Keynes

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Capitolo 3
MONETA COME MEZZO DI PAGAMENTO E
MONETA COME RISERVA DI VALORE: DUE KEYNES?*
1. Il Trattato sulla moneta: visione, metodo, circuito
Nel Trattato sulla moneta (1930) Keynes propone una visione del
funzionamento del processo economico radicalmente diversa da quella neoclassica. Il
punto di partenza di Keynes è la critica alla teoria walrasiana accusata di avere edificato
un modello di economia cooperativa e di baratto. L’intento è descrivere, in
contrapposizione al modello walrasiano, la teoria di una economia monetaria fondata sul
lavoro salariato, ciò che Robertson aveva definito il “sistema del salario e della
moneta”. Secondo la visione keynesiana, infatti, le economie capitalistiche sono
caratterizzate non dalla cooperazione bensì dal conflitto di interessi tra gli agenti
macroeconomici; sono economie in cui la moneta e le banche svolgono un ruolo
imprescindibile.
Una visione preanalitica (per usare la celebre espressione schumpeteriana),
dunque, radicalmente diversa da quella neoclassica cui segue, anche, un diverso metodo
di analisi. Keynes, infatti, respinge l’individualismo metodologico, tipico della teoria
neoclassica, facendo proprio un approccio classico-ottocentesco di tipo storico-sociale:
l’analisi del funzionamento della economia di mercato deve svolgersi a partire dallo
studio del comportamento di macroattori storicamente e socialmente dati. Dunque, il
funzionamento delle economie di mercato risulta comprensibile a partire dalla
individuazione degli agenti macroeconomici significativi: le banche, le imprese, i
lavoratori.
Data la struttura degli operatori, il funzionamento del sistema economico non
viene descritto attraverso il meccanismo contrattazione-produzione-scambio, bensì
attraverso un processo sequenziale. Nel Trattato l’attenzione non si concentra sugli
equilibri finali quanto sul funzionamento del sistema, sulle fasi in cui si svolge il
processo economico capitalistico. Secondo Keynes, il processo sequenziale si presenta
come un processo circolare, come un circuito monetario. Per fornire una prima idea
della teoria sequenziale keynesiana, supponiamo di volere prendere in esame il
funzionamento del sistema dal suo avvio. In una prima fase, le imprese prendono le
decisioni di produzione, stabiliscono cioé cosa produrre e quanto produrre sulla base
delle loro aspettative, cioè essenzialmente delle previsioni circa la domanda che si
manifesterà nel mercato. Successivamente, le imprese devono ottenere moneta
necessaria ad acquistare i servizi lavorativi; a tal proposito, le imprese si rivolgono alle
banche per ottenere finanziamenti; supponendo che tali finanziamenti siano erogati, in
tutto o in parte, abbiamo un flusso monetario dalle banche alle imprese. A questo punto,
le imprese utilizzano il finanziamento per acquistare servizi lavorativi, dunque per
pagare i salari, trasmettendo la moneta ottenuta dalle banche ai lavoratori. Una volta
*
[Appunti presentati in prima stesura]
46
acquistati i servizi lavorativi, avviene la produzione, secondo le decisioni di qualità e
quantità della produzione prese dagli imprenditori. Una volta terminato il processo
produttivo, supponendo che vengano prodotti solo beni di consumo e supponendo che i
lavoratori abbiano una propensione al consumo pari all’unità, la spesa dei lavoratori fa
riaffluire la moneta alle imprese; queste, a loro volta, sono ora in grado di estinguere il
debito nei confronti delle banche. In questo modo si chiude il circuito monetario.
L’idea centrale del Trattato di Keynes è dunque costituita dal fatto che il
processo economico capitalistico si presenta come un circuito monetario, che si apre
con la concessione di crediti da parte delle banche, nei confronti delle imprese, e si
conclude con il rimborso della moneta dalle imprese alle banche. Il funzionamento
sistema economico capitalistico viene quidi descritto mediante i flussi monetari in un
processo circolare che si ripete all’infinito.
2. La moneta come passività bancaria
Nel quadro della sua visione del processo economico capitalistico come circuito
monetario, Keynes presenta un’analisi della natura della moneta alternativa a quella
neoclassica1.
Nel ragionamento di Keynes la teoria della moneta-merce non può essere
accolta per almeno due ragioni. In primo luogo, accettando l’idea della moneta come
una merce particolare, l’economia capitalistica verrebbe ad essere descritta come una
economia di baratto; infatti, ogni compravendita sarebbe pur sempre uno scambio di
merce contro merce. Più correttamente, in questo caso si parlerebbe di baratto indiretto,
dal momento che la merce-moneta, ottenuta contro merci o servizi ceduti a un altro
agente, non rappresenta per gli agenti un fine ultimo in sé ma unicamente uno strumento
per acquistare altre merci o servizi. Lo scopo di Keynes è definire il capitalismo come
economia monetaria; ciò è evidentemente incompatibile con un sistema dei pagamenti
ancorato al baratto. In secondo luogo, riflettendo sullo schema di circuito cui
precedentemente si è fatto cenno, risulta evidente che la disponibilità monetaria
rappresenta per gli imprenditori una condizione per la produzione: senza moneta non
possono essere acquistati i servizi lavorativi e, dunque, non può essere avviato il
processo produttivo. Pertanto, se la moneta è una condizione per la produzione delle
merci non può essa stessa essere una merce. Se si accettasse l’idea della natura
merceologica della moneta si presupporrebbe l’esistenza di una merce senza poterne
spiegare l’origine.
Per queste ragioni, Keynes fa propria una teoria della moneta segno, secondo
cui la moneta è un mero simbolo, un certificato, accettato come mezzo di pagamento
dagli operatori benché privo di valore intrinseco.
L’idea che la moneta abbia una natura puramente simbolica è stata nel passato
ed è ancora oggi proposta secondo due approcci distinti2: un approccio evoluzionista e
un approccio istituzionalista.
L’approccio evoluzionista non rigetta completamente il vecchio argomento
metallista secondo il quale la moneta è una merce particolare spontaneamente
selezionata dal mercato. In fatti, secondo questo modo di vedere, l’approccio metallista
Nel seguito viene ripresa l’interpretazione proposta a più riprese da Augusto Graziani (...). Cfr. anche
Realfonzo (1998).
2
Cfr. Realfonzo (2000).
1
47
spiega convincentemente l’origine della moneta e la sua natura nei primi stadi dello
sviluppo economico, così come la prima attività delle banche (in termini di semplice
intermediazione finanziaria). Ma la tesi metallista viene considerata valida solo per quei
primi stadi. Con lo sviluppo della economia, la moneta mutò natura divenendo un puro
certificato e le banche cominciarono a svolgere la funzione di creatrici di moneta3.
Al contrario, l’approccio istituzionalista rigetta completamente l’analisi della
tradizione mengeriana, sostenendo che la moneta non ha mai posseduto una natura
merceologica (e anche che le banche non sono mai stati meri intermediari finanziari). La
moneta viene definita come una istituzione sociale che può avere (come si è
storicamente verificato) un veicolo merceologico (un supporto materiale), sebbene
questo non abbia nulla a che fare con la natura stessa della moneta. Gli studiosi
appartenenti a questo approccio hanno di volta in volta descritto la moneta come il
prodotto di una imposizione statale o di una convenzione sociale4. A queste due correnti
interpretative interne all’approccio istituzionalista ci si riferisce a volte rispettivamente
con i termini “cartalismo” e “nominalismo”.
E’ certo che Keynes apprezzò molto il contributo di Knapp e più volte descrisse
la moneta come un certificato creato dall’autorità dello Stato (approccio cartalista). Per
comprendere l’argomentazione keynesiana sviluppiamo alcune riflessioni in coerenza
con la visione del circuito monetario. Vedremo che la conclusione cui Keynes giunge è
che la moneta altro non è che una passività bancaria, un certificato bancario o (il che è
lo stesso) una registrazione nei registri contabili della banca. Esaminiamo le possibilità
alternative.
In prima istanza, si potrebbe sostenere che la moneta sia un certificato emesso
dal singolo agente ogni qual volta occorra effettuare un pagamento. Tale certificato
potrebbe essere o meno un mezzo di pagamento definitivo.
Per il momento supponiamo che non sia un mezzo di pagamento definitivo ma,
sostanzialmente, una promessa di pagamento futuro, una cambiale. Stiamo, quindi,
supponendo una economia in cui il mezzo di pagamento è una cambiale, un pagherò.
Ora, immaginando che, nel corso del periodo in considerazione, tutti gli agenti
rispettino il vincolo di bilancio emettendo cambiali in misura pari al loro reddito e
spendano tutte le cambiali, al termine del periodo si realizzerà nel mercato una grande
compensazione (clearing) di debiti e crediti. In questo caso, tutti gli agenti saranno
liberati da qualsiasi obbligo e i pagamenti risulteranno automaticamente perfezionati.
