che hanno lasciato una scia di problemi, non solo giudiziari: dalle stazioni ferroviarie inagibili a Roma, agli stadi in cui piove, o dalla gestione troppo costosa), ed ora si misura con il Giubileo, dopo aver tentato in due casi, e in uno perduto, perfino la carta delle Olimpiadi. Gli eventi, almeno quelli di cultura e di spettacolo, possono essere ripartiti in due grandi categorie di massima: quelli una tantum, e quelli ripetibili, perfino periodici. Ma si possono anche catalogare a seconda dei benefici che recano, o dei pesi che infliggono; per il grado maggiore, o minore, di integrazione con alcune caratteristiche del luogo stesso dove avvengono; per la quantità d’interesse e di concorso popolare che, verosimilmente, sono in grado di calamitare. Il medesimo evento, trasferito di luogo, non sarà mai lo stesso: potrà anche clamorosamente fallire, o essere del tutto incompatibile; portare cioè più danni che non vantaggi. Venezia ha sicuramente bisogno di eventi, per coinvolgere (o, ancor meglio, attirare) il grande turismo. Quindi, deve riuscire a produrre episodi, fatti, spettacoli assolutamente memorabili, o per il loro valore intrinseco, o per la cornice, irripetibile, in cui sono inseriti: nessuno si sposta per vedere ciò di cui già dispone sotto casa; soltanto le occasioni eccezionali attirano ormai il pubblico. E forse solo così la città può sperare di accrescere la platea che offre agli impresari di spettacolo; soltanto così aumentare il suo appeal: ricordandosi che, prima ancora di un luogo in crisi demografica, è un gran teatro del mondo. Irrobustire le sue istituzioni che presiedono agli spettacoli, e di questo si curano, è certamente doveroso, per le difficoltà non da poco con cui numerose di esse sono costrette a misurarsi; ma, comunque, non sarebbe sufficiente a mutare il volto del centro storico. Anche un’efficace “politica degli eventi”, da sola forse non basterebbe; ma, certamente, almeno aiuterebbe un po’. C’è un caso recente che, per quanto può essere paradigmatico, vale forse la pena di sviscerare: nel marzo 1999, l’ente lirico di Cagliari, che dei 13 riconosciuti come nazionali è certamente il più periferico e il più piccolo, almeno per quanti contributi riceve dallo Stato (e di gran lunga: 12 miliardi all’anno, e, subito dietro lui, c’è l’Accademia nazionale di Santa Cecilia, che tuttavia è un ente sinfonico; non deve cioè sopportare i costi degli allestimenti), ha realizzato, per le capacità e l’impegno del sovrintendente Mauro Meli, due concerti di colui che oggi è ritenuto il massimo direttore d’orchestra, Carlo Kleiber, il quale, per giunta, usa esibirsi davvero assai di rado. Ebbene, il nome del teatro e della città sono finiti in tutti i notiziari, anche internazionali, specializzati e non; a Cagliari sono perfino appositamente giunti una cinquantina di spettatori dal Giappone (dove Kleiber è assolutamente osannato: in Internet, una ventina di siti giapponesi gli sono dedicati); un centinaio da tutt’Europa; più altre centinaia da fuori città e dal continente. È stato, appunto, un grande evento musicale. Che se Venezia avesse avuto la forza e la possibilità di organizzare, sarebbe forse stato perfino ancor più “epocale”. Invece, nell’ex Serenissima, parlare di eventi significa essere subito guardati, comunque, con immenso sospetto. Forse perché, negli ultimi anni, alcuni di quelli programmati, o realizzati in laguna, sono stati molto pubblicizzati (hanno cioè ottenuto l’effetto su cui contavano); ma, certamente, ancor più discussi o criticati. Dalla (mancata) Esposizione universale, al celebre concerto dei Pink Floyd ormai undici anni or sono (15 luglio 1989). Altri, invece, sono stati guardati sicuramente con miglior favore: dal ritorno in grande stile del Carnevale, fino alla recente recita, in diretta tv, del Milione di Marco Paolini all’Arsenale. E poi, ci sono i festival e le esposizioni della Biennale, che costituiscono, essi stessi, sempre e comunque altrettanti eventi; nonché le feste tradizionali legate alla città, e le manifestazioni, folkloristiche o sportive, che ospita ormai con continuità. Cominciamo proprio dai due casi che maggiormente hanno fatto discutere, cioè l’Expo, programmata per il 2000 e mai realizzata, e il concerto in laguna del complesso rock più famoso, o quasi, del momento. Intanto, diciamo subito che, negli ultimi dieci anni, non soltanto Venezia ha in pratica rifiutato l’Expo, ma anche Parigi e Vienna 24. E che Venezia difficilmente è in grado di reggere ad assalti del turismo ancor più pronunciati di quanti, già ora nei giorni topici, subisce. Ma diciamo anche che l’idea originaria, di un’esposizione diffusa nell’hinterland, magari accompagnata da severi calmieri per ridurre l’accesso al centro storico della città (ma quali? Finora, non ne sono mai stati adottati), forse non è stata abbastanza spiegata, oppure capita. E che, in più, il progetto scontava sicuramente l’immagine negativa recatagli da un personale politico già in quel periodo abbondantemente discusso e sicuramente non troppo amato. Diverso, invece, il concerto in laguna dei Pink Floyd, soprattutto perché non è stato soltanto progettato, ma anche realizzato. Oggi, un osservatore attento dei fenomeni cittadini come Cesare De Michelis, dice che «forse, poteva perfino essere compatibile con la città; certo è stato malamente organizzato, e da qui sono nati molti dei problemi». E Piero Rosa Salva, assessore al turismo, rincara la dose: «È stato un problema di tipo organizzativo; a Venezia, volendo, si può fare di tutto: riusciamo anche a far correre una maratona. Ma, in quel caso, furono commessi parecchi errori; anche se ora basta: è un infarto lontano, guardiamo al futuro» 25. All’inizio, nonostante le polemiche delle associazioni ambientali e di difesa della città alla sua vigilia, il concerto dal pontone in Bacino, davanti a San Marco (come abbiamo visto, non certo un inedito: già nel Cinquecento v’erano stati teatri simili, e ancora Cesare De Michelis ricorda d’aver assistito ad una performance di danza negli anni ottanta) ebbe un’accoglienza assolutamente positiva. Titoli come: «Un sogno nell’acqua, una scenografia da primi nel mondo», o «Venezia si tinge di rock» 26. Ma dopo, quando si vide che la città aveva retto abbastanza male all’invasione di 150 mila turisti, per nulla (o quasi) organizzati, incanalati, perfino accuditi o serviti, cominciarono i guai. Perfino il manager del gruppo inglese, Steve O’ Rourke, ebbe da ridire sull’«abbandono degli organi pubblici preposti alla gestione della città e di ogni elementare servizio di sicurezza, igienico e sanitario» 27; e l’evento divenne un caso di scuola, su cosa si deve evitare per non «ferire i centri storici» 28. Assurse, insomma, ad emblema dell’evento sbagliato. 22 Grandi eventi, la festivalizzazione della politica urbana, a cura di Marco Venturi, Venezia, Il Cardo, 1994 (Saggi). 23 Ivi. 24 Vittorio Gregotti, La città europea oggi, in Principi e forme della città, Milano, Libri Scheiwiller (Garzanti per il Credito Italiano), 1993. 25 Al dibattito su Lo spettacolo a Venezia, cit. 26 «Il Messaggero», 15 e 16.7.1989, p. 19. Il quotidiano, all’epoca, apparteneva a Raul Gardini, che aveva grandi idee e mire sulla «Venezia degli eventi», come del resto dimostrò la stessa vicenda del Moro di Venezia. 27 Vedi notiziario Ansa, nn. 415/0B e 430/0B del 16.7.1989. 28 «Panorama» n. 1215, 30.7.1989, p. 38, servizio di Maria Laura Rodotà. 4.3) Tante feste, e per tutti i gusti (ma con meno pubblico) Eppure, quel 15 luglio di dieci anni fa non era soltanto il giorno dei Pink Floyd; ma anche quello del Redentore. Cioè di una tra le più antiche e sentite feste veneziane, che celebra la fine della terribile peste del 1577. In quel giorno, la Giudecca cessa di essere un’isola, grazie a un ponte di barche fino alla chiesa, appunto, del Redentore: la prima volta, accadde nel 1578, con la partecipazione del doge in testa. Perché quella delle feste è un’antichissima tradizione veneziana; ogni occasione era buona per celebrarne una. Alcune sono sopravvissute ancora oggi, e spesso sono buone perfino per i turisti, oltre che magari sentite e vissute dai cittadini. Così, per esempio, si comincia con la Regata delle Befane, la prima dell’anno in Canal Grande, con tutti i gareggianti, logicamente, travestiti come occasione impone. Poi, a febbraio, è la volta del (ritrovato) Carnevale, di cui parleremo più esaurientemente tra breve. A maggio, la Vogalonga, che forse non ha radici né rituali né antichissime, ma è ormai diventata un “classico”: trenta chilometri, in città e in laguna. Nel medesimo mese, la Sensa, cioè l’Ascensione, la più antica di tutte poiché risale all’anno 998, al ritorno vittorioso delle navi partite per conquistare la Dalmazia, e centomila persone invadono la città (già nel Settecento, quando Venezia era la Ville lumière dell’Europa intera, ne soggiornavano trentamila, e allora il turismo “mordi e fuggi” non esisteva ancora). Precede dunque il Mille la tradizione per cui il doge, che assisteva all’apertura delle celebrazioni in Basilica (esposti pala d’oro e tesoro) dallo stesso pergamo su cui Enrico Dandolo aveva arringato i Crociati nel 1204 (ma quanti simbolismi e quanti ritorni), si recava sul Bucintoro fino a San Nicolò del Lido, per gettarvi in mare l’anello che simbolizza – come vogliono molti studiosi – il dominio sul mare. Oggi, invece del doge, provvedono a sposare la città con il mare sindaco e patriarca: le autorità laica e religiosa della città. E un veneziano doc, come Sandro Cappelletto, dissente 29 dall’interpretazione: «Non “ti domino”: questa è una lettura tutta ottocentesca, borghese e falsa della festività. La festa della Sensa è la riconciliazione con il vero signore della città, e cioè con l’acqua, con il mare, e non l’affermazione di un dominio. Il gesto non è equivocabile se non ideologicamente: io ti ridono l’oro, ti ridono l’anello; come nel Ring di Wagner, nel prologo dell’Oro del Reno: quello che Alberich ha strappato al fiume». Ma andiamo avanti con il calendario: da giugno a settembre, la Biennale. Sempre a settembre, la Regata storica, la più importante delle cento che si svolgono in città e in laguna, Bucintoro in testa nella sfilata per ricordare l’arrivo di Caterina Cornaro, regina di Cipro, 1489, in cui per la prima volta si celebrò l’evento. Poi, le caorline e i gondolini a due remi, i “pupparini”, tutte le imbarcazioni immaginabili e possibili, impegnate in competizioni che terminano alla machina, davanti a Ca’ Foscari. A ottobre, la Festa del mostro, nell’isola di Sant’Erasmo; ma soprattutto l’affascinante percorso lungo il Brenta e le sue ville fino in Piazza San Marco, della Venice Marathon, “classica” di 42 chilometri e rotti, che anche New York possiede (e nessuno, finora, ce l’ha fatta a eguagliarla), ed ormai pure Roma e tante altre città: ma il “contesto”, come avrebbe detto Leonardo Sciascia, qui è assolutamente irripetibile. Il 21 novembre, tocca invece alla Madonna della Salute (1630: un’altra peste, un altro ponte di barche, un’altra processione da San Marco). Ma poi, Su e zo per i ponti, un’altra kermesse podistica per la città, ad aprile la festa patronale di San Marco con il tradizionale bocolo, scambio di bocciolo di rosa 30, e tanti altri eventi o manifestazioni ancora. Per i più, tuttavia, Venezia e la festa, Venezia e lo spettacolo popolare, significano assolutamente Carnevale. Celebrazione, abbiamo visto, antica; il cui nome deriva forse da carnem levare, abbandonare la carne, poiché nella Serenissima, dal 26 dicembre fino al martedì grasso, era lecito qualsiasi travestimento, e la “bautta” (tricorno nero, mantella e maschera) veniva indossata, indifferentemente, da uomini e donne; nei giorni di festa e, dal 5 ottobre al 16 dicembre, soltanto di pomeriggio. Insomma, era Carnevale per ben «sei mesi: tutti, anche i preti, i guardiani dei cappuccini, le suore, i piccoli, la gente che va al mercato, portano la maschera; si vedono passare delle processioni di gente travestita in costumi da francesi, da avvocati, da gondolieri, da calabresi, da soldati spagnoli, con danze e strumenti di musica; il popolo le segue, applaude o fischia, libertà totale» 31. Pietro Longhi, ritraendoli, ci ricorda che venivano anche portati in città, ed esposti per essere ammirati dalla gente che lui infatti immortala in maschera, perfino elefanti e rinoceronti. «La maschera era un capo d’abbigliamento quotidiano, il rito teatrale occupava un posto la cui importanza era riconosciuta anche dalle autorità ecclesiastiche» 32. E, anche qui, la festa ha un ben solido legame con la storia della città: «L’importanza del Carnevale veneziano deriva da una sua precisa connotazione ufficiale. Il giovedì grasso, che ne è il momento centrale, è dedicato alla commemorazione della vittoria del doge Vitale Michiel ii sul patriarca Ulrico di Aquileja, che aveva assalito Grado nel 1162» 33. Catturato con 12 dei suoi canonici; e da allora, arrivavano come tributo, venendo sgozzati mentre il doge abbatteva modellini di chiese e fortezze, un toro e dodici maiali; poi, i castelli friulani (ormai diventati tutti veneziani) furono risparmiati; ma il toro, invece, no: continuò a lungo, ogni anno, ad essere decapitato. Forse è proprio questo legame con la storiografia ufficiale che consigliò Napoleone di abolire la festa: verrà ripristinata soltanto nel 1970, e troverà la sua consacrazione dopo la memorabile edizione organizzata da Maurizio Scaparro nel 1980. Ricorda il regista: «Il successo fu determinato da molteplici fattori. Era anche il periodo del terrorismo, e riprendersi la piazza con una festa aveva qualche significato. Rammento che, prima d’allora, gli alberghi, in quella stagione, erano quasi tutti chiusi; e i motoscafisti emigravano, o svernavano, a Monaco. Il segreto di quel successo? Unire tre piccole parole, ciascuna delle quali, presa in sé è normalissima e anzi quasi “sdata”, e creare un trinomio: Carnevale, Venezia, Teatro. Senza una delle tre, il gioco non regge; se si mettono insieme soltanto Carnevale e Venezia, si pensa a Paganini; Carnevale e Teatro, da sole non bastano». In più, spiega sempre il regista, «c’erano tutti gli ingredienti che, da sempre, hanno fatto sia il Carnevale, che il Teatro: la parola, il gesto, il trucco, eccetera». E, evento nell’evento, il Gran Teatro del Mondo di Aldo Rossi, galleggiante, «che salutammo mentre partiva per andare fino a Dubrovnik, l’antica Ragusa» 34. Scaparro ha anche spiegato in un libro 35 le ragioni di questo suo Carnevale: «Per il teatro, la Biennale aveva a disposizione appena duecento milioni, il costo di qualunque festival di provincia»; ora, ribadisce che «qualsiasi evento deve riguardare le radici del luogo che lo ospita, non può esserne avulso»; e gli piace sottolineare che a Parigi, al suo nuovo “teatro degli Italiani” ha voluto ricostruire il modellino e ricomporre i progetti del galleggiante teatro dell’ormai scomparso Aldo Rossi. Un tributo, e un ricordo, forse una nostalgia. Rileggiamo Zorzi 36: la festa prevedeva perfino «lo svolo del Turco ed elaborate momarie», giostre, cacce, figuranti, fuochi d’artificio, gioco d’azzardo, teatro: ce n’è un’abbondante casistica. Ed era poi la stagione dei balli: un diarista notava amareggiato che non si rinunciava a festeggiare «con tanta allegria e bagordo» nemmeno nei giorni più difficili della guerra contro la Lega di Cambrai. E adesso? Ormai, l’esperimento Scaparro ha fatto decollare di nuovo la festa; nei giorni di Carnevale, non si trova un posto in albergo; ogni fine settimana sono almeno centomila persone, feste nei palazzi, sensi unici per i pedoni nelle calli principali e più affollate; ancor più negli ultimi anni, oltre ai mille spettacoli grandi e meno grandi, e alle mille esibizioni (a cominciare dalla “Festa delle Marie” che apre le celebrazioni partendo da San Pietro a Castello, luogo del primo rilevante insediamento veneziano, e anzi sua antica basilica), anche tante feste nei quartieri (assai più spontanee), e per la prima volta due anni fa, «un nuovo terminal, uno in più per i turisti, alla stazione marittima, che ha mostrato tutta la sua validità; perfino troppi i bagni pubblici predisposti», nota l’assessore Rumiz. E spera, in futuro, di poter contare «anche sull’intervento della Biennale»: ne riparleremo. È vero, come dice Cesare De Michelis, che «in assenza del teatro, l’unico prodotto che il Carnevale lascia è l’artigianato delle maschere»; e che «a Campalto ci sono perfino i carri, come a Viareggio; qui non vengono forse soltanto perché ci sono i ponti, e non riuscirebbero»; ma ormai, la festa è diventata un appuntamento cui sarebbe impossibile rinunciare. Forse, organizzarlo di più, farlo diventare qualcosa di più “alto”. Dice un altro regista che ama molto Venezia, Marco Paolini 37, che gli ingredienti irrinunciabili di un evento sono tre: uno spettacolo preparato per tempo e con cura; un contesto, e lui ha scelto l’Arsenale, «luogo misterioso e potente»; e la festa: cioè i contributi volontaristici di organizzazioni e privati, che diventano coartefici dell’evento stesso; per lui, è l’“indotto”, cioè un corollario di relazioni, che decide, o meno «l’appartenenza a una città». E a questo indotto bisognerebbe dare maggior spazio. Piero Rosa Salva è d’accordo sulla tipicità dell’evento veneziano: «Se Venezia, come dice De Rita, è vittima del suo essere speciale, questa caratteristica va ancor più esasperata. Il centro storico è un laboratorio in cui inserire le politiche; non ha senso immaginare la gestione, degli eventi o del teatro, come viene fatta nelle altre città. A Venezia, e non solo nel suo centro storico, vanno immaginati eventi che non siano la scopiazzatura di format provenienti da altri luoghi. Ci stiamo provando anche con il Salone dei beni culturali, riqualifichiamo spazi dimenticati, dall’Arsenale al Porto. Forse, occorrerebbero più sinergie tra i tre Carnevali di Venezia: quello teatrale, quello di strada e quello evento. L’importante è tener conto che, per ogni location, lo spettacolo, l’evento, deve essere adeguato al luogo» 38. Dunque, Venezia ha bisogno di eventi: grandi spettacoli che utilizzino il suo scenario naturale e il suo estremo appeal (ci fosse stata ancora la sala della Fenice, e la città, soprattutto, fosse stata capace di organizzarlo, un concerto di Kleiber in laguna avrebbe certamente ottenuto ancora maggior riscontro di quanto, ed è stato sicuramente tanto, non ne abbia avuto a Cagliari); eventi che abbiano relazioni strette e diremmo quasi intime con la città stessa. Da questo punto di vista, il Milione di Paolini all’Arsenale è stato sicuramente un esempio che rasenta la perfezione degli ingredienti; e lo stesso Arsenale, luogo fin troppo dimenticato, può diventare un luogo in grado di ospitare non uno soltanto, ma mille possibili occasioni. Quella di Paolini è stata soltanto una delle tante, delle infinite idee possibili, come infiniti, a Venezia, possono essere i luoghi. E quasi tutti, luoghi ed eventi possibili, ancora da esplorare. 29 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit. 30 Carlo Autiero, Guida alle feste popolari in Italia, Roma, Datanews, 1990. 31 Hippolyte-Adolphe Taine, Viaggio in Italia (1866), in Hersant, Italies, cit. 32 Sforza, Grandi teatri italiani, cit. 33 Zorzi, La vita quotidiana a Venezia, cit. 34 Colloquio con l’autore, gennaio 1999. 35 Paolo Emilio Poesio, Maurizio Scaparro, l’utopia teatrale (1987), Venezia, Marsilio, 1995 (I giorni). 36 La vita quotidiana a Venezia, cit. 37 Comunicazione inviata al dibattito su Lo spettacolo a Venezia, cit. 38 Nel dibattito su Lo spettacolo a Venezia, cit. 5) CINQUE MODI DI “DIVERTIRSI”. TEATRI, ARTE, CINEMA, SPORT E TV: QUANTO SI SPENDE A VENEZIA Quella dell’industria dello spettacolo è una crisi italiana, e forse non solo: Venezia ne è particolarmente colpita, ma coinvolge l’intera penisola. Pochi dati per confermarlo: nell’ultimo mezzo secolo, l’incidenza della spesa per gli spettacoli sul prodotto interno lordo, calcolata in lire correnti, è passata dall’un per cento ad un misero 0,38 1. Negli anni cinquanta, assorbiva un quarto (e anche più) di tutti i consumi ricreativi e culturali; mentre oggi supera a stento la quota del sette per cento di essi 2. Dall’1,39 per cento delle spese di ogni famiglia, si è più che dimezzata, riducendosi allo 0,60. Dal 1970, calcolandolo in lire 1990, il prodotto interno lordo in Italia si è raddoppiato 3; i consumi sono lievitati ancora di più 4; le spese per le attività ricreative e culturali, aumentate del 165,7 per cento 5. Ma quelle per gli spettacoli sono invece cresciute appena di un terzo 6. Cioè, registrano una notevole perdita relativa: una grave recessione, che, per giunta, non dà segni di ripresa. Il settore è maturato fino a metà anni settanta; poi, una serie di esercizi negativi; una nuova impennata, all’inizio anche sensibile, nella seconda metà degli anni ottanta; infine, di nuovo crisi, statistiche e rilevamenti di segno negativo, anche un paio di punti all’anno. Sempre valutando i dati in termini reali, cioè a lire costanti, il comparto più penalizzato, dei cinque in cui si suddivide il settore dello spettacolo (attività teatrali e musicali; cinema; sport; trattenimenti vari; abbonamenti radio-tv), è quello del “grande schermo”. Dal 1950 ad oggi, la spesa del pubblico per il cinema si è infatti pressoché dimezzata: da 1.222 a 709,5 miliardi (ma nel 1996, era scesa perfino a 658 7). Quella per il teatro e per la musica è invece passata da 140 a 515 miliardi: una crescita inferiore ad altri comparti. Frattanto, infatti, le erogazioni per gli abbonamenti alla radio e alla tv si sono più che decuplicate (da 147 a 1.875,8 miliardi); e se negli anni cinquanta il video era più una speranza che una realtà, solo dal 1970 al ’97 gli introiti da abbonamento sono lievitati da 1.153 a 1.875,8 miliardi 8. Oggi, gli italiani dedicano al cinema una fetta delle loro entrate non molto superiore a quella per la musica ed il teatro, e per lo sport; ma è poco più di un terzo di quella destinata invece ai “trattenimenti vari” (flippers e videogiochi, ballo, mostre e fiere, feste in piazza ecc.), oppure agli abbonamenti radiotelevisivi. E questo, solo perché nel ’97 c’è stato un certo miglioramento: nel 1996, infatti, era ancor peggio. È impressionante notare, come – sempre stando alle statistiche della Società italiana autori ed editori – se dal lontano 1936 le spese pro capite per musica e teatro si sono quasi quadruplicate, quelle per lo sport sono cresciute addirittura di quasi 14 volte, e perfino di oltre 17 quelle per “trattenimenti vari”, invece l’esborso medio di un cittadino italiano per il cinema è aumentato, in ben 60 anni, nemmeno del dieci per cento; cioè, in pratica, non è mutato, perdendo abbondantemente consistenza 9. Eppure, l’Italia degli anni cinquanta spendeva per il cinema più di tre volte rispetto a oggi. Nel ’55, ognuno di noi, in media, destinava al “grande schermo” ben 37.709 lire all’anno; nel 1974, primato dall’anteguerra in poi, addirittura 37.269. Contro le appena 12.348 del 1997; le 11.479 del ’96; e perfino le 10.175 del 1988: cioè dell’anno peggiore, se si escludono quelli bellici (che, tuttavia, non si collocavano a livelli poi così malvagi: 3.134 lire nel 1944, ma ancora 9.351 l’anno prima). Insomma, in tre quarti di secolo, lo sport, che nel 1936 non introitava nemmeno il sei per cento degli incassi cinematografici, è arrivato ai suoi stessi livelli, e talora, attorno al 1990, li ha perfino superati. Una tale crisi non poteva che implicare anche un’enorme riduzione delle sale di proiezione: dal 1980 al ’97, in Italia si sono più che dimezzate 10: una riduzione del 58,3 per cento in soli 12 anni: una corsa verso il baratro, che soltanto di recente, negli ultimi cinque esercizi, ha cominciato a mostrare una netta inversione di tendenza, con aumenti, abbastanza significativi, di circa duecento sale e locali all’anno. tabella 16. Incidenza della spesa per gli spettacoli in Italia, 1951-97 Anni 1951 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 Prodotto Consumi Consumi interno delle ricreativi lordo famiglie culturali (1) (2) 10 732 7 545 422 15 032 10 225 608 23 207 14 788 1 197 39 124 24 883 1 963 62 883 39 840 3 011 138 632 87 075 6 620 387 669 241 358 19 162 810 580 507 806 41 691 1 312 066 810 459 73 190 1 429 453 889 567 78 651 1 502 493 946 358 83 906 1 550 296 970 130 83 559 1 638 666 1 029 230 90 666 1 771 018 1 107 423 95 941 1 873 494 1 165 352 100 019 1 950 680 1 223 652 103 318 Spesa per gli spettacoli (3) 105 168.6 212.8 322.1 435.6 855.3 1 519.10 3 190.50 5 466.30 5 944.90 6 261.90 6 687.00 6 886.80 7 068.20 7 279.40 7 323.10 Incidenza percentuale Sul Su cons. Su cons. Pil famiglie ricr. cult. 0.98 1.39 24.91 1.12 1.56 26.24 0.92 1.44 17.78 0.82 1.29 16.41 0.69 1.09 14.47 0.62 1 12.92 0.39 0.63 7.93 0.39 0.63 7.65 0.42 0.67 7.47 0.42 0.67 7.65 0.42 0.66 7.49 0.43 0.69 8 0.42 0.67 7.64 0.4 0.64 7.37 0.39 0.62 7.28 0.38 0.6 7.09 I valori delle prime quattro colonne sono costanti (in lire/1990); (1) Consumi finali interni; (2) Spese per ricreazione, spettacoli, istruzione e cultura (acquisto libri, giornali, radio tv e altri beni a carattere ricreativo, istruzione, spettacoli e altri servizi); (3) Inclusi gli abbonamenti privati alla Rai-tv (dal 1985, solo quelli tv), ma escluso l’acquisto di dischi e altri mezzi di riproduzione sonora o visiva. Fonte: Lo spettacolo in Italia, 1997 , cit. tabella 17. Spesa del pubblico per tipo di spettacolo (in miliardi ’90) Attività Mus. teatro Cinema Sport Abbon. Rai Tratt. vari Totale 1950 1960 1970 1980 1997 Lire % Lire % Lire % Lire % Lire % 139.9 7.8 111.9 3.8 154.4 3.8 243.2 6.4 515 9.5 1 222 68.6 1 653 56.9 1 698 41.8 1 009 26.4 709.5 13.1 113.7 6.4 195.4 6.7 316.9 7.8 388.9 10.2 539.7 10 147.4 8.3 664.7 22.9 1 153 28.3 1 314 34.4 1 875 34.7 158.3 8.9 282.9 9.7 744.7 18.3 861.8 22.6 1 764 32.7 1 782 100 2 908 100 4 068 100 3 817 100 5 407 100 Fonte: Lo spettacolo in Italia, 1997 , cit. Perché, tra gli spettacoli “fuori casa”, il cinema, pur tanto in grave crisi, resta sempre il preferito. Lo dicono le statistiche 11: nel 1998, ha interessato il 47,3 per cento della popolazione (un aumento di tre punti rispetto all’anno precedente), contro le mostre ed i musei, visitati da poco più di un italiano su quattro (il 26,7 per cento), lo sport (il 26,5), le sale da ballo e le discoteche (il 25 per cento). In cinque anni, i concerti di musica leggera sono passati dal coinvolgimento del 14,4 per cento della popolazione a interessarne il 17,8; il teatro si colloca al 16 per cento, la musica classica ancora solo al 7,9. Ma la tv, invece, la guardano più di 95 italiani su cento (e il 62 per cento ascolta anche la radio). La crisi del cinema forse nasce proprio da qui. Più complesso è certamente il discorso per la musica e il teatro. Dal 1970 al ’97, i concerti di musica classica sono aumentati (un autentico boom) del 427 per cento; le rappresentazioni di prosa, del 342; e quelle di balletto, del 335. Mentre appena del 181 per cento è la crescita dei concerti e spettacoli di musica leggera e “arte varia”. Per converso, però, il numero dei biglietti venduti nei teatri s’è incrementato del 261,5 per cento; del 243 quelli dei concerti di musica classica; del 239 quelli della musica leggera; ma l’aumento è appena del 175,8 per cento nella lirica e nei balletti. Il quadro d’insieme denota un’evidente, progressiva disaffezione del pubblico: più rappresentazioni, è vero, ma ciascuna con meno spettatori. Anche un altro parametro offre la consistenza del malessere del teatro: il successo di pubblico, infatti, è mantenuto grazie a un abbattimento notevole dei prezzi. Perché se il costo dei biglietti per la musica leggera è passato (in valuta 1990) dalle 9.215 lire del 1970 alle 17.751 del ’97, quello dei concerti classici da 8.400 a 14.029, e quello della lirica dalle 20.655 alle 36.462, un posto in teatro, che nel 1970 costava in media 12.683 lire, oggi richiede un esborso quasi analogo: 13.612 lire in tutto. Cioè, contro rincari medi tra il 92 (musica leggera) e il 61 per cento (lirica), il teatro registra un aumento di appena il 7,3 per cento. Infine, lo stesso numero di rappresentazioni conferma l’impasse del settore: tra il 1951 e il ’96, la “quantità” annua di concerti classici è passata da 4.663 a 17.746 (+ 280,5 per cento); le opere e i balletti, da 2.054 a 5.836 (+ 184 per cento); i concerti di musica leggera, da 7.188 a 17.551 (+ 144 per cento). Ma le serate (o le matinées) di prosa, da 39.226 sono diventate appena 65.381: con un esiguo incremento soltanto del 66,6 per cento 12. Tuttavia, i tempi più difficili ormai sono forse alle spalle: negli anni sessanta, infatti, il numero delle recite era calato a livelli impressionanti: un terzo circa di quelle del 1951. Il picco negativo risale al 1964: appena 14.369 in tutt’Italia. Da allora, è iniziata una risalita (e nel 1978, gli spettacoli messi in scena erano quasi altrettanti di trent’anni prima), il cui trend positivo ancora perdura. Non molto difforme, infine, l’andamento della lirica, scesa anch’essa al livello minimo di rappresentazioni (1.338 nel 1964) più o meno nel medesimo periodo, e da allora sempre (non c’è forse termine altrettanto idoneo) in crescendo. Più recente è invece il vero e proprio boom dei concerti classici: dal ’78 ad oggi, ne è raddoppiata l’offerta; al contrario di quella di musica leggera che, dopo una flessione nella prima metà degli anni sessanta, dalla seconda metà dei settanta in poi ha fatto registrare solo lenti e non univoci miglioramenti. Insomma, la “spesa degli italiani” per lo spettacolo è connotata dall’aumento quasi vertiginoso di due suoi comparti: la tv (assai più che la radio), che attorno al ’60 non era ancora pari nemmeno a un quarto del totale, ormai da vent’anni si è stabilizzata su una quota che ne costituisce oltre una terza parte. E gl’intrattenimenti vari, dai luoghi di ballo fino ai flippers e ai videogiochi, sono in continua e costante ascesa: nemmeno un quinto del totale nel ’70; quasi un quarto nel 1980; ormai oltre un terzo nel 1996. Nel paese vige sempre più l’abitudine allo spettacolo “casalingo”, o “iper leggero”; di pura evasione, o intrattenimento. Ed è in questo quadro nazionale che si inseriscono le debolezze di una Regione e, soprattutto, le carenze di Venezia, specificatamente della sua parte più antica. 1 Siae, Società italiana degli autori ed editori, Lo spettacolo in Italia. Statistiche 1997, Roma, Pubblicazioni Siae, 1999. 2 Ivi. 3 Da 738.415 miliardi, ai 1.439.602 del 1997: ivi. 4 Da 407.152, a 903.055 miliardi: ivi. 5 Da 28.696, a 76.249 miliardi: ivi. 6 Da 4.068,6 miliardi, a 5.404,4: ivi. 7 Siae, Lo spettacolo in Italia. Statistiche 1996 e Statistiche 1997, Roma, Pubblicazioni Siae, 1998 e 1999. 