Dunque, sotto queste ipotesi, il pagherò potrebbe funzionare come intermediario degli
scambi. Tuttavia, l’ipotesi della moneta come cambiale non può essere accolta per due
motivi. In primo luogo, tale idea implica la circolazione delle cambiali come mezzo di
pagamento e, dunque, l’accettazione delle stesse da parte degli agenti anche nel caso in
cui gli emittenti non siano noti; ciò significa che occorre assumere perfetta fiducia tra
gli agenti. Questa ipotesi non sembra realistica per una economia monetaria nella quale
la fiducia tra gli agenti non è perfetta e sono presenti costi per la raccolta e l’analisi
delle informazioni. In secondo luogo, nel momento in cui la moneta viene definita come
cambiale emessa dai singoli soggetti, a ben vedere non si sta considerando un’economia
monetaria. Nell’economia monetaria, infatti, il pagamento in moneta libera
3
L’approccio evoluzionista è stato sostenuto da autori come de Viti de Marco (1934 [1898]) e Hahn
(1920), ed stato recentemente ripreso da Chick (1986).
4
Gli esempi principali con riferimento alla letteratura del Novecento sono rispettivamente Knapp (1924
[1905]) e Schumpeter (1970); esempi nella letteratura più recente sono rispettivamente ParguezSeccareccia (2000) e Heinsohn-Steiger (1983).
48
completamente il pagante da obblighi verso il pagato, anche al di fuori del caso di
equilibrio macroeconomico. In altri termini, la moneta deve essere mezzo di pagamento
definitivo. Dunque l’economia appena descritta non è altro che un’economia creditizia.
Consideriamo allora la possibilità che il certificato emesso dal singolo agente sia
un mezzo di pagamento definitivo. Ciò significa che ogni agente potrebbe acquistare
merci o servizi semplicemente emettendo un certificato privo di qualsiasi valore
intrinseco. Anche questa idea non può essere presa in considerazione. Infatti, in questo
caso, staremmo supponendo che gli agenti dispongono del cosiddetto “potere di
signoraggio”, possono cioé creare potere di acquisto a piacimento senza vincolo alcuno.
Nella realtà, ovviamente, nessun operatore accetterebbe in pagamento una moneta di
questo tipo e il sistema dei pagamenti non potrebbe funzionare. A meno di non
considerare che l’emissione di tale moneta si accompagni a un potere coercitorio. In
ogni caso, anche assumendo tale ipotesi, non ha senso pensare che un simile potere sia
diffuso nella collettività; nella realtà l’unico agente che gode di un potere di signoraggio
è lo Stato, nel quale si concentra il monopolio della forza. La moneta statale può,
dunque, essere considerata come un certificato emesso senza costi dallo Stato e fatto
circolare per volontà di legge, grazie al potere coercitivo dello Stato stesso. In
conclusione, questo tipo di tesi può spiegare la circolazione della moneta legale ma non
permette di comprendere, da un lato, come sia concretamente creata e immessa
nell’economia la moneta legale e, dall’altro, la circolazione di una moneta creata dal
mercato stesso.
Supponiamo allora che la moneta sia una passività emessa da un agente in ciò
specializzato, la banca. Ciò significa che ogni volta che un agente deve effettuare un
pagamento a favore di una altro operatore occorre l’intervento della banca. Il soggetto
che intende pagare deve, infatti, ottenere un credito dalla banca. Se la banca accetta la
richiesta dell’agente, essa accende un credito a suo favore. Con ciò la banca opera una
doppia scrittura, addebitando e accreditando l’agente. A questo punto, l’agente in
questione può effettuare il pagamento semplicemente dando ordine alla banca di
trasferire la titolarità del deposito (tutto o parte) al soggetto che si intende pagare.
Questo tipo di pagamento non configura la presenza di poteri di signoraggio. Al
contempo, la moneta utilizzata, il deposito bancario, si presenta come un mezzo di
pagamento definitivo: il pagante è infatti libero da qualsiasi rapporto con l’agente
pagato (anche se, naturalmente, il primo rimane debitore della banca). Il pagato accetta
la moneta bancaria in quanto questa è emessa non dall’agente pagante (che potrebbe
essere anche del tutto sconosciuto) ma da un operatore noto e specializzato nella
funzione monetaria: la banca. In sostanza, la funzione della moneta come mezzo di
pagamento viene ad essere svolta attraverso operazioni di addebitamento e di
accreditamento nei registri contabili della banca. In questo modo, viene finalmente
definita un’economia di tipo monetario: la moneta determina dei pagamenti definitivi in
assenza di poteri di signoraggio. Risulta anche chiaro che la moneta, nell’ambito di
un’economia monetaria, possiede una natura triangolare: in occasione di ogni
pagamento risultano necessariamente coinvolti tre soggetti.
Un esempio del funzionamento del sistema dei pagamenti è il seguente.
49
Banca A
crediti concessi
(1) 1,000
(2) 400
(4) 600
Conto Y
account
conto X
account
Account
1,000 (1)
Conto Banca B
account
600 (4)
400 (2)
Banca B
Conto Z
account
Conto Banca A
account
600 (3)
(3) 600
Supponiamo che l’operatore X si rivolga alla banca A e ottenga una concessione di
credito pari a 1.000 unità monetarie. In questo caso, la banca A addebiterà il conto
“crediti concessi” e accrediterà per lo stesso importo il conto di X. Per semplicità,
indichiamo con (1) le scritture contabili che si riferiscono a questa prima operazione.
Supponiamo ora che l’operatore X effettui un primo pagamento di 400 unità a favore di
Y, cliente della banca A. In sostanza, X firmerà un assegno a favore di Y il quale a sua
volta lo presenterà presso la banca A. L’assegno è un ordine alla banca di regolare il
pagamento e dunque di trasferire la titolarità del deposito per l’importo stabilito
dall’agente X a Y. La banca A accrediterà le 400 unità monetarie nel conto Y e le
addebiterà nel conto X (2). Il pagamento che l’operatore X effettua a favore di Y ha il
carattere di pagamento definitivo, in quanto tra i due agenti non intercorrerà più alcun
rapporto di debito/credito. Infatti, l’operatore Y è ora creditore della banca A.
Supponiamo ora che il mutuatario della banca, l’operatore X, effettui un pagamento di
600 unità monetarie a favore dell’operatore Z, cliente della banca B. E’ quindi alla
banca B che Z presenterà l’assegno. In questo caso, vi sarà una doppia serie di scritture.
La banca B, ricevuto l’assegno del suo cliente Z, accrediterà il deposito di Z per
l’importo di 600 unità e addebiterà il conto della banca A della medesima cifra (3). Dal
canto suo, la banca A addebiterà il conto del cliente X per l’importo di 600 unità
monetarie e accrediterà il conto della banca B per lo stesso importo (3). Anche il
pagamento effettuato da Z a X è un pagamento definitivo: Z è infatti ora creditore della
banca B che, a sua volta, è creditrice della banca A.
3. Moneta fiduciaria e moneta legale
50
L’analisi non muta sostanzialmente se prendiamo in considerazione la moneta
legale. La moneta legale, cioè i biglietti emessi dalla Banca Centrale, rappresentano –
nella concezione keynesiana – un caso particolare del ragionamento fino ad ora
illustrato. Nel momento in cui la Banca Centrale stampa le banconote, non fa altro che
porre nel passivo dei propri libri contabili il valore delle banconote emesse e nell’attivo
un pari valore attestante il credito nei confronti del Tesoro dello Stato. Dunque, anche
l’emissione dei biglietti avviene attraverso la concessione di un credito. A differenza
della moneta bancaria (la deposit currency), la moneta legale assume la forma di
certificati a importo fisso e pagabili a vista al portatore. La differenza più rilevante tra i
due tipi di moneta consiste nel fatto che mentre la moneta bancaria è moneta fiduciaria,
accettata cioé per la fiducia riposta dalla collettività verso l’istituto emittente, la moneta
statale è moneta legale, ha cioé un potere liberatorio illimitato sancito per legge e
garantito dal potere coercitivo dello Stato.
Frequentemente, si ritiene che la moneta legale abbia un primato logico rispetto
a quella fiduciaria e, addirittura, che non sia possibile concepire l’attività creditizia delle
banche commerciali senza moneta legale. Questa idea non è del tutto corretta in quanto
è possibile pensare che un sistema economico funzioni unicamente attraverso l’utilizzo
di moneta fiduciaria. Non solo: la circostanza di un sistema con sola moneta fiduciaria,
emessa in condizioni di offerta competitiva, si è storicamente verificata in più
circostanze. Il caso più noto è costituito dalla celebre esperienza scozzese del
diciannovesimo secolo. Il punto è che noi siamo abituati a ragionare secondo lo schema
piramidale del sistema dei pagamenti definito dalla legge bancaria inglese del 1844 (il
Peel’s act) e da allora sostanzialmente recepito da tutte le economie avanzate. L’idea
secondo cui l’attività creditizia delle aziende di credito ordinario è subordinata alla
Banca Centrale e alla moneta legale non rappresenta una necessità tecnica astringente né
un fatto storicamente sempre verificabile.
L’idea che la moneta legale sia alla base di tutto il sistema e che le aziende di
credito ordinarie regolano la loro concessione di crediti in relazione al quantitativo di
moneta legale raccolta, costituisce appunto la logica neoclassica del moltiplicatore dei
depositi bancari. L’analisi condotta da Keynes nel Trattato sulla moneta si presta a una
interpretazione che rovescia totalmente questa impostazione. Si tratta della tesi
“orizzontalista”, avanzata recentemente da Basil Moore. Secondo questa
interpretazione, la quantità di moneta in circolazione è determinata dalla domanda di
crediti bancari. L’offerta di moneta si presenterebbe, infatti, come una retta orizzontale
a un dato valore del tasso di interesse (esogeno). Dunque: la domanda di crediti
essenzialmente determina le concessioni di credito e la Banca Centrale assume un ruolo
di prestatrice di ultima istanza (lender of last resort), è cioé costretta ad emettere tanta
base monetaria quanta ne serve per le esigenze di liquidità delle aziende di credito
ordinario5. Il rapporto tra Banca Centrale e aziende di credito ordinario si capovolge.
Da quanto si è detto emerge con chiarezza che, per Keynes, l’idea neoclassica
secondo cui deposits make loans deve essere assolutamente abbandonata a favore della
tesi antitetica, secondo cui sono gli impieghi che generano i depositi (loans make
deposits). Tanto per la moneta bancaria quanto per la moneta legale resta chiarito che
esse sono una creazione delle banche le quali non fanno altro che trasformare attività
5
Quindi, da un punto di vista keynesiano, la Banca Centrale ha ben scarse possibilità di controllare e
regolamentare il sistema dei pagamenti. Secondo l’interpretazione orizzontalista, la banca centrale è
costretta ad assecondare la domanda di moneta proveniente dall’economia per evitare crisi del sistema
bancario.
51
non monetarie (garanzie reali, promesse di rimborso) in attività che sono moneta. In
questa trasformazione consiste la creazione bancaria di moneta. Dal momento che ogni
creazione di moneta si manifesta con una doppia scrittura contabile, nell’attivo e nel
passivo, qualcuno ha scritto che con la creazione di moneta si ha un “passaggio dal nulla
allo zero”6: la moneta risulta contemporaneamente essere un debito ed un credito.
Quindi, secondo Keynes, non è vero che i depositi creati attivamente (quelli che
la banca crea nel momento in cui concede un prestito) sono la risultante dei depositi
creati passivamente (quelli che si costituiscono nel momento in cui un cliente
materialmente deposita presso la banca); ma è vero il contrario: i depositi attivi
precedono necessariamente quelli passivi. Ciò, semplicemente, significa che le banche
non possono raccogliere moneta senza averla prima creata.
4. Il circuito e la moneta come mezzo di pagamento
Secondo la logica keynesiana, il processo economico deve essere descritto
attreverso lo svolgersi di un processo sequenziale che assume la forma di un circuito
monetario.
Il più semplice modello di circuito monetario, con economia chiusa e senza
settore pubblico, può essere descritto come segue. Si considerino tre macrooperatori: le
banche, le imprese, i lavoratori. Le banche svolgono la funzione di finanziare la
produzione, attraverso la creazione di moneta, e selezionano i progetti imprenditoriali;
le imprese, attraverso l’accesso al credito, acquistano i fattori produttivi e prendono le
decisioni circa la composizione quali-quantitativa della produzione; i lavoratori offrono
i servizi lavorativi.
Banche
finanza iniziale
rimborso del
debito
Imprese
risparmi
acquisto di
servizi lavorativi
Lavoratori
Le fasi del circuito sono le seguenti:
6
Il riferimento è all’economista francese B. Schmitt.
52
acquisto di beni
di consumo
1) le banche offrono alle imprese (in tutto o in parte) il finanziamento da queste
richiesto, attraverso la creazione di moneta (apertura del circuito). Supponendo che le
imprese posseggono gli strumenti tecnici-naturali della produzione il finanziamento
richiesto sarà pari al monte salari: F = wN, dove w è il salario monetario medio per
lavoratore e N è il numero dei lavoratori che le imprese desiderano occupare.
D’altronde, considerando le imprese nel loro complesso la sola spesa che esse dovranno
effettuare è l’erogazione del monte salari.
2) ottenuto il finanziamento richiesto (finanza iniziale), le imprese acquistano i servizi
lavorativi. A questo punto, la moneta passa dalle imprese ai lavoratori;
3) acquistati i fattori produttivi, le imprese avviano la produzione. Keynes considera la
produzione di due tipologie di beni: beni di consumo e beni di investimento. I lavoratori
saranno suddivisi nel settore dei beni di consumo (Nc) e dei beni di investimento (Ni);
4) al termine del processo produttivo, le imprese pongono in vendita i beni di consumo
prodotti nel mercato delle merci. Se la propensione al consumo dei lavoratori è pari
all’unità, le imprese sono in grado di recuperare l’intero monte salari e restare
proprietarie dei beni di investimento. Se la propensione al consumo è inferiore all’unità,
una volta acquistati i beni di consumo i lavoratori fronteggiano l’ulteriore scelta di come
allocare il risparmio, fra tesoreggiamento (o hoarding, cioé incremento delle riserve
liquide) e investimento (o investing, cioé acquisto di titoli nel mercato finanziario). Le
imprese tentano di recuperare la liquidità risparmiata attraverso la vendita di titoli nel
mercato finanziario. In questo mercato gli agenti attivi sono le imprese (che vendono
titoli) e i lavoratori (che comprano titoli). I titoli rappresentano quote di proprietà
dell’impresa. Nell’ipotesi che tutti i risparmi siano spesi nel mercato finanziario, le
imprese riescono a recuperare – vendendo merci e titoli – l’intero monte salari (finanza
finale). Nel caso in cui i lavoratori incrementino le loro scorte liquide, le imprese non
riusciranno a recuperare l’intera liquidità inizialmente immessa nell’economia;
5) le imprese restituiscono alle banche il finanziamento ricevuto; attraverso tale
rimborso la moneta, inizialmente creata, viene distrutta (chiusura del circuito).
Questa semplice descrizione delle fasi del circuito monetario è sufficiente per
evidenzare le due differenze di fondo esistenti tra il modello keynesiano e il modello
neoclassico. In primo luogo, a differenza del modello walrasiano e del modello
neoclassico di base in cui la moneta è neutrale, secondo Keynes l’economia capitalistica
è una economia intimamente monetaria. Il funzionamento del processo economico
capitalistico non può essere compreso, secondo Keynes, se non si comprende che la
moneta è lo strumento di comando sugli inputs e se non si osservano i flussi monetari.
In secondo luogo, a differenza del modello walrasiano e del modello neoclassico di base
in cui gli agenti sono su un piano di parità sostanziale, nell’analisi keynesiana ruoli e
poteri degli agenti non sono interscambiabili. Le banche hanno il potere di creare
moneta e concedere i finanziamenti, selezionando gli agenti meritevoli di credito (la
qualità dei progetti imprenditoriali). Gli imprenditori hanno il potere di determinare la
qualità e la quantità della produzione, di conseguenza stabilire il livello
dell’occupazione. I lavoratori si limitano ad offrire i servizi lavorativi e a spendere il
reddito. Esiste, dunque, una disparità sostanziale di funzioni e di poteri tra gli agenti.
Vi sono, in tutta evidenza, altre differenze di rilievo. Le coglieremo un po’ per
volta. Inizialmente, è bene sottolineare la differenza sostanziale concernente il
pagamento del salario. Nel modello neoclassico, imprese e lavoratori contrattano il
salario reale, che viene pagato ex post. Nel modello keynesiano il salario reale continua
ad essere percepito ex post, ma il salario monetario è anticipato. Ciò significa che
53
imprese e lavoratori contrattano il salario monetario, date le aspettative circa il livello
dei prezzi. Una volta contrattato e percepito il salario monetario, i lavoratori
conosceranno il livello effettivo del salario reale (cioé il potere di acquisto del salario
monetario) solo dopo avere erogato i servizi lavorativi e quindi al termine della
produzione.
Nel Trattato, Keynes sottolinea il ruolo della moneta come mezzo di pagamento,
strumento di circolazione. La moneta viene impiegata dagli imprenditori per acquistare
servizi lavorativi e dai lavoratori per acquistare beni di consumo o titoli. L’attenzione di
Keynes si concentra, dunque, nel mostrare il funzionamento in equilibrio del sistema
economico. In altri termini, Keynes mostra come il circuito si chiuda in equilibrio,
allorché la moneta creata all’inizio del circuito viene totalmente distrutta alla sua fine.