8 Ivi. 9 In lire/1990, nel 1936 erano 11.254 di media, e nel ’97, 12.348: ivi. 10 Da 8.453, a 4.206; ma erano soltanto 4.004 l’anno prima, e nel 1992, 3.522 in tutto: ivi. 11 Sistema statistico nazionale, Annuario, cit. 12 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit. 5.1) Come si diverte il veneto, e come invece Venezia Nel Veneto, secondo l’ultimo censimento, vive il 7,685 per cento della popolazione italiana; ma dei 996 teatri della penisola, la Regione ne ospita soltanto 46, cioè il 4,6 per cento 13. È invece allineata alla media nazionale nel numero dei cinema: nel 1997, quelli italiani erano in tutto 1.736, e il Veneto, che ne conta 131, si situa a una quota (7,6 per cento) pressoché analoga a quella demografica. Altri dati, tuttavia, completano il quadro di crisi: nel primo semestre ’98, ad esempio, gli incassi teatrali hanno subito una forte contrazione rispetto all’anno precedente (– 14,83 per cento), in netta controtendenza con il dato nazionale (+ 3,98) e con quello di quasi tutte le altre aree del Nord 14; solo Emilia, Toscana e Umbria (ma questa per intuibili e particolarissime ragioni, legate al sisma che l’ha messa a dura prova) hanno vissuto dei cali d’incasso, tuttavia assai contenuti: dell’ordine di appena qualche punto percentuale; e l’unica zona d’Italia che tiene compagnia al Veneto, anzi le garantisce di non occupare l’ultimo posto, è il Lazio, dove gl’incassi si sono ridotti del 22,38 per cento. Ma, nel teatro, la Regione non brilla nemmeno per la spesa e gli investimenti. L’Osservatorio dello spettacolo, che fa capo all’omonimo Dipartimento del Ministero per i beni e le attività culturali, rileva infatti nel suo ultimo rapporto 15 che, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, il Veneto era al secondo posto, dopo l’Emilia, per quantità di spesa destinata allo spettacolo dalle Regioni a statuto ordinario; a metà anni novanta, era invece già scivolato al quinto, superato da Toscana, Lombardia e Marche. Non solo: ma era perfino finito sotto la media nazionale; e nella graduatoria delle spese produttive, quelle in conto capitale, si collocava addirittura all’ottavo posto. Disaggregando spese ed investimenti nei diversi settori d’intervento, il rapporto, coordinato da Carla Bodo, colloca il Veneto al quinto posto (sempre tra le Regioni a statuto ordinario: quelle a statuto speciale godono di criteri totalmente diversi), per le erogazioni alla musica e al cinema; e al sesto, invece, per gli investimenti in campo teatrale. Nella graduatoria del volume di spesa rapportato al numero degli abitanti (ma l’indagine non separa lo spettacolo dalla cultura), il Veneto, sia nel 1990, sia nel ’95, non raggiungeva la media nazionale, rispettivamente con 7.556 e 8.351 lire contro 7.992 e 10.157. Così, se nel ’90 si classificava appena all’ottavo posto tra le Regioni a statuto ordinario, cinque anni dopo ne aveva già perso un altro, ed era nona, anche se quarta per volume delle erogazioni. L’indagine nota, tuttavia, un incremento negli investimenti (dal 12 al 46 per cento del totale, sempre conglobando cultura e spettacolo), nonché un netto miglioramento nella capacità di spesa. L’incidenza dei pagamenti sugli impegni è passata infatti dal 42 al 64 per cento: meglio che nella media delle altre Regioni a statuto ordinario, e con una diminuzione netta (55 per cento) anche dei residui passivi. Tuttavia, proporzionalmente, la spesa del Veneto per la cultura e gli spettacoli, nel ’95 è nettamente diminuita (dallo 0,31, allo 0,11 per cento del bilancio), «facendola slittare agli ultimi posti nella graduatoria per abitante delle Regioni a statuto ordinario» 16. Nel medesimo periodo, si è anche «invertito il rapporto di spesa tra spettacolo e beni culturali, a svantaggio dello spettacolo»17: se nel ’90 il Veneto era al secondo posto per le erogazioni destinate a questo comparto, nel 1995 si ritrova appena all’undicesimo. Stabile, quantunque tenda a diminuire (1,6 miliardi nel 1990; ma 1,3 nel 1995) la disponibilità per la musica; aumentati del 60 per cento i fondi erogati al teatro (e oltre la metà delle risorse sono destinate allo Stabile della Regione); quasi invariata, nella sua perfino pressoché irrisoria pochezza, la quota per il cinema (da 300 a 200 milioni); un’assoluta contrazione, invece, per i contributi ad enti e istituzioni, e perfino per quelli destinati ad iniziative della Regione in campo musicale, teatrale e cinematografico. Per divertirsi ed acculturarsi, l’abitante del Veneto spende più della normalità dei cittadini italiani. Infatti, se si considerano le risorse destinate a tutti i tipi di spettacolo, la Regione si colloca abbondantemente sopra la media nazionale. Anziché i 556,5 miliardi all’anno, pari al 7,6 per cento della spesa globale che le spetterebbero in base alla popolazione, nel 1997 ne ha infatti dispensati ben 728, cioè il 9,94 per cento. Ogni cittadino del Veneto dedica in media alla propria “ricreazione” (dati 1997) 163.559 lire, contro una media italiana di 127.445. Elevate in particolare, le spese per “intrattenimenti vari” (il 13,2 per cento del totale italiano) e per la musica e il teatro (11,55). Ma per il cinema (7,57) si adegua perfettamente alla media italiana. Sempre nel 1997 (pur dopo la riduzione dei prezzi imposta al Teatro La Fenice dalla sua provvisoria, ma ormai fin troppo procrastinata, ubicazione), il costo dei biglietti per musica e teatri, risultava, nel Veneto, superiore alla media nazionale18: non tanto per la prosa (16.540 lire, contro una media di 18.445), e per la musica leggera (21.819, contro 24.053), quanto certamente per la lirica e i balletti (65.227, contro 49.407), nonché per i concerti di musica classica (23.368, contro una media/paese di 19.009). tabella 18. Spesa percentuale delle Regioni per cultura e spettacolo Regioni Molise Piemonte Lazio Veneto Campania Emilia-Romagna Media Reg. stat. ordinario Abruzzo Toscana Marche Basilicata Umbria Puglia Calabria Liguria Lombardia Prov. Bolzano Val d’Aosta Prov. Trento Media Reg. stat. speciale Sicilia Sardegna Friuli-Venezia Giulia Media Italia 1990 0.63 0.36 0.35 0.31 0.31 0.27 0.26 0.25 0.23 0.23 0.21 0.21 0.12 0.1 0.06 non disp. 2.82 2.21 2.11 1.76 1.34 1.2 0.9 0.71 Regioni Molise Abruzzo Basilicata Marche Piemonte Lombardia Media Reg. stat. ordinario Toscana Umbria Lazio Campania Emilia-Romagna Veneto Calabria Liguria Puglia Prov. Bolzano Prov. Trento Media. Reg. stat. speciale Val d’Aosta Sardegna Friuli-Venezia Giulia Sicilia Media Italia 1995 0.53 0.28 0.26 0.25 0.24 0.21 0.18 0.17 0.13 0.13 0.12 0.12 0.11 0.1 0.07 0.04 2.55 2.17 1.44 0.99 0.9 0.59 non disp. 0.5 Fonte: Min. per i beni e att. cult. Oss. dello spettacolo, La spesa pubblica , cit., appendice. Superiore alla media italiana risultava anche la spesa globale pro capite (18.110 contro 12.147), con un significativo picco nella lirica, dove la Regione era quella in cui, mediamente, i cittadini spendevano in misura maggiore: 9.893 lire a testa, contro 2.633 (e nel 1996 arrivava perfino a quota 11.077), seguita dalla Liguria con 3.834 lire, dal Friuli-Venezia Giulia con 3.496, dalla Lombardia con 3.431 e, dalle Marche con 3.391 19. Superiore alla media, ma di poco, anche la spesa per i concerti classici (1.645 contro 1.361; ma l’Italia settentrionale si colloca a 1.673 lire). Inferiori, invece, quelle per la prosa (4.035 contro una media nazionale di 4.767, e l’Italia settentrionale a 5.829 lire), e la musica leggera (2.266, a fronte di 3.178 in tutt’Italia, e perfino a 4.342 in quella del Nord). Infine, il numero di biglietti per ogni tipo d’attività teatrale e musicale nella Regione era di 164 ogni cento abitanti, con una diminuzione del 5,7 per cento rispetto all’anno precedente (116 la media italiana, 141 quella del Nord). La morale è che, pur non poco penalizzati dalla scarsità di strutture a disposizione, i veneti amano lo spettacolo, frequentano i teatri. Invece, assai meno i cinema: infatti, se nel ’97, per ogni italiano, sono stati venduti 1,79 biglietti all’anno (ma 2,11 nel Nord; e addirittura 2,47 nel Centro del paese), nel Veneto la percentuale è di un’inezia superiore: l’1,81, anche se l’anno precedente era di due centesimi di punto inferiore alla media nazionale. Va meglio in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia (record assoluto: 2,95 biglietti a testa), Toscana, Lazio. Ma oltre al numero dei biglietti, un’altra componente per misurare lo stato di salute del settore è la spesa per abitante; e quella del Veneto è inferiore alle medie: 16.360 lire all’anno per ogni cittadino, contro le 16.731 della media/paese e le ben 20.317 dell’Italia settentrionale. Del resto, il Veneto non raggiunge neppure la metà di sale da cinema “normali” (quelle classificate come “industriali”) della Lombardia; e, su 138 che ne possiede, gliene mancano addirittura 78 per raggiungere il livello del Lazio 20. Insomma, ce n’è sicuramente quanto basta per affermare che la Regione capofila del «ricco Nord Est» non tiene certamente in debito conto le esigenze della cultura, e tanto meno quelle dello spettacolo. Infatti, nella percentuale delle risorse a disposizione è abbondantemente sopravanzata non soltanto da aree del paese che hanno certamente assai meno da tutelare, proteggere, difendere (specie il passato: davvero assai meno “importante”); ma anche da altre Regioni, a statuto ordinario, che magari sono perfino alle prese con i terribili problemi – per citarne uno – dei senza lavoro, in misura assai maggiore di quanto non li viva questa zona d’Italia, dove ormai molte lavorazioni sono affidate a immigrati (perché sgradite agli italiani), e la piena occupazione non è solo un mito. E, purtroppo, il trend che si può individuare nella spesa del Veneto (anche se l’indagine dell’Osservatorio dello spettacolo si arresta al ’95) non è certo positivo. Esaminati i “divertimenti” della Regione, passiamo a quelli della città che ne è il capoluogo. Il veneziano ama la televisione (o, comunque, ne paga l’abbonamento) più della media degli italiani. Nel ’97, 344 abbonati ogni mille abitanti, contro i 278 in Italia (e i 318 di quanti vivano nei capoluoghi di provincia) 21. Spende decisamente molto per andare a ballare, ma soprattutto per i videogiochi, le mostre e le fiere: 66.474 lire a testa in un anno (ma erano 73.031 nel 1996), cioè quasi 20 miliardi in totale (di cui tre per il ballo, 4,4 per mostre e fiere, 4,8 per il resto) 22. La media italiana pro capite è oltre un terzo in meno, 41.605 lire. E ben inferiore (56.771) anche quella delle Regioni settentrionali, nonché quella (54.731) delle stesse città capoluogo nel Nord. Le 66.474 lire all’anno per ciascun veneziano (ma bisogna sicuramente considerare l’elevata incidenza dei turisti: specie di quelli balneari) sono una cifra tra le più elevate nel paese. Come si dice in gergo sportivo, vengono a ruota del “divertimentificio” di Rimini (addirittura 345.675 lire per abitante); dell’altro capoluogo della riviera romagnola che è Ravenna (199.670 lire); e dopo Mantova, Cremona, Bologna, Firenze, Pisa, Reggio Emilia, Modena e Pordenone. Ma assai prima, comunque, di tutte le altre città, comprese Roma e Milano. tabella 19. Come le Regioni ripartiscono le spese di cultura e spettacolo Regioni Spettacolo Piemonte Lombardia Veneto Liguria Em. Rom. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Media Regioni a stat. ordin. V. Aosta Prov. Tn Prov. Bz Friuli V.G. Sicilia Sardegna Media Regioni a stat. speciale Media italiana 14.0 28.1 18.3 25.4 49.7 49.9 49.7 52.3 23.0 30.2 0.0 40.3 0.0 0.0 46.3 Attività cultur. 37.3 18.4 23.2 27.4 2.8 11.1 0.4 12.6 17.8 25.7 11.6 49.5 8.0 15.4 21.6 Beni cultur. 45.1 53.5 54.6 44.5 40.5 30.8 47.4 28.7 51.8 29.7 61.5 6.1 6.8 84.6 32.1 Strutt. cultur. 1.9 0.0 2.1 1.1 1.0 0.0 0.0 0.6 0.3 9.9 0.0 1.4 5.0 0.0 0.0 Inform. editoria 1.7 0.0 1.5 0.0 0.0 1.8 2.6 0.3 7.0 0.0 0.0 2.6 0.0 0.0 0.0 Educaz. perman. 0.0 0.0 0.3 1.6 0.0 0.6 0.0 5.4 0.0 4.5 0.0 0.0 0.0 0.0 0.0 Tur. cultur. 0.0 0.0 0.0 0.0 6.0 5.9 0.0 0.0 0.0 0.0 26.9 0.0 80.2 0.0 0.0 30.9 13.5 2.0 5.1 35.4 35.1 18.2 19.3 14.9 52.3 28.9 21.2 3.2 15.5 42.4 58.1 43.9 25.1 28.6 57.8 55.9 1.3 0.3 1.0 8.1 10.8 0.4 0.2 1.3 3.9 0.8 4.7 4.0 0.1 3.0 0.7 0.0 0.0 28.1 0.0 0.1 0.0 4.1 9.3 0.0 0.0 0.0 3.4 7.2 23.8 26.3 16.6 17.5 48.9 46.6 2.4 2.0 1.6 1.5 3.9 2.8 2.9 3.3 Nota: Dati percentuali, riferiti al 1995. Fonte: La spesa pubblica , cit. Andiamo avanti: al veneziano piace invece assai poco lo sport. Alle sue manifestazioni, infatti, nel ’97 ha dedicato in media appena 10.327 lire all’anno (ma nel ’96, erano soltanto 7.974). Cioè assai meno che in altri capoluoghi della sua stessa Regione; un terzo della media del Veneto e di tutti i capoluoghi di provincia; ben sotto il dato dell’Italia settentrionale, e anche dell’intero paese, compreso il più dimenticato, o periferico piccolo centro dell’interno montagnoso 23. In questo, Venezia si pone (ma talora, nemmeno) allo stesso livello di Vercelli, Novara, L’Aquila, Chieti, Massa Carrara; è sopravanzata, per citarne solo alcune, anche da Catanzaro, Rieti, Lecco, Alessandria, Biella, Trieste, Teramo, Ascoli, Benevento, Enna 24. 13 Ivi. 14 Piemonte +12,42; Lombardia +15,75; Trentino-Alto Adige +17,59; Friuli-Venezia Giulia +31,73; Liguria +22,98: ivi. 15 Ministero per i beni e le attività culturali, Dipartimento dello spettacolo, Osservatorio dello spettacolo, La spesa pubblica per la cultura e lo spettacolo in Italia nella prima metà degli Anni ’90, Rapporto coordinato da Carla Bodo, Roma, ciclostilato, 1998. 16 Ivi. 17 Ivi. 18 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit. 19 Ivi. 20 Ivi. 21 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit. 22 Ivi. 23 La media dell’Italia del Nord è di 16.861 lire, quella nazionale di 12.726; a livelli inferiori di quelli veneziani, nel Veneto si situano soltanto Belluno, con 3.652 lire, e Rovigo, con 5.928: ivi. 24 Ivi. 5.2) Si spende poco per il cinema, e pochissimo per lo sport Né le va poi molto meglio (e dopo quanto abbiamo visto, appare perfino scontato) nel settore del cinema: ogni veneziano, che peraltro ha a disposizione meno sale – per esempio – di chi vive a Padova, nel ’97 ha destinato agli spettacoli cinematografici solo 34.414 lire: circa quanto un abitante di Belluno (31.176), un po’ più di un rodigino (29.433), ma assai meno di qualsiasi altro veneto che viva in un capoluogo di provincia. In media, i veneziani vanno al cinema nemmeno quattro volte all’anno (3,72) 25, contro le sei e mezzo di un bergamasco o di un varesino; le oltre sette di un trevisano; le oltre cinque di chi vive a Pordenone; le quasi sette di chi sta ad Udine. In questo, Venezia è davvero quasi in fondo alla classifica: per esemplificare, si situa, s’intende non geograficamente, tra Latina e Frosinone. Assai diverse sono invece, e per fortuna, le statistiche della prosa, della lirica (e siamo nel ’97: quando la Fenice, ormai già da un anno non esisteva più), e dei concerti. Infatti, con 31.721 lire di spesa in media nel ’97 (quindi, musica e teatri sono sul livello del cinema), il veneziano occupa un rango di rispetto. Superiore agli altri capoluoghi veneti (se si esclude Verona, che però beneficia dell’Arena, e ha speso 187.807 lire pro capite, ma l’anno precedente oltre 200 mila: è abbondantemente il primato assoluto nel paese); non solo un po’ oltre la media delle città capoluogo (30.435 lire), ma ad un livello che è quasi il triplo del dato nazionale (12.147). Tuttavia, Venezia si arresta a un gradino pur sempre inferiore rispetto alla media dei capoluoghi del Nord, attestati a 42.599 lire 26. Per ogni cento abitanti, nella città vengono venduti ogni anno 116 biglietti d’ingresso ai teatri (anche qui, va messa in conto l’incidenza del turismo): qualcuno in meno, tuttavia, di Treviso, che si attesta, ma con livelli di spesa assai inferiori, a quota 131. Comunque, siamo ben sopra la media nazionale (che è di appena 56 biglietti ogni cento persone: circa mezzo a testa all’anno); sopra quella dei capoluoghi italiani (ferma a quota 113); ma sotto quella delle città capoluogo nel Settentrione (152). Certo, nel 1997, a Venezia 27, sono state messe in scena 484 rappresentazioni di prosa (516 l’anno precedente) e 48 opere liriche (come nel 1996). Eseguiti 838 concerti di musica classica (768 nel 1996) e 64 di danza (contro 82). Realizzati nove balletti (erano otto), ed allestite otto operette (erano state due soltanto). Vi si sono svolte 17 recite dialettali; è stato possibile assistere a 30 tra riviste e commedie musicali; a 72 concerti di musica leggera; 30 spettacoli di burattini o marionette (che, l’anno prima, erano stati soltanto dieci in tutto) e 17 saggi culturali. Un totale di ben 1.617 rappresentazioni (erano 1.574): in media, quattro e mezzo al giorno. L’offerta, cioè, non manca davvero: è stata pari circa a un terzo di quella dell’intera Regione (4.664 rappresentazioni nel ’97); e, tra le grandi città, inferiore soltanto a quelle dell’attivissima Torino (3.457 eventi), della grande Milano (8.657), di Genova (1.799), Bologna (2.487), Firenze (2.084), Roma (ben 16.867), Napoli (3.729) e Palermo (1.921). Non tutto, evidentemente, è sempre andato come da speranze degli organizzatori: per esempio, ogni spettacolo di burattini ha totalizzato, in media, appena cento spettatori; nemmeno 500 a serata le riviste e le commedie musicali, e le operette; mentre, per ogni concerto classico sono stati venduti soltanto 126,47 biglietti: davvero un po’ pochini 28. Tutto un altro discorso si può invece fare per quanto riguarda, sempre a Venezia, il costo dei biglietti. Ad esempio, 32.230 lire, in media, per assistere a un concerto di musica classica sono un dato sicuramente abbastanza elevato: ben superiore alla stessa media italiana, che è di 21.200 lire. Mentre, dopo il forzoso trasferimento della Fenice dalla sua sede bruciata, il costo di un posto (e non un palco) all’opera, dalle quasi 57 mila lire del ’96 è calato ad appena 36 mila (contro una media italiana di 70 mila). Comunque, globalmente, gli spettacoli teatrali e musicali della laguna, nel ’97, hanno incassato quasi nove miliardi e mezzo: 400 milioni meno dell’anno prima. E quelli per tutti gli spettacoli, d’ogni tipo e fattura (le statistiche vi includono però anche il costo degli abbonamenti radio-tv), hanno determinato entrate per 58 miliardi e mezzo (ma erano 60 l’anno precedente). Non sono davvero cifre immense; perciò, forse non c’è molto da scialare. E, quindi, nemmeno da gioire. tabella 20. Due annate di spettacoli veneziani a confronto Tipo di spettacolo Teatro di prosa Teatro dialettale Opere liriche Balletti Conc. di danza Conc. classica Operetta Rivista musicale Musica leggera Burattini Saggi culturali Totale 1996 Biglietti venduti Recite 516 18 48 8 82 768 2 27 74 10 21 1 574 126 726 3 251 36 356 4 233 10 956 126 055 1 073 11 056 22 852 1 671 3 404 347 633 Spesa del pubblico (x 000) 2 683 217 40 405 2 060 510 105 215 167 931 3 911 431 33 247 315 618 442 504 9 640 43 076 9 812 822 Recite 484 17 48 9 64 838 8 30 72 30 17 1 617 1997 Biglietti venduti 134 759 6 599 36 218 6 897 8 427 105 985 3 983 14 534 26 854 3 032 6 568 354 441 Spesa del pubblico (x 000) 2 740 535 133 218 1 326 377 282 737 107 181 3 415 925 116 073 489 049 686 266 18 089 85 402 9 402 852 Fonte: Lo spettacolo in Italia, 1998 e 1999 , cit. 25 Ivi 26 Ivi. 27 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit. 28 Ivi. 5.3) I musei? non troppi, ma davvero molto frequentati La Regione italiana che, in assoluto, possiede più musei, è la Toscana: ne vanta ben 394; 13 più della Lombardia (che è al secondo posto), 28 più dell’Emilia (terza), e ben 82 più del Lazio (anche tenendo conto di entrambe le rive del Tevere). Soltanto queste quattro Regioni dispongono, ciascuna, di almeno trecento musei; il Veneto rientra nella seconda fascia: ne vanta, infatti, 230; meno del Piemonte (284), per esempio, ma più delle Marche (205) 29. Tra le grandi città, invece, Roma, Firenze, Milano e Bologna precedono Venezia nella graduatoria del numero di istituti. Infatti, ne possono vantare rispettivamente 158 (compresi quelli in Vaticano), 87, 60 (Milano), e 53; mentre la Serenissima ne può offrire 40 in tutto, almeno stando al censimento più affidabile ed esauriente oggi disponibile, che è ancora quello curato nel ’91 da Daniela Primicerio. L’aggiornamento di quei dati, mentre per esempio migliora non poco l’offerta di Roma, non muta in misura sensibile quella veneziana, che, per numero, quasi monopolizza l’intera provincia: oltre a quelli in città, infatti, sono censiti, in tutto, soltanto altri 13 musei, e nessuno, a parte forse Villa Pisani di Stra affrescata dal Tiepolo, di prima grandezza. Non solo: già alla data della rilevazione, la provincia di Venezia deteneva, con quella di Gorizia, il primato nella percentuale di istituti regolarmente visitabili, cioè non aperti soltanto “a richiesta”, o perfino totalmente chiusi: erano addirittura l’85 per cento del totale (contro l’86 di Gorizia, che tuttavia ne possedeva 14 in tutto). Una quantità di gran lunga superiore a quel 51,90 per cento (nel frattempo, tuttavia, sicuramente aumentato) che, all’epoca, costituiva la media del paese. Da allora, tuttavia, Venezia, avviando una campagna di restauri delle proprie strutture, e soprattutto di adeguamento alle prescrizioni di sicurezza, ha dovuto provvisoriamente interdire al pubblico, interamente o in parte, alcuni dei propri istituti: dal Museo di storia naturale, a Palazzo Fortuny, da Ca’ Pesaro a parte di Ca’ Rezzonico. Tuttavia, l’offerta veneziana non è certo di ridotte dimensioni, né (anzi) di scarsa qualità: le strutture di cui la città dispone sono indubbiamente numerose, ed anche abbastanza variegate. C’è forse, è vero, una carenza di istituti di stampo scientifico e naturalistico; ma bisogna anche considerare che essi, purtroppo, sono ancora quelli che, nel nostro paese, attirano il minor numero di frequentatori. Certo, però, a Venezia non fanno difetto le grandi quadrerie (le Gallerie dell’Accademia offrono la più vasta panoramica dell’arte che fiorì in città tra il xiii e il xviii secolo); o i musei in grado di raccontare l’intera storia della Serenissima (il Correr); i palazzi pubblici (quello Ducale), o un tempo privati (dal Fortuny, a quello Mocenigo). Non le mancano le raccolte contemporanee (la Guggenheim), o quelle antiche, collezionate da privati su suggerimento spesso illuminato dei migliori consulenti dell’epoca (la Cini); le istituzioni più specializzate, come quelle dedicate al vetro (a Murano), al merletto (a Burano), o all’arte navale (ai limitari dell’Arsenale). Ha la sua indiscussa importanza il Museo ebraico, e il circuito delle chiese è tutt’altro che ripetitivo e scevro di vasti interessi. Si susseguono le manifestazioni di grande richiamo, come la Biennale, le esposizioni di gusto assai fine (come spesso quelle della Fondazione Cini a San Giorgio), o quelle che sono perfino (Palazzo Grassi) tra le più importanti e visitate in tutt’Italia. In più, bisogna sicuramente considerare che nessun’altra città può essere, altrettanto che Venezia, un museo di se stessa. Anche se il dettaglio sfugge a tantissimi tra i turisti, che se ne vanno dall’ex Serenissima con il ricordo di davvero molto poche tra le sue “emergenze”, avendo percorso soltanto qualcuno dei suoi 411 ponti; ammirato qualche briciola dei 177 rii e canali; visitato solo alcune delle 118 isole, delle 153 chiese e dei 127 campi; essendo perfino transitati, verosimilmente, in assai meno delle 38 parrocchie che la città possiede e può vantare. Comunque, anche per quanto riguarda l’assetto proprietario, i musei veneziani presentano una situazione assai pluralistica: a quelli dello Stato (le Gallerie dell’Accademia, la Ca’ d’Oro, il Museo Orientale e quello Archeologico: non d’estrema rilevanza, ma certamente meno noto e più misconosciuto che non meriti), si affianca il circuito comunale (Correr, Ca’ Pesaro, Ca’ Rezzonico, Palazzo Fortuny, Burano e Murano, Casa Goldoni, Palazzo Mocenigo; ma, soprattutto, Palazzo Ducale che per l’amministrazione locale equivale a un vero e proprio tesoro di redditività). I musei di venezia Ecco l’elenco dei musei veneziani, riportato nell’indagine L’Italia dei musei, 1991; tra parentesi, lo status della proprietà ed eventuali limitazioni di apertura. 1. Acquario (comunale) 2. Archivio storico della Biennale (privato, della Biennale) 3. Casa Goldoni (comunale) 4. Centro studi di storia del tessuto e del costume (privato) 5. Collezione Ca’ del Duca (privato) 6. Collezione Peggy Guggenheim (privato) 7. Fondazione Bevilacqua La Masa (privato) 8. Fondazione Cini (privato) 9. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro (statale) 10. Galleria int. d’arte moderna Ca’ Pesaro (comunale, chiusa per restauri) 11. Gallerie dell’Accademia (statale) 12. Museo della terraferma veneziana, a Mestre (comunale) 13. Mostra cimeli della Biblioteca nazionale Marciana (statale) 14. Museo V. Fano della Comunità israelitica (privato, della Comunità) 15. Museo archeologico nazionale (statale) 16. Museo del grammofono Giorgio Grandi (privato, chiuso) 17. Museo del merletto, a Burano (comunale) 18. Museo del Risorgimento (comunale) 19. Museo del ’700 veneziano a Ca’ Rezzonico (comunale, parz. in restauro) 20. Museo dell’estuario, a Torcello (provinciale) 21. Museo dell’Istituto ellenico di studi bizantini (privato) 22. Museo della Fondazione Querini-Stampalia (privato) 23. Museo della Scuola dalmata di San Giorgio (ecclesiastico) 24. Museo della Scuola grande del Carmine (ecclesiastico) 25. Museo della Scuola grande di San Giovanni Evangelista (ecclesiastico) 26. Museo della Scuola grande di San Rocco (ecclesiastico) 27. Museo d’arte orientale (statale) 28. Museo di Palazzo Fortuny (comunale, chiuso per restauro) 29. Museo di Palazzo Grassi (privato, proprietà della Fiat) 30. Museo di Palazzo Mocenigo (comunale) 31. Museo di Palazzo Ducale (comunale) 32. Museo di storia naturale (comunale, chiuso per restauri) 33. Museo diocesano di Santa Apollonia (ecclesiastico) 34. Museo e pinacoteca Correr (comunale) 35. Museo e tesoro della Basilica di San Marco (ecclesiastico) 36. Museo parrocchiale di San Pietro Martire a Murano (ecclesiastico) 37. Museo storico navale (statale) 38. Museo vetrario antico e moderno, Murano (comunale) 39. Pinacoteca e museo San Lazzaro degli Armeni (ecclesiastico) 40. Pinac. Manfrediniana e seminario patriarcale (ecclesiastico, aperto a rich.) Il museo censito a Mestre, la Fondazione Bevilacqua La Masa e Palazzo Grassi ospitano solo esposizioni temporanee; e il Museo del Risorgimento è ormai integrato con il Correr. Vi sono poi numerose istituzioni private, anche di altissimo livello, dalle già ricordate Palazzo Grassi, Fondazione Cini e Guggenheim, alla Fondazione Querini-Stampalia, nonché a quelle che fanno capo ad enti ecclesiastici. E, oltre ai musei, numerosi altri luoghi d’arte e cultura che sono comunque talora perfino assai importanti, e spesso degni, comunque, d’essere ammirati. Giusto per limitarci ad alcuni casi, Palazzo Labia, che ospita la sede della Rai-tv, e i cui affreschi di Tiepolo sono visitabili a richiesta (che importante frammento di patrimonio sprecato, o, comunque, non debitamente valorizzato), le dodici chiese del centro storico cui si può accedere pagando un davvero modico biglietto d’ingresso; i campanili delle isole di San Giorgio Maggiore e di Torcello, lo stesso, già citato, Oratorio dei Crociferi, il convento di San Francesco del deserto, l’Archivio di Stato, la scala Contarini del Bovolo e la Sala della musica Ospedaletto. Per non dire, poi, delle gallerie e delle associazioni e fondazioni che svolgono attività legate comunque alla cultura: il solo vademecum dedicato agli ospiti della città, e diffuso nei maggiori alberghi, ne elenca ben 32, oltre ad altri 31 tra studi e gallerie d’arte. Insomma, Venezia offre, a chi lo voglia, ben più di quanto è possibile visitare nei nemmeno tre giorni che costituiscono, ancor oggi, la media dei soggiorni in città. Qualche osservazione è comunque doverosa: la terraferma risulta troppo sguarnita; nel circuito veneziano continua a mancare qualcosa specificatamente dedicato all’architettura e all’archeologia industriale; quanto si ispira al mare è in numero sicuramente esiguo. Ma l’offerta museale, indubbiamente ricca, risente, anche e pesantemente, di alcuni fattori abbastanza perniciosi. Intanto, gli orari, assolutamente non “normalizzati”: gli istituti fanno capo a proprietà e gestioni diverse; tra loro non esiste praticamente alcun raccordo; spesso, ognuno apre quando vuole: o più verosimilmente, quando può. Così, per limitarci a pochi esempi, l’Oratorio dei Crociferi a Cannaregio, con un rilevante ciclo pittorico di Palma il Giovane, apre soltanto tre ore al giorno durante i fine-settimana; il Museo diocesano, due ore di mattina; alcuni osservano l’orario spezzato, altri quello continuato, ed assai variabili sono anche gli stessi orari di chiusura serale. Il che, si sa, certo non invoglia i visitatori, né semplifica i loro tour. Ma, ancora, i musei veneziani, specie quelli minori, patiscono anche l’assenza di una politica unitaria di promozione: quelli nelle aree più centrali, beneficiano del passaggio, spesso anche casuale, dei turisti; quelli più periferici, bisogna invece andare quasi a cercarseli con il lanternino, o almeno con in mano un baedeker. E ancor più il discorso vale per le chiese: ce ne sono alcune, anche non certo secondarie, che pagano a caro prezzo di non essere inserite nel normale circuito turistico; sarebbe interessante promuovere un sondaggio per appurare quanti tra coloro che visitano Venezia (di sicuro sarebbero assai pochi) sanno che San Pietro di Castello era l’antica sede patriarcale, e vi si possono ancora ammirare, per esempio, una cappella ideata da Baldassarre Longhena, una pala di Luca Giordano, un San Pietro di Marco Basaiti, un Veronese e quant’altro. In generale, si può ben dire che per i musei veneziani non esiste alcuna politica: non possiedono se non sporadici raccordi tra loro (a parte il recente accordo per l’area Marciana, di cui diremo), assolutamente casuali e dovuti, di solito, ai prestiti per mostre temporanee; parecchi non cercano in alcun modo di farsi conoscere, o di promuovere la propria attività; sembrano quasi delle belle addormentate, ben consapevoli però, ed anzi anche fin troppo, che, prima o poi, qualche principe, o meglio qualche turista, comunque arriverà anche da loro. Un caso dei più clamorosi è possibile leggerlo nell’evoluzione di Palazzo Fortuny, attualmente in restauro; anni fa, nel periodo di un solo quinquennio ospitò ben 22 rassegne temporanee: ed alcune non erano, francamente, nemmeno clamorose. Ebbene: nel periodo in cui vi si svolgevano le mostre, i visitatori raggiungevano anche la quota di cinquemila al mese; e quando invece il museo non ospitava alcuna rassegna, magari perfino durante i mesi di alta stagione e maggiormente frequentati, non varcavano la sua soglia che poche decine di persone. Insomma, molti musei, ma spesso assai poco valorizzati. Che attirano il pubblico, talora, solo quando organizzano mostre temporanee, meglio se importanti e di grido. Ma una assoluta carenza di iniziative (se si eccettua Palazzo Grassi e, in parte, le Fondazioni Cini e Guggenheim e il Correr) atte a farsi conoscere, a calamitare i visitatori, a promuovere la propria rispettiva immagine. Come vedremo più oltre, qualcosa è stato tentato negli ultimi tempi, specie sotto il profilo didattico, o nel periodo estivo; ma con tante difficoltà, alcune delle quali si sono mostrate finora perfino insuperabili. E dall’offerta museale, passiamo alla domanda, anzi alla sete, di arte e di cultura. La città vive, essenzialmente, di una chiesa (s’intende, la Basilica di San Marco); di un palazzo da sempre pubblico (quello Ducale); di un grande museo d’arte antica (le Gallerie dell’Accademia); di un’importante collezione d’arte moderna e contemporanea (la Guggenheim); delle mostre temporanee organizzate sia da Palazzo Grassi che dalla stessa Guggenheim e (ma anche se scientificamente assai valide, più raramente ottengono un analogo consenso) dalla Fondazione Cini. In second’ordine, vengono alcuni altri musei: come il Correr, quello ebraico, la Ca’ d’Oro, e il circuito delle chiese, di recente costituzione (una tra le non molte novità di un panorama davvero troppo statico). Infine, e se fossimo al cinema verrebbe da dire nelle ultimissime file, tutte le altre strutture espositive: alcune anche di ottimo rango e non piccolo interesse, che però raccolgono un numero di solito ridotto, e talora davvero striminzito, di presenze. Vediamo, dunque, questa singolare situazione: di una città che ha moltissimo da offrire, ma dove poi i visitatori si accalcano sempre nella stessa, affollatissima mezza dozzina di luoghi. Il primato delle presenze è equamente diviso tra la Basilica di San Marco ed una struttura espositiva non già statale, come di solito avviene poiché è proprio al Ministero dei beni culturali ed ambientali che fanno capo i maggiori musei del paese, bensì comunale, e precisamente Palazzo Ducale. Calcolare esattamente quante persone varchino la soglia della Basilica, è pressoché impossibile: vi sono inseriti tre luoghi a pagamento (la Pala d’oro e il tesoro; la Galleria, con il museo che comprende anche la Quadriga dei cavalli bronzei; il Campanile), cui si può accedere pagando, per tutti insieme, quello che costerebbe un normale museo statale; ma, per il resto, è forse impossibile individuare dei confini tra la curiosità, la cultura e la pratica religiosa. Comunque sia, la Procuratoria della Basilica offre queste cifre: 1.380.000 visitatori sia nel 1995, sia nel 1996, con una «media di stranieri prossima al 60 per cento del totale». Cioè, più o meno quanti Palazzo Ducale, che, con il suo milione e 400 mila visitatori all’anno, distacca sensibilmente tutti gli altri