Ciò significa che, nel Trattato, Keynes non prende in esame la crisi: l’interruzione del
circuito. Quest’ultima si verifica, evidentemente, quando la moneta cessa di funzionare
da mezzo di pagamento e viene utilizzata invece come il suo contrario, ovvero come
riserva di valore. Fino a quando la moneta funziona come mezzo di circolazione, il
circuito dell’economia capitalistica si riproduce all’infinito, senza forme di crisi. Se
invece la moneta inizia a svolgere l’altra funzione, quella di riserva di valore, per motivi
che possono essere diversi (precauzionali o speculativi), il circuito si blocca.
5. Moneta, prezzi e profitti nel Trattato
Prendiamo adesso in considerazione le tre equazioni fondamentali presenti nel
Trattato sulla moneta. Con le prime due equazioni Keynes critica le tesi della dicotomia
e neutralità della moneta. Esse ci mostrano la critica keynesiana alla teoria quantitativa
della moneta. Prima di illustrarle è bene precisare che Keynes riteneva che la famosa
equazione degli scambi di Fisher (MV = PT) non rappresentasse altro che una identità
definitoria (la necessaria corrispondenza tra il valore della moneta in circolazione e il
valore delle transazioni). Viceversa, il passaggio dalla equazione di Fisher alla teoria
quantitativa prevede una serie di ipotesi inostenibile.
Nel Trattato, Keynes propone una teoria dei prezzi radicalmente diversa dalla
teoria quantitativa della moneta. In primo luogo, Keynes sostiene la necessità di
distinguere le determinanti del livello dei prezzi dei beni di consumo da quelle del
livello dei prezzi dei beni di investimenti (per questa ragione, il livello generale dei
prezzi viene ritenuto una sorta di finzione statistica). In secondo luogo, Keynes mostra
che il livello generale dei prezzi coincide con il costo di produzione solo in circostanze
del tutto casuali.
Cominciamo con l’esaminare il prezzo dei beni di consumo.
Utilizzando la terminologia dello stesso Keynes, indichiamo con Ym il reddito
monetario totale, ossia il valore monetario del PIL. Indichiamo con Ic il costo di
produzione dei beni d’investimento, sempre in termini monetari; dal momento che
nell’ambito del sistema economico considerato, vengono prodotti soltanto due tipi di
beni, se Ic rappresenta il costo di produzione dei beni d’investimento ed Ym costituisce il
reddito monetario, la differenza tra Ym ed Ic rappresenta il costo di produzione dei beni
di consumo. Per cui, ricapitolando, abbiamo:
Ym = reddito monetario totale;
Ic = costo di produzione dei beni d’investimento;
Ym-Ic = costo di produzione dei beni di consumo.
54
Ancora, indichiamo con Y la produzione totale che si divide in C (beni di consumo) e I
(beni d’investimento); per cui abbiamo:
Y = produzione totale;
C = beni di consumo;
I = beni d’investimento;
pc = livello dei prezzi dei beni di consumo;
S = risparmio monetario;
Per cui il valore dei beni di consumo Cpc (prezzo per quantità) è pari a:
Cpc=Ym-S;
ossia alla differenza tra il reddito monetario totale e il risparmio. Possiamo trasformare
tale relazione, moltiplicando e dividendo per la medesima quantità, ossia la produzione
totale (Y), che ovviamente è pari alla somma dei beni di consumo e dei beni
d’investimento prodotti (C + I); dunque, abbiamo:
Ym
C  I   S ;
Y
quindi, poiché (I/Y)Ym è la quota d’investimento sul prodotto totale (cioè gli
investimenti totali in termini monetari) possiamo indicarla con Ic e, dunque,
sostituendo:
Ym
C  Ic  S ;
Y
poiché tutta questa espressione è pari a Cpc otteniamo:
pc 
Ym I c  S

;
Y
C
che non è altro che l’equazione dei prezzi dei beni di consumo dalla quale si evince che
il prezzo è pari al rapporto tra il reddito monetario della collettività e la produzione
totale più la differenza tra il valore monetario degli investimenti e il risparmio in
rapporto alla quantità dei beni di consumo. Poiché il reddito monetario della collettività
può essere considerato come il prodotto tra il salario medio per lavoratore (w) e il
numero dei lavoratori (N), mentre la produzione totale può essere considerata come il
prodotto tra la produttività del lavoro (e) e il numero dei lavoratori (N); quindi
l’equazione può essere scritta nel seguente modo:
pc 
w Ic  S

.
e
C
Il livello dei prezzi dei beni di consumo è pari al rapporto tra salario e produttività solo
nel caso di coincidenza di valore tra Ic e S, cioè nel caso di equilibrio macroeconomico.
Per passare dal livello dei prezzi dei beni di consumo al livello generale dei
prezzi, bisogna prendere in considerazione il livello dei prezzi dei beni d’investimento.
55
Indicando con pi il livello dei prezzi dei beni d’investimento, poichè sappiamo che Im
rappresenta il valore monetario dei beni d’investimento, si ha:
Ic=piI.
A questo punto passiamo alla equazione del livello generale dei prezzi (che indichiamo
con p):
p
Cpc  pi I
;
Y
e operando alcune sostituzioni:
p
Ym  S  I c Ym I c  S w I c  S


 
;
Y
Y
Y
e
Y
da cui si deduce che il livello generale dei prezzi è uguale al rapporto tra salari e
produttività allorché i risparmi coincidono con gli investimenti. Dunque, secondo
Keynes, qualora il livello del risparmio dovesse coincidere con il livello degli
investimenti, l’idea neoclassica verrebbe confermata, nel senso che il livello generale
dei prezzi andrebbe a coincidere con il prezzo di equilibrio.
Tuttavia, come è noto, lo squilibrio tra risparmi e investimenti rappresenta per
Keynes la situazione normale in cui si trovano le economie capitalistiche. La ragione di
ciò ci porta alla famosa critica di Keynes alla legge di Say. Si è visto che per i teorici
neoclassici sono le variazioni del tasso di interesse a portare in equilibrio risparmi e
investimenti. Keynes rifiuta questa argomentazione sostenendo che i risparmi sono una
funzione diretta del reddito e gli investimenti una funzione inversa del tasso di interesse
per ogni livello delle aspettative di profitto. La conclusione di Keynes è che non vi è
alcun meccanismo che assicuri l’eguaglianza tra risparmi e investimenti ex ante.
La relazione tra risparmi e investimenti spiega non solo il livello dei prezzi ma
anche la formazione di profitti o perdite per l’imprenditore. Per spiegare quest’ultimo
aspetto, Keynes formula la terza equazione fondamentale. Indichiamo, sempre seguendo
la terminologia keynesiana, con:
Q il profitto totale degli imprenditori;
Q1 il profitto degli imprenditori del settore dei beni di consumo;
Q2 il profitto degli imprenditori del settore dei beni d’investimento;
si ha pertanto:
Q = Q1+Q2.
Il profitto degli imprenditori del settore dei beni di consumo sarà:
Q1=Cpc-CYm/Y
56
cioé il valore dei beni di consumo meno il loro costo di produzione 7. Ora, poiché il
valore monetario dei beni di consumo può essere sostituito con la differenza tra il
reddito ed il risparmio, e inoltre il costo di produzione dei beni di consumo è pari alla
differenza tra i costi complessivi e i costi di produzione dei beni di investimento, si ha:
Q1 = Ym-S-(Ym-Ic);
per cui:
Q1 = Ym-S-Ym+Ic = Ic-S.
Quindi il profitto degli imprenditori del settore dei beni di consumo è pari alla
differenza tra il costo di produzione dei beni d’investimento ed il risparmio.
Passiamo al profitto degli imprenditori del settore dei beni di investimento:
Q2 = I*-Ic,
cioé la differenza tra il ricavo ottenuto dalla vendita di tali beni ed il loro costo di
produzione.
Ora per calcolare il profitto totale degli imprenditori si ha naturalmente:
Q = Q1+Q2 = Ic-S+I*-Ic ;
e quindi :
Q = I*-S ;
Pertanto il profitto complessivo è pari alla differenza tra il ricavo ottenuto dalla vendita
dei beni d’investimento e il valore del risparmio. Se il valore di I* dovesse coincidere
con il valore di S gli imprenditore non farebbero né profitti né perdite, come previsto
dal modello neoclassico-walrasiano. Ma nulla, come già osservato, assicura questa
conclusione.
Per concludere l’analisi resta da approfondire il meccanismo di formazione del
prezzo dei beni di investimento. Per Keynes il prezzo dei beni di investimento,
coincidente con il prezzo dei titoli, dipende dal complesso comportamento degli agenti;
in particolare: 1) dal comportamento delle famiglie in merito alla decisione di come
distribuire il risparmio tra tesoreggiamento e acquisto di titoli, 2) dal volume dei beni
d’investimento da parte delle imprese e 3) dal comportamento delle banche.
Le famiglie, affrontano due ordine di decisioni in merito all’impiego del reddito.
In primo luogo, devono decidere come distribuire il reddito tra consumo e risparmio,
successivamente come distribuire il risparmio tra tesoreggiamento e acquisto di titoli.
Supposta data la suddivisione iniziale tra consumo e risparmio, concentriamoci sulla
seconda decisione: come l’agente, divide il risparmio tra tesoreggiamento ed acquisto di
titoli?
Essenzialmente, dato il risparmio, Keynes considera il tesoreggiamento funzione
diretta del tasso dell’interesse sui depositi e funzione inversa del prezzo atteso dei titoli.
7
Infatti Ym/Y, cioé il rapporto tra il reddito monetario complessivo (cioè il costo monetario della
produzione) e la produzione totale, rappresenta il costo di produzione di ogni singolo bene di consumo.
57
La prima relazione non ha bisogno di particolari approfondimenti: quanto maggiore è il
premio per la detenzione di depositi bancari tanto minore sarà la quota del risparmio
impiegata per l’acquisto di titoli. Ma la decisione di tesoreggiamento dipende anche dal
sentimento ribassista o rialzista dell’agente. Quando l’agente è rialzista, e dunque ritiene
che il prezzo dei titoli debba aumentare, ridurrà la quota del risparmio tesoreggiata a
favore dell’acquisto di titoli. Poiché il prezzo dei titoli è evidentemente positivamente
dipendente dalla quota di risparmio spesa nell’acquisto di titoli, ne segue che il prezzo
dei beni d’investimento è funzione inversa del tasso dell’interesse sui depositi bancari e
funzione diretta del livello atteso dei prezzi dei titoli.
Il livello dei prezzi dei beni d’investimento è funzione anche dell’atteggiamento
delle imprese, in quanto dipende dall’emissione di titoli che le imprese realizzano per
raccogliere moneta: al crescere della emissione di titoli il corso dei titoli tende a
scendere.
Ancora, il prezzo dei beni d’investimento dipende anche comportamento delle
banche. Supponiamo di avere il prevalere di un sentimento ribassiste. La tendenza ad
uscire dal mercato finanziario, se non controbilanciato da un atteggiamento inverso
delle banche, determina una caduta del prezzo dei titoli. Tuttavia le banche potrebbero
contrastare in tutto o in parte tale tendenza acquistando titoli e, dunque, emettendo
moneta.
Da questi accenni risulta evidente che nel Trattato sulla moneta la
determinazione dei prezzi dei beni di investimento risulta complessa, in quanto
influenzata da molteplici variabili.
Keynes, riprendendo Wicksell, afferma che da un punto di vista teorico esiste un
dato livello del tasso di interesse (il tasso di interesse naturale) che determinerebbe
l’uguaglianza tra risparmi ed investimenti. Tuttavia, tale livello del tasso di interesse
normalmente non si verifica nella realtà poiché non esiste alcun meccanismo automatico
di aggiustamento specifico. In altre parole, non vi è nessun meccanismo endogeno che
spinga il tasso dell’interesse monetario naturale ad eguagliare il tasso dell’interesse
monetario di mercato. L’assetto di equilibrio, si verificherebbe nel momento in cui gli
investimenti risultano pari ai risparmi, i prezzi coincidono con i costi di produzione, i
profitti degli imprenditori sono nulli e la moneta immessa inizialmente nel circuito
viene alla fine completamente distrutta.
Supponiamo che vi sia nel mercato un tasso d’interesse monetario maggiore del
tasso dell’interesse naturale; in tale situazione, si mettono in moto delle conseguenze
che portano l’economia in un sentiero di squilibrio. Se il tasso di interesse è elevato,
cresce tutta la struttura dei tassi, anche quelli sui depositi bancari, per cui il
tesoreggiamento aumenterà, la domanda di titoli tenderà a ridursi e con essa il prezzo
dei titoli. D’altra parte l’elevato valore del tasso di interesse porterà a una riduzione
degli investimenti e quindi anche a una riduzione del prezzo dei beni di consumo. Per
cui quando il tasso dell’interesse monetario risulta maggiore del tasso dell’interesse
naturale, sia i prezzi dei beni di consumo sia i prezzi dei beni d’investimento si
riducono, e questo determina perdite per le imprese. Conseguentemente, le imprese
riducono il volume della produzione e dell’occupazione portando l’economia verso la
depressione. Si tratta di una fase che si protrae fino a quando il volume degli
investimenti risulta essere minore del volume dei risparmi e che non può essere arrestata
fino a che la relazione tra le due grandezze macroeconomiche non si inverte. Ora,
secondo Keynes, l’economia capitalistica non possiede nessuna capacità endogena di
arrestare la depressione; caso limite è rappresentato da una caduta tale del reddito
58
nazionale che induca una riduzione del risparmio. In questo modo, al termine di una
crisi profonda al punto da minare l’assetto istituzionale del sistema, si potrà di nuovo
tornare ad una situazione d’equilibrio e riprendere una nuova fase di crescita.
6. Dal Trattato sulla moneta alla Teoria generale: ovvero le due facce della
moneta
Nella Teoria Generale Keynes non prende in considerazione il funzionamento
complessivo dell’economia monetaria, ma si concentra su un fenomeno specifico, su un
aspetto dell’economia monetaria: il fenomeno della crisi. La crisi, concepita da Keynes
come un’interruzione del circuito monetario, è provocata da una caduta delle aspettative
di profitto degli agenti. La prima manifestazione della caduta delle aspettative e
l’ampliarsi delle scorte liquide; in conseguenza, si riduce la domanda aggregata e si
determina una riduzione della produzione e dell’occupazione. Per concentrarsi sul
fenomeno della crisi, Keynes mette da parte alcuni aspetti salienti dell’economia
monetaria, esaminati nel Trattato sulla moneta. Soprattutto, non considera l’analisi del
mercato monetario e le connesse idee di immissione e distruzione della moneta, e la
connessa teoria della banca. A riguardo, per semplicità, riprende alcune idee
neoclassiche come l’esogeneità dell’offerta di moneta e la teoria marginalista della
distribuzione. L’analisi di Keynes non si sofferma più sugli aspetti sequenziali, ma sugli
equilibri finali, sugli esiti ultimi del processo economico (produzione ed occupazione).
Nella Teoria generale, dunque, Keynes non prende in considerazione il problema delle
relazioni esistenti tra banche ed imprese per concentrarsi sul sistema economico già
messo in moto, in cui la moneta è già presente; ne segue una attenzione al mercato
finanziario e il disinteresse per il mercato monetario.
Al cuore della Teoria generale vi è l’altra faccia della moneta, quella solo
intravista nel Trattato. Infatti, nel Trattato Keynes si concentra sulla funzione della
moneta come mezzo di pagamento, come il mezzo di acquisto che consente di mettere
in moto il processo mediante l’acquisto degli inputs, consente l’acquisto delle merci e
dei titoli, e rifluisce alle banche concludendo un round dell’economia. Viceversa, nella
Teoria generale analizza il ruolo della moneta come riserva di valore, non più la moneta
che circola ma la moneta che staziona presso un operatore, e dunque la moneta come
fattore di crisi del sistema.
E’ noto che il Trattato sulla moneta è stato spesso considerata opera secondaria
rispetto alla Teoria generale. Anche gli stessi allievi di Keynes criticarono alcuni aspetti
del Trattato non comprendendo appieno le finalità di Keynes. La stessa terminologia
impiegata da Keynes non fu compresa e ciò facilitò un certo disinteresse per il libro.
Probabilmente anche per questa ragione nel libro del 1936 Keynes raccolse una serie di
ipotesi neoclassiche limitando l’ampia revisione della teoria economica intrapresa anni
addietro alla sola teoria delle crisi. Con ciò certamente venne offerto il fianco alla ampia
operazione di rivisitazione in chiave neoclassica della teoria keynesiana che generò il
modello IS-LM. Al tempo stesso, Keynes si rese in certo senso responsabile di una
frattura ancora oggi presente nella tradizione post-keynesiana tra due filoni
fondamentali, uno costituito da quegli studiosi che hanno cercato di lavorare sulla
Teoria generale (sulla moneta come riserva di valore), e l’altro dagli studiosi che
fondano la loro analisi sul Trattato (sulla moneta come mezzo di pagamento).
59
Probabilmente il rilancio della tradizione keynesiana e postkeynesiana passa
oggi per la conciliazione di queste due posizioni. Il problema è cioé dare vita a un
modello macroeconomico complessivo che tenga insieme il Trattato sulla moneta e la
Teoria generale: un’unica teoria coerente capace di mostrare le condizioni di equilibrio
e le cause di squilibrio di una economia monetaria in cui la moneta sia mezzo di
pagamento e riserva di valore.