istituti veneziani, e non solo. Infatti, si colloca subito dopo quelli Vaticani, che, nella penisola, sono in assoluto i più frequentati (attorno ai tre milioni di presenze all’anno), e dopo gli scavi di Pompei, che (anche per merito del vicino santuario) costituiscono il più frequentato luogo di cultura italiano. L’ex palazzo dei dogi e del Maggior Consiglio se la batte per il terzo posto con gli Uffizi: un anno ha vinto Firenze; l’anno precedente, invece, Venezia. Proprio Palazzo Ducale sorregge l’economia della cultura, almeno per quanto riguarda il Comune veneziano: infatti, garantisce un incasso davvero non indifferente (21 miliardi e 600 milioni nel ’98), superiore alle stesse spese comunali per la cultura (fissate, sempre per il 1998, in 20.171.504.000 lire). Un surplus che, dice l’assessore alla cultura Mara Rumiz, in certi casi è stato anche di tre miliardi; ma «un reddito non disponibile per la cultura, poiché finisce nel grande calderone delle entrate comunali». In questo, Venezia è ancora più arretrata dello stesso Stato: infatti, per una recente riforma voluta da Walter Veltroni quando era ministro, i proventi dei musei statali restano, almeno, ai beni culturali, e non vanno a sovvenzionare altri settori. Comunque, «il sistema dei musei civici veneziani», dice Giandomenico Romanelli che li dirige, «è forse l’unico, in tutt’Italia, che si autofinanzia». Palazzo Ducale, però, sorregge quasi da solo l’economia comunale della cultura. Il Museo Correr, infatti, raccoglie all’incirca 50 mila visitatori all’anno. Quello del Vetro a Murano, dove di solito il pubblico arriva in comitive organizzate, circa 80 mila (ma nel 1997 ha vissuto un’incredibile crisi). Ca’ Rezzonico, un luogo davvero ideale per il Sette e l’Ottocento veneziano, è da tempo in parziale restauro: in occasione d’importanti mostre si comporta assai bene; negli anni 1991 e 1992 arrivava anche a 270 mila visitatori in dodici mesi: ma negli ultimi tempi langue in misura sensibile, e soltanto dal 1998 sembra essersi alquanto rianimato, promettendo almeno 70 mila frequenze. Per gli altri musei comunali, a parte i due chiusi per restauri ed adeguamenti alla normativa di sicurezza (Ca’ Pesaro e quello di storia naturale), restano soltanto gli spiccioli: nemmeno 15 mila visitatori all’anno a Palazzo Mocenigo; neppure cinquemila al Museo del merletto di Burano. Così, il grosso degli incassi è garantito appunto da Palazzo Ducale, per il quale dal giugno 1996 esiste un biglietto comulativo con il Museo Correr, e dall’anno scorso, grazie a un accordo con lo Stato che Venezia è stata la prima a stipulare, il circuito è stato esteso anche a quello archeologico e alla sezione storica della Biblioteca Marciana. Ma indicative sono anche altre cifre, sempre relative all’affluenza del pubblico nelle strutture espositive della città. Le Gallerie dell’Accademia che, lo vedremo, non possono accogliere contemporaneamente più d’un certo numero di visitatori, si fermano a circa 300 mila presenze all’anno, garantendo tuttavia un incasso di quasi tre miliardi; mentre altri musei, anche tra quelli statali, e qualche chiesa («se si vogliono ammirare le pale più importanti di Tiziano bisogna andare proprio nelle chiese», dice la soprintendente ai beni artistici e storici Giovanna Nepi Scirè), in dodici mesi non calamitano che poche migliaia di persone. Un po’ più sotto, a quota 200 mila, si arresta invece la Guggenheim. Viceversa, alcune mostre, specie quelle organizzate da Palazzo Grassi, attraggono molte centinaia di migliaia di persone, che talora valgono autentici primati. Interessanti, a Venezia, sono anche le variazioni mensili nelle stesse presenze: le Gallerie dell’Accademia sono giunte, al massimo, a quota 40 mila: ma in aprile, in cui numerose sono le gite scolastiche, tanto che abbondano i visitatori esentati dal biglietto (in quel caso, sono arrivati perfino al 60,11 per cento del totale). Tuttavia, anche agosto, che la Venezia del turismo considera tradizionalmente un mese “debole”, almeno nei maggiori musei non fa notare flessioni sensibili; ma i mesi più “forti”, si intende, restano pur sempre, con quelli primaverili, settembre ed ottobre. Invece, ci sono fasi del periodo invernale in cui anche le istituzioni importanti, ad esempio lo stesso museo Correr, non raccolgono che una media di soli tre visitatori al giorno: davvero una desolazione. Ed è ben triste pensare che il Museo del merletto, a Burano, riceve in tutto una media di 400 visitatori al mese; che Palazzo Mocenigo viaggia su una valore di 40 utenti al giorno, e che nemmeno il doppio sono quelli di Ca’ Rezzonico. Si tratta, evidentemente, dei frutti di un’“offerta brada”: non sistematizzata; che non prevede percorsi alternativi, e soprattutto non sa immaginarli; che non si ingegna a trovare, per ognuno di questi musei nemmeno troppo minori (e ciascuno, sicuramente, ne possiede qualcuno) uno slogan, un motivo da “spendere” presso il pubblico per invogliarlo alle visite; insomma, sono anche il risultato della più completa e assoluta carenza di marketing, forse giustificata con il fatto che, comunque, globalmente l’affluenza va bene, così come – di conseguenza – vanno bene anche gli affari. Perché poi, a Venezia, sembra che sia soprattutto questo a contare. tabella 21. Quanti visitatori nei maggiori musei comunali 1993 Pal. Ducale 2 Museo Correr Museo Vetrario Ca’ Rezzonico 1994 1995 1996 1997 1 076 047 1 226 365 1 332 217 1 402 383 1 393 494 64 898 52 677 57 350 71 667 30 089 67 627 77 873 85 034 84 367 12 320 69 593 74 140 27 960 23 320 609 3 1998 1 926 600 31 271 46 048 53 596 Fino a tutto agosto; 2 dal 21 giugno 1996, biglietto comulativo con il Correr: i visitatori sono quelli di entrambi i musei; 3 dal maggio 1996 al giugno 1997, il museo era chiuso. Fonte: Comune di Venezia, Assessorato alla cultura. 1 tabella 22. Quanti visitatori nei quattro museo statali Gallerie Accademia Ca’ d’Oro Arte Orientale Museo archeologico 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1 225 044 167 110 299 060 310 213 314 604 319 584 35 045 38 255 54 200 61 940 62 400 32 003 4 735 5 759 7 185 5 275 5 274 2 653 11 585 15 257 12 946 14 537 17 085 4.029 2 Il dato dell’Accademia si riferisce all’intero anno; gli altri tre riguardano soltanto i primi sei mesi; 2 il museo è rimasto chiuso dal 22.6 al 31.10. 1 Fonte: Ministero per i beni e le attività culturali. 29 Daniela Primicerio, L’Italia dei Musei. Indagine su un patrimonio sommerso, introduzione di Andrea Emiliani, Milano, Electa, 1991, aggiornato con i dati rilevati da Guida Touring. Musei d’Italia, Milano, Touring, 1998. 6) CINQUE “CASI DIFFICILI”. ACCADEMIA, ORIENTALE, ORARI, TOUR OPERATOR, MOSTRE DI CORSA «Uno degli aspetti più stupefacenti del popolo di Venezia, in qualsiasi età, è stata la sua capacità di cimentarsi in quasi tutte le attività umane, e di riuscirci superbamente. Marinai, i veneziani sono già assai richiesti dal vi secolo [...]. Teorici della politica, mettono a punto un sistema di governo unico [...]. Per quanto riguarda le arti visive, gli stati di servizio di Venezia sono ancora più abbaglianti [...]. Per quanto poi concerne la musica, il passato di Venezia, ancora una volta, fa mozzare il fiato»: così esordisce un bel libro 1 dedicato all’ex Serenissima. E forse, il suo assunto di partenza è invece degno di qualche emendamento. Perché c’è almeno un settore in cui Venezia lascia sicuramente non poco a desiderare, ed è la messa in valore degli immensi tesori che essa possiede. Senza la cui valorizzazione, ogni aspirazione a divenire sia la «capitale della cultura» auspicata da Braudel, sia quella «dell’immateriale» propugnata da De Rita, non possono che venire assolutamente vanificate in partenza. Per carità: la gestione e la promozione oggi costituiscono davvero la “nuova frontiera” con cui il ricchissimo patrimonio storico ed artistico del paese è costretto a misurarsi. I musei italiani sono quasi 3.500, tra piccoli e grandi, pubblici e privati, archeologici, storici o scientifici; ma spesso attirano assai pochi visitatori, non si sanno “vendere”: le lacune (e non le lagune) sono abbastanza generalizzate, e diffuse; si spargono abbondantemente per la penisola, nei suoi quattro punti cardinali. L’arte (o la scienza?) del marketing museale, e culturale in genere, non è certamente semplice: da qualche tempo, in tutto il mondo s’infittiscono le opere e gli studi ad essa dedicati (mentre, purtroppo, in Italia sono ancora assai carenti i corsi superiori di studio che lo hanno per argomento). Uno dei più recenti 2, ancor prima di esaminare l’andamento dei musei americani («secondo un’indagine del 1989, 8.200 autonomi e indipendenti; se si includono le succursali e le residenze e i siti storici, il loro numero sale oltre le 15 mila unità»), avverte che «visitando Venezia, alcuni hanno concluso che la città intera è un museo, non solo i singoli edifici che si propongono come tali» 3. Ma anche limitandoci ai musei propriamente detti, oltre che alle altre istituzioni deputate alla cultura, in laguna le carenze sono forse ancor più evidenti e macroscopiche che altrove; ben più numerosi gli sprechi e le occasioni mancate. Molti derivano da pastoie burocratiche, da antiche inadempienze, da pronunciate insensibilità, e maledettissimi accidenti, che certamente non hanno origine in città, ed è anzi un dovere sottolinearlo; ma il risultato complessivo non cambia: Venezia non riesce proprio a giovarsi, ricordate la parabola evangelica?, dei talenti di cui, in tutti i sensi, dispone. Forse, si può cominciare proprio dalle Gallerie dell’Accademia, che non soltanto costituiscono il più importante dei musei statali a Venezia, ma raccolgono anche un panorama unico, tanto ingente quanto importante, di un periodo tra i più “alti” del dipingere e, l’abbiamo già sottolineato, dell’arte occidentale in genere. Ebbene, anche soltanto collegandosi al sito Internet del Ministero dei beni e delle attività culturali 4 si può misurare l’andamento di una pinacoteca tra le primissime in Italia per ciò che conserva, ma non certo per quanto espone, né per il numero di chi la frequenta. Infatti, perfino tra i musei statali (e, come abbiamo visto parlando di Palazzo Ducale, ve ne sono anche di non statali con “numeri” e risultati ben maggiori), quello veneziano è appena il 16° per numero di visitatori 5: era al 14° posto nel 1997, e al 13° nel 1996 (ma resta al settimo per volume di incassi: oltre tre miliardi all’anno). Dunque, non migliora: anzi, tutt’altro. E c’è anche di più: mentre infatti l’insieme dei venti musei statali più visitati nella penisola ha fatto registrare, sempre nel 1998, un incremento di pubblico del 13 per cento 6, la massima galleria veneziana deve accontentarsi di due modestissimi punti percentuali, e il suo miglioramento non tiene nemmeno il passo di quello medio (+ 4,91 per cento tra il 1997 e il ’98) di tutti gli istituti che dipendono dallo Stato. Il fenomeno, oltre a tutto, non è assolutamente sporadico: s’è infatti verificato anche nel 1997, quando le Gallerie dell’Accademia fecero registrare un aumento appena dell’un per cento sull’anno precedente, contro il + 4,10 per cento di tutti i musei statali, e del dieci per cento tra i top 20; e non era nemmeno puntualmente mancato perfino nell’anno precedente. Insomma, man mano che passa il tempo, ogni anno di più, il “sacrario” della pittura veneta e veneziana dei “secoli d’oro” perde velocità e competitività rispetto agli altri musei; il suo “gradimento” non cresce certo con la loro medesima proporzione. In un anno, le Gallerie dell’Accademia accolgono appena un quarto circa di quanti varcano invece il portone degli Uffizi (1.332.349 persone sempre nel 1998); il dieci per cento di quanti affollano i Musei Vaticani (oltre tre milioni); la metà di coloro che, sempre a Firenze, si ricreano nei Giardini di Boboli; un sesto di quanti s’aggirano per gli scavi di Pompei; e, dacché anche il suo pian terreno è a pagamento ed è quindi divenuto possibile contarne gli ospiti, un settimo di quanti, a Roma, ogni anno ammirano il Colosseo. Ma anche solo uno su quattro di coloro che, a Venezia, si recano nello stesso Palazzo Ducale. La sostanziale stasi nel numero dei visitatori ha tuttavia una spiegazione assolutamente valida: l’impossibilità di ospitare più di trecento persone per volta nelle sale, che deriva da motivi di sicurezza, legati alla precarietà delle uscite. Questo, da un lato permette a chi ha la fortuna di riuscire ad entrarvi, di ammirare senza un eccessivo affollamento capolavori fondamentali nella storia della pittura italiana e anzi del mondo, quali La tempesta e La vecchia di Giorgione, le Madonne di Giovanni Bellini, il San Girolamo di Piero della Francesca, il San Giorgio di Mantegna, il Gentiluomo di Lorenzo Lotto, i Tiziano, il Ciclo di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio («sono, fisicamente e materialmente grandi, e bisogna percorrerle senza fretta, attraversarle in ogni direzione, soffermarsi su ogni figura, su ogni oggetto, su ogni centimetro quadrato di pittura» 7), la Deposizione del Tintoretto, i Tiepolo, i Bassano e quant’altro Venezia ha saputo produrre in pittura nel corso dei secoli (non c’è un luogo che ne conservi una summa altrettanto esaustiva anche se, per ammirare la vera pittura veneziana si deve forse entrare nelle chiese); ma, dall’altro, la limitazione penalizza davvero fortemente i visitatori. tabella 23. I visitatori dei musei statali dal 1985 al 1998 Anno Paganti % Gratuiti % Totale 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 7 908 145 8 618 081 9 551 102 10 085 051 9 679 290 8 881 242 7 189 304 7 670 872 8 566 390 9 785 688 10 587 348 11 366 184 12 003 158 13 650 633 8.98 10.8 5.59 –4.0 –8,2 –19 6.7 11.7 14.2 8.19 7.36 5.6 13.73 7 132 539 4 087 442 4 604 874 5 291 689 5 611 534 5 071 059 5 394 971 4 924 914 5 140 112 5 975 966 6 798 816 7 074 224 8 098 596 8 128 097 –42 12.6 14.9 6.04 –9,6 6.39 –8,7 4.4 16.3 13.8 4.05 14.5 0.36 15 040 684 12 705 523 14 155 976 15 376 740 15 290 824 13 952 301 12 584 275 12 595 786 13 706 502 15 761 654 17 386 164 18 440 408 20 101 754 21 778 730 Musei gratuiti 10 352 677 10 564 198 14 363 813 12 626 784 14 261 606 11 784 938 9 853 625 8 888 345 7 369 909 8 029 222 7 331 643 6 589 363 5 953 660 5 555 951 Totale % 25 393 361 23 251 721 28 519 789 28 003 524 29 552 430 25 737 293 22 437 900 21 484 131 21 076 411 23 790 876 24 717 807 25 029 771 26 055 414 27 334 681 –8,4 22.6 –1,8 5.53 –13 –13 –4,2 –1,9 12.9 3.9 1.26 4.1 4.91 Fonte: Ministero per i beni e le attività culturali, 1999. Infatti, impone spesso defatiganti attese; crea un clima ed un contesto poco propizi alla stessa visita (non è certo facile soffermarsi magari anche davanti a dei capolavori, «percorrerli senza fretta e attraversarli in ogni direzione», come dice Augusto Gentili, quando si sa che ogni prolungamento della visita aumenterà l’attesa di altri); e, soprattutto, non permette nemmeno alle Gallerie d’incrementare i propri frequentatori, poiché l’orario d’apertura non si può certo protrarre all’infinito. tabella 24. I venti musei statali più visitati in Italia Museo Gratuiti 490 959 554 812 243 358 Anno 1998 Paganti Totale 1 809 786 2 300 745 1 418 738 1 973 550 1 218 140 1 461 498 1997 Totale 723 331 1 964 279 1 332 349 Colosseo Pompei Uffizi Caserta Reggia 703 347 460 573 1 163 920 1 076 550 Firenze Accademia 132 957 877 664 1 010 621 928 380 Firenze, Boboli 209 315 631 676 840 991 885 897 Tivoli Villa d’Este 193 555 361 285 554 840 574 881 Roma, Gall. Borghese 185 866 341 850 527 716 267 674 Roma, Fori e Palatino 211 812 298 632 510 444 975 418 Firenze Palazzo Pitti 113 780 362 318 476 098 411 968 Roma, Cast. S. Angelo 99 953 364 128 464 081 594 820 Torino Museo egizio 219 622 210 349 429 971 287 535 Firenze, Capp. Medicee 126 425 289 864 416 289 403 360 Paestum 207 791 153 752 361 543 412 653 Tivoli Villa Adriana 152 701 167 499 320 200 315 125 Venezia, Gall. Accademia 58 639 260 945 319 584 314 604 Ostia 161 314 121 771 283 085 279 164 Napoli, Mus. archeologico 161 037 117 491 278 528 258 391 Capri, Grotta azzurra 69 935 201 864 271 799 304 861 Mantova, Pal. Ducale 145 642 109 955 255 697 250 907 Totale 4 442 820 9 778 280 14 221 100 12 562 147 Var % Incassi 98/97 (x 1000) 218 18 097 860 0 17 024 856 10 14 617 680 8 2 682 326 9 10 531 968 –5 2 526 704 –3 2 890 280 97 3 418 500 – 48 3 583 584 16 4 347 816 – 22 2 913 024 50 2 524 188 3 – 12 2 318 912 1 230 016 2 1 339 992 2 1 3 131 340 974 168 8 1 409 892 – 11 1 614 912 2 13 1 319 460 98 497 478 Fonte: Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio stampa. Questa è una prima questione, di cui il maggior museo statale di Venezia subisce tutti i perniciosi effetti. L’altra, è quella dello spazio: finora tanto ridotto, che gli concede di esporre soltanto circa 350 opere nelle sale, oltre ad altre ottanta nella cosiddetta “quadreria”: una sorta di lungo corridoio, che costituisce l’unico ampliamento realizzato da moltissimi anni a questa parte, dove però, per accedere, occorre prenotarsi. Dunque, nemmeno 450 opere in tutto, su oltre duemila che le Gallerie possiedono: forse nessun altro importante museo del nostro paese ha una percentuale così limitata e ridotta di opere esposte, rispetto al numero di quelle di cui è invece il depositario. Sarà un paradosso, ma, almeno numericamente, è una verità: c’è più Accademia nei suoi depositi, che non nelle sue sale. «Tutto ciò, però, è destinato a finire, ed a finire in fretta», garantisce la soprintendente ai beni artistici e storici della città, Giovanna Nepi Scirè 8. Infatti, poco prima che iniziasse il nuovo secolo, sono finalmente cominciati anche i lavori per rendere “grandi” le Gallerie dell’Accademia. Un’impresa di cui, tuttavia, si parlava ormai almeno dal ’72: cioè da oltre un quarto di secolo. Alla fine, il museo raddoppierà gli spazi, dopo che l’Accademia, con cui divideva l’edificio, si sarà trasferita, prevedibilmente prima che termini il 2000, alle Zattere: nell’ex convento degli Incurabili, appositamente restaurato. Ma, almeno, «a Venezia, si è riusciti a fare ciò che non è stato possibile a Milano, cioè a Brera: separare la scuola dall’annessa Pinacoteca», aggiunge il soprintendente ai beni ambientali e architettonici Roberto Cecchi 9. Perché, dopo un quarto di secolo di discussioni e buone intenzioni, il progetto approdasse finalmente a un risultato, le istituzioni da sole non sono bastate: è stato necessario non poco impegno di uno speciale comitato promotore, composto da soggetti privati e non, diretto da Cesare Annibaldi, una vita ai vertici della Fiat, e, da settembre 1999, successore dello scomparso Feliciano Benvenuti alla presidenza di Palazzo Grassi. Così, le Gallerie dell’Accademia si propongono ora come un esempio assolutamente emblematico e quanto mai istruttivo, dal duplice valore e dal doppio significato. Da un lato, la penalizzante condizione in cui sono state troppo a lungo costrette testimonia in maniera assolutamente paradigmatica una défaillance tipicamente italiana, che si è trascinata per parecchi anni: cioè il “periodo della paralisi”, in cui le cure del patrimonio storico e artistico del paese venivano regolarmente affidate ai Facchiano o alle Bono Parrino di turno; in ossequio al “manuale Cencelli” (che mutua il nome dal sottosegretario che per primo codificò questi difficili equilibri), il Ministero dei beni culturali era considerato come l’ultimo dei “resti”, e quindi spettava al partito, o alla corrente meno significativa (assai spesso, è toccato ai socialdemocratici), cioè comunque a personaggi politicamente secondari, privi di vigore ed autorevolezza; la stagione, insomma, in cui ad occuparsi di quella che, probabilmente, è la maggior ricchezza di tutta la penisola, e cioè il suo patrimonio storico-artistico, era la “Cenerentola” di tutti i dicasteri. Sono stati anni, e anzi circa due decenni, in cui parecchi musei erano assai spesso chiusi (e proprio Roma, la Capitale, ha rappresentato un’acme di questa crisi); e gli altri, come appunto anche le Gallerie veneziane, erano aperti comunque assai poco; le loro giuste esigenze totalmente ignorate; e spesso quasi soltanto ridicole le dotazioni di uomini, mezzi e tecnologie di cui potevano disporre ed avvalersi. Ma dall’altro lato, la storia più recente delle medesime Gallerie veneziane costituisce un esempio di pianificazione urbana, assolutamente raro ed assai significativo; rappresenta un profondo sovvertimento delle normali impasse in cui, in Italia, eternamente si dibattono i progetti di rinnovamento urbano che possiedano qualche ambizione, specie quando riguardano più soggetti pubblici o più Ministeri, e ancor più quando prevedono il trasferimento di qualche istituzione dalla sede occupata in epoca storica; dimostra il molto di buono che è possibile realizzare, quando le indubbie capacità (ma anche le tradizionali lentezze) degli apparati statali vengono innervate dalla volontà politica e dall’attività degli Enti locali, ma soprattutto dalla stimolante presenza dei privati e delle loro associazioni. Reperire una sede decorosa per l’Accademia, e ristrutturarla riadattandola a questo scopo, perché così liberasse lo spazio necessario alle Gallerie per non continuare a soffocare, è stata davvero una grande impresa, rivelatasi finora impossibile in tante altre città. E il decollo di un progetto, che nell’ultimo triennio ha avuto fasi di notevole spinta, fa davvero ben sperare per il futuro delle Gallerie, anche se non ne cancella decenni di quasi criminale, e comunque colpevole, disattenzione da parte dello Stato. I primissimi lavori hanno riguardato, spiega ancora Giovanna Nepi Sciré, «la riapertura della scala del Palladio: quando si sarà concluso questo cantiere, al massimo all’inizio del 2000, non avremo più la necessità di limitare l’afflusso dei visitatori». Quindi, presumibilmente già la prossima estate porterà qualcosa di nuovo e, s’intende, di positivo. Ma, vale la pena di ripeterlo, a distanza d’un quarto di secolo da quando il progetto ha visto la luce. Tuttavia, anche l’iter di questo restauro non appare sicuramente né semplice, né breve; e, comunque, per un paio d’anni almeno, le Gallerie saranno ancora sacrificate, anche negli spazi dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, cioè il punto vendita dove ottiene grande successo (ne parleremo tra poco) soprattutto la nuova “guida breve” della Pinacoteca. In futuro, la libreria e il punto vendita saranno collocati in quello che attualmente è il salone a piano terra proprio dell’istituto scolastico, l’ex Accademia; ma per ora, devono invece accontentarsi di una sistemazione davvero inadeguata e insoddisfacente, che certamente ne penalizza anche gli stessi affari e, per la ristrettezza degli spazi, provoca spesso un intasamento di visitatori in biglietteria, rallentando ulteriormente il loro afflusso. Come pure devono accontentarsi i custodi: che, finora, lavorano in condizioni assolutamente disagiate per la carenza di spazio, quasi con spogliatoi e servizi igienici di fortuna. A indicare quanto, troppo a lungo nel passato e in realtà fino a pochi mesi or sono, questa Galleria sia stata lasciata deperire, provvedono poi anche altri dettagli. Per esempio, è noto che, attraverso l’antica e per fortuna ormai dismessa pratica dei prestiti a lungo termine concessi a uffici ed enti pubblici (ma talora, anche a privati), nonché a comandi militari e ad altre organizzazioni, grosso modo dal 1920 in poi importanti collezioni pubbliche italiane sono state depauperate di non poche tra le loro opere. Magari, tele, di buona fattura, e di artisti insigni e famosi, del Seicento: allora un periodo dell’arte assai poco considerato, ed ora invece abbondantemente rivalutato. In misura maggiore o minore, è successo un po’ dappertutto: a Capodimonte, come a Palazzo Barberini; agli Uffizi, come alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Soltanto circa tre anni fa, una speciale commissione, presieduta dallo storico dell’arte Giorgio De Marchis, quando Alberto Ronchey era ministro dei beni culturali e anche per l’impegno dello scomparso Federico Zeri, ha provveduto a redigere un inventario di questi “beni spariti”. E le sorprese, s’intende in negativo, non sono mancate. Non poche opere sono riemerse, quando erano state dichiarate per sempre disperse, magari in guerra (una, l’aveva vista perfino Roberto Longhi da un antiquario romano e ne aveva riferito su «Paragone»); ne sono state trovate anche in una dozzina di musei stranieri, a cominciare da quello di Hartford nel Connecticut, che a Palazzo Barberini di Roma ha restituito una Betsabea al bagno di Jacopo Zucchi, ufficialmente estinta sotto il bombardamento dell’Ambasciata italiana di Berlino. Ebbene, proprio le Gallerie dell’Accademia sono risultate uno dei musei italiani maggiormente colpito dal pernicioso fenomeno. Non solo: qualche tempo fa, risultavano presenti nei depositi 717 opere, di cui 391 tele, 165 tavole, 46 su rame, 94 su carta ed altri diversi supporti (perfino sette su osso e quattro su lavagna), sei affreschi e un’incisione su vetro; ma, oltre ai tremila disegni del Gabinetto delle Stampe, le Gallerie mostravano d’avere ben 352 opere in deposito esterno. Le 131 tele dell’Ottocento erano state, assai giustamente, concesse a Ca’ Pesaro; altre 62 di autori fiamminghi erano invece collocate alla Ca’ d’Oro; 52, in consegna alla Fondazione Cini; 28, al Conservatorio Benedetto Marcello. Ma anche 26 alla Prefettura; sette perfino a quella di Belluno; altre nove alla chiesa di Sant’Elena; sei al Patriarcato. E non basta: attraverso sopralluoghi casuali, altre sono state, a suo tempo, rintracciate in una chiesa del Bellunese; in un’altra del Vicentino; perfino nel Mantovano; due Scene di battaglia di Giuseppe Zais (1709-48), in un istituto romano, al quale erano state consegnate come opere di un autore minore. La “diaspora” veneziana è però ancora più ingente. Soppressa la Repubblica veneziana, Napoleone istituisce il «Demanio pubblico veneziano», riconfermato poi dagli austriaci, che – come si sa – succedono ai francesi. Le opere provenienti da chiese ed enti secolarizzati o soppressi, spesso finiscono proprio lì; e vengono inventariate con un numero, e la sigla dpv. Spesso, tuttavia, i restauri ottocenteschi hanno coperto queste indicazioni; e così «di recente, restaurando, abbiamo trovato, per esempio, un dipinto a Treviso; ma in giro ce ne sono sicuramente qualche centinaio. E riscontrarli, trovarli, identificarli, è davvero un’impresa improba», spiegava tempo fa una funzionaria della soprintendenza, Adriana Agusti 10. Il fenomeno, sicuramente, è non poco grave. Ma ormai è iniziata una sorta di inversione di tendenza, e, lentamente, le opere disperse cominciano a tornare. Perfino la Camera dei Deputati ha accettato di restituirne qualcuna, tra quelle (tantissime: quasi un migliaio) che deteneva; e sia Palazzo Barberini, sia per esempio Capodimonte, sono riusciti a tornare in possesso di opere che erano per loro importanti. «In certi casi, per riaverle noi proponiamo dei cambi, con altre tele che per noi hanno minor rilievo o significato», spiega Giovanna Nepi Scirè. E racconta che una decina di dipinti, già dispersi ai quattro venti, sono stati frattanto recuperati, anche la Cena a casa del fariseo di Charles Le Brun (1619-90), «che era tra le tele concesse al Conservatorio e, oltre ad essere un’opera importante in sé possiede anche una valenza simbolica assai forte» 11: è infatti l’opera d’arte con cui la Francia di Napoleone Bonaparte, e del primo direttore del Louvre Dominique Vivant Denon, “indennizzò” il nostro paese, e in particolare Venezia, per avere sottratto le immense, in tutti i sensi, Nozze di Cana del Veronese. In previsione del futuro ampliamento, la soprintendente già pensa a cosa esporvi: «Spero che riusciremo a raddoppiare il numero delle opere in mostra»; per esempio, mostrando «la ricostruzione del ciclo dei Camerlenghi», una magistratura finanziaria che aveva sede a Rialto, e i cui dipinti nel tempo sono stati dispersi: «Li stiamo restaurando là dove sono, e cercheremo di recuperarli tutti». Intanto, però, le Gallerie dell’Accademia possono soltanto continuare a fare quello che hanno fatto finora: misurarsi con problemi assai gravi e del tutto non risolvibili, che certamente non le permettono, ad esempio, la redditività che pur sarebbe possibile. Oltre a tutto, le Gallerie risentono dell’andamento assolutamente ondivago che è tipico del turismo veneziano: se nel giugno ’99, ad esempio, hanno totalizzato 27.443 visitatori, con un aumento secco del 50 per cento sul medesimo mese del ’98, e sono quindi state l’ottavo museo italiano più visitato 12, a gennaio erano soltanto al 14° posto per numero di biglietti staccati, con appena 13.609 visitatori in tutto: un’assurda media di circa 450 al giorno. Quindi, se a giugno le Gallerie hanno prodotto quasi mezzo miliardo d’incassi, a gennaio hanno introitato soltanto 140 milioni: cioè certamente assai meno di quanto perfino costasse la loro semplice gestione ordinaria. E questo, lo dicono le statistiche, è un malanno antichissimo; si ripete, cioè, puntualmente ad ogni anno. 1 Robbins Landon e Norwich, Five Centuries of Music, cit. 2 Neil e Philip Kotler, Museum Strategy and Marketing. Designing Missions Buildings Audiences Generating Revenue and Resources, San Francisco, Jossey-Bass, 1998; Marketing nei musei. Obiettivi, traguardi, risorse, a cura di Cesare Annibaldi, traduzione di Lorenza Chianura, Torino, Edizioni di Comunità, 1999 (Territori di Comunità). 3 Ivi. 4 http://www.beniculturali.it. 5 Preceduto, nel 1998, dal Colosseo, Pompei, gli Uffizi, il Palazzo reale e parco di Caserta, le Gallerie dell’Accademia e il giardino di Boboli a Firenze, Villa d’Este a Tivoli, la Galleria Borghese e i Fori a Roma, Palazzo Pitti ancora a Firenze e Castel Sant’Angelo di nuovo nella capitale, l’Egizio di Torino, le Cappelle Medicee di Firenze, Paestum e Villa Adriana a Tivoli. 6 Da 12.562.147, a 14.221.100; complessivamente, i visitatori dei musei statali sono stati 27.334.681. 7 Augusto Gentili, Le storie di Carpaccio. Venezia, i Turchi, gli Ebrei, Venezia, Marsilio, 1996 (Saggi. Storia dell’arte). 8 Colloquio con l’autore, settembre 1999. 9 Citato in Lidia Panzeri, Arrivano al raddoppio le «Grandi Gallerie» dell’Accademia, «Il Gazzettino», p. 19, 4.9.1999. 10 Colloquio con l’autore, marzo 1997. 11 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 12 Dati del Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio stampa. 6.1) Un caso unico: “il giorno più lungo” diventa il più corto Ma le Gallerie dell’Accademia, oltre che dell’altalenante andamento del turismo veneziano, soffrono perfino per le sue gravi pecche. E lo dimostra un caso clamoroso, perfino quasi incredibile. Nella primavera-estate 1998, dal 7 aprile al 31 ottobre, il Ministero ha organizzato due esperimenti, mai tentati in precedenza almeno in questa forma ed in misura così estesa, denominati Il giorno è più lungo e Domenica al museo, che hanno riguardato alcune tra le maggiori istituzioni espositive statali del paese. L’orario d’apertura di sedici importanti musei statali è stato prolungato ogni sera fino alle 22 (tranne il lunedì per cinque di essi, che osservavano il turno di chiusura settimanale; ma compresa invece la domenica); mentre altri undici luoghi espositivi sono stati resi agibili non nelle serate feriali, ma nei pomeriggi domenicali, sempre fino alle 22, come di solito non accadeva. I dati dei due esperimenti (una volta tanto elaborati con lodevole celerità, ed anzi disponibili pressoché in tempi reali grazie al coordinamento della Direzione generale per gli affari generali, amministrativi e del personale del dicastero) mostrano che entrambi i progetti hanno reso, in termini economici, più di quanto avesse richiesto la spesa per attuarli. In media, il prolungamento d’orario ha portato un incremento pari al 17,67 per cento dei visitatori 13. Ma per le Gallerie dell’Accademia, questo surplus di frequentatori è stato assolutamente assai più ridotto: pari soltanto al 7,34 per cento delle normali presenze. Il gap si ripercuote, logicamente, anche sui costi dell’operazione: se, infatti, i 16 musei interessati all’esperimento, fino al 30 settembre avevano fatto globalmente registrare un’eccedenza degli incassi pari al 16.8 per cento di quanto avesse richiesto la spesa per prolungare gli orari (uscite per 4.671.696 lire; biglietti d’ingresso venduti per 5.459.116.000 lire), la medesima iniziativa, riferita alla pinacoteca veneziana, ha invece richiesto un esborso superiore addirittura del 60.23 per cento rispetto a quanto non abbia reso in termini, si intende, monetari (una spesa di 215.428.000 lire; incassi per 134.448.000 lire) 14. tabella 25. Mese per mese, i visitatori delle Gallerie dell’Accademia Mese Gennaio paganti gratuiti Febbraio paganti gratuiti Marzo paganti gratuiti Aprile paganti gratuiti Maggio paganti gratuiti Giugno paganti gratuiti Luglio paganti gratuiti Agosto paganti gratuiti Settembre paganti gratuiti Ottobre paganti gratuiti Novembre paganti gratuiti Dicembre paganti gratuiti Totale paganti gratuiti 1993 1994 1995 7 644 11 263 11 455 7 100 9 800 9 900 644 1 463 1 555 11 903 21 107 3 275 10 900 15 700 2 600 1 003 5 407 675 1 18 187 20 091 29 100 13 300 13 490 19 700 4 887 6 601 9 400 22 637 Mostra del 39 271 15 400 Tintoretto 25 900 7 237 13 371 25 265 Mostra del 34 603 19 100 Tintoretto 25 200 6 165 9 403 25 448 Mostra del 28 926 21 000 Tintoretto 29 900 4 448 5 026 24 660 13.431 2 25 064 21 300 11 810 21 700 3 360 1 621 3 364 22 640 21 148 26 636 19 900 18 100 23 000 2 740 3 048 3 636 21 100 25 400 32 593 18 300 21 500 26 100 2 800 3 900 6 493 21 044 26 200 34 207 17 800 21 200 28 000 3 244 5 000 6 207 14 856 17 752 20 334 17 700 14 100 16 500 3 156 3 625 3 834 9 660 10 745 13 596 8 100 8 800 11 500 1 560 1 945 2 096 225 044 167 110 299 060 183 900 95 510 234 000 41 144 19 139 65 060 1996 14 419 11 900 2 519 23 051 17 700 5 351 26 812 19 700 7 112 38 421 26 800 11 621 35 575 26 700 8 875 26 599 21 400 5 199 24 773 20 800 3 973 26 178 21 400 4 778 32 788 25 500 7 288 36 454 27 900 8 554 18 589 14 100 4 489 6 554 5 400 1 154 310 213 239 300 70 913 1997 9 294 7 800 1 494 21 163 15 500 5 663 28 218 18 900 9 318 40 616 16 200 24 416 35 566 25 300 10 266 26 756 21 952 4 804 27 489 23 448 4 041 27 770 23 000 4 770 29 436 23 600 5 836 33 549 26 600 6 949 18 947 15 600 3 347 15 800 12 600 3 200 314 604 230 500 84 104 1998 13 367 11 300 2 067 19 676 15 800 3 876 28 288 21 478 6 810 44 174 29 138 15 036 34 551 31 248 3 303 27 556 25 958 1 598 319 584 260 956 58 639 Chiuso dal 7 al 27 febbraio 1995; 2 La mostra, per cui era sospesa la tassa d’ingresso, si è conclusa l’11.07. 1 Fonte: Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archeologici. Anzi, se si eccettuano quelli del Museo e Galleria di Capodimonte a Napoli (forse, per i problemi di sicurezza posti dal parco attiguo, e per il timore della microcriminalità), e di Castel Sant’Angelo a Roma (la cui visita è strettamente collegata con quelle in Vaticano, che avvengono durante il giorno), il risultato della pinacoteca veneziana è, in assoluto, il più deludente in tutta la penisola. Assai meglio si sono “comportati” i frequentatori serali di tutti gli altri istituti: contro un aumento del 7,34 per cento a Venezia, sono stati perfino il 50,29 di quelli dell’intera giornata a Palazzo Altemps; il 46,73 al Museo nazionale archeologico al Palazzo ex Massimo, sempre a Roma; e il 35,76 alla Galleria Borghese (entrambi favoriti anche dal fatto di essere musei di recente apertura al pubblico); o il 28,16 per cento al Cenacolo Vinciano di Santa Maria delle Grazie a Milano (di cui non si era ancora nemmeno inaugurato il restauro), e il 22,28 alla Pinacoteca di Brera, sempre nel capoluogo lombardo; il 30,27 al Museo archeologico di Napoli; il 13,35 a Firenze, agli Uffizi, e così via 15. Lo stesso rilevamento della scansione oraria nell’affluenza alle Gallerie dell’Accademia mostra notevoli discrepanze, se paragonato con quello nei sedici maggiori musei italiani. Pressoché analoga (circa il 12 per cento) durante il primissimo periodo d’apertura, e cioè fino alle 10 antimeridiane, la presenza di pubblico resta sempre superiore di due e più punti percentuali alla media nazionale fino al rilevamento delle ore 13. Successivamente, fino alle 16 è ancora maggiore, ma di un solo punto percentuale; per poi decrescere però improvvisamente ed a ritmi sempre più ingenti, con una vera e propria progressione, man mano che trascorrono le ore. Già tra le quattro e le cinque del pomeriggio, fa registrare quasi un punto e mezzo percentuale in meno, rispetto agli altri grandi musei italiani; che, nonostante l’esiguità dei valori assoluti (in Italia, si va assai più raramente nelle pinacoteche di pomeriggio che non di mattina), diventano più di tre punti tra le 18 e le 19; quasi uno e mezzo tra le 19 e le 20; circa due tra le 20 e le 21. Insomma, quello che per tutto il resto d’Italia è diventato “il giorno più lungo”, per il principale museo statale di Venezia s’è invece dimostrato il “giorno più breve”. Le cause di questo singolare fenomeno sono forse duplici: da un lato, Venezia è città sicuramente faticosa per il turista; richiede lunghi spostamenti a piedi (per giunta, “su e giù per i ponti”), e quindi, il pomeriggio, quando la stanchezza comincia a farsi sentire, è sicuramente tra gli orari meno consoni per una visita museale. Attenzione, però, che essendo tuttora limitato il numero delle persone ammesse contemporaneamente nelle Gallerie, questo, specie durante i finesettimana, è spesso foriero di lunghe code; il che, dunque, dovrebbe semmai invogliare ad una visita in orari meno congestionati, e non certo dissuaderla. Ma in realtà, questa sensibile differenza tra le abitudini dei visitatori dei musei veneziani e quelle dei loro colleghi nel resto d’Italia discende soprattutto dal tipo di turismo che frequenta Venezia: in gran parte, composto da “pendolari della visita culturale”, quasi da “gitanti”; i quali, quindi, di pomeriggio, e a maggior ragione di sera, pensano piuttosto a rientrare nelle loro sedi d’origine, che non a varcare la soglia di un museo. E analogamente si comportano quanti, certamente non attratti dall’elevato costo degli alberghi nel centro storico, decidono di dimorare in quelli sulla terraferma, o perfino nella provincia. Per contro, i turisti (come abbiamo visto, nella stragrande parte stranieri) che dedicano a Venezia qualche giorno di vacanza risiedendo negli alberghi del centro storico, hanno verosimilmente già messo in conto la visita all’Accademia e, magari non essendo informati dell’opportunità di una visita serale, anche perché l’iniziativa, sperimentale, era stata decisa quasi all’improvviso, l’avevano invece già pianificata nelle ore di normale apertura. tabella 26. I visitatori, ora per ora, in Italia e all’Accademia Fino Tra Tra Tra Tra Tra Tra Tra Tra Tra Tra Tra alle le 10 le 11 le 12 le 13 le 14 le 15 le 16 le 17 le 18 le 19 le 20 10 e 11 e 12 e 13 e 14 e 15 e 16 e 17 e 18 e 19 e 20 e 22 Italia (16 musei) 13 12.6 11.2 10.5 8.14 9.44 8.55 8.73 6.2 5.79 3.31 3.07 Venezia 12 14.9 14.4 13.1 8.98 9.83 9.66 7.37 5.14 2.61 1.06 0.95 Variazioni –0,5 +2,3 +3,2 +2,6 +0,8 +0,4 +1,1 –1,4 –1,1 –3,2 –2,3 –2,1 Il rilevamento ha come base i 16 musei italiani partecipanti all’esperimento del «Giorno più lungo»: Castel Sant’Angelo, le Gallerie nazionali d’arte antica e moderna, la Galleria Borghese, Palazzo Altemps, e il Museo archeologico nazionale di Roma; gli Uffizi, le Gallerie dell’Accademia e Palatina di Firenze; il Museo egizio di Torino; il Museo di Capodimonte, quello archeologico e Palazzo reale di Napoli; il Cenacolo Vinciano e la Pinacoteca di Brera a Milano; le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Alcuni istituti (Castel Sant’Angelo, il Cenacolo, i Musei fiorentini, quello egizio di Torino, Palazzo Altemps, il Museo di Capodimonte e quello archeologico di Napoli) anziché alle ore 9, Fonte: nostra elaborazione da Ministero per i beni e le attività culturali, Direz. gen. affari generali, amministrativi e del personale. Comunque, anche questa è un’occasione perduta; una fonte di redditività in buona misura sprecata. Ma la assoluta atipicità del turismo veneziano produce anche ben altri, e perfino maggiori, guasti. Ecco, per raccontarne una, che cosa è accaduto la prima volta in cui qualcuno ha pensato a una job creation nemmeno malvagia. L’idea era venuta, nell’estate 1998, proprio a chi si occupa delle Gallerie dell’Accademia: in previsione dell’apertura estesa anche alla sera, perché non unire l’utile al dilettevole, ed offrire una visita alla pinacoteca compiuta in gondola? Biglietto d’ingresso, visita guidata e transfer da San Marco all’Accademia, in un modo che più veneziano non si può: a 50 mila lire a testa per gruppi di almeno quattro persone sulla medesima gondola; o a 60, se con accompagnamento musicale (non il solito O’ sole mio, propinato agli ingenui e frettolosi turisti giapponesi, ma note rinascimentali: in tono con le opere che le stesse Gallerie conservano). Già preparata anche la locandina pubblicitaria: un dipinto di Francesco Guardi, che ritrae i gondolieri davanti a San Giorgio. Stipulato l’accordo tra museo e gondolieri, un ostacolo si è però frapposto tra l’idea e la sua realizzazione: alle agenzie di viaggio, infatti, restava un margine (il dieci per cento, 12 mila lire a gondola) ritenuto troppo esiguo. «Vero: il primo anno, l’iniziativa, proprio per questo, non ha riscosso i risultati sperati; è stata ben poco propagandata e venduta. Poi, l’abbiamo offerta all’estero, tramite i tour operator, ed è andata sensibilmente meglio: ma questo ha richiesto del tempo; e così, i primi risultati li abbiamo ottenuti soltanto dopo due anni», dice, in soprintendenza, Roberto Fontanari 16. 13 Giuseppe Proietti, I progetti «Il giorno è più lungo» e «Domenica al museo», in Ministero per i beni e le attività culturali, «Notiziario», a cura dell’Ufficio studi, xiii, 56-58, gennaio-dicembre 1998, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1999. 14 Come spiega il direttore generale per gli affari generali, amministrativi e del personale del Ministero per i beni e le attività culturali, Giuseppe Proietti: colloquio con l’autore, novembre 1998. 15 Proietti, I progetti, cit. 16 Colloqui con l’autore: settembre 1998 e settembre 1999. 6.2) Altre istituzioni, fin troppo dimenticate A soffrire non sono, tuttavia, soltanto le Gallerie dell’Accademia. Anche altre istituzioni di grandissima importanza, come per esempio l’Arciconfraternita di San Rocco, dove spiegano: «Siamo un’istituzione per antico Stato, il che significa che, essendo sorti nel 1748, precediamo tutte le normative attualmente in vigore». L’Arciconfraternita gestisce uno dei luoghi più “magici” dell’intera città, la cinquecentesca Scuola grande con l’importantissimo ciclo di teleri di Jacopo Tintoretto, «eseguito a più riprese in quasi 25 anni» 17, ed è costretta a vivere in condizioni spesso difficili: «Abbiamo una decina di dipendenti, ma in Cancelleria siamo tre persone che lavoriamo a titolo assolutamente gratuito; cerchiamo di salvarci trovando, ogni tanto, qualche sponsor; comunque, i visitatori sono circa centomila all’anno, non ci lamentiamo», dicono. Tuttavia, se a San Rocco non ci si lamenta, altrove il numero degli stessi visitatori è assolutamente insufficiente; spesso davvero esiguo; talora perfino ridicolo. La Ca’ d’Oro veleggia sulle 60 mila presenze all’anno («è un gioiello così delicato, che forse non vorremmo nemmeno averne di più», dice la soprintendente Nepi Scirè 18); ma il Museo archeologico, pur assai insigne e collocato a un passo dalla Basilica di San Marco, non raggiunge le 20 mila; e, per restare nel novero degli statali, quello d’Arte orientale è aperto solo di mattina (come, per altro, anche l’importante Archivio di Stato ai Frari), e viaggia sui cinquemila visitatori all’anno. Cioè, per capirci, una media di nemmeno 14 persone al giorno: due circa per ogni ora d’apertura. Un paio d’anni fa, ha incassato 11 milioni e mezzo: forse, il costo delle sole pulizie, e forse nemmeno. Eppure, «possiede collezioni incredibili; ben 15 mila pezzi, alcuni dei quali davvero straordinari, che i giapponesi, i quali spesso vi vengono in visita, dicono di non trovare, altrettanto ben conservati, nel loro paese», spiega sempre Giovanna Nepi. Per carità: un museo specialistico non può certamente puntare alle grandi masse; «ma così, all’ultimo piano di Ca’ Pesaro, a lungo chiusa per restauri, sacrificatissimo, è davvero anche assai poco invogliante». Da tempo pressoché immemorabile, attende una nuova sede: il già assai conteso Palazzo Marcello (molti gli avevano posto gli occhi sopra), acquistato dallo Stato, a questo scopo, nel lontano 1981. Ma spesso, i restauri sono come gli esami di Eduardo: non finiscono davvero mai. Le singolarità, nella Venezia dei musei, non si fermano tuttavia qui. Un’altra, tra le tante, è sicuramente costituita da quello Diocesano: un «museo di parcheggio», come lo definisce il responsabile, monsignor Gino Bortolan19. «Da noi, non c’è biglietteria, e il calcolo delle presenze è quindi relativo; nei giorni feriali, forse entrerà qualche decina di persone: ma anche centinaia quando vi sono delle mostre speciali; l’arte sacra non è popolare; da noi, spesso vengono dei gruppi: venti o trenta persone alla volta; talora, lasciano un saluto sul libro degli ospiti, dove abbiamo anche trovato scritto frasi come “Finalmente un museo in cui non si deve pagare l’ingresso”». E ancora: «Spesso, i visitatori sono stranieri: tedeschi o inglesi che hanno saputo dell’esistenza del museo da un articolo su qualche loro giornale, talora perfino anni prima; se lo sono messo da parte, e appena arrivati a Venezia se ne ricordano. Non possediamo una nostra collezione: ospitiamo quelle opere e quegli oggetti provenienti dalle chiese in cui sono in corso lavori di adeguamento dei sistemi d’allarme, o il cui parroco non è certo di poterli conservare con assoluta sicurezza; restano un po’ di tempo da noi, poi, quando i lavori sono stati compiuti, ritornano alle loro sedi originali». Questo, evidentemente, impedisce al Museo anche di possedere un catalogo. Ma pochi forse sanno che la sua sede è nell’ex convento benedettino di Sant’Apollonia, già Seminario Ducale e poi Imperial Regio Tribunale criminale, con il chiostro (dice sempre monsignor Bortolan) «più antico e meglio conservato della città: protetto perfino dalle acque alte grazie a uno speciale catino, che ha permesso il recupero del pavimento duecentesco; il demanio ne era proprietario, e l’aveva lasciato decadere a rudere: fu riacquistato da papa Giovanni xxiii, quand’era soltanto il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, patriarca di Venezia»; e l’importanza di essere giunti fino allo stadio primordiale della sua costruzione, è davvero fondamentale, perché «i livelli di fondazione di qualsiasi fabbricato costituiscono, a Venezia, indicatori di eccezionale pregio e funzione» 20. Il chiostro presenta forme romaniche di terraferma, del tutto eccezionali per la città; al centro, una vera di pozzo del Duecento; importanti vestigia archeologiche, organizzate in un lapidario; nelle sue sale ci sono, o ci sono stati, anche dipinti di prima grandezza e di autori famosi; ma la “colpa” di questo singolare museo, aperto soltanto due ore nelle mattinate feriali, è soltanto una: di trovarsi nel sestiere di Castello. Avulso dai soliti itinerari turistici organizzati e anche da quelli battuti dai “visitatori fai da te”, che nemmeno sono informati di quante bellezze e particolarità l’ex Serenissima conserva. Questo “viaggio delle occasioni mancate” potrebbe proseguire a lungo. Vediamone un altro caso: oggi, un unico frammento di quello che un tempo era il poderoso Arsenale veneziano è aperto al pubblico e regolarmente agibile; quella che un tempo, da fine Seicento, era la “Casa dei modelli”, devastata a fine Settecento e poi ricostruita, e che oggi è il Museo storico navale. Non sarà un esempio di allestimento moderno, ma è un istituto singolare, con eccezionali cimeli e la possibilità di un interessante percorso storico. Ancora una volta, però, paga il prezzo di colpe non sue: ha infatti il torto di sorgere in fondo a Riva degli Schiavoni, di non essere certo attiguo alla Piazza di San Marco, che a Venezia sembra quasi essere l’unica. E quindi, non raccoglie che poco più di 45 mila visitatori all’anno. 17 Giandomenico Romanelli, Tintoretto. La Scuola Grande di San Rocco, Milano, Electa, 1994 (Dentro la pittura). 18 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 19 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 20 Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Milano, Electa, 1983. 6.3) Mostre e musei da percorrere davvero a passo di carica Qualche ulteriore caratteristica del modo assolutamente sommario e lacunoso con cui Venezia viene – come si dice oggi con un pessimo, ma forse irrinunciabile termine – “fruita”, riesce cioè a trasmettere il messaggio culturale di cui è assolutamente portatrice, ce lo forniscono altri interessanti indicatori. Dall’aprile 1989, le Gallerie dell’Accademia e la Ca’ d’Oro possiedono due veri e propri banchi di vendita di libri e pubblicazioni: due di quelli che ormai vengono chiamati bookshop, e chissà perché non invece librerie. Li ha aperti la Elemond, che ha vinto la gara per garantire ai musei i cosiddetti “servizi aggiuntivi”, sulla base della legge nota come Ronchey, dal nome del ministro che la volle; e «da quel giorno sono successe cose incredibili», dice in soprintendenza Roberto Fontanari 21. «Per esempio, è andata pressoché esaurita, con una rapidità disarmante e perfino imprevista, l’intera tiratura della Guida breve dell’Accademia 22, edita in quattro lingue. Abbiamo dovuto subito provvedere alla ristampa». «Nei punti vendita, la spesa pro capite, dal 1997 al 1998, alle Gallerie dell’Accademia è lievitata da 1.163,8 lire, a 1.884,6; e alla Ca’ d’Oro perfino dalle 769,4 del 1997 alle 2.041 di oggi. L’ammontare complessivo degli incassi è aumentato rispettivamente del 58,1 e addirittura del 153 per cento. Alle Gallerie. Il fatturato dei primi otto mesi del 1998 è stato di quasi 400 milioni, 150 più dell’anno prima». Dunque, il turista veneziano, è spesso, all’insegna del risparmio, un “pendolare mordi e fuggi”; ma chi invece mette piede nei musei, sembra perfino disposto a spendere. Lo confermava Alberto Rossetti, quando era responsabile del settore mostre e musei della stessa Elemond 23: «Venezia è una città, da questo punto di vista, assai migliore di molte altre». E spiegava: anche se per introdurre l’abitudine alle audioguide serve sempre un po’ di tempo, «siamo già a una quota del 13 per cento sul complesso dei visitatori che le richiedono, quando invece la media generale nel nostro paese è appena del cinque o sei per cento». Ancora più interessante è poi esaminare la capacità globale di spesa del visitatore dei musei veneziani: «Le variazioni», chiariva ancora Alberto Rossetti, «dipendono da una lunga serie di fattori: non solo dal tipo e dal livello di pubblico, ma anche dall’esistenza o meno di altre bancarelle che, in precedenza, lo possano aver tentato lungo il percorso; o dal fatto che il punto vendita sia collocato in un luogo di passaggio obbligato, o invece più discosto e quindi meno invitante: può perfino aver influenza anche l’esistenza di due soli, semplicissimi scalini». Comunque, il visitatore medio del Colosseo «spende per esempio circa 500 lire», cioè meno della metà di quello delle Gallerie dell’Accademia e circa un quarto di quello della Ca’ d’Oro («dove il punto vendita è in una collocazione eccezionale»). A Palazzo Massimo, nel nuovo Museo archeologico nazionale di Roma, la libreria, posta proprio all’entrata e all’uscita e fortemente specializzata sul tema e sul territorio, «convince la gente a spese fino a una media che rasenta le seimila lire per ogni visitatore». Ma, per quanto riguarda la spesa media, Venezia si posiziona su livelli superiori a quelli di Palazzo Ducale di Mantova e dello stesso Palatino e dei Fori a Roma; un po’ più in basso rispetto agli utenti di Palazzo Altemps, sempre a Roma, della Biblioteca Ambrosiana di Milano, e di Palazzo del Te a Mantova; e, rispetto all’anno scorso, globalmente «ha guadagnato un buon 23 per cento», anche depurando i dati dell’influsso della Biennale. Sì, perché «tra tutti i visitatori», concludeva Rossetti, «colui che in assoluto spende di più è proprio quello della Biennale: viaggia su una media di 12 mila lire a persona». E questa è certamente una potenzialità da sfruttare, ma ben altre ancora ne esistono. «Basti pensare», spiega l’assessore Rumiz, «al tempo medio di permanenza delle comitive a Palazzo Ducale, valutato in soli venti minuti: dieci secoli di storia corsi a passo di carica. Dobbiamo incrementarlo, anche qualificando i nostri musei: prestando più attenzione sia all’informatica, che alla didattica». E poi, diversificare; il problema (o uno dei) che Venezia ha, in fondo non è molto dissimile da quello del Louvre con la Gioconda, o dei Musei Vaticani con la Cappella Sistina: tutti i turisti si precipitano, sempre e soltanto, a San Marco e dintorni. A Parigi, Monna Lisa è stata ormai confinata in un luogo dove l’eccessiva antropizzazione di cui è fatta oggetto almeno non complichi la visita agli altri fruitori; in Vaticano, si può solo “contenere” e regolare, con lunghi percorsi obbligati all’interno dei Musei, l’affluenza di pubblico nel “regno” di Michelangelo. Venezia ha invece bisogno d’itinerari alternativi, e, dice ancora Mara Rumiz, «non è tollerabile l’uso della città soltanto come sede e rappresentazione; siamo ormai al quaternario, visto che anche il terziario la sta abbandonando, e cioè alle attività e agli insediamenti che producono cultura; di questo c’è assoluto bisogno. Per esempio, è folle che la città, sede del Festival del cinema, non possieda nemmeno un teatro di posa: dobbiamo essere in grado di proporre qualche vantaggio, qualche servizio, a chi vuol venire qui per produrre qualcosa». Ma anche il sistema museale, deve riuscire a qualificare la propria offerta: «L’obiettivo deve essere, entro un paio d’anni, un fatturato di 35 miliardi», dice Giandomenico Romanelli 24, attento ed elegante storico dell’arte che dirige proprio quelli civici; peraltro, riconosce anche che «a parte il caso delle mostre, e un po’ durante i fine settimana, i prolungamenti d’orario, pur tentati, non hanno finora offerto grandi risultati». Importanti opere di ammodernamento del circuito museale di pertinenza del Comune sono in corso: interventi per un insieme di circa 165 miliardi, dei quali 43 per la sola area Marciana, 20 per Palazzo Fortuny e altrettanti per il Museo del vetro, quindici per Palazzo Ducale, e via di questo passo. «L’ambizione è di uscire dalla monocultura del turismo. Dobbiamo essere in grado di formulare una proposta culturale che riguardi soprattutto le scuole, ma non soltanto: anche quel pubblico giovane che con la scuola non c’entra. Nella mostra dedicata al 1848, abbiamo messo sul piatto delle offerte anche dei giochi di ruolo, veneziani contro austriaci; e abbiamo anche sperimentato il cybercafé, con buoni risultati da chi voleva venire a collegarsi in rete, in Internet», continua Romanelli. Sembra incredibile, ma a Venezia bisogna anche incentivare gli stessi ingressi gratuiti nei musei civici, cui hanno diritto tutti i cittadini residenti: «Forse, bisognerà limitarli a due soli mesi, agosto e dicembre; perché, con un’offerta che da normale diventa straordinaria, limitata nel tempo, contiamo di attirare più persone delle poche che ora si mostrano interessate all’agevolazione». Con chissà quali ritrovati, andrebbe tuttavia anche migliorato il modo con cui tanti visitano le mostre, e, in genere, si dedicano ai musei e al patrimonio storico ed artistico della città: ne escono soddisfatti, ma dopo un percorso compiuto, di solito, a gran carriera. Lo dimostra un’indagine, compiuta per l’Assessorato alla cultura, durante la mostra Leonardo e Venezia, a Palazzo Grassi (marzo-luglio 1992, 210 mila visitatori). La metà degli intervistati (il 52,33 per cento) era giunta in città in treno; il 21,82 per cento in automobile; il 6,14 con mezzi lagunari; il 5,51 in autobus pubblico; il 4,24 in pullman privato; il 9,96 con altri mezzi, aerei compresi. Poi, un terzo erano stranieri; degli italiani, circa un terzo veneti; e dei veneti circa un terzo veneziani. Un quarto impiegati, e un quinto studenti. Il 34 per cento tra i 26 e i 40 anni; il 28,80 tra i 41 e i 55; il 16,32 tra i 19 e i 25. tabella 27. Quanti adeguamenti nei musei comunali Interventi Tecnologie, condizion. impianti Opere di struttura Opere edili, restauri Allestimenti Aree esterne Imprevisti, oneri e spese tecniche Totale Tecnologie, condizion. impianti Opere di struttura Opere edili, restauri Allestimenti Aree esterne Imprevisti, oneri e spese tecniche Totale Area San Marco Palazzo Ducale Museo Correr Bibl. Ex Pilsen Ca’ Rezzonico Pal. Mocenigo 9 200 5 600 8 200 10 100 = 650 260 8 700 1 450 = 2 800 2 405 1 000 2 100 = 2 900 1 220 2 650 430 = 350 0 5 600 450 350 2 030 850 5 335 770 = 9 930 43 030 Ca’ Pesaro 3 318 14 378 Palazzo Fortuny 2 950 720 4 350 1 960 = 2 650 3 480 8 670 1 230 = = 2 450 2 090 3 650 560 3 060 2 680 6 700 2 620 155 690 190 315 230 = 27 280 19 885 53 510 24 990 1 065 2 964 12 844 4 809 20 839 2 625 11 375 4 564 19 780 428 1 853 38 012 164 712 2 492 2 160 2 025 10 797 9 360 8 775 Storia Museo Mus. del naturale del Vetro Merletto 2 696 11 681 Totale Fonte: Comune di Venezia, Assessorato alla cultura, Direzione dei Musei comunali. Sette su dieci di loro, avevano dedicato alla mostra tra una e due ore; il 17 per cento, meno di un’ora; solo l’11 più di due. Tantissimi ne sono usciti “molto soddisfatti”: il 53,81 per cento (e l’esposizione non è stata una di quelle che, a Palazzo Grassi, abbiano richiamato maggiori quantità di pubblico); mentre il 37,50 era «abbastanza soddisfatto»; giudizi tutto sommato critici solo da meno del 9 per cento tra gl’interpellati. Interessante anche come avevano saputo della mostra: quasi il 32 per cento dai quotidiani; il 18 per cento dalla televisione o dai manifesti; quasi il 15 da periodici, e appena l’1,33 per cento dalle agenzie turistiche (che siano interessate a vendere piuttosto altri prodotti, su cui ricavano margini migliori?). Rari, infine (appena il 18,4 per cento) i visitatori solitari: tre su dieci con la famiglia, quasi quattro su dieci con degli amici, il 13 per cento in gruppo, appena l’1,5 con una guida. Molti, poi, erano autentici aficionados di Palazzo Grassi: solo il 29,7 delle donne e il 27,8 degli uomini era alla prima mostra nel luogo; e l’8,3 dei maschi, nonché il 3,6 delle femmine, ne avevano già visitate almeno otto; alla seconda esperienza circa uno su quattro, gli altri tutti più visite. Infine, netta è la distinzione tra il visitatore delle mostre, già di un livello – se così si può dire – superiore, e il turista “mordi e fuggi”: chi si era recato a Palazzo Grassi, in precedenza piuttosto che a Palazzo Ducale (solo l’8.7 per cento degli intervistati, anche se è il luogo che, in assoluto, a Venezia raccoglie più pubblico) aveva compiuto una puntata alle Gallerie dell’Accademia (14 su cento), o alla Guggenheim (il 10,4). Infine, la metà dei frequentatori di Leonardo, era andata a Venezia appositamente per quello, e non aveva compiuto altre visite. E tra quelle precedenti a Venezia (per chi non era al suo primo viaggio), la parte del leone l’avevano fatta le mostre di Canova (37,5), Tiziano (6,4), ma anche i dinosauri (5,2). Ora, però, conviene fare una pausa, se non vogliamo rischiare di scadere nel cahier des doléances delle occasioni sprecate; e vedere, invece, qualcosa che, perfino a Venezia, funziona in modo abbastanza esemplare. Perché, tra le istituzioni della laguna, e non soltanto tra quelle museali, ve ne sono alcune che, oltre a svolgere, con successo e in modo significativo i loro rispettivi compiti, possono anche diventare, e sovente già lo sono, un buon paradigma sotto i più disparati punti di vista. 21 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 22 Le Gallerie dell’Accademia di Venezia, a cura di Giovanna Nepi Scirè, Guida breve, Milano, Electa, 1992 (Guide Artistiche Electa). 23 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 24 Colloquio con l’autore, settembre 1999. 7) CINQUE “SUCCESSI ESEMPLARI”. PALAZZO GRASSI, GUGGENHEIM, GHETTO, CINEMA COMUNALE, TERRAFERMA Il panorama dei “successi veneziani” nel campo dell’industria culturale deve forse esordire con Palazzo Grassi: poiché le sue mostre raggiungono spesso picchi di visitatori quali poche altre nel paese, e perché esse, normalmente, incontrano un favore di pubblico, quale nessun altro luogo deputato alla cultura, e che organizzi soltanto delle esposizioni, può forse vantare. In Italia, infatti, non esiste un’altra istituzione analogamente accreditata di un livello così alto di frequentazione popolare, ma anche, nel medesimo tempo, di qualità scientifica e di notorietà internazionale assolutamente elevata. Di Palazzo Grassi è inutile ripetere qui la storia: è uno dei palazzi più insigni sul Canal Grande, iniziato a metà Settecento, dal 1951 sede dell’omonima fondazione culturale, restaurato all’inizio degli anni ottanta da Gae Aulenti e trasformato dalla Fiat in una possente “macchina da mostre”. Ma Palazzo Grassi si trova ora in un momento delicato: forse, non tanto perché è scomparso colui che ne è stato il presidente fin dalla fondazione (Feliciano Benvenuti, peraltro sostituito con Cesare Annibaldi), quanto perché Paolo Viti, l’organizzatore infaticabile di tutte le sue recenti, maggiori rassegne, ha purtroppo dovuto, per motivi di salute, rarefare il suo impegno. Dopo i primi anni, in cui ne fu direttore Pontus Hulten, ormai da due lustri la responsabilità scientifica era nelle sue mani; e Paolo Viti, certamente uno dei massimi organizzatori di cultura nel nostro paese, con all’attivo già una lunga stagione al vertice della cultura “targata” Olivetti (anche la famosa esposizione dei cavalli di San Marco, che girò per mezz’Europa, e tante altre), non è certamente un personaggio semplice da surrogare, per le capacità e le conoscenze che possiede, per la qualità e la quantità dell’impegno che ha sempre profuso. tabella 28. I visitatori di Palazzo Grassi, evento per evento Mostra 1. Futurismo e Futurismi 2. Effetto Arcimboldo 3. Jean Tinguely 4. I Fenici 5. Arte italiana 6. Andy Warhol 7. Il percorso dell’arte moderna 8. I Celti 9. Leonardo e Venezia 10. Marcel Duchamp 11. Amedeo Modigliani 12. Il Rinascimento 13. Identità e alterità 14. I Greci in Occidente 15. La pittura fiamminga e olandese 16. Espressionismo tedesco 17. Picasso (1917-1924) 18. I Maya 19. Venezia e la Pittura del Nord Periodo d’apertura Visitatori 4. 5 – 12. 10. 1986 320 000 15. 2 – 31. 5. 1987 200 000 19. 7 – 18. 10. 1987 50 000 6. 3 – 6. 11. 1988 750 000 30. 5 – 5. 11. 1989 210 000 25. 2 – 27. 5. 1990 170 000 9. 9 – 9. 12. 1990 275 000 24. 3. 1990 – 8. 12. 1991 785 000 23. 3 – 5. 7. 1992 210 000 4. 4 – 18. 7. 1993 85 000 5. 9. 1993 – 4. 1. 1994 140 000 1. 4 – 6. 11. 1994 265 000 11. 6 – 15. 10. 1995 115 000 24. 3 – 8. 12. 1996 550 000 16. 3 – 13. 7. 1997 120 000 7. 9. 1997 – 11. 1. 1998 130 000 1. 3 – 8. 6. 1998 250 000 6. 9. 1998 – 16. 5. 1999 700 000 5. 9. 1999 – 9. 1. 