7. La logica della Teoria generale
Nella Teoria generale la crisi viene descritta come conseguenza di una caduta
generale di fiducia da parte degli agenti nei confronti del sistema economico, che
riguarda non solo le prospettive di profitto dell’imprenditore, ma anche il corso dei
titoli, per cui interessa anche le famiglie. Lo strumento attraverso il quale la crisi si
innesca è costituito dalla formazione di scorte liquide; a ciò segue una caduta della
domanda e dunque – giusto il rovesciamento della legge di Say – della produzione e
della occupazione. Dunque, la crisi non è determinata da eventi esogeni, ossia esterni al
sistema, ma da eventi endogeni: nasce all’interno dell’economia capitalistica. Nella
visione keynesiana il sistema capitalistico è incapace di generare una crescita costante,
in quanto è caratterizzato dal susseguirsi incessante di fasi di crescita e di fasi di
declino; si rende pertanto necessario l’azione regolatrice dello Stato.
Per dimostrare tutto ciò, Keynes parte da una serie di ipotesi che gli consentono
in un certo qual modo di semplificare l’analisi. Innanzitutto ipotizza che l’offerta di
moneta sia una grandezza data; accetta la teoria marginalista della distribuzione;
abbandona l’analisi degli equilibri successivi per concentrarsi sull’analisi degli equilibri
finali.
La logica della Teoria generale può essere esposta come segue. La domanda e
l’offerta (data) di moneta determinano la grandezza del tasso di interesse. Il tasso di
interesse e le aspettative di profitto determinano il livello degli investimenti. Gli
investimenti e la propensione marginale al consumo determinano – in una economia
chiusa e senza settore statale – la domanda aggregata che a sua volta determina l’offerta
aggregata e quindi il livello di produzione e di occupazione.
Uno dei passaggi salienti concerne la funzione d’investimento che si presenta
funzione del tasso di interesse per ogni livello delle aspettative degli agenti. Ad esempio
nel grafico in basso risultano due funzioni dell’investimento relative a due livelli delle
aspettative: la curva (1) rappresenta una funzione d’investimento che incorpora
aspettative inferiori a quelle presenti per la funzione (2). Dunque, con il migliorare delle
aspettative si assiste ad una trasposizione della curva verso destra.
60
i
(1)
(2)
i0
0
I1
I2
I
La valvola di sfogo delle economie capitalistiche, finisce per essere il mercato
del lavoro, all’interno del quale si manifestano gli effetti di una carenza di fiducia degli
operatori nei confronti del sistema economico.
Alla base del principio della domanda aggregata vi è il rovesciamento della
legge di Say, secondo cui l’offerta genera sempre la propria domanda, in quanto
automaticamente è sempre verificata l’uguaglianza tra risparmi e investimenti.
Riprendendo le tesi del Trattato, Keynes ritiene che la realizzazione dell’uguaglianza tra
risparmi e investimenti sia un puro caso, essendo risparmi e investimenti decisioni prese
da soggetti diversi (rispettivamente famiglie e imprese) in funzione di variabili diverse
(rispettivamente il reddito e gli interessi-aspettative). Pertanto se salta l’ipotesi
fondamentale su cui la legge di Say non risulta più valida l’idea secondo cui è l’offerta
che genera la domanda. E’ chiaro gli imprenditori del mondo senza legge di Say si
muovono senza alcuna certezza che le merci prodotte troveranno sbocco nel mercato.
Essi, pertanto, prenderanno le decisioni di produzione sulla base della domanda
aggregata. E’ dunque la domanda che genera l’offerta.
Tutto ciò può essere analizzato anche da un punto di vista analitico. In estrema
sintesi, ipotizzando economia chiusa e usando la consueta terminologia definiamo la
domanda aggregata:
Yd = C + I + G;
C = C0 + cY;
I = I ( i, aspettative);
G = G*;
questo è il sistema di equazioni che Keynes prende in considerazione, per arrivare alla
costituzione della teoria del moltiplicatore. Secondo la prima equazione, la domanda
aggregata è determinata dai consumi, dagli investimenti e dalla spesa pubblica; la
seconda equazione ci dice che i consumi sono costituiti da una componente autonoma e
da una componente dipendente dal reddito; la terza equazione ci dice che gli
investimenti sono funzione del tasso dell’interesse e delle aspettative; la quarta che la
spesa pubblica è una grandezza data. Attraverso semplici passaggi si arriva alla famosa
equazione del moltiplicatore:
61
Y
1
C0  I  G ;
1 c
dove (1/1-c) rappresenta il moltiplicatore8, mentre (C0+I+G) rappresenta la componente
autonoma della domanda aggregata. L’equazione del moltiplicatore, ci consente di
conoscere il livello della produzione e, conseguentemente, assunta una data funzione di
produzione, il livello dell’occupazione. Keynes prende in considerazione una funzione
di produzione di tipo tradizionale:
Y
Ya
O
Na
N
Per cui, assunto pari a Ya il livello di produzione determinato dalla domanda, risulta
determinato il livello dell’occupazione (Na).
La logica complessiva della Teoria generale può essere colta anche mediante il
grafico che segue:
8
Come è ben noto il moltiplicatore è un valore positivo maggiore di uno, visto che la propensione
marginale al consumo è compresa tra zero ed uno; ciò significa che ogni variazione della componente
autonoma della domanda determina una variazione più che proporzionale della domanda complessiva e
della produzione.
62
AS,AD
C0 + G* + I
45°
O
Y
Y
Y
45°
O
Y
O
N
w/p
w/p0
O
N0
N*
N
Nel primo quadrante (in alto), viene rappresentata la domanda aggregata, nel secondo la
retta inclinata a 45 gradi, nel terzo la funzione di produzione, infine nel quarto il
mercato del lavoro. Riportando il punto d’intersezione tra la AD e la bisettrice (primo
quadrante) negli altri quadranti, siamo in grado di determinare il livello di occupazione
determinato dalla domanda e il salario reale di mercato (w/p0). In corrispondenza di tale
livello del salario reale, possiamo notare che l’offerta di lavoro risulta essere maggiore
della domanda; infatti, i lavoratori che desidererebbero trovare occupazione al salario
reale corrente sono pari a ON*, mentre i lavoratori effettivamente impiegati sono pari a
ON0. La differenza esistente rappresenta disoccupazione involontaria. Risulta evidente
che, nel modello di Keynes, lo squilibrio del mercato del lavoro non è dovuto a rigidità
salariali, ma al basso livello della domanda aggregata (e, dunque, può essere assorbita
solo a seguito di una espansione della domanda).
63
8. La domanda di moneta e il tasso di interesse critico
Nella Teoria generale Keynes, trascurando il finance motive (la domanda di
moneta per finanziare il processo produttivo), individua tre moventi della domanda di
moneta: il movente transattivo, il movente precauzionale, il movente speculativo.
La domanda di moneta a scopo transattivo è definita come la domanda di scorte
liquide che gli agenti effettuano per l’acquisto di merci e servizi. La domanda di moneta
a scopo precauzionale è costituita dalle scorte liquide che gli agenti detengono per
proteggersi dall’incertezza. Poiché, secondo Keynes, entrambe le domande sono
funzione diretta del reddito degli operatori, possiamo indicarle con un unico valore L1
per cui abbiamo:
L1 = K(Y),
che da un punto di vista grafico può essere rappresentata nel seguente modo:
L1
O
Y
Al crescere del reddito aumentano le transazioni che un agente desidera effettuare e
aumenta il suo desiderio di proteggersi dall’incertezza attraverso scorte precauzionali;
quindi, sia per la ragione transattiva sia per quella precauzionale, al crescere del reddito
le scorte liquide aumentano.
Nel seguito di questo paragrafo ci concentreremo sulla terza e più complessa
ragione per domandare moneta: la domanda di moneta a scopo speculativo.
La domanda di moneta speculativa è definita come le scorte liquide desiderate
per operare nel mercato finanziario, acquistando titoli. Si tratta delle scorte monetarie
detenute dagli speculatori in attesa del momento migliore per acquistare titoli. Gli
agenti, infatti, tentano di acquistare titoli nel momento in cui il loro prezzo è a un
minimo relativo per rivenderli in un punto di massimo relativo, ottenendo così guadagni
in conto capitale. Nel momento in cui lo speculatore decide di acquistare i titoli riduce
la sua scorta liquida a scopo speculativo, mentre nel momento in cui li vende traduce i
suoi titoli in moneta incrementando la sua scorta liquida. Dunque, tra una vendita e un
acquisto lo speculatore detiene moneta, anche nell’ipotesi che la detenzione di scorte
liquide non gli offra alcun rendimento, in quanto nei periodi in cui i corsi di borsa sono
previsti in discesa per lo speculatore è più conveniente detenere moneta (che non rende
64
nulla) che andare incontro a delle perdite in conto capitale derivanti dal deprezzamento
dei titoli.