2000 215 000 Fonte: Fondazione Palazzo Grassi, Ufficio stampa. Comunque, della ventina di mostre che Palazzo Grassi ha finora organizzato, soltanto due hanno raccolto meno di 100 mila presenze; e una dozzina possono invece vantare oltre 200 mila visitatori. Anche con “punte” eccezionali: l’esposizione, coordinata da Sabatino Moscati, sui Fenici, che (750 mila spettatori) nel 1988 costituì un autentico evento non soltanto nazionale; quella sui Celti del 1991 (che attirò ancora maggiore pubblico); la terza archeologica, sui Greci in Occidente nel ’96; e anche quella, recentissima, sui Maya. Mentre un apprezzabile riscontro ha avuto la rassegna, conclusa da poco, dedicata alla grande pittura di Venezia, e ai suoi rapporti con l’Europa del Nord. Certo, l’archeologia è la più apprezzata; come, peraltro, le mostre in assoluto meno “gettonate” risultano invece quelle dedicate all’arte più vicina a noi nel tempo: talché anche un grande innovatore quale Marcel Duchamp, di cui veniva presentata la prima rassegna completa nel nostro paese, non ha ottenuto il successo in cui gli organizzatori confidavano, superato (si intende in senso negativo) soltanto dallo svizzero Jean Tinguely. E forse, Andy Warhol ha fatto registrare un risultato migliore solo per il carattere, anche pubblicitario ed assai noto a livello popolare, di certe sue opere. Invece, la pittura “paga” unicamente quando è davvero di primissima qualità, e allora, si trasforma in autentico evento: rassegne pur importanti, come quelle sull’arte fiamminga e olandese e sull’espressionismo tedesco, non sono certo state tra le più apprezzate. Infine, penalizzati, anche perché è assai difficile esporli, i disegni: perfino quelli di Leonardo, oltre che gli inediti di Modigliani, infatti non primeggiano nella classifica dei grandi successi. Dopo qualche variabilità nei primi anni dalla sua fondazione, la politica di Palazzo Grassi prevede ormai «l’apertura di una mostra in primavera, e di un’altra a settembre; tranne il caso di quelle archeologiche, la cui durata, otto mesi, è superiore» 1, e con l’eccezione di un anno (il ’95) in cui una sola rassegna è stata organizzata. In molti casi, s’è trattato di esposizioni assolutamente originali per la tematica (gli anni italiani di Picasso; l’espressionismo tedesco; i disegni di Modigliani, ancora non pubblicati, né offerti al pubblico); in altri, perfino di mostre assai curiose per gli oggetti che presentavano (i modellini lignei dell’architettura rinascimentale; i due discussi “troni”, Ludovisi e di Boston, finalmente affiancati nella mostra dedicata ai Greci, la ricomposizione di una tela di Vittore Carpaccio, rimasta per metà a Venezia e per l’altra metà ora al Getty Museum in California). Ma Palazzo Grassi non si ferma a Venezia: anche per gli intuibili motivi promozionali che sottintendono la sua stessa esistenza, è una vera e propria ragnatela d’iniziative. La più recente, è la mostra sul barocco che, a Torino, nel Casino di caccia di Stupinigi (capolavoro anch’esso del barocco stesso), ha celebrato il centenario Fiat, con oltre 200 mila visitatori. E così, quella dell’architettura rinascimentale (appunto, con gli splendidi modelli in legno) ha viaggiato in numerose capitali del mondo; come quella sui Celti è stata accompagnata da una lunga serie di seminari internazionali in vari paesi, e via elencando. Per non dire poi dei cataloghi (Bompiani), che accompagnano ed illustrano ogni nuova iniziativa: sono veri e propri capisaldi di studio, ma anche rilevanti momenti dell’editoria, forti spesso anche di 700 pagine di saggi e di preziose immagini. Spesso, infine, Palazzo Grassi ha saputo rappresentare un buon esempio anche nell’integrazione tra un ente privato, quale esso è, e le istituzioni pubbliche, del paese e della città, con cui in più di un’occasione ha collaborato. Il progetto dei Greci in occidente era coordinato con lo stesso Ministero dei beni culturali, e l’organismo veneziano è stato una sorta di “capofila” di tutta una serie d’altre occasioni e manifestazioni sparse nell’intera penisola; per Leonardo e Venezia, invece, con la locale Soprintendenza ai beni artistici e storici si è manifestata un’unione di forze e intenti che deve evidentemente aver dato buoni frutti, se è stata ripetuta per la mostra, dedicata, dal settembre 1999 agli albori del nuovo millennio, al Rinascimento veneto e la grande pittura del Nord. Infine, di Palazzo Grassi bisogna anche sottolineare il ruolo di rilievo che occupa a livello internazionale: spesso, infatti, è una sorta di “ambasciatore” dell’immagine Fiat all’estero, e, per esempio, persegue una politica incessante di prestiti dai maggiori musei al mondo; forse, quella veneziana (anche per l’autorità e il prestigio del suo responsabile scientifico ed organizzativo) è rimasta l’ultima istituzione al mondo cui il Metropolitan o il Louvre imprestino ancora regolarmente i dipinti su tavola, che ormai non usa più (non lo fa, se non davvero assai di rado, nemmeno il nostro paese) lasciar circolare nel mondo. Le sue mostre, del resto, ogni volta sono in grado di presentare ed offrire quasi tutto il meglio che esiste nei musei dei vari paesi, riguardo al tema prescelto; ed è certo che nessun altro, in Italia, può vantare una simile caratteristica. In più, la loro inaugurazione, anche per il rango, la qualità e quantità degli invitati e la copertura mediatica che il Gruppo Fiat è in grado di assicurare, si fa evento; diviene sempre una di quelle occasioni in cui Venezia si trasforma in mirabile vetrina, da spendere con efficacia nel mondo. Di tutt’altro tenore è invece la Guggenheim Collection. Intanto, è appunto una collezione (Palazzo Grassi non possiede invece alcun corredo di opere proprie), e anche di estrema rilevanza. Quella accumulata dalla sapienza, nutrita anche con qualche pizzico di follia, della celebre Peggy (1898- 1979), detta «l’ultima dogaressa», intima di Max Ernst, Robert Delaunay, Jean Cocteau, Marcel Duchamp, Jackson Pollock, Oskar Kokoschka, Fernand Léger e tanti altri, che ha dato origine a uno dei massimi musei d’arte contemporanea al mondo, rimasta per sempre come era: «Se dovesse venire a compiere un sopralluogo dal regno delle ombre, Peggy troverebbe intatta la sua collezione» 2. Quando lei lasciò gli Usa appunto per Venezia, nel dopoguerra, la partenza fu giudicata «una grave perdita per l’arte americana contemporanea» 3; e, di converso, fu un altrettanto importante acquisto, già fin da allora, per il capoluogo lagunare: nel 1948, l’esposizione della sua collezione, in un apposito padiglione della Biennale allestito da Carlo Scarpa, accanto alla rassegna degli Impressionisti curata da Roberto Longhi e alla retrospettiva di Picasso, destò grande sensazione: «Fu come stappare una bottiglia di champagne, un’esplosione di arte moderna dopo che la Nazione aveva tentato d’ucciderla» 4. La “parentela” con il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, ed ora con i capisaldi che l’istituzione ha creato a Bilbao e a Berlino, permette all’istituzione veneziana importanti scambi culturali, e concede, anche a basso costo, la possibilità di mostre interessanti e nuove. Di recente, inoltre, la Guggenheim ha ottenuto, per un discreto numero di anni, un lotto di importanti opere italiane del primo Novecento, appartenenti alla Collezione Mattioli (Morandi, Sironi, un bozzetto della Città che sale di Boccioni, cioè di un capolavoro che l’Italia non volle acquistare, per pochi milioni, negli anni cinquanta, ed è finito al Museum of Modern Art di New York 5), che da molto tempo in Italia era impossibile ammirare: ne hanno certamente impinguato in modo ulteriore le sale, e potranno anche essere esposte, in seguito, nelle altre sedi Guggenheim nel mondo. E ormai, sembra cosa pressoché fatta un suo “sdoppiamento”, con la creazione di un altro spazio espositivo all’ambitissima Punta della Dogana, il che, evidentemente, significherà ancora nuove occasioni di altre mostre ancora. Già oggi, la “casa di Peggy”, Ca’ Venier dei Leoni, settecentesco edificio rimasto al livello del piano terra (non si è mai capito se perché i Venier avessero finito i fondi, o perché i proprietari della dirimpettaia Ca’ Granda, edificata per i Corner da Sansovino, non volevano essere orbati della vista della laguna dall’edificio progettato da Lorenzo Boschetti; da qui, comunque, il soprannome di “Ca’ Nonfinita” 6), accoglie, ogni anno, più di 200 mila visitatori: 226 mila nel 1988, «cui vanno aggiunte almeno altre 15 o 20 mila persone che la visitano fuori orario», dice Philip Rylands, responsabile della struttura veneziana 7; una cifra cioè non molto lontana, per esempio, da quella delle Gallerie dell’Accademia. Nell’ultimo biennio, il trend è stato, per giunta, positivo, e buona parte dei visitatori di provienienza extra-italiana. Un’interessante innovazione, unica nei musei del nostro paese ma che in laguna trova applicazione da quasi vent’anni, riguarda poi i giovani, che affiancano gli unici cinque custodi in organico e permettono di tenere regolarmente aperte le sale, pur con un numero così ridotto di dipendenti stabili. I giovani, alla Guggenheim di Venezia, organizzano non solo la vigilanza, ma anche un accueil assolutamente senza eguali in nessun’altra istituzione, pubblica o privata, nel nostro paese. L’Intership Program, questo il nome dell’iniziativa, è davvero molto ambito: «Per nemmeno cento posti all’anno, oltre 600 domande», spiega Beate Barner 8, della Guggenheim. La cosa funziona così: borse di studio da un milione e 200 mila lire al mese, riservate a studenti purché – e lo vedremo – non italiani; quattro giorni alla settimana di lavoro nel museo (delle 11 alle 18, intervallo di un’ora per colazione), e tre liberi; un giorno ogni sette, partecipazione a una visita culturale organizzata, una volta al mese fuori Venezia; e, in più, la possibilità di accumulare i riposi, per chi, eventualmente, avesse altri angoli d’Italia da conoscere, o amici da salutare altrove; infine, non manca nemmeno il supporto per reperire un non sempre facile alloggio a Venezia: il che, spesso, significa farsi ospitare, oppure convivere con altri amici. Alla Fondazione Guggenheim, questi ragazzi fanno un po’ di tutto, anche per entrare in contatto con le diverse professionalità che esistono, e sono richieste, in qualsiasi museo: provvedono all’apertura e alla chiusura delle sale espositive, anche proteggendo ogni sera una buona aliquota di opere con speciali fodere su misura; si occupano dell’accueil e del guardaroba; prestano assistenza ai visitatori, nelle sale espositive, o negli uffici. In più, sono tenuti ad ascoltare un certo numero di lectures, tra cinque e sette al mese, e loro stessi devono tenerne almeno un paio ai loro colleghi (una, obbligatoriamente legata ai temi delle collezioni della Fondazione), spesso con contorno autogestito di pasticcini e salatini; li si vedono compiere delle visite guidate alle singole mostre, e il pubblico di solito ringrazia con prolungati battimani. tabella 29. Da dove provengono i “borsisti” della Guggenheim Paese Stati Uniti Gran Bretagna Germania Austria Croazia Finlandia Svezia Irlanda Grecia Belgio Francia Lussemburgo Olanda Svizzera Sud Africa Portogallo Spagna Polonia Russia Canada Corea Taiwan Hong Kong Giappone Nuova Zelanda Australia Guatemala Messico Totale 1995 48 15 4 1 2 3 1996 44 11 4 3 4 4 1 3 1 1 1 1 5 3 1 1 1997 54 10 10 3 4 3 2 2 2 1 1998 56 9 8 6 4 1 4 1 2 1 1 1 1 1 1 2 7 1 2 3 1 1 3 1 1 1 1 1 1 86 85 4 1 1 99 114 Fonte: Collezione Guggenheim Venezia, Ufficio stampa. Non occorre aggiungere che l’audience internazionale del museo è soddisfatta della conoscenza dell’inglese che, oltre a quella dell’italiano, questi giovani, studenti universitari di arte, storia o materie simili, devono avere come da bando di concorso; e che, comunque, fa sempre più piacere essere osservati da una giovane ragazza, anziché da un custode in uniforme. Poi, «la rotazione degli incarichi», spiega ancora Beate Barner 9, «esclude la ripetitività e quindi, da una parte la noia e la monotonia, ma dall’altra anche l’assuefazione. All’entusiasmo per la novità, si accompagna, da parte di questi giovani, una grande apertura verso il pubblico; noi ne riceviamo in cambio anche il vantaggio di una grande flessibilità nel loro impiego. Non è un’esperienza pensata per risparmiare sulle spese del personale; ma un lavoro educativo, cui noi teniamo molto. Poiché i giovani lavorano qui da uno a tre mesi, noi dobbiamo continuamente spiegare loro come svolgere tutte le varie attività, dalla custodia del guardaroba a quella nelle sale, eccetera; ma, alla fine, si crea quasi un circolo: i ragazzi restano in contatto sia con noi che tra di loro, spesso li ritroviamo in altri musei, e così via. E certamente, in questo “lavoro sul campo” acquisiscono nozioni che potranno risultare loro utili». Dunque, un’esperienza interessante e formativa per studenti universitari; un’iniziativa che riceve sempre maggiore impulso (dal ’96 ad oggi, le persone coinvolte sono passate da 85 a 114), e che, come abbiamo visto, soltanto negli ultimi quattro anni ha riguardato quasi 400 studenti di ben 28 paesi. Ma rigorosamente non italiani. Perché, anche se ufficialmente non viene dichiarato, gli studenti italiani (che peraltro ancor oggi in scarso numero praticano le lingue straniere) sono esclusi da questo programma per paura del pretore: il timore, cioè, che ne venga decretata un’assunzione permanente obbligatoria. Agli italiani, sono invece riservate altre borse di studio, ma in numero minore: soltanto da una a tre all’anno, per prestare assistenza in un determinato ufficio organizzativo della collezione, ma non nelle sale espositive, e non a contatto con il pubblico. Più complesso è invece il discorso per quanto riguarda i rapporti con la città. Va subito sottolineato che il programma didattico della Guggenheim per le scuole è assolutamente valido: per non intralciare il normale afflusso dei visitatori, e per dedicare maggiore attenzione agli studenti, prevede perfino, su prenotazione, l’apertura gratuita, anticipata di due ore, e l’ingresso libero alle scolaresche dell’intero Veneto. E per una settimana all’anno, a tutti i residenti della provincia di Venezia viene pure concesso l’ingresso gratuito. Tuttavia, la Guggenheim è spesso considerata quasi come un corpo avulso dalla realtà veneziana; si potrebbe dire più un ospite (per giunta straniero), che non una reale protagonista della vita culturale cittadina, pienamente inserita nel suo contesto. «Paolo Costa ha parlato della percezione del nostro museo un po’ come una scatola chiusa, e forse ha ragione», riconosce Rylands 10. Un corpo avulso, e anzi spesso, a torto o a ragione, perfino osteggiato; come temuto. Forse, impaurisce la quantità di mezzi e di risorse di cui può disporre; forse, se ne diffida per gli inevitabili, stretti legami con la cultura made in Usa. Lo dimostra eloquentemente la querelle, protrattasi per anni e soltanto ora forse risolta, sull’uso della Punta della Dogana: luogo certamente dei più appetibili per qualunque funzione espositiva, ma rimasto troppo a lungo inutilizzato, senza che, da una parte, la città ne varasse un “progetto d’uso”, ma, nello stesso tempo, avversandone la concessione al Guggenheim. Comunque, un museo d’arte moderna e contemporanea di questo rilievo, nessuna città italiana può sicuramente vantarlo; e lo stesso Stato ne ha appena intrapreso la costituzione, con l’acquisizione, a Roma, di una caserma dismessa. La quantità e la qualità delle opere, il numero dei visitatori, nonché la stessa vitalità dell’istituzione veneziana, non sono nemmeno paragonabili alle altre realtà, non facenti capo allo Stato, che pure sorgono in alcune città italiane: dal Castello di Rivoli, al Museo Pecci di Prato, a quello di Rovereto. Non solo; ma, in Italia, spesso, anche chi possiede qualcosa di sia pur vagamente accostabile all’importanza della Guggenheim, come Milano con il suo Cimac, non sa nemmeno valorizzarlo adeguatamente: il Cimac, infatti, versa in condizioni assai perigliose; è da anni pressoché invisitabile (e nemmeno un assessore dai trascorsi di gallerista à la page, come Philippe Daverio, è riuscito minimamente a migliorarlo); non fa certo onore alla qualità ed alla quantità delle opere che accoglie (basti pensare alla famosa Raccolta di Riccardo e Magda Jucker, valutata anni fa una quarantina di miliardi, e provvista di eccezionali capolavori), e soltanto adesso, finalmente, il Comune ha deciso di provvedere. Oltre a Palazzo Grassi e alla Guggenheim Collection, Venezia, tuttavia, annovera anche altre esperienze significative, certamente di portata minore ma non di minore significato; ma altrettanto indicative di ciò che è possibile fare, e fare bene. Una, per esempio, riguarda il Museo ebraico, nel cuore del ghetto («Li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo»: così comincia l’editto del primo “serraglio per ebrei” nel mondo, dove «oggi vivono press’a poco seicento ebrei, completamente inseriti nella normale vita della città» 11: più o meno, quanti erano, «circa settecento, di origine tedesca e italiana» 12 quando il ghetto sorse; la vicenda, continuò poi fino all’abbattimento dei portoni nel luglio 1797, dopo l’arrivo dei francesi di Napoleone). Dal 1990, il museo è affidato in gestione a una cooperativa, la Codess (divisa nei settori sociale e cultura; sedi anche a Vicenza, Udine, Torino, Bologna e Milano), che dà lavoro a oltre cento persone. In alcuni Comuni, ha aperto centri d’informazione per giovani, gestisce altri musei, fornisce personale e, con altre cooperative anche il servizio di guardiania, sia a quelli Civici veneziani, sia alla Fondazione Querini-Stampalia; da due anni organizza a Venezia il Salone dei beni culturali e, per il Festival del cinema, ha promosso il Venice Script & Film Market, mercato riservato ai film di qualità. Michela Zanon, la responsabile per il Museo ebraico, racconta 13: «Quando l’abbiamo preso in gestione, ci lavoravamo in tre persone; ora, siamo dodici. Il contratto con la Comunità, dapprima veniva rivalutato ogni due anni; l’ultimo, siglato nel 1995, ha validità fino al 2003. La gestione del museo fornisce alla cooperativa un utile dell’ordine del 20 per cento del fatturato». Perché, se ben gestiti, i beni culturali portano anche qualche soddisfacente risultato economico: ma non tutti, nemmeno a Venezia, mostrano evidentemente di saperlo. La progressione di audience che il Museo ebraico ha fatto registrare negli anni, è assolutamente significativa: dalle 38.903 presenze nel 1990, alle 72.831 dell’anno scorso, con una “punta” ancor maggiore nel 1996: un incremento dell’87,21 per cento in sette anni, cioè: un risultato ben superiore all’insieme dei musei italiani. I responsabili della cooperativa spiegano che almeno un quarto dei visitatori sono stranieri; che tre persone su quattro decidono di compiere le visite guidate (costano di più, ma illustrano anche l’ex ghetto); che elevata è l’affluenza, a prezzo ridotto, delle scolaresche: il 30 per cento del totale. La performance nel numero dei frequentatori è stata ottenuta praticamente senza organizzare od ospitare quasi nessuna mostra temporanea: una soltanto, sei mesi dal giugno 1997, nel quadro del secondo Festival di cultura ebraica (una tra le poche manifestazioni che ha visto il Museo ebraico interagire con altre istituzioni), ma che, come si vede, non ha prodotto alcun beneficio nel numero dei visitatori. A parte l’ideazione con il Comune, due anni fa, di un itinerario educativo, chi si occupa del Museo ebraico non ha contatti istituzionalizzati, né collaborazioni consolidate, con alcuna struttura culturale della città; infine, il successo è indubbiamente dovuto anche alle capacità dei giovani della Codess, e al loro sforzo per promuovere la realtà museale veneziana in tutte le manifestazioni culturali che riguardino l’ebraismo, in Italia e talora non solo. Un’altra delle non troppe innovazioni, peraltro abbastanza recente, è il circuito di 11 chiese, forse le più significative: dai Frari a San Polo, da San Giacomo dell’Orio a San Stae, a Santa Maria dei Miracoli, Santa Maria Formosa, San Pietro di Castello, Sant’Alvise, la Madonna dell’Orto, il Redentore e San Sebastiano. Dal febbraio ’98, l’ingresso costa duemila lire (tremila ai Frari); prima, ed era in vigore da mezzo secolo, un biglietto d’accesso esisteva, appunto, soltanto a Santa Maria Gloriosa dei Frari, che, oltre a splendidi monumenti e ad un trittico di Giovanni Bellini, offre ad esempio l’Assunta, il capolavoro che affermò Tiziano come il maggior pittore della Serenissima. Ebbene, i parroci si sono consorziati; hanno dato vita a un’associazione senza fini di lucro, di cui sono così i proprietari. Si chiama Chorus; dà lavoro a 24 persone (più tre collaboratori esterni), e gestisce l’intero circuito. Con risultati abbastanza soddisfacenti: da febbraio a fine settembre del primo anno, quasi 400 mila visitatori (per l’esattezza, 396.630), e un settembre giunto a quota 55.304. I mesi più “forti” sono, logicamente, quelli primaverili: 66.578 persone a maggio, 65.437 ad aprile. tabella 30. Anno per anno, l’aumento dei visitatori al Museo ebraico 1990 38 903 1991 42 630 1992 49 576 1993 63 644 1994 69 056 1995 72 429 1996 75 886 1997 72 831 Fonte: Cooperativa Codess, Venezia. L’iniziativa, tuttavia lascia anche qualcuno non poco perplesso: «Noi stavamo pensando a guide in due lingue e personale addestrato, a visite guidate per il circuito delle chiese; secondo noi, il progetto avrebbe incassato di che coprire i costi delle aperture; considero una mezza sconfitta l’imposizione del biglietto d’ingresso alle singole chiese da parte della Curia», dice la soprintendente Giovanna Nepi Scirè; ed «è una sorta di concorrenza, che i musei avvertono», aggiunge Romanelli 14. E c’è almeno ancora un’altra singolare novità, quantunque di dimensioni assai ridotte, quasi solo una stravaganza, che, almeno per la unicità, merita la citazione, e dimostra, ancora una volta, quanto la città sia cosmopolita: oltre alle varie orchestrine barocche, che si dedicano soprattutto ai più noti brani dei più noti tra i compositori veneziani dell’“età dell’oro”, a Castello, quasi in fregio a quel bonbon architettonico che è la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, una delle prime rinascimentali della città (1481, Pietro Lombardo), di pomeriggio e di sera, tranne il martedì, è aperto un centro culturale, intitolato appunto Ai Miracoli, che forse non ha emuli nell’intera penisola. Pagando una piccola quota associativa (e lo fanno assai più gli stranieri, puntualmente di ritorno qui, che non gli italiani), si può fruire dei servizi a disposizione dei soci: bere qualcosa, rilassarsi su una poltrona o un divano, ma, soprattutto, ascoltare dischi, rigorosamente di musica classica. Qualche volta, serate “a tema”; la possibilità di essere informati sui programmi dei concerti in mezzo mondo. Un luogo dove la musica la fa da regina, e i melomani, di solito, si dicono soddisfatti. Perché anche questa (o, chissà, magari soprattutto questa) è Venezia. Del resto, Friederich Nietzsche affermò un giorno che «se dovessi cercare una parola che sostituisca “musica”, potrei pensare soltanto a Venezia»: chissà, forse tornerebbe a scriverlo ancor oggi. 1 Paolo Viti, colloquio con l’autore, settembre 1998. 2 Thomas M. Messer, Nuovi progetti, in Grandi collezionisti, i Guggenheim, Firenze, Giunti, 1988 (allegato a «Art & Dossier», n. 20, gennaio 1988). 3 Karole P.B. Vail, con il contributo di Thomas M. Messer, Peggy Guggenheim: A Centennial Celebration, catalogo della mostra (New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 12 giugno-2 settembre 1998); Omaggio a Peggy Guggenheim, catalogo della mostra (Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 30 settembre 1998-10 gennaio 1999), prefazione di Thomas Krens, traduzione di Chiara Barbieri, New York, Guggenheim Museum Publications (Cinisello Balsamo, Amilcare Pizzi), 1999. 4 Così l’allora segretario di Peggy Guggenheim, Vittorio Carrain, in Vail, Peggy Guggenheim, cit. 5 Laura Mattioli Rossi e Emily Braun, Capolavori della Collezione Gianni Mattioli, Milano, Electa, 1997. 6 Kent, Venezia, cit. 7 Philip Rylands, nel dibattito su L’industria culturale, cit. 8 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 9 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 10 Nel dibattito su L’industria culturale, cit. 11 Riccardo Calimani, Storia del ghetto di Venezia, Milano, Mondadori, 1995 (Le Scie). 12 Veneto. Itinerari ebraici. I luoghi, la storia, l’arte, a cura di Francesca Brandes, Venezia, Marsilio, 1995 (Itinerari ebraici, a cura di Annie Sacerdoti). 13 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 14 Colloquio con l’autore, settembre 1998. 7.1) Mancano i cinema, e il comune si fa imprenditore Ma tra i tanti paradossi che la laguna regala, ce n’è uno, certamente di assai maggior momento, che sicuramente bisogna raccontare, ed anzi sceverare per le non indifferenti implicazioni, sociali e di “mercato”, che reca con sé. In un tempo in cui numerosi Comuni mettono in vendita le proprie centrali del latte, o perfino le reti di trasporto urbano, e in cui la privatizzazione dei servizi procede comunque a passi di gigante, Venezia interviene invece direttamente, come ente locale e come imprenditore, nel circuito delle sale cinematografiche. E forse, era davvero doveroso che lo facesse, e perfino benemerito che l’abbia fatto. La città che fu dei dogi possiede, come solo alcune altre, un proprio Ufficio cinema; frutto, spiega Roberto Ellero 15 che non solo lo dirige ma ne è magna pars, «delle giunte di sinistra di metà anni settanta», che guardavano alle attività permanenti e sulle capacità dei Comuni di giocare un ruolo di coordinamento. E da allora, la sua presenza si è fatta indubbiamente sentire. Per esempio, racconta sempre Ellero, l’Ufficio s’è assunto l’onere della programmazione in una sala di Mestre, «che è diventata una sorta di riferimento per il circuito d’essai», ed ha stretti collegamenti con altri esercizi, di Padova e Treviso. Il risultato è che il Cinema Dante, 250 posti e non più, in un anno raccoglie 50 mila spettatori; «e l’iniziativa comunale, assunta in solido con il proprietario del locale che è il Dopolavoro ferroviario, nel senso che il Comune s’impegnava a ripianare il deficit o avrebbe potuto dividere i guadagni, da oltre cinque anni produce degli utili, sia pur limitati: tra i venti e i trenta milioni». Meno fruttuoso è invece l’accordo con il Cinema Accademia, in cui, nei giorni infrasettimanali (cioè, quelli abitualmente di minor affluenza), anche approfittando della sua vicinanza all’università, cioè al naturale bacino d’utenza per questo genere di proiezioni, l’Ufficio Cinema organizza rassegne tematiche o d’autore; e ormai del tutto tramontato un precedente, simile tentativo, con un’altra sala, il Cinema Olimpia, che ad un certo punto ha preferito, da locale di prima visione e d’essai, puntare a una programmazione quotidiana, ma di seconda visione. Comunque, l’intervento “parapubblico” per favorire cicli di qualità, a Venezia forse s’imponeva davvero: nel centro storico, sono rimaste, in tutto, cinque sale; di cui tre di prima visione, ma ridotte in condizioni ben lontane dall’ottimale. «Si sente che manca un imprenditore diciamo pure illuminato, come Gian Antonio Furlan che, a Mestre, dove il bacino d’utenza è certamente ragguardevole, poiché nel dopoguerra la città è passata da 30 mila a 200 mila abitanti, gestisce otto sale: tutte, tranne l’ex cinema del Dopolavoro ferroviario, dove appunto noi proiettiamo i film più, diciamo così, colti», spiega sempre Ellero. Nel centro storico, invece, esistevano degli spazi anche di imprenditorialità, tra l’altro perché esiste anche una richiesta, magari per un prodotto più selezionato: «Lo dimostra anche l’attività estiva: i 1.800 posti in campo San Polo che, in 50 serate, raccolgono 60 mila spettatori; tanto che ormai stiamo parlando della prima sala veneziana, anche se sala non è, per quantità di pubblico». Alle rassegne estive, e ad Esterno notte che proietta all’aperto le pellicole del Festival della Biennale, il Comune destina ogni anno 700 milioni. Ma l’Ufficio cinema non si limita a programmare: organizza anche due o tre corsi specifici all’anno, a tema (per esempio, sull’illuminazione di un “set”), di solito con un centinaio di attenti e coinvolti partecipanti, e perfino con simulazioni reali e non solo lezioni teoriche. «Ma a Venezia, nel centro storico, era forse il momento di dare una scossa a un sistema quasi bloccato. Per questo, invece di spendere ogni anno un centinaio di milioni in inutili fitti passivi, abbiamo deciso il grande passo», continua Ellero, il cui Ufficio costa circa un miliardo, ma può contare entrate per 700 milioni e quindi pesa per soli 300 sulle casse pubbliche. E spiega: il proprietario ha investito un paio di miliardi per rimettere a nuovo il Cinema Giorgione, e trasformarlo in una specie di prima multisala veneziana, con due (soli) locali di proiezione, da 220 e 100 posti; dal canto suo, il Comune ha deciso di prenderla in gestione: «Trenta film di prima visione al mese, più cicli monografici e rassegne specifiche; evidentemente, l’investimento si raddoppia: ma noi contiamo anche d’incrementare gli utili». Così, mentre altri Comuni dismettono le proprie attività, quello di Venezia è costretto, per la particolarità della situazione e la disaffezione degli stessi gestori, a farsi ancor più imprenditore. Non solo: ma, almeno nei mesi estivi, deve anche pensare, nonché provvedere, alle aree della città ormai totalmente dimenticate dal circuito cinematografico: «Due settimane di proiezioni in agosto a Pellestrina, ed è sempre il tutto esaurito; idem a Ca’ Savio, e qualcosa di simile anche a Favaro, dove ormai di sale non ne esistono più». E non solo in queste zone: «A Marghera, da vent’anni, il consiglio di quartiere collabora con un privato, e così riesce a proiettare almeno degli spettacoli all’aperto, perché di locali ne sopravvive uno solo». Ma, per esempio, a parte gli sprazzi del periodo del Festival che la Biennale organizza, è quasi dimenticato, con una sola sala, anche tutto il Lido: «Da dicembre a fine aprile, il venerdì, nella sala Volpi del Palazzo del Cinema organizziamo una stagione d’essai: raccoglie ogni giorno tre o quattrocento appassionati». L’assenza completa, in vaste zone del territorio, di ogni e qualsiasi struttura, e lo stesso decadimento di molte tra quelle esistenti, sono il punto finale di una crisi che viene da lontano, e che, come abbiamo visto, non riguarda soltanto Venezia. In Italia, negli anni cinquanta, l’industria del cinema era in pieno sviluppo: “staccava” anche 800 milioni di biglietti all’anno. La recessione è stata progressiva, e ha toccato il fondo negli anni ottanta; da allora, è iniziata una sia pur lenta ripresa, ed oggi in un anno, nell’intero paese, gli utenti cinematografici sono circa 104 milioni. Come dire, grosso modo, due biglietti a persona. Venezia supera questa media nazionale: nel centro storico, 250 mila biglietti all’anno, per una popolazione che, contando anche gli studenti non veneziani che ne frequentano gli atenei, si aggira sulle 80 mila anime. «Ma a Mestre», spiega sempre Ellero, «un film di cassetta incassa dieci o quindici volte più che non nel centro storico»; mentre questo gap si riduce, e non poco, per le pellicole d’autore; anche per quelle di Woody Allen, «che a Mestre incassano soltanto due o tre volte più che non nella parte insulare della città». Questo significa che la domanda del centro storico esiste, ed è anche abbastanza selettiva; abbastanza di qualità. Si attende anche, ma dato l’andamento dei lavori, come dicono nello stesso cantiere, non se ne parlerà comunque prima del 2003, il ritorno della sala del San Marco, acquistato, come l’intero edificio di cui fa parte e che comprendeva anche il Teatro del Ridotto, dalla famiglia Benetton. Per tentare di ampliare il bacino di utenza, il Comune di Venezia, e il Circuito Furlan di Mestre hanno anche messo a punto un “progetto studenti”, abbastanza innovatore. Prevede non solo riduzioni, variabili tra il 12 e il 27 per cento nelle programmazioni gestite dal Comune (ma anche del 33 per cento, in alcuni giorni o per alcuni spettacoli, nelle sale mestrine della famiglia Furlan); non solo spazi autogestiti dal Coordinamento studentesco sulle settemila copie del mensile «Circuito Cinema» edito appunto dal Comune e in distribuzione gratuita; ma soprattutto una sorta di “proiezioni a richiesta”. La possibilità cioè che gli stessi studenti, da marzo a maggio, scelgano, in due esercizi di Mestre, e al Giorgione di Venezia quando sarà entrato in funzione, tre spettacoli, non di prima visione, da far proiettare, e a cui assistere con un biglietto ridotto (seimila lire, contro prezzi che in certi casi raggiungono anche una cifra quasi doppia, 11 mila). Inoltre, a Venezia, sempre per continuare l’excursus sulle sue risorse cinematografiche affidate, in buona misura ed assai singolarmente, in mani pubbliche, due fenomeni che hanno toccato tante altre città, o ancora le investono, si sono manifestati assai meno che altrove. Pochi (uno al Lido nei giorni infrasettimanali, un altro paio in terraferma), e votati a una fine o una grave crisi prematura, i locali “a luci rosse”, tramontati in laguna prima ancora che in tante altre città; ma anche a lungo inesistenti, le multisale, che altrove invece hanno risollevato le sorti di più d’un esercente. Oltre al Giorgione che sarà una “mini multisala” poiché ne conterrà soltanto due, ne è stata allestita di recente una in terraferma; dove, ma a Marcon e cioè fuori dall’area comunale, dopo il successo dei precedenti esperimenti di Vicenza e Verona, e soprattutto di Roma dove un gran numero di spettatori, per lo più giovani, accorre quotidianamente alla Magliana, la Warner ha fatto nascere un altro dei suoi village multimediali integrati. Ma forse, le maggiori speranze per la resurrezione di un’industria del cinema a Venezia (dove operano alcune aziende, abbastanza esigue di dimensioni ma anche di qualche importanza), sono riposte nella nascita del Parco tecnologico di Porto Marghera, e in quel quadro le esamineremo; mentre quelle per un ritorno ad una fruizione meno sporadica e accidentata, nonché indirizzate alla nascita e lo sviluppo di nuove iniziative, oltre a quanto realizza l’Ufficio cinema del Comune, risiedono in buona parte nel futuro della Biennale, nella collaborazione che sarà possibile istituire con essa, con quanto di “permanente” riuscirà a realizzare, secondo i buoni proponimenti enunciati dal suo presidente Paolo Baratta e come conferma lo stesso responsabile della Sezione cinema, il dinamico Alberto Barbera. 15 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 7.2) Dalla terraferma, cenni di rinnovata vitalità Ma forse, il destino di Venezia, anche del suo centro storico, e perfino nel campo se non della cultura in senso stretto almeno dell’“immateriale”, non si giocherà sulle sue Isole, bensì, ancora una volta, in terraferma. È infatti proprio lì che sta nascendo un Polo scientifico e tecnologico che non pochi benefici potrebbe recare a un quadro di sviluppo complessivo; ed è proprio dalla terraferma che provengono interessanti cenni di una certa qual vitalità. Vediamo, per esempio, il caso della Fenice: non di quella storica al centro della città, andata bruciata, ma del tendone al Tronchetto, isola altrimenti deputata soltanto al parcheggio, che in una provvisorietà per chissà quanto tempo ancora protratta, ora ospita il teatro. «Quella della musica era l’ultima impresa rimasta a Venezia, nel suo centro storico», dice Cesare De Michelis, ricordando anche come «il teatro veneziano fosse il secondo in Italia, o giù di lì, per importanza. Parte della pretesa rivalità tra Maria Callas e Renata Tebaldi s’è sviluppata anche qui. Arturo Toscanini vi era di casa. Le grandi prime di Verdi nell’Ottocento. Gli anni celebri in cui lo diresse Mario Labroca. L’importanza dei contemporanei: da quelli che la Biennale faceva intervenire, fino a Luigi Nono». Soltanto dal 1985, continua De Michelis 16, «accentuatasi la crisi veneziana, con la città ritrovatasi più povera, anche il ruolo della Fenice era diminuito: meno finanziamenti, meno proposte nuove, la scissione dalla Biennale». Ma tanto spesso, perfino per realizzare a Venezia alcune tra le moltissime pellicole cinematografiche che vi sono state girate, ricorda ancora, «si ricorreva proprio al personale della Fenice: macchinisti ed attrezzisti, magari alla fine dei turni di lavoro, o magari anche colpiti da qualche malattia, non si sa se più tempestiva o più provvidenziale». «Il teatro», spiega Cristiano Chiarot 17, «conta su 315 dipendenti fissi, che arrivano anche a 350 nei periodi più impegnativi»; trae le risorse in buona parte dai finanziamenti statali del Fus, il Fondo unico per lo spettacolo, le cui erogazioni globali, dal 1990 al ’97, si sono peraltro non poco ridotte: a lire costanti: dagli 891 miliardi del 1990, agli appena 653,12 del 1997 18, anche se formalmente, il Fus nel ’97 ha distribuito 900 miliardi, cioè undici in più di sette anni prima, e otto meno di quello precedente, contribuendo a finanziare settori d’attività assai disparati. I sei decimi del Fus spettano quindi alla musica; e sono assolutamente essenziali per mantenere in vita i 13 enti lirici di cui il paese dispone. Mentre altre risorse, certo assai meno consistenti, sono attribuite a 24 “Teatri di tradizione” sparsi nella penisola (due nel Veneto: il Sociale di Rovigo, beneficiario nel 1997 di 950 milioni, e il Comunale di Treviso, che ne ha ricevuti 1.512); a 21 manifestazioni di lirica, di solito in centri minori; a 12 istituzioni concertistiche (anche l’Orchestra da camera del Veneto, sede a Padova: quasi due miliardi e mezzo). Infine, pochi spiccioli a 202 associazioni che fanno musica 19; a 11 provviste di un coro (nel Veneto, l’Asac, 13 milioni); a cinque enti di promozione (tutti nel Lazio); a quasi 200 altre iniziative 20 sparse per la penisola. Ai 13 enti lirici, il Fus ha concesso finanziamenti variabili, secondo alcuni indicatori che qui sarebbe troppo complesso spiegare. Comunque, nella graduatoria delle erogazioni, la Fenice viene al sesto posto, dopo la Scala, Roma, Firenze, Palermo e Napoli. Logicamente, ai fondi statali vanno poi aggiunti quelli degli enti locali (quasi 40 miliardi al Massimo di Palermo dalla Regione; quasi 17 miliardi all’Opera di Roma, sensibilmente aumentati l’anno successivo; oltre 13 alla Scala; 10,7 per Cagliari dalla Regione Sardegna; meno di sette per l’ente veneziano), e l’intervento di eventuali sponsor. Infine, ultima componente delle entrate perché assai spesso ne costituisce purtroppo la porzione davvero più esigua, i proventi della biglietteria e degli abbonamenti. E anche qui, Venezia non è certamente ai primi posti, anzi è proprio in coda: la salva soltanto l’incredibile e quasi ridicola percentuale che la biglietteria, e quindi la città e gli appassionati, forniscono al Massimo di Palermo. tabella 31. Ripartito così il Fondo unico per lo spettacolo 1997 Enti lirici Attività musicali Danza Teatro di prosa Attività circensi Cinema Consiglio nazionale dello spettacolo Osservatorio dello spettacolo Bnl (teatro e musica) Totale stanziamenti Fus 430.30 116.30 11.85 152.42 13.65 169.83 0.10 0.70 4.85 900.00 Fonte: Presidenza Consiglio dei ministri, Relazione sull’utilizzazione del FUS , 1998. tabella 32. Gli stanziamenti (1997) per i 13 enti lirici italiani Piemonte Lombardia Veneto Veneto Friuli-Ven. G. Liguria Emilia-Rom. Toscana Lazio Lazio Campania Sicilia Sardegna Totale delle erogazioni Teatro Regio di Torino Teatro La Scala di Milano Gran Teatro La Fenice di Venezia Arena di Verona Teatro comunale Giuseppe Verdi di Trieste Teatro Carlo Felice di Genova Comunale di Bologna Comunale di Firenze Teatro dell’Opera di Roma Accademia di Santa Cecilia di Roma Teatro San Carlo di Napoli Teatro Massimo di Palermo Teatro P.L. da Palestrina di Cagliari 27 704 861 750 70 076 626 900 34 425 870 000 21 726 478 000 23 078 889 650 21 925 992 150 29 057 664 550 43 108 189 950 47 768 995 300 22 448 868 300 36 268 103 550 40 298 705 450 12 409 754 450 430 299 000 000 Fonte: Presidenza Consiglio dei ministri, Relazione sull’utilizzazione del Fus , 1999. Queste cifre legittimano qualche considerazione: intanto, l’apporto dei privati è, generalmente e incredibilmente, davvero assai esiguo: soltanto il Regio di Torino può contare su una componente significativa di sponsorizzazioni; il Verdi di Trieste, la stessa tanto malmessa Opera di Roma e la Fenice, che lo seguono in graduatoria, dai privati ottengono ben scarso supporto. Poi, generalmente assai limitata (escludendo pochi casi, oltre a quello atipico di Verona) è la componente della biglietteria: forse solo Milano e Torino ne ricavano entrate degne di qualche apprezzamento. Del resto, che le uniche alternative possibili di operare qualche risparmio, per i teatri lirici, siano legate all’incremento dei prezzi d’ingresso, o a un taglio sensibile nei costi della produzione artistica, l’ha affermato, già da tempo, l’economista che per primo, e più di ogni altro, si è occupato del settore specifico, e cioè William Baumol 21 (un classico ormai la sua ricerca degli anni sessanta 22, in cui tra l’altro annotava che «un quartetto di Boccherini composto nel xviii secolo e che ha un tempo d’esecuzione di mezz’ora, richiedeva due ore-persona di esecuzione a quell’epoca, e richiede esattamente la stessa quantità di tempo oggi»). Come dire che la forbice tra costi e ricavi tende più ad allargarsi, che a ridursi; cioè, l’andamento è diametralmente opposto a quello dei finanziamenti da parte dello Stato. tabella 33. In che modo si finanziano gli enti lirici Teatro Bologna Cagliari Firenze Genova Milano 1 Napoli Palermo Roma Torino Trieste Venezia Verona Stato 36 607 12 823 45 345 22 657 75 909 37 477 41 642 49 361 28 628 24 886 35 573 22 415 Enti loc. 5 149 12 000 5 800 8 109 13 100 5 550 32 020 28 870 9 650 6 750 3 196 7 122 Biglietti 4 400 1 987 6 638 5 385 27 722 6 119 2 743 7 563 9 241 5 437 1 694 44 163 Privati 621 6 1 370 300 0 295 0 2 012 3 162 1 599 1 163 0 Altre 14 223 12 492 9 997 3 586 2 209 5 239 3 613 1 783 1 346 3 359 688 3 615 Totale 55 436 39 308 69 150 56 122 118 940 54 734 80 018 89 589 52 027 46 441 45 751 77 351 Deficit 436 == == 16 085 == == == == == 4 410 3 437 == I dati sono in milioni, e si riferiscono al 1999, tranne (1) dati 1997-98. L’indagine non tiene conto dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma, forse perché è, tra gli enti lirici, l’unico di stampo prettamente sinfonico, quindi senza il costo degli allestimenti. Fonte: «La Repubblica, Affari e Finanza», 10.1.2000. tabella 34. In che percentuali, e da dove, arrivano i fondi Teatro Bologna Cagliari Firenze Genova Milano 1 Napoli Palermo Roma Torino Trieste Venezia Verona Stato 55.2 32.6 65.6 40.4 63.8 68.5 52 55.1 55 53.6 77.8 29 Enti loc. 9.3 30.5 8.4 14.4 11 10.1 40 32.2 18.5 14.5 7 0.2 Biglietti 7.9 5.1 9.6 9.6 23.3 11.2 3.4 8.4 17.8 11.7 3.7 57.1 Privati 1.1 0 2 0.5 0 0.5 0 2.2 6.1 3.4 2.5 0 Altre 25.7 31.8 14.5 6.4 1.9 9.7 4.5 2 2.6 7.2 1.5 4.7 Totale 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 Deficit 0.8 == == 28.7 == == == == == 9.5 7.5 == Dati 1999, tranne (1) dati 1997-98. L’indagine non tiene conto dell’Accademia di Santa Cecilia di Roma, forse perché è, tra gli enti lirici, l’unico di stampo p Secondo un’indagine del Centro internazionale di studi sull’economia dell’arte, prima che la sua sala (e non solo) andasse bruciata, la Fenice era in una fase di netto miglioramento: all’inizio degli anni novanta, infatti, quando il finanziamento pubblico era calato di un paio di punti percentuali, per tre anni di fila, le entrate dal botteghino, garantite dalla lirica per quote variabili tra i sei e gli otto decimi, avevano fatto registrare ripetuti incrementi, fino a produrre la non indifferente cifra di oltre quattro miliardi. È chiaro però che quella era la “vecchia” (e speriamo al più presto torni ad essere la “nuova”) Fenice; mentre l’attuale è un ben diverso teatro. Logicamente, ha dovuto ridurre i prezzi dei biglietti, fino quasi a dimezzarli (ora, il più caro costa 60 mila lire: un autentico “saldo” se paragonato a qualsiasi altra sala), poiché una cosa è offrire un teatro ed un’altra offrire un tendone; «e gli incassi, da quattro miliardi e 700 milioni, si sono ridotti a due miliardi e mezzo», dice il sovrintendente Mario Messinis 23. Eppure, continua, «mettiamo in scena più spettacoli di prima, ed abbiamo perfino il conforto di un numero maggiore di spettatori». Insomma: sotto il tendone non ci si arrende; anche se, per parafrasare il titolo del film con cui il regista tedesco Alexander Kluge vinse nel ’68 il Leone d’oro al Festival veneziano (Gli artisti sotto la tenda del circo, perplessi), difficoltà e, appunto, perplessità certamente non mancano. Il tendone della Fenice dispone di mille posti per le rappresentazioni liriche, che diventano 1.200 per i concerti. «Lavorarci, è come lavorare in cinemascope, poiché grande è la larghezza, ma scarsa l’altezza», spiega Giorgio Barberio Corsetti, direttore della Biennale teatro e la cui regia di Maria di Rohan (Donizetti) ha inaugurato la stagione 1999-2000; ci sono zone della platea, prima che le poltrone comincino ad essere più elevate, dove l’acustica è abbastanza improba. E gli intervalli, è meglio modularli sugli orari del vicino ferry-boat, che salpa nei pressi, giusto per evitarne i colpi di sirena durante l’esecuzione. Ma è inutile dedicarsi troppo alle pecche del tendone: tanto, è provvisorio, no? Più interessante è invece notare come, pur in condizioni di logistica abbastanza improbe, la Fenice riesce tuttavia a garantire una buona offerta di spettacoli. Tuttavia l’allontanamento dal centro storico ha anche mutato il pubblico del teatro. Gliene ha fatto scoprire uno, che prima lo degnava di ben scarsa attenzione: quello della terraferma, «a dimostrazione, ancora una volta, che i trasporti sono il grande ed irrisolto problema di Venezia», dice ancora Chiarot. Ma gli ha fatto perdere una buona fetta dei suoi abituali frequentatori: il pubblico appunto della Venezia insulare, quello del centro storico. Anche qui, le ragioni sono molteplici; non ultima, la concorrenza esercitata da una sorta di “piccola industria” musicale, che soltanto la città possiede; cioè i vari complessi da camera sparsi per la città, che certamente s’indirizzano maggiormente ai turisti che non ai melomani più sofisticati, ma che comunque muovono un giro d’affari non indifferente, valutato tra i cinque e i sette miliardi. E, oltre a chi suona, offrono lavoro anche a non poche altre persone: per esempio quei giovani che, agghindati in abiti di foggia settecentesca e dislocati in alcuni punti nevralgici della città, s’incaricano della prevendita dei biglietti. «Un nostro grosso problema», dicono sempre alla Fenice, «è anche che non entriamo nel grande mercato, spesso “nero”, del turismo; non riceviamo un biglietto che è uno dagli albergatori; non siamo affatto promossi, al massimo ci concedono d’esporre una locandina, dalle agenzie turistiche». Il tendone non offre certamente il contesto di un teatro; manca, per esempio, il foyer; che per una città come Venezia, è importante: è il luogo deputato al ritrovo, alle ciacole, all’aspetto, diciamo così, sociale di ogni rappresentazione. Un giorno, poi, con straordinaria ed immensa miopia, qualcuno ha pensato bene perfino anche di far accedere il pubblico al teatro facendolo obbligatoriamente passare per una sorta di portico, che in realtà è il luogo d’attesa dei bagni pubblici. «Finché c’era il teatro, la metà dei posti era assegnata in abbonamento»; ora, non più. E, tra gli stranieri, reggono ancora quasi solo i francesi. Per raggiungere il “tendone”, occorre uno scomodo e lungo giro in motoscafo; una “lancia” a prezzi incredibili; oppure l’automobile, che, nonostante gli sconti, paga 15 mila lire di posteggio. «Molti arrivano dalla terraferma; lasciano la vettura a Mestre e raggiungono la Fenice in bus». Ammettiamo che non sono i criteri migliori per promuovere un teatro. Così, la metà dei veneziani che seguivano la stagione lirica hanno rinunciato; mentre invece “resistono” ancora gli appassionati della sua stagione concertistica («una vera stagione mancava da dieci anni; abbiamo mille paganti a sera: triplicati gli abbonati che oggi sono oltre 700», dice il sovrintendente). E i “vuoti” dei veneziani sono stati riempiti da un pubblico diverso: che viene appunto dalla terraferma. Per riconquistare l’audience (insulare) perduta, la Fenice punta molto sul Teatro Malibran, la cui ristrutturazione ha richiesto più tempo del previsto, anche perché sono stati trovati dei reperti romani; secondo alcuni, perfino una casa che potrebbe essere stata quella di Marco Polo. È una sala da 800 posti, per spettacoli dalla scena ridotta: «Il palcoscenico non ha sfoghi laterali, mancano anche i camerini». Il problema che si porrà alla Fenice, in una prospettiva che speriamo non troppo lontana, è in quale modo capitalizzare questo suo nuovo pubblico, che la sta seguendo negli anni della sua provvisorietà: «Il nostro ciclo operistico a Padova può già contare su mille abbonati; e prevede due serate lì, ed una a Venezia», dice sempre il maestro Messinis. Il PalaFenice, che al Comune costa un miliardo e seicento milioni di noleggio all’anno, più altri tre e mezzo di gestione, «verosimilmente lo terremo in esercizio per un anno, anche dopo che avremo ritrovato il nostro teatro», spiega sempre il sovrintendente. Politiche differenziate di prezzo; accordi con chi gestisce i trasporti pubblici per corse straordinarie e a costi ridotti; «potenzieremo poi l’attività a Mestre, per non perdere il capitale che abbiamo accumulato. Ma intanto, cerchiamo di sfruttare tutti gli spazi disponibili nel centro storico, anche le chiese poiché solo a San Marco esistono reali limitazioni nella tipologia delle esecuzioni, puntando anche su una programmazione di qualità». Così, ecco la prima esecuzione moderna dell’Orione di Francesco Cavalli, una nuova produzione del Satyricon di Bruno Maderna, il seguito del ciclo dei Cameristi alla Fondazione Cini. E, evento abbastanza raro nonché significativo, dalla scuola di Rony Rogoff sono già nate incisioni delle “integrali” cameristiche di Brahms e Schubert, con l’egida della Fenice e l’etichetta della casa discografica Mondo musica, mentre il gruppo si appresta a divenire stabile con il nome di Accademia di San Giorgio. Ma il “nuovo pubblico” della Fenice, che non proviene dal centro storico della città, impone forse qualche considerazione. Perché il fenomeno di una “maggiore velocità” della terraferma rispetto alla parte insulare del Comune, non si limita alla lirica e ai concerti di musica classica, ma riguarda, per esempio, anche il teatro di prosa. Che, nel centro storico, è protagonista, anch’esso, di una crisi davvero assai accentuata. 16 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 17 Colloquio con l’autore, gennaio 1999. 18 Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento dello spettacolo, Relazione sull’utilizzazione del Fondo unico per lo Spettacolo, Roma 1997. 19 Nel Veneto, ne beneficiano il Comune di Bassano, 350 milioni; gli Amici della Musica di Asolo, 285 milioni; di Padova, 245; di Mestre, 30; di Vicenza, 100; di Verona, altri 100; l’Associazione Ipotesi cultura, 40; L’Offerta musicale, 20; gli studenti dell’Università di Padova, 30; il Circolo bellunese, 35; i Solisti Veneti, con 225. 20 Tra quelle venete, di nuovo Ipotesi Cultura, 13 milioni, e Asolo Musica, 70; oltre al Comune di Vittorio Veneto, 28; al Teatro comunale di Treviso, 75; al Comitato per la Lirica, 10; all’Associazione Venezia Poesia, 30; al Teatro Olimpico di Vicenza, 15; all’Ente Veneto Festival, 150 milioni. 21 H. e W.J. Baumol, Il morbo dei costi e le sue effettive implicazioni per la politica di sostegno dell’arte, in G. Pannella e M. Trimarchi, Stato e mercato nel settore culturale, Bologna, Il Mulino, 1993. 22 William Baumol, Performing Arts: the economic dilemma, Cambridge Mass., Twentieth Century Fund, 1996. 23 Colloquio con l’autore, gennaio 1999. 7.3) Anche il teatro guarda più alla Venezia peninsulare Nel centro storico, di tante sale che c’erano, dedicate alla prosa ne restano a malapena una, più altre due, minori di capienza, ma non certo per la programmazione sperimentale che organizzano e ospitano. Insomma, davvero molto poco. E infatti, a Venezia si va a teatro assai meno che altrove: raffrontato alla quantità di abitanti, il numero di biglietti che vi vengono venduti è inferiore alla media nazionale: 134.759 in tutto il 1997, invece dei 147.353 che la statistica vorrebbe, per allinearsi (attenzione) soltanto alla media dell’intero paese (comprese le zone più dimenticate o maggiormente ancora in attesa di sviluppo), e non certo a quella delle sue principali città. Ed è singolare che nel capoluogo del Veneto vengano messi in scena un numero di spettacoli pressoché simile a quelli di tutto il resto della provincia 24: a Venezia, càpita soltanto per la prosa; in tutti gli altri campi, infatti (a parte i concerti di musica leggera), il capoluogo la fa assolutamente da padrone. Ancora nel 1980, ricorda Maurizio Scaparro rievocando il Carnevale che organizzò come direttore della sezione Teatro della Biennale, «in città erano aperti La Fenice, il Malibran, il teatrino di Palazzo Grassi, il Goldoni, il Ridotto; e, oltre a tutto, c’era quello galleggiante di Aldo Rossi». Lontane, già allora, le mitiche contese tra Carlo Goldoni, Carlo Gozzi e Pietro Chiari, che si svilupparono al San Samuele. E lontani anche i tempi (1875) in cui Sarah Bernhardt interpreta La partita a scacchi di Giuseppe Giacosa; o in cui (1835) un’eccezionale Sonnambula cantata da Maria Malibran vale il nome di una sala. Ormai, con l’agonia tra le due guerre di cui ha scritto bene Silvio D’Amico, anche il teatro dialettale è andato in crisi: quasi sparito. E le sale, troppe di loro, diventano cinema; poi, quando il cinema va anch’esso in crisi, chiudono e basta. tabella 35. Quanta prosa a Venezia, e quanta in provincia (1997) Attività Prosa Dialettale Lirica Balletti Danza M. class. Operetta Rivista m. Mus. legg. Burattini Saggi cult. Totali Comune di Venezia Comuni della provincia Rappres. Bigl. vend. Incasso Rappres. Bigl. vend. Incasso 484 134 759 2 740 535 416 78 707 988 341 17 6 599 133 218 13 1 427 12 172 48 36 812 1 326 377 8 17 673 32 357 9 6 897 284 737 5 2 091 39 825 64 8 427 107 181 12 1 715 19 291 838 195 985 3 415 925 100 12 799 12 799 8 3 983 116 073 10 3 902 83 301 30 14 534 489 049 12 4 945 105 803 72 26 845 686 266 63 25 655 559 660 30 3 032 18 089 42 3 933 29 846 17 6.568 85 402 6 1 175 10 653 1 617 354 441 9 402 852 687 138 116 2 008 525 Gli incassi sono in migliaia di lire. Fonte: Lo spettacolo in Italia, 1997 , cit. Il Ridotto, che ospitava anche spettacoli cult, per esempio, perfino un Dario Fo quasi alle prime armi, o alle prime scene? «Tornerà, ma sarà più piccolo, nel 2003», garantiscono gli uomini che vi stanno lavorando, dopo che l’intero complesso, comprese le sale dell’ex Cinema San Marco, è stato rilevato dai Benetton, come anche l’albergo Monaco che fa parte del medesimo isolato o quasi, il garage del Tronchetto, e, di recente, l’isola di San Clemente, costata 20 miliardi, che forse diverrà un albergo o un villaggio turistico. Resta la sala che è giustamente intitolata al nome di Carlo Goldoni: Teatro stabile del Veneto, a metà con Padova dove però è collocato il “cuore” dell’attività. «È una vera paralisi», commenta Cesare De Michelis: «Si è ormai perduta anche la tradizione, iniziata negli anni trenta da Renato Simoni, del teatro all’aperto, nei campi, particolarmente a San Zaccaria e San Trovaso: un timido tentativo di rinverdirla si verificò sul finire degli anni sessanta, ma senza un grande esito». Così, il Teatro stabile del Veneto, fino all’anno scorso diretto da Mauro Carbonoli, ed ora da Luca De Fusco (sede legale a Venezia, ma sede operativa a Padova), offre nel centro storico una dozzina di spettacoli, di cui (1998) uno solo prodotto in proprio, un altro per la Compagnia dei giovani, e un terzo coprodotto; più quattro spettacoli per la rassegna Teatro oggi, e quattro operette. A Venezia, le compagnie vengono, e scappano: normalmente, tre o quattro giorni in tutto; altrettante rappresentazioni, e via. E per rendere possibili queste serate, per fortuna vengono in soccorso le sovvenzioni dei due Comuni interessati (1.103.709.000 a testa), e quelle del Fus. Nel 1997, come sempre dacché il Fondo fu istituito, quello del Veneto è stato uno dei 13 Stabili che ne ha beneficiato; per l’esattezza, con 1.830 milioni: quasi due miliardi. Anche qui, però, la terraferma manifesta un’interessante vitalità. In termini relativi, infatti, assai meglio vanno le cose per esempio al Teatro Toniolo: 50 serate di prosa in un anno, con una media di 570 spettatori paganti, non sono certamente poche (mentre invece, già che ci siamo, non sono certo molti i 178 spettatori per ogni spettacolo di danza e di teatro, sia pur sperimentale). «È stato un percorso lungo ed irto di ostacoli», spiega l’assessore Mara Rumiz 25, ma «il suo ruolo di simbolo e catalizzatore della vita culturale di Mestre, il Teatro Toniolo se lo è conquistato da tempo». Oltre al Goldoni, però, ci sono almeno altre due sale, sia pur di minore capacità, la cui programmazione, teatro di genere sperimentale, costituisce la vera novità, rispetto a quello che Giorgio Barberio Corsetti, regista e neo direttore della sezione teatrale della Biennale, chiama «il limite di quasi tutti i teatri stabili, che è di essere chiusi su se stessi, quasi impermeabili alle innovazioni del linguaggio e dei contenuti, come fondati sull’abitudinarietà del pubblico: luogo di puro consumo di uno spettacolo che, ormai, non ha nemmeno più molti consumatori» 26. L’anno scorso a Carnevale, il Teatro Fondamenta Nuove, di cui è responsabile organizzativo Gennaro Labanca, ha messo in scena E la commedia va, commedia dell’arte con la Compagnia Tiramisu, e non manca, ad ogni stagione, di proporre qualcosa di nuovo. L’altra sala è quella del Teatro all’Avogaria, fondato oltre trent’anni fa da un nome che, nel settore e nella città, fu famoso ed importante: Giovanni Poli, cui negli anni cinquanta si deve anche la fondazione del Teatro universitario di Ca’ Foscari, e infatti l’attuale rettore afferma che proprio a Poli sarà intitolata una prossima iniziativa permanente dell’ateneo. Negli anni, anzi nei decenni, l’Avogaria, che ha al suo attivo oltre cinquanta tournées in ben 32 paesi, ha messo in scena spettacoli anche d’assoluto rilievo, a cominciare da quello, celebre, che fu uno dei suoi primi, La commedia degli Zanni. Negli ultimi tempi, forse, il ritmo delle sue novità si è leggermente appannato; ma i periodi di crisi, si sa, di solito non risparmiano nessuno. tabella 36. Quanti spettacoli, in un anno, nel (solo) teatro di Mestre Attività Stag. 97-98 (anno 97) Stag. 97-98 (anno 98) Totale stag. 97-98 Spett. Presenze Spett. Presenze Spett. Presenze Prosa 20 12 893 29 15 017 49 27 910 Mus. camera 5 3 100 7 4 074 12 7 174 Danza 4 740 7 1 224 11 1 964 Comics 5 4 363 6 4 468 11 8 831 Amatoriale 5 3 486 5 3 883 10 7 369 Note ital. 5 4 044 5 2 819 10 6 863 Mus. e ling. 6 3 619 2 674 8 4 293 Totale 50 32 245 61 32 159 111 64 404 Fonte: Comune di Venezia, Assessorato alla cultura e pubblica istruzione. A questa situazione, nel suo complesso certamente non invidiabile, si può soltanto aggiungere un dettaglio: nei giorni del Carnevale, proprio per ovviare alla scarsità delle sale, a Venezia si fa teatro anche in altri luoghi: dal Palazzo delle Prigioni Nuove, a Ca’ Rezzonico; o, a Mestre, al Teatrino della Murata (che possiede una propria compagnia); o (come avviene più abitualmente) in quello del Parco, o in un’apposita sala a Chirignago, o perfino all’hotel des Bains del Lido. Ma si tratta di interventi d’emergenza: quasi come dei rattoppi a una situazione, appunto, davvero assai sfilacciata e perfino difficile quasi da sopportare, di carenza di strutture permanenti. Ed è appunto qui, tra la carenza delle strutture, la mancanza di “vocazioni”, gli sprechi di territorio e la ricerca di un futuro per la città, che valga a migliorare la qualità della vita di chi rimane e a far cessare l’emorragia di quanti invece se ne vanno, che si gioca il futuro di una città, che non sia soltanto museo o quinta teatrale. E su questi temi, vale forse la pena di enucleare i pensieri di alcuni “testimoni privilegiati”. Persone, cioè, che, per il ruolo che coprono e l’angolo di visuale da cui possono osservare l’evoluzione delle tendenze, più di altri sono forse in grado di prevedere, se non proprio il futuro, almeno delle linee di sviluppo degne d’essere favorite. 24 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit. 25 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 26 Colloquio con l’autore, gennaio 1999. 