Nel ragionamento microeconomico proposto da Keynes, come vedremo, un
operatore o detiene solo titoli o detiene solo moneta. L’operatore terrà solo moneta nel
momento in cui prevede che i corsi di Borsa scendano, e viceversa. Naturalmente, se la
maggioranza degli operatori prevede una riduzione dei corsi di borsa, e dunque le
prospettive negative sono diffuse, si accumulano scorte liquide, l’offerta di titoli prevale
sulla domanda e i prezzi dei titoli calano. Quindi l’andamento dei titoli varia in base
all’umore degli agenti, si tratta delle “profezie autorealizzantesi” di cui parlava Keynes.
Secondo Keynes il comportamento degli agenti circa la detenzione di moneta o
titoli dipende dalle previsioni inerenti due elementi: il guadagno in conto capitale e il
guadagno in conto interessi che un titolo può offrire (si suppone che la detenzione di
scorte liquide non determini alcun reddito da interessi). Il guadagno in conto interessi
consiste nel fatto che il possesso di un titolo dà luogo alla distribuzione di dividendi;
viceversa, il guadagno (o la perdita) in conto capitale si ha in seguito all’aumento (o alla
diminuzione) del prezzo del titolo. Nel momento l’operatore prevede che il possesso di
titoli offra una perdita attesa in conto capitale maggiore del guadagno previsto in conto
interessi si rende più conveniente detenere moneta.
Secondo Keynes ogni agente che si avvicina al mercato finanziario ha in mente
un certo livello, variabile da agente a agente, del tasso dell’interesse “normale”, ossia un
tasso d’interesse a cui l’economia finirà per tendere. Se per un dato operatore il tasso
dell’interesse attuale è maggiore del tasso d’interesse “normale”, egli è un rialzista in
quanto si aspetta che il prezzo dei titoli possa soltanto aumentare; conseguentemente,
egli porterà a zero la sua domanda di moneta a scopo speculativo acquistando titoli. Se,
viceversa, il tasso di interesse attuale è inferiore al tasso “normale” egli prevederà un
aumento dei tassi, e dunque una caduta del prezzo dei titoli; qualora le perdite in conto
capitale previste siano tali da più che compensare i guadagni attesi in conto interessi,
l’operatore tenderà a vendere titoli e ad aumentare le scorte liquide.
Per approfondire l’analisi, ipotizziamo di considerare un titolo irredimibile
(durata perpetua) che offra un certo rendimento (cedola). Il prezzo del titolo
moltiplicato per il tasso dell’interesse attuale deve essere uguale alla cedola, per cui:
p titolo 
cedola
;
i
e ciò perché nessun soggetto razionale spenderebbe una lira in più o una lira in meno
per comprare questo titolo. E’ evidente la relazione inversa esistente tra il prezzo del
titolo e il tasso di interesse. Se prendessimo in considerazione un titolo con cedola
unitaria, avremo che il prezzo del titolo è pari all’inverso del tasso dell’interesse:
1
p titolo  .
i
Indichiamo con g il guadagno in conto capitale, pari alla differenza tra il prezzo atteso e
il prezzo attuale rapportata al prezzo attuale:
65
g
p atteso  p attuale p e  p o p e


 1;
p attuale
po
po
il guadagno atteso in conto capitale è dunque pari al rapporto tra il prezzo atteso ed il
prezzo attuale meno 1. Per cui se il prezzo atteso è maggiore del prezzo attuale
l’operatore si attende dal possesso del titolo un guadagno in conto capitale. Se il prezzo
atteso coincide con il prezzo attuale l’operatore non prevede né guadagni né perdite in
conto capitale. Se il prezzo atteso risulta maggiore del prezzo attuale, l’operatore
prevede una perdita in conto capitale.
Nell’ipotesi che i titoli siano irredimibili con cedola unitaria si ha:
1
r
r
g  e  1  o  1;
1
re
ro
per cui l’operatore prevede un guadagno, un pareggio o una perdita in conto capitale a
seconda che, rispettivamente, ro>re, ro=re, ro<re.
Il guadagno in conto interessi offerto dal possesso del titolo è dato dal tasso
dell’interesse attuale (ro); pertanto, il guadagno (o perdita, in caso di valore minore di
zero) complessivo atteso è:
ro 
ro
 1.
re
Keynes ritiene che esista – per ogni operatore – un determinato livello del tasso
d’interesse attuale in corrispondenza del quale l’operatore non realizza né perdite né
guadagni, nel senso che il guadagno in conto interessi compensa perfettamente le
perdite in conto capitale. Il tasso al quale, dati i valori attesi da parte dell’agente, egli
non prevede né guadagni né perdite viene definito da Keynes tasso critico di interesse.
Il tasso critico, che di seguito si indica con rc, può essere agevolmente individuato:
ro 
ro
 1  0;
re
ro re  ro  re  0;
ro (1  re )  re ;
ro 
re
 rc .
1  re
Il tasso di interesse critico è dunque un tasso di interesse tale per cui l’agente,
considerate le previsioni che egli formula sui movimenti futuri del tasso di interesse (il
tasso di interesse normale), non prevede di avere né guadagni né perdite dal possesso di
66
titoli: gli è dunque indifferente detenere moneta o titoli. Pertanto, quando il tasso di
interesse di mercato è maggiore del tasso critico per un dato agente, egli acquisterà
titoli; nel caso opposto, deterrà moneta. Se il tasso di interesse di mercato fosse pari al
tasso di interesse critico per quel dato agente, egli sarebbe indifferente tra detenere
moneta o titoli.
La domanda di moneta speculativa L2 del singolo agente, come funzione del
tasso di interesse r, dove rc rappresenta il tasso dell’interesse critico, può essere
rappresentata dal grafico che segue:
r
r>rc
rc
r<rc
O
L2*
L2
Quando il tasso di interesse di mercato risulta essere maggiore del tasso dell’interesse
critico dell’operatore, la funzione della domanda di moneta coincide con l’asse
dell’ordinate e pertanto le scorte liquide speculative si azzereranno; se i due tassi
coincidono, per l’operatore è indifferente detenere scorte liquide o titoli; se, invece, il
tasso di interesse di mercato è inferiore al tasso di interesse critico, l’operatore deterrà
solo moneta, effettuando una domanda di moneta speculativa pari al segmento OL2*.
Nella analisi microeconomica di Keynes il singolo operatore detiene solo moneta o solo
titoli a seconda che il tasso di interesse attuale (o di mercato) sia minore o maggiore del
tasso di interesse critico.
L’analisi microeconomica consente di trarre conclusioni a livello
macroeconomico nel momento in cui si opera la sommatoria delle funzioni individuali
di domanda di moneta a scopo speculativo. Si ottiene:
67
r
rmax
rmin
O
L2
La funzione macroeconomica di domanda di moneta a scopo speculativo si presenta,
naturalmente, come funzione inversa del tasso dell’interesse ed è compresa tra un valore
massimo e un valore minimo del tasso. Il valore massimo del tasso di interesse
corrisponde al massimo tasso di interesse critico. Ciò significa che per r>rmax nessun
operatore ritiene possibile che il possedere titoli possa comportare perdite; in altre
parole tutti gli agenti sono convinti che il tasso di interesse possa solo ridursi e quindi
che il prezzo dei titoli possa solo aumentare. Pertanto, la domanda di moneta a scopo
speculativo si azzera. Il valore minimo del tasso di interesse corrisponde al più basso
tasso di interesse critico. Ciò significa che per r<rmin nessun operatore ritiene possibile
che il possedere titoli possa comportare guadagni; in altre parole, tutti gli agenti sono
convinti che il tasso di interesse possa solo aumentare e quindi che il prezzo dei titoli
possa solo cadere. Pertanto, la domanda di moneta a scopo speculativo diviene
teoricamente infinita. Si tratta del famoso caso della trappola della liquidità.
La trappola della liquidità si presenta tutte le volte in cui la grandissima
maggioranza degli agenti assume, a seguito di una caduta nelle prospettive di ulteriore
crescita dell’economia, una convinzione ribassista. In questa circostanza, che secondo
Keynes non costituiva un fenomeno eccezionale (ma ricorrente) e che non si verificava
necessariamente a livelli particolarmente bassi del tasso di interesse (ancora una volta il
problema è il “livello” delle aspettative), la moneta non viene spesa per l’acquisto di
titoli ma rimane ferma, intrappolata, nella sua funzione di riserva di valore.
9. Domanda di moneta, offerta di moneta e il tasso di interesse di equilibrio
L’esame della domanda di moneta nella Teoria generale ci porta alla
conclusione che, complessivamente, la domanda di moneta della collettività è costituita
da due componenti: una componente di tipo transattivo-precauzionale (indicata con L1)
funzione diretta del reddito e una componente speculativa (indicata con L2) funzione
inversa del tasso dell’interesse:
Md = L1(Y) + L2 (r).