8) CINQUE “TESTIMONI PRIVILEGIATI”. COSTA, DE RITA, FOLIN, RISPOLI, RUMIZ «A Venezia, il livello culturale è più elevato e ricco, almeno in termini di imprenditorialità e di iniziativa, di molti altri: da quello industriale, a quello commerciale, a quello turistico. Tuttavia, la realtà culturale della città è soprattutto una realtà di turismo culturale; e, nel campo della cultura, manca la capacità di produrre innovazione, di trasformare in realtà nuovi criteri d’organizzazione»: per un discorso su Venezia oggi e sulle possibilità del suo domani, si può forse prendere le mosse da questa affermazione di Giuseppe De Rita 1. Che, subito, cita un episodio concreto: «Giorni fa, leggevo il programma del Concertgebouw di Amsterdam, giusto per parlare di una città similare, ed ho visto che, in un mese soltanto, quello di novembre [1998], prevede 45 eventi musicali. Significa che, in un mese, nella città olandese va in scena quello che Roma mette in scena in un intero anno». «Se Venezia avesse soltanto un problema di fruizione turistica della propria dimensione culturale, allora basterebbe redigere un bel calendario, la cui mancanza è pure un punto cruciale, perché chi arriva non sa che cosa succede in un anno, ma nemmeno nella settimana della sua visita. Ma invece, non è così: il calendario non basta». Perché, in realtà, la questione non è (soltanto) questa: non si tratta soltanto di organizzare meglio il turismo culturale di Venezia, e forse nemmeno di renderne (sempre soltanto) più vitali le istituzioni preposte alla cultura; il «problema fondamentale», continua De Rita, è un altro: «È possibile fare di questa città un luogo di produzione, organizzazione, innovazione culturale, e non di pura fruizione turistica? Sull’argomento, si scontrano due scuole di pensiero. Una, interpretata da Giorgio Brunetti, secondo cui per fare produzione culturale occorre un distretto: una struttura interna che, basandosi sul territorio, esce dalla storia del territorio. Il distretto non è una tabula rasa: viene dalla storia; e questo vale per Biella, come per Prato, come per Fermo. Dall’altra parte, invece, c’è un’altra scuola, prospettata da Paolo Costa, che è quella della filiera. Tutta l’economia mondiale, del resto, oggi si gioca tra cultura del distretto e cultura della filiera». Per intenderci, l’integrazione dei diversi protagonisti di un determinato luogo, o le varie “filiere”: quella agroalimentare, piuttosto che dell’abbigliamento, o della produzione e distribuzione chimica. «Se dovesse prevalere la cultura del distretto, bisogna tentare la messa in moto di processi che non siano soltanto eventi, due mostre e quattro concerti; perché l’evento è qualcosa che muore. Jean Baudrillard diceva addirittura che “scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo”. L’evento decade; oggi, a mio avviso, hanno più ragione quanti dicono che bisogna produrre processi, e non soltanto eventi. Ma produrre processi non è come produrre eventi: occorrono una fatica e un modo di essere assai diversi». Gli eventi, infatti, «vanno soltanto ordinati in un calendario; se invece si vuol fare qualcosa di diverso, bisogna mettere in moto dei processi; cioè dei sistemi molto più complicati e complessi». Occorrono «programmazione, dimensione unitaria, progetti; i processi non sono unificazione monoteista delle nostre fantasie, ma, in qualche modo, vanno promossi e non solo coordinati: promossi e seguiti, accompagnati, non verticalizzati in una decisione, in un coordinamento, in una programmazione, in un progetto unitario». Va da sé che «questo è faticoso: occorre il metamanagement, che è una funzione e non un ente, il Comune, o una fondazione. Il manager fa unificazione, fa emprise verticalizzata, maneggia il problema e non lo accompagna, riesce a mettere in piedi tanti eventi; invece, aiutare i processi, seguirli ed accompagnarli, è un problema più complesso, ed è appunto quello di una cultura metamanageriale. Oggi, a Venezia, esiste questo tipo di cultura? Perché, se manca, è poi difficile attribuire i compiti». Per cui, «se ci accontentiamo di Venezia come città di industria culturale, intesa come la fruizione turistica della cultura, basta un calendario. Ma invece, c’è da fare qualcosa di più, da portare avanti qualcosa di più complesso; uno spirito di coalizione, d’accompagnamento, uno spirito del metamanagement, del distretto, della filiera: tutte culture che oggi in città mancano, ed è difficile pensare che qualcuno prenda in mano la situazione dicendo “creo io questo tipo di realtà”. Allora, l’unica soluzione mi pare di far crescere, d’accompagnare questi tre o quattro concetti fondamentali – il distretto, la filiera, la coalizione, il metamanagement – e approfondire ulteriormente tutta la tematica che sta loro d’attorno». E, in un’altra occasione 2, lo stesso De Rita aveva così sintetizzato i necessari modi con cui «una società locale, che voglia crescere», può affrontare «le sfide di uno sviluppo non puramente soggettuale»: «Aprirsi con disponibilità e serietà per interpretarsi e rappresentarsi; sapersi “contare”, misurando la sua effettiva vitalità; potersi parlare senza restrizioni né preclusioni, allargando il proprio orizzonte territoriale sia materiale che immateriale; saper accettare chi ritiene estraneo»; e indicava anche alcune prime misure, di cui parleremo nel capitolo conclusivo. Perché, adesso, è giunto il momento di dar voce al secondo dei nostri “testimoni privilegiati”: Paolo Costa, già rettore di università a Venezia, e poi, a Roma, anche ministro dei lavori pubblici («ma della Venezia che io ho visto stando a Roma, è meglio, per ora, non parlare»). Costa preferisce invece restare «in chiave positiva; e per questo, è meglio porci la domanda fondamentale, se stiamo ragionando, se stiamo dentro un ragionamento da wishful thinking, cioè, in veneziano, voria ma no posso; se ragioniamo per desideri o invece per realtà. Se cioè esistono ancora le condizioni attraverso e grazie alle quali Venezia riprenda un ruolo competitivo». Per esempio, il «vetro nuovo» della manifestazione chiamata Aperto Vetro, «non è un esporre o un raccontare: ma un invitare a produrre. Allora, chiediamoci se c’è una possibilità che l’industria culturale della città faccia parte della base economica della città stessa». Quindi, «non discutiamo» se la musica di Venezia risponda alla cultura musicale del paese, e se ogni altra forma artistica che a Venezia si coltiva sia à la page, in grado di confrontarsi con il mondo; ma «se, e in che forma, l’industria culturale possa dare da vivere non soltanto a chi ne è occupato, ma faccia invece campare addirittura la città: la mantenga, o almeno produca un surplus che consenta di contribuire al mantenimento». E Costa si risponde così: «Venezia possiede sicuramente un vantaggio competitivo, ed è di possedere un patrimonio, fortunatamente o sfortunatamente, unico. Palazzo Ducale non si può conservare in alcun altro luogo, se non a Venezia; e questo rappresenta un fattore localizzativo immutabile, una costante localizzativa da cui non si può prescindere». Partendo da questo assunto, Venezia ha «messo in piedi, magari molto male e certo in modo non ancora perfezionato, un circuito che utilizza la conservazione come base della fruizione. Certo: il turismo culturale va ottimizzato, e occorre capire come lo si possa fare. È sicuramente la componente turistica di maggior espansione prospettica: quindi, si tratta di organizzarla bene. Ma forse non bisogna guardare soltanto al centro storico: perché Venezia è un polo d’attrazione che motiva gente proveniente anche da molto lontano, poniamo, dal Kentucky, ma che poi dorme tranquillamente a Jesolo, o a Vittorio Veneto, perché tanto, per loro, è lo stesso». Questo, secondo Costa, è inevitabile, ineluttabile, va organizzato bene o male, «ed io spero bene». Poi, bisogna capire come gestire le collezioni; conservare; se occorre, catalogare di più. Ma, anche e soprattutto, «capire se c’è spazio per altri due sottoblocchi dell’industria culturale: se cioè riusciamo a trovare elementi di produzione culturale, luoghi in cui produrre cultura, alimentare lo stock di beni che la città possiede, oppure vendere qualcosa». Lo stock di beni, e quello d’immagine «sono capitalizzabili; quindi, o produciamo noi, o facciamo produrre. Questo è un luogo che può far produrre il mondo intero. Bisogna creare le condizioni per produrre: fare il contrario di quanto spesso è stato fatto; abbiamo perduto Maderna e Nono? Cerchiamo il modo per importare gli Schönberg di oggi. E questa condizione, questa possibilità, secondo me esistono». Inoltre, «l’industria culturale ha una proiezione tecnologica moderna di enormi dimensioni: possiamo immaginare che, nelle varie facce di questa città, noi costruiamo le filiere. Come abbiamo creato l’industria del legno e poi quella delle macchine per il legno, attorno alla conservazione e alla diffusione, alla produzione e alla distribuzione, possiamo immaginare le occasioni per far investire in questo luogo le tecnologie informatiche applicate: anche questo è un terreno su cui penso si possa sperimentare qualcosa. Su questi blocchi e sottoblocchi, si dovrebbe poter lavorare». Per esempio, «si tratta di vedere se possiamo indirizzare, caratterizzare una parte del Parco scientifico e tecnologico che sta nascendo a Marghera, come luogo che si specializza in tutte le tecnologie visuali: di arti visive, e che rendono il museo moderno. Certo, se queste cose le avessimo realizzate cinque anni fa, oggi saremmo all’avanguardia; e invece, siamo in coda. Dobbiamo prendere al volo i prossimi mesi, oppure rinunciamo anche a queste ultime possibilità». Perché la città «per dimensione è ridiventata provinciale; le energie devono essere ricanalizzate e anzi ricostruite. La carenza di fondo è strategica e di progetto. Di linee guida condivise». Si commettono errori di strategia non soltanto quando si costruiscono strade sbagliate («e la tangenziale di Mestre è una carenza strategica: un’incapacità di previsione che risale a 15 anni or sono»), ma anche «quando non si utilizza un patrimonio ricchissimo; ci siamo adagiati troppo, e per troppo tempo». Le condizioni per progettare, per camminare assieme, si creano quando «c’è qualcuno che sa esattamente dove andare, e capisce che lo stratega per definizione sarà il tal ente, la comunità, le sue espressioni, e così via. Occorre uno come Claudio Abbado: che riesce a far scatenare le cose già esistenti. O ci sono strateghi veri, veri innovatori, o continua a prevalere il modo di vivere di oggi: ciascuno per conto proprio, ottimizzando le proprie istantanee e magari, tutto sommato, stando anche bene». Paolo Costa conclude così: «Rovesciamo in positivo le occasioni perdute; potere continuare a perderne, significa che esistono ancora delle potenzialità. Ma il tempo della competitività tra le città in generale, e tra le industrie culturali in particolare, temo che si vada stringendo in maniera drammatica; forse, gli spazi per molte delle cose che si potevano realizzare cinque anni fa, non ci sono nemmeno più». Allora, «reperire altri spazi; trovare un interstizio; ricrearsi un sottomercato, affermando che occorre qualità assoluta in ogni progetto: e non c’è dubbio che è molto meglio portarne avanti due soltanto, ma validi, che non cinquecento diversi, ma mediocri. Come, forse, Venezia sta invece esattamente facendo». Critici anche i due rettori, Marino Folin dello Iuav, e Maurizio Rispoli di Ca’ Foscari. Dice Folin: «Venezia non è luogo di produzione culturale: è luogo espositivo; di vetrina. Ma è ancora possibile una rinascita, e quali ne sono le condizioni? Io sono ottimista e pessimista insieme. Credo che esistano ancora forti potenzialità e buone possibilità: sono apprezzabili segnali e indicatori interessanti, e la volontà della Biennale di non rimanere solo un luogo espositivo, bensì diventare un centro di attività e produzione permanente, costituisce un grande cambiamento. Parlare di museo che deve diventare laboratorio, e quanta attività potrebbe esserci in un museo pensato diversamente da adesso, anche questo è importante. Ma negli ultimi anni, parecchie condizioni sono cambiate; oggi, esiste un Parco scientifico tecnologico la cui costruzione è assai avanzata; quindi, anche materialmente si realizza una connessione tra città storica e Marghera, e fortissime sono le connessioni tra le università veneziane e il Parco scientifico». Insomma, «ci sono fermenti»; e perfino «la questione della casa per chi venga da fuori, comincia ad avere una soluzione: infatti, vi sono alcuni progetti». Ma sono possibilità; intenzioni «ancora fragili»: danno un senso di marcia; «ma la marcia è ancora lunga da compiere». La questione di fondo è «se in questa città esiste una chiara ed esplicita volontà politica perché Venezia diventi una capitale della cultura: una città capitale di produzione di cultura. E qui devo dire che, secondo me, questa volontà non esiste». Non appare «nella consapevolezza diffusa della popolazione, e nemmeno a livello politico nella città. Il mio non è assolutamente un attacco all’Assessorato alla cultura; anzi, ci sono iniziative assai interessanti che l’amministrazione comunale conduce. Ma questo non è ancora un disegno strategico: manca una scelta di fondo, senza la quale i tentativi e le operazioni, che i singoli soggetti portano avanti, resteranno inevitabilmente frammentari; non si tradurranno in sistema». «Sono cose», continua Folin, «che molti vanno dicendo almeno da un paio di anni a questa parte». I presupposti perché Venezia possa essere una grande città culturale, e le linee strategiche che devono essere affermate, «sono ancora quelle di qualche anno fa. Ma non sono riuscite finora ad imporsi». Oltre a tutto, «quando parliamo di Venezia come luogo di produzione di cultura, non possiamo fermarci al centro storico: bisogna legare insieme anche Mestre e Marghera. Proprio in questa direzione, alcune indicazioni esistono; ma, anche qui, non ci si muove ancora con la dovuta decisione». Nel campo della cultura, «importanti» sono anche alcuni progetti delle due università: nuove strutture didattiche nel campo della formazione e delle arti. «Lo Iuav ha in animo di trasformarsi, in tempi rapidi, in un grande politecnico delle arti; un’università che formi negli stessi settori artistici di cui si occupa la Biennale: architettura, musica, danza, arti visive, performing art, e così via. I rapporti tra città e università sono stati e sono importanti e rilevanti; però è vero che, per quanto riguarda la produzione culturale vera e propria, l’università è ancora un luogo molto chiuso. È centrale, rispetto a quello di ricerca e produzione culturale, il momento formativo; ma nel campo delle arti, attraverso la formazione deve passare anche la sperimentazione: cioè deve aver luogo un processo di produzione artistica». Lo Iuav intende affrontare «in modo massiccio, centrale, non marginale né episodico», la questione della formazione in campo artistico, anche con una «suddivisione di ruoli» tra i due atenei: Ca’ Foscari, «schematicamente, assumerà un ruolo rilevante nella formazione del manager della produzione artistica; e architettura un ruolo primario nella creazione artistica, nella formazione di chi produce, di chi fabbrica, di chi costruisce». «Attiveremo prestissimo due corsi di studio nella formazione delle arti visive e del teatro»: insieme con l’Accademia di belle arti, la formazione nel campo delle arti visive; e per il teatro, penseremo «non all’attore, ma al teatrante in senso lato: scenografi, registi, direttori dei lavori e quant’altro». Strutture «costruite molto per atelier», in cui formazione e produzione artistica diventino un tutt’uno; perché l’università sia un «motore di presenza e di produzione artistica dentro la città». Poi, le strutture: un auditorium, «a disposizione della città per altre attività, che può anche essere usato, eventualmente, come possibile sala cinematografica». Si sta muovendo in senso analogo anche Ca’ Foscari, di cui vale la pena di narrare una singolarità della sede che storicamente occupa. Infatti, quella principale è curiosamente bipartita in due palazzi di grande significato per la città: Ca’ Foscari non è soltanto il luogo della machina, il punto d’arrivo e di partenza della celebre Regata storica, uno dei massimi appuntamenti in laguna; ma, costruito per il doge Francesco Foscari nel 1437, è stato il primo edificio veneziano in assoluto a raggiungere i quattro piani 3. E l’attigua Ca’ Giustinian possiede invece una storia davvero assai curiosa: nel 1172, un disastro navale ridusse la celebre casata a un solo esponente, e per di più monaco; in seguito a una petizione, il papa gli concesse una temporanea dispensa dai voti, per sposare la figlia del doge: ne nacquero ben venti figli, e, nel 1452, alcuni loro discendenti fecero costruire anche questo palazzo, in cui poi Wagner, nel 1858, avrebbe anche composto una parte del Tristano e Isotta. Ma torniamo a quanto dice il rettore, Maurizio Rispoli. Parla subito di «un nuovo prodotto formativo, che coniughi le nostre conoscenze e tradizioni nel campo dell’economia e dei beni culturali», quasi per dire a chi voglia «studiare tutto ciò che ha a che fare con le arti sotto i diversi punti di vista», di venire a Venezia. Ma questo è soltanto un primo passo per uno sviluppo imprescindibile; tuttavia, «il distretto di Prato o quello di Sassuolo sono assai più semplici, da creare e gestire, che a Venezia un distretto culturale; il quale contiene elementi di varietà e complessità assai più ampi». A Venezia, «gli attori presenti sono guidati spesso da logiche differenti; vi sono i pubblici e i privati, i profit e i no profit, e vanno tutti considerati assieme. Le scelte di guida quindi non possono, contrariamente a Prato, essere puramente economiche e di profitto. Per sviluppare tutte le potenzialità, che pure esistono, i tempi sono sempre più stretti. Potenzialità inespresse, investimenti troppo leggeri su di esse: occorre mettere in piedi una coalizione progettuale, non lasciata alle regole della libertà di mercato e di iniziativa, se no non riuscirà mai a nascere». E serve, soprattutto, «un centro, una guida; ma io non vedo chi ha la forza per esserlo. Potrebbe essere la stessa amministrazione comunale, in una visione aperta ai contributi pluralistici, e quindi di sapore non dirigistico, a cominciare stilando un progetto e un programma. Se no, ciascuno resterà autoconfinato nel proprio piccolo orticello». Anche le nuove proiezioni dell’Università di Ca’ Foscari «richiedono collaborazioni strette tra le diverse organizzazioni culturali; e quindi un ambiente e un contesto modificati rispetto ad oggi». Insomma, «occorre un “comitato di gestione”: se no, continueremo con iniziative scoordinate, e quindi scarsamente efficaci, come quelle attuali; iniziative che devono essere poste “dopo” in relazione tra di loro, mentre invece questo dovrebbe accadere “prima”». E, anche qui, infrastrutture: «Ca’ Foscari aprirà un teatro; qualche anno fa, ha aperto l’auditorium Santa Margherita, che in alcuni casi è stato centro di eventi e di aggregazione per la popolazione; a questo aggiungeremo un teatro a Santa Marta, 350 o 400 posti, con le attrezzature più moderne, un paio di miliardi d’investimento: potrà servire anche alle altre realtà veneziane, con cui riuscirà a raccordarsi». Perché la città che fu dei dogi ha oggi non pochi bisogni e lamenta non poche necessità. Alle quali fanno fronte parecchi soggetti diversi, dallo Stato, agli enti locali. Il Comune, in particolare destina cifre non immense, una ventina di miliardi all’anno, agli interi comparti della cultura e dello spettacolo, riuniti in un assessorato con la pubblica istruzione. E proprio Mara Rumiz, che lo dirige, è il nostro ultimo “testimone privilegiato”. Dei circa 760 miliardi che costituiscono l’intero bilancio comunale, l’assessore ne ha a disposizione circa una ventina: dunque, una quota che supera di poco il 2,5 per cento. E quasi la metà, vanno in partite correnti per il funzionamento dei servizi nel settore dei beni culturali e dei musei (le cui richieste sono, in tutto, di 12 miliardi), personale, sorveglianza, pulizia e assistenza al pubblico comprese. Come non osservare che, da solo, Palazzo Ducale ne incassa qualcuno di più? Quindi, la “partita”, per il Comune, è assolutamente in attivo; ma spettacolo e cultura non ricevono nemmeno quanto introitano. Comunque, sia, Mara Rumiz non è donna certo facile alle “geremiadi” e alle lamentazioni. Dice: «È vero che i Civici musei godono di una rendita da posizione, di cui però beneficia anche tutta Venezia. E questo fa sì che la si usi esclusivamente come vetrina, il che inibisce la possibilità d’insediamenti di produzione culturale. Però questa utilizzazione esclusivamente turistica si può anche trasformare in un alibi per non affrontare le questioni. Vero: uno dei vizi di Venezia è forse di bearsi eccessivamente di quel che è stata, senza guardare troppo al futuro; però, alcuni piccoli segnali vanno anche colti: perché ci possono aiutare a capire se una possibilità esiste ancora». Il problema, spiega, «non è assolutamente quello di costituire tavoli di coordinamento: semmai, è di creare occasioni di lavoro comuni». E di progetti, in cantiere, anzi qualcosa di più, «dei piccolissimi segnali», ce ne sono parecchi: «Il master europeo per i diritti civili, la Venice International University, i Magazzini frigoriferi, dove intende agire lo Iuav; anche il progetto del nuovo cimitero; tutto quello che si sta facendo alla Giudecca, e le novità della zona portuale». tabella 37. Il bilancio comunale 1999 per il settore dello spettacolo Iniziative e destinatari 1. Spettacoli e convegni c. storico e isole Manifestaz. Pasqua e Natale Festival letteratura Fondamenta Musica-Teatro primav. estate Servizi a dette attività e oneri 2. Trasferimenti ad altri soggetti Stagione da camera Il suono improvviso Spettacoli estivi Premio Venezia Teatrino della Murata Manif. estive Cavallino-Ca’ Savio Settembre mestrino 3. Iniziative cinematografiche Circuito cinema Videoteca Pasinetti Cinemacard Attività didattiche Rassegne estive e Esterno notte Progetto Cinema Giorgione 4. Mostre e convegni Mestre terraferma Esposizioni diverse Convegni e attività formative Opera totale Servizi a dette attività e oneri 5. Cultura e ricreaz. Mestre terraferma Teatro Toniolo Teatro del Parco Teatro Aurora Progetti speciali teatrali Acquisto apparecchiature informatiche Acquisto beni mobili Totale Spese gest. Spese invest. Entrate 240 000 80 000 400 000 270 000 90 600 10 000 200 000 25 000 60 000 5 000 20 000 50 000 80 000 1 200 000 165 000 20 000 10 000 15 000 700 000 750 000 80 000 500 000 100 000 60 000 53 400 460 000 1 376 000 189 000 50 000 31 600 5 300 600 30 000 30 000 60 000 1 990 000 Fonte: Comune di Venezia, Assessorato alla cultura e pubblica istruzione. Poi, alcune entità già lavorano assieme: «La Fenice, la Fondazione Cini, la Fondazione Malipiero, la stessa Biennale, e l’amministrazione comunale. È anche positivo che l’università si stia indirizzando all’idea del fare, del produrre in questa stessa direzione. Sono sintomi di una diversa attenzione e di una volontà di relazione. Occorre sollecitare l’attivazione anche di soggetti esterni a Venezia: perché è chiaro che non possiamo pensare esclusivamente d’investire sui residenti e sulle realtà presenti. Non è sufficiente affidare a una realtà, qualunque sia, il compito di costruire una strategia: perché il problema riguarda noi tutti, e le scelte non possono essere confidate a un’unica istituzione». Problemi antichi, e problemi nuovi: la mostra Aperto Vetro aveva, tra l’altro, il significato di fare uscire Venezia «dal proprio isolamento, poiché l’arte vetraria è nata qui, ma oggi i principali centri di sperimentazione li ha altrove, in Francia, in Australia, negli Stati Uniti, e Venezia richia così di perdere un altro treno, di lasciarsi scappare un’altra occasione. Ma spesso, le novità, da sole, non bastano: per una mostra, non abbiamo applicato l’Iva sulla bigliettazione; ma l’Intendenza di Finanza, poiché avevamo avuto una piccola sponsorizzazione, ha deciso che la manifestazione aveva carattere commerciale, e ci ha imposto di pagare l’imposta. Mi pare trecento milioni di Iva, a fronte di trenta ricevuti dallo sponsor. Insomma, oltre ad avere idee, bisogna anche sconfiggere la burocrazia, superare i mille vincoli che ancora esistono. I privati: per Venezia, il loro apporto è fondamentale; ma per ottenerlo, occorre prima che cambi radicalmente la normativa fiscale. Ed è soltanto un esempio». «La strada da percorrere? Oltre alle novità che sono in cantiere, o che sono state realizzate e che da sole comunque non bastano, quella di una grande unità d’intenti, di una grande, ma celere poiché il tempo a disposizione sta ormai scadendo, discussione e mobilitazione tra tutti i soggetti interessati. Non basta incaricare il Comune, o lo Stato, di stilare un programma: bisogna fare molto di più. E a Venezia, tutto è spesso difficile più che altrove. Per rendere disponibile alla Biennale parte dell’Arsenale, è stato necessario, come per lo spettacolo di Marco Paolini, prima una specie di incrocio di volontà, poi uno sforzo assai faticoso. Perché sull’area gravano ancora tutti i vincoli, le servitù, il demanio; forse, bisognerà, ma in fretta, arrivare a una concessione, alla sdemanializzazione, a liberare il luogo». E Mara Rumiz spiega che «parlo dei luoghi perché una prospettiva di produzione culturale e materiale, di centro della formazione e che quindi investe anche le università, ha bisogno di luoghi dove realizzarsi. Venezia, questi luoghi li possiede: ne ha ancora parecchi, in buona parte non utilizzati proprio perché gravati da un’immensità di vincoli. Forse, ogni discorso passa anche per questi luoghi: ne costituiscono un motore, una leva su cui operare». Le leve su cui agire, tuttavia, sono parecchie: «Dobbiamo recuperare anche un po’ d’orgoglio. Siamo bravissimi nel non saper valorizzare quanto possediamo; in questo, siamo abbastanza provinciali. Recentemente, la Regione ha presentato un progetto che coinvolge il cinema e le scuole; ma lo ha fatto con l’Università di Bologna. E quella veneziana? E l’Ufficio cinema del Comune, di cui tutti riconoscono il valore? E la Biennale stessa? Non sappiamo utilizzare le occasioni: questo è soltanto l’ennesimo, piccolo esempio». Anche se, poi, il Comune stesso, quando s’impegna in un’iniziativa che riguarda la letteratura, “Fondamenta” sotto l’egida di Daniele Del Giudice, pensa bene – lui che protesta – di organizzarla con un gruppo torinese. Comunque, Mara Rumiz conclude così: «A Marghera stanno nascendo il Parco scientifico e tecnologico e la Città della musica; io credo che la città abbia ancora in sé le forze per guardare alla possibilità di un nuovo sviluppo». Secondo quali direttrici, è appunto il tema del nostro ultimo capitolo, il prossimo. 1 La citazione è tratta, come le altre di questo capitolo, dai due dibattiti, già abbondantemente citati, sull’Industria culturale a Venezia e sullo Spettacolo a Venezia: evento, produzione e servizi, svoltisi il 31.10.1998 e il 26.3.1999 a Ca’ Mocenigo Gambara, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, e di Venezia 2000. Cultura e impresa, nel quadro degli Incontri per Venezia da loro promossi. Vi sono rispettivamente intervenuti Paolo Baratta, presidente della Biennale; Giorgio Brunetti, docente all’Università Bocconi di Milano; Sandro Cappelletto, critico musicale de «La Stampa»; Paolo Costa, ex ministro dei lavori pubblici; Andrea Emiliani, storico dell’arte e presidente dell’Accademia Clementina di Bologna; Marino Folin, rettore dello Iuav; Maurizio Rispoli, rettore di Ca’ Foscari; Giandomenico Romanelli, direttore dei Civici musei di Venezia; Mara Rumiz, assessore alla cultura e pubblica istruzione del Comune di Venezia; Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim; Paolo Viti, direttore della Fondazione Palazzo Grassi; Giuseppe De Rita, presidente del Cnel e di Venezia 2000. Cultura e impresa, e segretario generale del Censis; e, il 26 marzo 1999, Stefano Balassone, consigliere d’amministrazione della Rai-tv; Alberto Barbera, direttore della Sezione cinema della Biennale; Giorgio Mattiello, direttore del Parco scientifico e tecnologico; Piero Rosa Salva, assessore al turismo del Comune di Venezia; il regista Maurizio Scaparro; di nuovo entrambi i rettori, Sandro Cappelletto e Mara Rumiz; e, per Venezia 2000, Cesare De Michelis. Entrambi gli incontri sono stati introdotti, per la Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, da Roberto Tonini, e preceduti da altrettanti “documenti di lavoro” redatti dall’autore. 2 De Rita, Una città speciale, cit. 3 Kent, Venezia, cit. 9) CINQUE “SCENARI POSSIBILI”. DAL NULLA, FINO ALLA “CAPITALE DELL’IMMATERIALE” Sul futuro dell’ex Serenissima è forse possibile delineare più di uno scenario: perché tante, ed anzi infinite, sono le variabili sul tappeto (il tappeto dello sviluppo e delle occasioni), che molteplici, e diversissimi tra loro, possono essere i modi e le forme secondo i quali evolverà il presente. Logicamente, a tutti questi scenari possibili, ed a ciascuno di essi, sottostanno alcune premesse logiche ed irrinunciabili, dalle quali nessuno di loro può assolutamente prescindere: che Venezia è uno dei massimi “serbatoi” d’arte e di cultura al mondo, e come tale andrà sempre preservata, conservata, e, quando occorra, restaurata. Che Venezia, però, è anche (e forse in primis) una città, la quale deve vivere, tuttavia, in condizioni che siano meno difficili, precarie e penose di quelle odierne. Che pensare a futuri di tipo “materiale” per la capitale che fu dei dogi, è assolutamente impossibile: non soltanto per la stessa natura dei luoghi, ma anche per l’offesa all’intelligenza che questo indubbiamente costituirebbe. Per cui, Venezia non può che vivere dentro il proprio essere una “città speciale”; deve comunque trovare delle forme di sviluppo e delle speranze di futuro che siano compatibili con le proprie irripetibili caratteristiche, originali e irrinunciabili: non soltanto morfologiche, ma anche di fondo. Deve cercare di coniugare tutto ciò che le può recare dei legittimi vantaggi, nel quadro, comunque, di uno sviluppo che sia sostenibile non soltanto dalla sua atipicità, ma anche dall’evidente fragilità delle sue stesse strutture. Venezia è, nel mondo ed ancor oggi, assolutamente un mito: quasi che, nei secoli, le sue caratteristiche più essenziali non siano mai andate perdute, non siano rimaste neppure scalfite. «Mito di libertà ed equilibrio, mito politico di buongoverno e giustizia, mito architettonico di armonia, utopia reale, mito letterario di morte. Mito che, in tempi più recenti, prende forma di merce da vendere a stuoli di compratori sempre più vasti. Nessuna città ha posto altrettante energie a fare mito di se stessa, come questa» 1. E, dopo essere stata culla della grande pittura, anche «in questo secolo, ispira ancora interpretazioni che giungono ad espressioni astratte, spazialiste o concettuali: è un segno di una continuità attuale della sua attrattiva, e di un mito non destinato a perire» 2. Ma le glorie del passato, magari anche di un passato perfino recente, sicuramente non bastano più ad alimentarne la vita sociale e civile. Tra i tanti miti che si sono costruiti attorno a quello principale che Venezia è, c’è anche quello che, in laguna, tutto diventi impossibile. Tutto bloccato da incertezze continue, quando non da campanilismi di parrocchia (politica), e da veti incrociati. Perfino il salvataggio fisico della sua parte insulare dalle ricorrenti troppo alte maree, che secondo molti costituisce la base irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della città: del resto, sono trent’anni che se ne discute; e, intanto, qualcosa è stato realizzato; ma molto, e moltissimo, invece no. Le antinomie sono quelle, eterne di sempre: tra conservazione e sviluppo; tra il fare e la paralisi; tra il coraggio e – in fin dei conti – il timore o la paura. Addirittura un libro assai famoso, che abbiamo già citato, il primo “Rapporto” dell’Unesco 3 edito ormai la bellezza di trent’anni or sono, si poneva questa stessa, non dissimile tematica, scrivendo, in una delle pagine conclusive: «Ma dove comincia, propriamente, e dove finisce il sacrilegio? Sarà violato il carattere di Venezia, quando i vaporetti verranno sostituiti? È stata forse un’offesa minore quando sono stati introdotti? E, tuttavia, chi vorrebbe, oggi, proibirli?». Cioè: «Si devono conservare soltanto le novità… del passato?». Ecco: nel quadro di uno sviluppo compatibile, le soluzioni possono essere tantissime; alcune più giovevoli, ed altre meno, alla città; alcune più rispettose del “partito conservazionista”, altre invece più attente alle teorie degli innovatori; alcune più coraggiose, ed altre maggiormente ispirate alla cautela. «Il presente risuscita il passato facendone una continua metamorfosi», diceva André Malraux 4; «salvare Venezia è salvarla per la felicità di questo tempo [anche la sua: n.d.r.] e per il mondo del futuro: non è restituirla alla mitologia del passato» 5. Perché la città-monumento non è opera della natura, né «i misteri della laguna ne sono gli angeli custodi» 6. Tuttavia, quel testo si riferiva al nuovo che poteva comparire sulla scena esclusivamente, o soprattutto, a difesa dalle acque; e qui, invece, si tratta di difendere lo spirito e la vitalità di un agglomerato urbano; e le anime, ma anche qualcosa di assai più terreno, di coloro che vi abitano. È per loro, la città e gli abitanti, che vanno cercate delle soluzioni: perché continuare ad essere soltanto una quinta teatrale, forse non è proprio possibile. Ecco, quindi, il primo scenario, assolutamente minimalista, che discende appunto direttamente da questa condizione, abbastanza tipicamente veneziana, d’eterna paralisi. Ed è lo scenario della sconfitta: del non far nulla; del lasciare le cose esattamente come stanno, almeno finché sarà ancora possibile. Se così accadesse, il futuro di Venezia non ne guadagnerebbe davvero per niente. La città sarebbe sempre più, e progressivamente, invasa dal turismo; poiché tutte le previsioni 7 dicono che esso è destinato ad aumentare, in un futuro abbastanza prossimo, secondo ritmi davvero assai vertiginosi; che nuove masse popolari e nuovi ceti, ai quali finora il viaggiare e il tempo libero erano stati negati, ben presto approderanno a entrambi; e che, per quelli più evoluti, l’aumento del tempo libero, favorito dai passi da gigante che la tecnologia va compiendo e dalla progressiva riduzione del mondo e degli spazi del lavoro materiale, si tradurrà anche in sensibili incrementi di loisir, anche di viaggi & vacanze. Essendone Venezia una tra le mete principali, quel che ne discende è logico, ed anzi perfino scontato. L’incremento della pressione turistica esigerà misure e palliativi sempre più rilevanti, e – nel contempo – sempre più d’emergenza. Magari, anche, sempre più decisi nella fretta, con al collo l’acqua, altissima, dei tempi di riflessione che vengono meno, dell’urgenza del fare, del rattoppo immediato a qualche situazione diventata, anche all’improvviso, delicata e difficile. Siamo già approdati al circuito delle telecamere; alle calli a senso unico; alle passerelle pedonali, in caso d’acqua alta, distinte tra quelle per i turisti e quelle per i residenti: ma non basterà ancora, e non occorre certo essere pessimisti, né tanto meno apocalittici, per immaginarlo. Una sorta di biglietto d’accesso? Potrebbe essere: qualcuno, a suo tempo, ha già sollevato il dibattito: una volta, era forse l’allora sindaco di Venezia Mario Rigo; più recentemente è stato invece, per esempio, il ministro del tesoro Giuliano Amato. Ma è certo che, se non proprio ad imporre un autentico “numero chiuso” alle visite nel centro storico che fu dei dogi, a qualcosa del genere, in tempi che non sono poi nemmeno del tutto lontani e futuribili, sarà probabilmente necessario e forse indispensabile arrivare. Con tutto l’inevitabile corteo delle polemiche che ne seguiranno. E tutto lo scomodo che la città, frattanto, avrà già subito: poiché a passi del genere, tanto radicali e in buona misura impopolari (perfino difficili da gestire: mostrare la carta d’identità per dimostrare che si è veneziani, o il certificato d’iscrizione all’università per dimostrare che la si frequenta?), ci si rassegna, sempre e soltanto, quando macroscopici dispiaceri sono già stati sperimentati e, in una prima fase, perfino subiti. Quando, cioè, il vulnus, la ferita inferta, diventa davvero non più sopportabile. In questo caso, Venezia potrà invocare l’aiuto dello Stato; e il governo centrale, probabilmente, comprenderà che è il caso di fare la propria parte. Ma, almeno finora, Roma si limita a provvedere alle emergenze museal-monumentali, e soprattutto a conservarle e restaurarle: sul piano della loro valorizzazione e della loro messa a frutto, anche lo stesso governo centrale (che – pure – negli ultimi anni, con un’autentica inversione di rotta rispetto a quanto per decenni era accaduto, ha acquisito non poche benemerenze nel campo della tutela e valorizzazione del patrimonio storico ed artistico della penisola) sconta ancora, come del resto l’intero paese, una notevole arretratezza culturale di fondo. Inoltre, ha ben scarsa voce in capitolo, almeno nella gestione ordinaria dei centri storici: nel decidere, cioè, se non a base di vincoli e provvedimenti ostativi, in che modo essi vadano preservati, quale debba esserne l’andamento. Infine, in una situazione tanto immobile, sperare in un concreto, fattivo e massiccio intervento dei privati, costituirebbe soltanto una pia illusione: infatti, gli eventuali sponsor che cosa mai ricaverebbero in cambio di un aiuto, se non ritorni assolutamente inadeguati agli investimenti richiesti (almeno per la mole degli aiuti di cui Venezia necessita), perché, oltre a tutto, inquinati anche dal sovrabbondare turistico, con tutti i problemi, e anche le incertezze (perfino d’immagine) che esso implica? Per cui, la pressione turistica si riverserà, per primi, sui cittadini che ancora abitano nel centro storico, magari inducendoli ad infittire gli esodi; e, subito dopo, sull’amministrazione comunale: che si troverà, pressoché da sola, a doverla fronteggiare e contenere. Se questo sarà, come avrebbe detto Leonardo Sciascia, il contesto, a Venezia continueranno a vivere soltanto quanti potranno permettersi il lusso di farlo. Ovvero, i pochi che, coinvolti in qualche attività produttiva con la sede ancora nella città, o suscettibile di essere condotta a distanza, non avranno scelto le (maggiori) comodità della terraferma; gli inguaribili innamorati; chi saprà convivere con le ondate dei visitatori che, almeno per alcuni mesi all’anno, rendono la città perfino difficile da vivere e addirittura, banalmente, da transitare. Le case diverranno, sempre più, seconde case; la città, sempre più, un museo; nonché un autodromo pedonale per visitatori frettolosi, i cui paracarri saranno le opere d’arte e le emergenze culturali, da ammirare prima che l’autobus o il motoscafo ripartano. A guadagnare da questo stato di cose, sarà sicuramente soltanto l’hinterland dell’ex Serenissima: i cui frequentatori e il cui “mercato”, quantunque indotto dalla città dei dogi, per riflesso aumenteranno, recando ulteriori introiti e quindi un maggiore benessere. Ma non saranno certamente né Venezia, globalmente intesa, né, in particolare, il suo centro storico. E le iniziative tecnologiche che già si stanno realizzando, sempre se questo sarà il quadro d’insieme e di fondo, più che il terminal di una “città bloccata”, si faranno punto di riferimento per altri poli di produzione, sparsi soprattutto nel Nord Italia, con cui dialogheranno intensamente. Mentre le università, almeno nel campo della produzione culturale, continueranno ad essere abbastanza autoreferenziali; a vivere in una situazione piuttosto avulsa rispetto a quella della città, e del centro storico, che le ospita. Già ora, al di là del discorso formativo che riguarda gli studenti, il loro impatto nei confronti della città non deborda poi troppo dall’area che, fisicamente, i due atenei occupano; da quella che, a buon diritto, potrebbe essere chiamata la “città degli studi”. A questo proposito, per avvalorare questo assunto, basta osservare come la zona, che si estende nei quartieri di Dorsoduro, San Polo e Santa Croce, non raccolga nemmeno un terzo degli abitanti che ancora rimangono a vivere sulla porzione lagunare della città; ma ospiti invece i quattro decimi dei bar, delle pizzerie e delle paninoteche dell’intero centro storico; perfino i tre quarti delle librerie e il 34 per cento dei servizi di riproduzione 8. Il peso economico diretto rappresentato dai due atenei può essere sintetizzato nei 22,2 miliardi (lire ’92) erogati, per otto decimi a residenti nell’area metropolitana, da Ca’ Foscari come retribuzioni; negli oltre dieci (per sette decimi destinati all’area metropolitana) che lo Iuav spende per analoghe finalità; da una quindicina di miliardi per l’acquisto di beni durevoli e di consumo; dai quattro di spese per la ristorazione sostenute dagli studenti. Insomma, con quella del turismo, l’università è l’ultima industria ancora residente nel centro storico. Come annota Cesare De Michelis, «i due atenei sono l’unico soggetto, in città, che disponga di non pochi fondi pubblici». Tuttavia, né questo primo scenario, né probabilmente il secondo che delineeremo tra breve, varranno a risolvere un’altra questione, che lo stesso Cesare De Michelis sintetizza così 9: «La città deve produrre qualità. Cosa che non sempre le riesce, anzi le riesce abbastanza raramente. Per esempio, investe molte risorse pubbliche sull’università; che poi, però, produce negozi di fotocopie, spacci di pizze e via elencando. Fino al 1982, si è continuato a costruire delle scuole; ed ora sappiamo invece che nel 2008 tanti asili e tante scuole elementari dovranno invece chiudere, perché mancherà, ormai, chi li frequenti. Il turismo è la sola ricchezza di una città che non ha mai avuto alcuna vera politica globale. I pullman? Lasciarli arrivare soltanto fino a Fusina, e lì far loro pagare i costi dei servizi di cui dovranno, o vorranno godere. Ora, invece, tutto avviene soltanto nel nome e per conto del turismo; a Venezia non si organizzano congressi non soltanto perché manca un apposito centro; ma anche perché i congressisti, negli alberghi che fanno registrare per diversi mesi il tutto esaurito, disturbano gli altri clienti; e poi, con chi organizza quei meeting, assai raramente si riesce a spuntare, per l’occupazione delle camere, il prezzo pieno». Se il primo scenario ipotizzabile, votato all’immobilismo e quindi il peggiore di tutti, discenderebbe pressoché totalmente da quanto il turismo brado già porta, e ancor di più potrà portare alla città, ed è quindi un’ipotesi sicuramente da escludere a priori, ognuno degli altri richiede invece, comunque, qualche decisione e qualche capacità di mobilitazione. Tutti, cioè, sottintendono costruzioni e progetti più difficili e complessi; possono diventare realtà soltanto dopo essere stati, speriamo non troppo a lungo ma anche in modo quanto mai intenso, dibattuti in città: anzi, da tutta la città. Scartato questo scenario del “non fare”, questo “scenario impossibile”, subito sopra, ma appena di un gradino, ce n’è un altro: anch’esso abbastanza minimalista e contenuto nelle misure che impone e prevede, però certamente un po’ meno nichilista del precedente. È l’ipotesi che Venezia riesca pur sempre a fare sempre abbastanza (e troppo) poco per garantirsi un futuro migliore; ma che, almeno, tenti di regolamentare in qualche maniera almeno il traffico turistico più spicciolo, e tuttavia anche più ingente. Quello, cioè, che ne consuma le pietre (e, qualche anno fa, in grado di restaurare quella d’Istria di cui è composta buona parte dell’area lagunare, erano rimasti un numero di scalpellini che si potevano contare sulle dita d’una sola mano 10: chissà se, nel frattempo, hanno trasmesso ad altri, più giovani, il frutto della loro sapienza), ne sfrutta il territorio ed i servizi, senza spesso concedere quasi nulla (e comunque sempre assai poco) in cambio. Questo secondo scenario prevede che Venezia cerchi di incentivare e mettere a norma questo turismo, anche per poter così sfruttare maggiormente l’unico fattore di ricchezza che la città oggi ancora possiede, l’unica vera “industria” che le rimane: quella, appunto, dei visitatori. Questo ipotetico quadro prevede che l’amministrazione comunale adotti, e celermente, quanto meno alcune misure, sia pur secondarie, per trarre vantaggi (o non subirne troppo gli svantaggi) dai vacanzieri “mordi e fuggi”; e che riesca anche ad alleviare la pressione turistica nell’ormai inguaribilmente costipato “triangolo delle Bermude” (o, almeno in estate, dei bermuda?). Tutto ciò può essere realizzato secondo procedure diverse, e con sistemi e provvedimenti anche eterogenei. Essi spaziano da quelli di divieto (quando c’è troppa folla, bloccare alcuni punti sensibili della città), a quelli invece incentivanti (sistemi di promozione e prenotazione, attraverso i quali sia possibile evitare le code, ma anche calmierare i fenomeni di eccessiva frequentazione; altre facilitazioni riservate agli ospiti che saranno attesi, con le conseguenti penalizzazioni di chi invece giungerà in modo assolutamente autonomo e per nulla concordato). Si possono anche immaginare tassazioni alla fonte, cioè nei luoghi di partenza, che compensino almeno in parte l’utilizzazione dei servizi (primi tra tutti, quelli relativi ai rifiuti solidi urbani e alla pulizia della stessa area cittadina); oppure, una sorta di “diritto d’approdo” per chi raggiunga l’ex Serenissima, dalla terraferma, a bordo dei capienti motoscafi granturismo; più difficile, tuttavia, sarebbe immaginare, in questo caso, analoghe misure nei confronti di chi arrivi per via di terra: cioè di quelli che, ancor oggi, sono i più. Parallelamente, tuttavia il Comune dovrebbe anche occuparsi, almeno per quanto possibile, di non accrescere l’antropizzazione, o ancor meglio di sfoltirla, nell’area Marciana, di Rialto e della stessa Accademia, nonché, magari anche studiando formalità e punti d’arrivo diversificati, in quella dei due terminal, stradale e ferroviario, con la terraferma. Sia creando percorsi e itinerari alternativi, che tuttavia possiedano un minimo d’interesse, risultino cioè anche alquanto appetibili e non siano soltanto obbligati o forzosi (e quindi, valorizzando debitamente altre zone del centro storico); sia dislocando altrove alcune risorse ed alcune nuove strutture, per creare ulteriori poli di richiamo. In un simile contesto, lo Stato giocherebbe anch’egli il suo ruolo: sia nella ristrutturazione e nella messa in valore dei propri musei; sia, eventualmente, nella creazione di nuovi istituti che possano in qualche modo contribuire a dirottare altrove l’interesse e anche l’attenzione dei viaggiatori; sia anche nella possibilità di tentare, con l’ente locale, alcune forme di collaborazione sperimentale. Nel nome dell’arte e della cultura, di un turismo meno precario e di musei rinnovati nonché anche di nuovi istituti, più probabile, o meno aleatorio, sarebbe forse anche il reperimento di fondi privati; meno inascoltato l’appello agli sponsor e ai partner anche organizzativi. Tuttavia, la rendita della città resterebbe pur sempre affidata, confidata e legata a quella che, già attualmente, ne costituisce la maggiore risorsa e la principale fonte di proventi economici: cioè il turismo. Per carità: quello d’arte potrebbe risultarne perfino assai privilegiato, e già l’istituzione del biglietto unificato d’ingresso nei musei dello Stato e del Comune nell’area Marciana, che non ha alcun riscontro in altre zone della penisola, costituisce un primo passo indicativo; ma, probabilmente, alla fine, il turismo continuerebbe a farla, come oggi, da padrone. Il vantaggio per la città ed i cittadini sarebbe quello di un turismo, probabilmente, meno invasivo; di una sua maggiore programmabilità e di una sua minore concentrazione nelle aree più topiche; di una più evidente, quantunque certamente mai capillare, diffusione anche su parti del territorio che, oggi, del fenomeno non beneficiano quasi per nulla. Leggermente più progredito, se è lecito usare un simile termine, è il terzo scenario possibile: quello che vede Venezia recuperare un po’ del suo antico e dismesso ruolo di grande capitale della cultura. Questa ipotesi prevede il rafforzamento delle istituzioni che, nel centro storico, si occupano del patrimonio; il completamento dei restauri di alcune strutture, e nuove sedi per alcune altre; un investimento sensibile nel campo del marketing museale e culturale; la creazione (in parte, già in corso), di più celeri procedure d’accesso nei singoli musei ed alle singole mostre; la valorizzazione di quel bene culturale nel suo complesso che la città è, con il concorso dello Stato e del Comune, e l’intervento – in questo caso sicuramente più deciso e decisivo – anche degli sponsor e dei privati. Ne risulterebbero debitamente irrobustite le istituzioni preposte alla cultura e allo spettacolo; la Biennale sicuramente giocherebbe un ruolo fondamentale, con la possibilità di rendere permanenti, a tutto vantaggio dell’humus culturale della città, alcune delle sue attività, anche creando numerosi laboratori; e le stesse università vedrebbero esaltato il proprio ruolo, in un quadro di più stretta integrazione con la città stessa. Questo è lo “scenario della cultura”: che vede i massimi sforzi organizzativi proiettati proprio sulla funzione di fruizione, ma anche di produzione, nel campo delle arti, delle scene e di quant’altro. Del resto, Ca’ Foscari, e anche lo Iuav, si sono precocemente incamminati proprio su questo percorso: la prima, ha attivato un corso di diploma in Economia e gestione delle arti e delle attività culturali, e il secondo due corsi che riguardano il teatro e le arti visive, non già per formare dei manager o dei gestori, bensì degli operatori, con un indirizzo volto, specificamente, alla produzione di cultura. Il limite di questi buoni, ed anzi ottimi proponimenti, è costituito da alcune difficoltà strutturali, che le stesse università vivono. Il rettore di Ca’ Foscari spiegava, non troppo tempo fa 11, che, ad esempio, quello degli spazi è un grave ed annoso problema. «Circa vent’anni fa, chiedemmo la disponibilità di quello che un tempo era il distretto militare, ai Gesuiti; ci fu negata, e ora l’immobile è vuoto e inutilizzato, ma difficilmente potrebbe ormai rientrare nel contesto del nostro sviluppo e della nostra attività». Oltre agli spazi, un altro problema, gravissimo, è costituito dalla clamorosa carenza di alloggi; una recente indagine 12 parlava di «165 posti letto in case dello studente, 98 dei quali nel centro storico», e di altri 251 posti letto, di cui 58 nel centro storico, in esercizi alberghieri convenzionati: «Ma sono in un buono stato di avanzamento i lavori per costruire residenze studentesche a Murano e alla Giudecca», continua Rispoli, «mentre si stanno quasi per concludere quelli per la casa dello studente a San Tomà; almeno il dieci o il quindici per cento di quanti frequentano Ca’ Foscari, che ha sfornato 2.024 laureati e 131 diplomati nel 1997, non sono pendolari e, se soltanto potessero, resterebbero di buon grado più a lungo in città; ma non è certo facile cavarsela con il mercato degli affitti stagionali. Comunque, questi giovani hanno alquanto mutato il volto stesso del centro storico: anni fa, la zona attorno a campo Santa Margherita era quasi un deserto; ora, invece, è in assoluto tra le più vitali e vivaci». Ma è vero: «La città offre ben poco, e non aiuta certo i giovani a volerci vivere». Perché qualcuno voglia “volerci vivere”, la cultura, da sola, forse non basta. Serve anche dell’altro; per esempio, la possibilità di produrre. E questo è il quarto scenario che vogliamo considerare. Ma che è ancora più difficile da costruire, proprio per le remore che da tempo attanagliano la città. Il «modello è entrato in crisi a partire dalla fine degli anni sessanta, per molti motivi: per il superamento delle tipologie e dei modi produttivi di Porto Marghera, per l’uscita dal mercato dei modelli turistici del Lido, per l’evidente inadeguatezza della struttura urbana della terraferma, per la trasformazione profonda dei modi d’uso e di vita della città lagunare, e altri ancora. La reazione predominante della città è stata quella di combattere la crisi tentando di conservare l’esistente, o proponendo iniziative estemporanee, volte più a soddisfare interessi di gruppo che interessi generali o, peggio ancora, immaginando ritorni a inesistenti equilibri preindustriali» 13. Comunque sia, dubbi e riserve a parte, la quarta ipotesi tiene conto del non poco che in città si sta realizzando, a cominciare dal Polo scientifico e tecnologico di Marghera. Implica una città che allarghi l’orizzonte del proprio sguardo dal turismo alla cultura, e dalla cultura anche più oltre. Del resto, che a Venezia tutto sia immobile e immutabile, nonché destinato a rimanere tale, non sempre è vero. Per esempio, nel campo dell’architettura non pochi sono i lavori, e le realizzazioni in corso. Tutta una serie di progetti unificati «dall’essere possibilità reali; molti, anzi, già in fase di realizzazione, ed altri già appaltati» 14, con il recupero di aree dismesse (quelle ex portuali), o la riqualificazione di altre andate da tempo, come direbbero appunto a Venezia in malora (la Scuola grande della Misericordia che, pochi forse lo ricordano, fu sfruttata come palazzetto dello sport; la ristrutturazione di Ca’ Pesaro; il recupero della Punta della Dogana; l’area ex Junghans alla Giudecca). Questo quarto scenario passa per il tentativo di utilizzare al meglio tante nuove risorse; da quelle attualmente sprecate, a quelle le cui possibili mura si stanno costruendo. Tra quelle inutilizzate, una almeno è abbastanza clamorosa: la sede Rai di Venezia, in pieno centro storico. L’impresa radiotelevisiva pubblica possiede una location di tutto rispetto, di grande visibilità e di sicuro prestigio: il seicentesco Palazzo Labia sul Canal Grande, saloni affrescati dal miglior Giovanni Battista Tiepolo, nella sua piena maturità d’artista, la Vita di Cleopatra per esempio, e purtroppo visitabili soltanto a richiesta (fissare un appuntamento al numero 041.781.111). Sui Labia, che diedero il nome al palazzo, circolano non pochi aneddoti; erano incredibilmente ricchi, e, per esempio, dalle loro finestre lanciavano in canale perfino i piatti d’oro, al grido di «L’abbia o non l’abbia, sarò sempre Labia» 15. Ma il palazzo, certamente di grande prestigio, è un’ubicazione ormai anacronistica: poco utile alle finalità di una moderna impresa multimediale. Tanto che perfino i due studi radiofonici, assolutamente completi, che vi sono ubicati sono, purtroppo, da tempo del tutto inattivi e inutilizzati. E tanto che un centro culturale intitolato proprio a Palazzo Labia (non potrebbe ospitare, per dirne una, una qualche stagione di musica da camera, con esecuzioni affidate ai tanti complessi che si esibiscono a Venezia e sono ormai specializzati in musica barocca?) promette di essere presto rivitalizzato, e la Rai ha deciso di attribuirne la responsabilità a Riccardo Calimani, grande studioso dell’ebraismo veneziano (e non solo), per pochi giorni (poi si è dimesso) nominato anche consigliere della Biennale. «Nei nostri piani a breve e medio termine», dice Stefano Balassone, consigliere d’amministrazione della Rai-tv 16, «c’è l’intenzione di valorizzare il palazzo per quello che è; cioè un potenziale luogo di iniziativa e significato culturali; tanto che, dopo che qualche anno fa una parte era uscita dalla nostra proprietà, ci siamo affrettati a ricomperarcelo». Ma oltre al troppo da recuperare, c’è anche il molto di nuovo che sta nascendo. In particolare, a Marghera, il Parco scientifico e tecnologico, sostenuto anche dai fondi dell’Unione europea, in cui molti ripongono non poche speranze di sviluppo. Direttore ne è Giorgio Mattiello, 52 anni. Spiega che in questa zona stanno sorgendo una Città della musica, e una dell’immagine, entrambe gestite in modi abbastanza innovativi. «Della Città dell’immagine», dice 17, «si stanno occupando in molti: ha riscosso notevole interesse. Pensiamo a un coté di stampo maggiormente commerciale, e vi sarà una multisala gestita dalla medesima impresa, quella dei Furlan, che si occupa del circuito cinematografico di Mestre; poi, prevediamo delle attività di tecnologia dell’immagine, è già coinvolto un gruppo belga e se ne occupano anche dei developer americani. La Rai? Forse potrebbe avere un interesse a stabilirsi qui». E certo, potranno averlo anche un paio di poco conosciute aziende veneziane che, come spiega Roberto Ellero, «partite dall’attività di location per chi intendeva girare film nella città, sono diventate quasi un punto di riferimento per ogni impresa americana che si occupi di cinema in Italia, fino ad organizzare tutto quanto serve ad un produttore per girare nel nostro paese, dai discorsi fiscali a quelli delle paghe, e una di loro, per l’ultimo film con Kim Basinger, Sognando l’Africa, ha organizzato l’intera produzione in Italia». Queste due imprese «hanno poi collaborato anche con noi, per i corsi specifici che organizziamo, destinati ai giovani: per esempio, grazie a loro abbiamo potuto mostrare ai ragazzi come si illumina un set, sia in esterno che in interno». «Gli americani», spiega qualcuno, «cercano chi possa garantire le strutture necessarie alla post-produzione; e tra le proposte sul tappeto, c’è anche la costituzione di un “teleporto”, cioè un grosso campo di antenne per le trasmissioni satellitari». La Città della musica, invece, si fonderà su un primo nucleo strategico e sperimentale di attività: laboratori artistici, sale di registrazione audio e di montaggio video, punti vendita e dimostrativi; «immaginiamo anche un auditorium da 2.500 posti e magari un palamusica da diecimila, che serva anche per congressi e manifestazioni multimediali, nonché un’arena per spettacoli all’aperto», dicono in Comune; e lo sviluppo finale, potrebbe anche essere la nascita di un’università della musica e dello spettacolo. Ancora Mattiello immagina, tra le attività della Città della musica, anche un centro culturale e un archivio delle note veneziane, «che spazi da Vivaldi ai Pitura Freska», nonché «un centro sperimentale per nuovi gruppi musicali». Il vantaggio innegabile del Parco scientifico e tecnologico, progettato a partire dal 1993, è che già le sue strutture si cominciano a vedere; insomma, che si sta costruendo e sta nascendo per davvero. Qualcuno l’ha perfino chiamato «astronave» 18, altri «la fabbrica delle nuove idee» 19, o, scomodando anche il gergo anglosassone, l’ha addirittura definito Venetia gate, il cancello della città: certo è che buona parte del futuro di Venezia si giocherà in terraferma, a Marghera, in queste aree abbandonate dalle imprese ex Montecatini, ex Montedison, ex Enichem (e non solo), che – tra l’altro – vi sviluppavano anche lavorazioni non certo le più consone alle tipicità veneziane. Nel 1996, è stato recuperato il primo edificio, l’ex Cral della Agrimont, e vi si sono insediate le prime imprese; all’inizio 1999, sono stati resi disponibili altri 13.500 metri quadrati, subito occupati da aziende che si dedicano ad attività rare, a elevato contenuto tecnologico; e subito si è cominciato a pensare al terzo lotto, altri novemila metri quadrati, mentre, se sarà utile, si potrà arrivare perfino a una quarta e ad una quinta tranche del progetto. Quindi, oltre ad essere un’importante tappa di una ambiziosa riconversione produttiva e di terreni, l’iniziativa costituisce un’operazione imprenditoriale ad alto valore aggiunto, in grado di favorire l’insediamento delle più moderne tecnologie. Il ruolo di “capitale dell’immateriale” – titolo possibile per il quinto ed ultimo scenario, certamente di tutti il più ambizioso – che Venezia e perfino il suo centro storico potranno avere, passa anche attraverso i servizi, indispensabili, che verranno installati in questa sorta di terminal tecnologico di terraferma. Tra l’altro, servirà anche a risolvere antichissime e pur assai gravi carenze. Sempre nei panni del “testimone del tempo”, Cesare De Michelis ricorda che, quando, primi anni sessanta, Gianfranco De Bosio girava a Venezia, Il terrorista, film con Philippe Leroy, Gian Maria Volontè, Giulio Bosetti ed Ainouk Aimée, «bisognava mandare a sviluppare le pellicole a Milano, da dove tornavano dopo 48 ore. Se qualcosa del “girato” non andava bene, era perfino impossibile saperlo in tempo non soltanto reale, ma almeno accettabile». Da allora, la situazione non è cambiata: chi vuole realizzare un film a Venezia, o usa le moderne telecamere, oppure, se preferisce la classica pellicola, non ha nemmeno modo di poterla sviluppare. Ebbene, qualcosa di quel molto che a Venezia manca nel settore della produzione cinematografica, e una parte della stessa attività della Rai (per esempio, un centro da dove possano muovere le troupes che devono “coprire” le Tre Venezie in modo assolutamente tempestivo, e che costituisca in un certo senso anche la loro base operativa), potrebbero agevolmente trovare posto nel “Polo del futuro”. Anzi, la creazione in loco di una struttura della Rai-tv, anche con attività ad alto contenuto tecnologico «a noi interessa», dice ancora Stefano Balassone, anche perché «la stessa televisione a Venezia, ma più in generale nel Veneto, ha un problema di esilità, di crisi d’insufficienza». E continua: «È giusto collocare il problema della crisi di Venezia dentro la crisi dello spettacolo», e quindi è anche per di qua che passa una ritrovata vocazione imprenditoriale. «Le industrie creative richiedono consuetudine, rapporto, vicinanza, vita: Hollywood, per esempio, è una struttura creativa di Los Angeles; e New York stessa può essere intesa come una grande macchina creativa. Ma le macchine creative e le città italiane stanno invece tutte ferme. Bisogna rimetterle in moto, a tutti i costi», e Venezia potrebbe, quindi, costituire un’occasione che non si arresta alle soglie della Regione, non si ferma al Veneto. Allora, la differenza tra gli ultimi due scenari sta tutta qui: nella maggiore, o minore capacità di integrare tutte queste strutture. Soltanto “facendo sistema”, producendo qualità e creando circuiti, non soltanto museali ma anche produttivi e industriali, la città può puntare a un ruolo ambizioso, quello di “capitale dell’immateriale”. Raccordando tutto l’esistente; sforzandosi per farne esistere ancora di più; volando con la fantasia a quali prodotti immateriali possono trovare in laguna la propria fucina, dalla multimedialità fino all’ultima frontiera; e governando tutto questo assieme, in un lucido quadro di visione ambiziosa e strategica, secondo un autentico processo di modernizzazione. C’è davvero bisogno di «progettisti imprenditori», per riprendere il sottotitolo di un’interessante indagine-dibattito 20; ma c’è parimenti bisogno di chi raccordi il tutto in unità d’intenti, secondo un progetto globale di sviluppo della città. Senza mai dimenticare che, è vero, Venezia è grande, e il Comune esteso sulla terraferma più (almeno per il numero degli abitanti) che non nell’area lagunare; ma, come dice il musicologo Sandro Cappelletto 21, «Wagner non andava mica a Marghera: veniva qua». Forse, un simile progetto, che è assolutamente ambizioso non foss’altro perché la città non è mai riuscita a costruirne di altrettanto impegnativi, necessita perfino di nuovi collegamenti; e i «trasporti rapidi per via d’acqua» che il conte Vittorio Cini immaginava ormai quasi quarant’anni fa 22, probabilmente non bastano nemmeno più. Magari esorcizzando il rischio di “invasioni” che tutte queste strutture sempre comportano (in certe domeniche, a Roma viene sbarrata la fermata di Piazza di Spagna), il sindaco Massimo Cacciari ventila l’idea di «una metropolitana subacquea, da Tessera all’Arsenale, passando per Murano»; anche perché, spiega, la popolazione nel centro storico diminuisce, ma assai più per il problema dell’automobile, senza la quale nessuno vive, che non per quello della casa 23. E il presidente della Biennale, Paolo Baratta, inquadra così la problematica di quanto è ormai indispensabile fare: «Coordinare e governare le diverse attività, perché dall’insieme dei diversi soggetti, dall’insieme delle azioni e dal loro coordinamento possa sortire uno sforzo appunto coordinato, un effetto moltiplicato e quindi i buoni risultati dello sforzo congiunto» 24. L’“immateriale”: dove, se non in una cornice come quella veneziana? L’arte; la cultura; le tradizioni; le orme di un grande passato, ancora palpabili e misurabili, quasi ripercorribili; il nuovo delle tecnologie più avanzate, di comunicazione e di conoscenza: «Nella società della conoscenza e della globalizzazione, ciò che senz’altro non si può delocalizzare è il patrimonio culturale, costituito sia dai monumenti, sia dal talento accumulato nel corso dei secoli; società della conoscenza non significa soltanto un bagaglio di informazione: è anche percezione, memoria, immaginazione, critica. Nell’era della rivoluzione digitale, la prosperità delle nazioni e dei luoghi dipenderà dalla loro capacità di “navigare” nella conoscenza, e di produrre contenuti da immettere sulle autostrade dell’informazione», dice Giovanna Melandri 25, ministro dei beni e delle attività culturali. Dall’arte, al digitale; dai monumenti alle nuove frontiere della globalizzazione; alla “multimedialità”; a quanto, già oggi, fa molto domani: Venezia, che può esserne davvero capace ed è anche la più titolata a cimentarsi, riuscirà, una volta tanto, a volerlo davvero? 1 Sforza, Grandi teatri italiani, cit. 2 Alessandro Bettagno, La mostra «Venezia da Stato a mito», in Venezia da Stato a mito, catalogo dell’omonima mostra (Fondazione Giorgio Cini, Istituto di Storia dell’arte, 30 agosto-30 novembre 1997), Venezia, Marsilio, 1997 (Cataloghi di mostre). 3 Unesco, Rapporto, cit. 4 Ivi. 5 Ivi. 6 Ivi. 7 Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club Italiano, colloquio con l’autore, marzo 1999. 8 Università e città, incontro di lavoro promosso da Venezia 2000. Cultura e impresa e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, Ca’ Mocenigo Gambara, 16 aprile 1994; materiali preparatori a cura di Giorgio Lombardi, Francesco Sbetti e Maurizio Sorcioni. 9 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 10 Giuseppe Proietti, in un colloquio con l’autore, marzo 1995. 11 Colloquio con l’autore, marzo 1999. 12 Università e città, cit. 13 Roberto D’Agostino, I nuovi scenari urbani, in Comune di Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Venezia. La nuova architettura, a cura di Marco De Michelis, catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 26 marzo-13 giugno 1999), Ginevra-Milano, Skira, 1999. 14 Massimo Cacciari, Introduzione, in La nuova architettura, cit. 15 Kent, Venezia, cit. 16 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit. 17 Colloquio con l’autore, febbraio 1999. 18 «La Nuova Venezia», 20.1.1999. 19 «Il Gazzettino», 20.2.1999. 20 Privatizzare Venezia. Il progettista imprenditore, a cura di Aldo Bonomi, Venezia, Marsilio, 1995 (Ricerche). 21 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit. 22 Si veda capitolo 1, nota 17. 23 «L’Unità», 13.1.1990, Per Venezia ora sogno il metrò subacqueo, intervista di Michele Sartori. 24 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit. 25 Colloquio con l’autore, gennaio 2000. 10) QUASI UNA POSTFAZIONE A conclusione di questo lavoro, che vorrebbe soltanto mettere una notevole quantità di dati – finora, forse, mai esposti, né osservati in modo tanto unitario – a disposizione di chi ha il compito di programmare e decidere, ma anche dei veneziani tutti e degli studiosi che devono sapere e comprendere, è giusto che io ne spieghi la genesi. E per farlo, devo innanzi tutto dare merito alla Associazione Venezia 2000. Cultura e Impresa (e per essa, a Giuseppe De Rita e Lucia Bartoli Valeri), che, insieme con la Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia (e, per essa, Roberto Tonini), nonché con l’apporto irrinunciabile di Cesare De Michelis (ha il grande pregio di non essere banale, e non è stato soltanto un normale editore: anzi, in primis un fondamentale interlocutore), mi hanno permesso d’occuparmi, nuovamente e con qualche spessore, di una città che mi è sempre stata assai cara, e dove, dal luglio 1969 al marzo 1970, ho anche lavorato. Mi piace ricordarlo: al «Gazzettino», con Alberto Cavallari come direttore. Così sono nate due piccole indagini, premesse per altrettanti dibattiti svoltisi a Venezia, nell’autunno 1998 e nella primavera ’99; e, da esse, questo “sguardo d’insieme”. I nomi delle fonti, che spesso ho tediato oltre ogni giusto limite (ma di solito, lo riconosco, hanno mostrato assai più della pazienza che mi sarei atteso), sono tutti puntualmente evocati, nel testo o in nota. E chi mi ha sapientemente aiutato, correggendo e completando (di tutti gli errori rimasti, mi assumo l’esclusiva, e fin d’ora ignominiosa, paternità), lo sa; come sa quello che io provo. Roma, gennaio 2000