68
La più semplice rappresentazione grafica delle due componenti è la seguente:
Y
r
0
L1
0
L2
Alternativamente, si può indicare la domanda di moneta nel quadrante r-L tenendo
presente che la posizione nel piano dipende dal valore di Y. Di seguito sono indicate
due funzioni di domanda di moneta per valori diversi di Y (Y*>Y0):
r
Y*
Y0
0
Ld
Ne segue che ogni aumento del reddito genererà una trasposizione della funzione verso
destra.
A questo punto, ricordando che nella Teoria generale Keynes ipotizza una
offerta di moneta data, siamo in grado di esaminare l’equilibrio monetario, e quindi il
tasso dell’interesse di equilibrio:
69
r
r*
Md
req
0
(Y*)
Ms
M
Il tasso di interesse di equilibrio (req) non è altro che quel valore del tasso al quale
domanda e offerta di moneta coincidono. Se ipotizzassimo di avere un tasso
dell’interesse (r*) maggiore di quello d’equilibrio (req), la domanda di moneta sarebbe
inferiore all’offerta. In una situazione del genere aumenterebbe la domanda di titoli;
conseguentemente, si avrebbe una crescita del prezzo dei titoli e ciò causerebbe una
caduta del tasso di interesse verso il valore di equilibrio.
A questo punto è opportuno soffermarsi sul concetto di tasso di interesse
monetario proposto nella Teoria generale per sottolineare le differenze rispetto alla
natura che il tasso di interesse ha nel modello neoclassico e nel modello keynesiano del
Trattato.
Nell’ambito del modello neoclassico, come visto in precedenza, il tasso
dell’interesse porta all’equilibrio risparmi e investimenti. Il tasso di interesse si presenta
dunque, nell’ambito di quel modello, come un fenomeno tutto reale. Esso è determinato
da grandezze reali: le merci non acquistate dai consumatori (il risparmio), la domanda di
nuovi beni capitali (gli investimenti). Una conferma di quanto appena detto proviene
dalla teoria quantitativa della moneta che ci informa che le variazioni della offerta di
moneta non incidono sull’altezza del tasso di interesse. D’altronde, queste conclusioni
sono in linea anche con il modello di equilibrio economico generale. Come mostrato nel
primo capitolo, infatti, in quel modello il tasso di interesse monetario non ha alcuna
autonomia logica ed è necessariamente pari al saggio di rendimento del capitale fisico.
Una posizione diversa di trova nel Trattato sulla moneta. Infatti, nel Trattato,
l’offerta di moneta, lungi dall’essere una grandezza data, viene descritta come una
grandezza endogena. Le banche, infatti, creano moneta per soddisfare la domanda
proveniente dalla economia; il potenziale creditizio del sistema bancario è teoricamente
illimitato. Seguendo l’interpretazione orizzontalista proposta da Moore (sulla quale
torneremo successivamente), l’analisi del mercato monetario presente nel Trattato può
essere rappresentata nei termini seguenti:
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r
Md
r esogeno
Ms
0
M
In questa rappresentazione, la variabile esogena non è più la quantità di moneta, bensì il
tasso di interesse. Si suppone che r sia determinato dalle autorità monetarie. L’offerta di
moneta è, viceversa, pienamente endogena, teoricamente infinita: il sistema bancario
crea tanta moneta quanta serve al finanziamento dell’economia. Ne segue che la
quantità di moneta in circolazione è essenzialmente (trascurando per il momento
problematiche connesse al razionamento del credito bancario) determinata dalla
domanda (demand driven). Risulta chiaro che, in questa analisi, il tasso di interesse è un
fenomeno esclusivamente monetario.
Nel modello della Teoria generale, il tasso di interesse – come abbiamo
precedentemente visto – pone in equilibrio la domanda di moneta con un’offerta di
moneta data. Da questa analisi emerge che il tasso di interesse si presenta come un
fenomeno in parte reale e in parte monetario; ciò significa che la grandezza del tasso di
interesse è influenzata sia da variabili reali sia da variabili monetarie. Il tasso di
interesse è influenzato da variabili monetarie in quanto variazioni della offerta di
moneta determinano variazioni del tasso (ad esempio un incremento della offerta di
moneta determina una riduzione del valore di equilibrio del tasso di interesse). Al tempo
stesso, il tasso di interesse è influenzato dalle variabili reali perché, come sappiamo, la
domanda di moneta è funzione del reddito: un incremento del reddito fa aumentare la
domanda di moneta a scopo transattivo-precauzionale e ciò, in condizioni di offerta di
moneta data, porta a un aumento dell’offerta di titoli, a una caduta del prezzo dei titoli
stessi e a un aumento del tasso di interesse. In termini grafici, un aumento del reddito
porta a una trasposizione verso destra della Md e a un conseguentemente aumento del
tasso di interesse di equilibrio.
Nella analisi della Teoria generale, il tasso di interesse costituisce il
meccanismo di trasmissione dalle grandezze monetarie alle grandezze reali, e viceversa.
In altre parole, secondo Keynes, la relazione tra moneta e produzione passa attraverso il
tasso dell’interesse. Il tasso di interesse svolge la funzione di mettere in comunicazione
il mondo delle variabili monetarie con il mondo delle variabili reali.
Per capire questo aspetto, ipotizziamo che – data una situazione iniziale di
equilibrio - si verifiche un incremento esogeno dell’offerta di moneta. Ciò determinerà
un aumento della domanda di titoli, un aumento del prezzo dei titoli e,
conseguentemente, una riduzione del tasso di interesse. A questo punto cominciano ad
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essere interessate le variabili reali. Infatti, la diminuzione del tasso di interesse
determinerà, date le aspettative, una crescita degli investimenti, un conseguente
aumento della domanda aggregata e quindi della produzione e della occupazione. Si
vede come variazioni monetarie influenzino le variabili reali attraverso il tasso di
interesse.
Ma anche il contrario è vero. Tornando all’esempio di sopra, infatti, va notato
che l’assetto finale di equilibrio conseguente all’incremento della offerta di moneta
risente degli effetti di retroazione che le variabili reali giocano su quelle monetarie. E’
chiaro, infatti, che l’aumento del reddito che scaturisce dalla crescita degli investimenti
genererà a sua volta una crescita della domanda di moneta a scopo transattivoprecauzionale; questa a sua volta genererà una crescita della offerta di titoli, una caduta
del loro prezzo e un incremento del tasso di interesse. Tutto questo processo può essere
mostrato anche graficamente:
r
r0
A
r2
C
r1
B
O
Ms’
Ms’’
Md’’
Md ’
M
Ipotizziamo che, inizialmente, le funzioni rilevanti siano la domanda di moneta Md’ e
l’offerta di moneta Ms’; il tasso dell’interesse di equilibrio sia r0; ci troviamo nel punto
A. Supponiamo che intervenga una crescita dell’offerta di moneta, per cui la funzione
rilevante diviene la Ms’’. Temporaneamente ferma la domanda, l’equilibrio si sposta in
B, al nuovo tasso r1. A questo punto, interviene la crescita del reddito e quindi della
domanda di moneta: la funzione di domanda rilevante diviene la Md’’; il tasso di
interesse di equilibrio cresce e l’equilibrio finale sarà in C, al tasso r2. In conclusione,
appare confermata la natura sia monetaria sia reale del tasso di interesse: quest’ultimo
dapprima scende per l’incremento dell’offerta di moneta e, successivamente, cresce in
conseguenza dell’incremento del reddito.
Il meccanismo di trasmissione dalle variabili reali alle variabili monetarie risulta
interrotto, nella Teoria generale, nelcaso di trappola della liquidità. In questo caso, un
aumento dell’offerta di moneta non determina variazioni del tasso dell’interesse e,
dunque, delle varibili reali. Se ipotizzassimo che la Banca Centrale – in condizioni di
trappola della liquidità – decidesse di immettere moneta nel sistema economico,
attraverso manovre di mercato aperto (acquisto di titoli), con l’obiettivo di determinare
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una caduta del tasso dell’interesse e di conseguenza un aumento degli investimenti, essa
non riuscirebbe a ottenere nessun risultato. Infatti, date le previsioni di ulteriore caduta
del prezzo dei titoli e la conseguente illimitata domanda di moneta degli agenti,
l’incremento della quantità di moneta in circolazione non andrebbe che ad aumentare le
scorte liquide degli agenti, senza effetto alcuno sul livello del tasso dell’interesse.
Graficamente:
r
Md
ro
0
Ms’
Ms’’
M
lo spostamento della offerta di moneta da Ms’ a Ms’’ non determina alcuna variazione
nel tasso di interesse che rimane fermo al livello minimo r0. In questo senso, poiché la
variazione della offerta di moneta non incide sulle variabili reali, il caso della trappola
della liquidità rappresenta un caso di “neutralità della moneta”. La conclusione
neoclassica non vale nella situazione di equilibrio ma, paradossalmente, nel caso della
crisi.
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