Silenzio - Suore Discepole di Gesù Eucaristico

Dalmazio MONGILLO, Il silenzio, in ID., Icone di vita liberata, Napoli, Editrice
Domenicana Italiana 2009, 47-62
Il testo è del 1990
47 Quella sul silenzio è una riflessione difficile. Parafrasando un pensiero di Agostino, si potrebbe dire che
sembra di sapere cos’è il silenzio, ma se poi si deve spiegare cos’è, sembra di non saperlo più.
Questa riflessione è centrata su tre punti fondamentali: una premessa, una riflessione sugli pseudo-silenzi
(cioè quei silenzi che sono tali solo in apparenza), ed il tema centrale, intitolato “Verso l’amore, nel
mistero”.
Quello del silenzio è un tema trasversale, non categoriale, lo si ritrova in molti contesti, ma mai esplicitato.
In genere è una tematica che è stata sviluppata soprattutto negli ambienti religiosi, anche in forme molto
profonde. Si pensi, ad esempio, a certi ordini monastici che evitavano del tutto la parola. In questi contesti il
silenzio non è assenza di comunicazione, ma è il far tacere tutto ciò che impedisce la comunicazione
profonda, è porre le condizioni per una comunicazione veramente intensa.
Quello del silenzio è un tema da immettere nella vita quotidiana, ma non in una prospettiva intimista. oggi
c’è un culto del solipsismo, della solitudine, della capacità di astrarre 48 dal contesto, di seguire i propri
sogni, ed è anche quell’atteggiamento che tante volte siamo costretti ad assumere perché quando ci si ritrova
in un mondo ciarliero, rumoroso, un mondo di consumismo di gesti e di parole, per salvaguardare un minimo
di intimità di vita si deve cercare di dosare, di fare economia di malinconie. Fare silenzio, far tacere le
malinconie inutili, è una “dieta” molto delicata e difficile.
Il contesto, invece, in cui si situa questa riflessione è quello di persone che vogliono vivere in solidarietà,
vogliono portare un contributo, rimanere immersi nella storia e contemporaneamente vogliono qualificare un
rapporto religioso. Oggi la comunità cristiana ribadisce con un ritmo sempre più incalzante che la santità non
è prerogativa esclusiva di alcune categorie di cristiani, ma è l’atteggiamento fondamentale di ogni credente:
ogni credente è chiamato ad essere un santo di Dio. Quando oggi si parla di “vocazione universale alla
santità” si vuole appunto affermare che esiste un atteggiamento profondo che non contrasta né con la laicità
né con l’impegno.
In questo contesto, dunque, ci si domanda che cosa possa significare il silenzio: è un richiamo ad un
equilibrio psichico? È il bisogno di creare le condizioni per una disponibilità, per una interiorità? È quel
contesto senza il quale non riusciamo ad impegnarci per un lavoro produttivo? È difficile definire la realtà
del silenzio, anche perché in essa si contemperano degli atteggiamenti personali e delle condizioni socioambientali: siamo tutti torturati, violentati, dal rumore delle nostre città, dal ciarlare, dalle radio, dalle
televisioni...
Il silenzio potrebbe essere pensato come un modo di situarsi nella realtà, come un modo di essere: è un
atteggiamento, non un atto. Per un certo tempo è un’ascesi, ma se lo fosse per tutta la vita significherebbe
che è un’ascesi sbagliata: ad un certo momento deve diventare un’atmosfera di vita, un ambiente, uno stile.
Ed ognuno ha il suo stile di silenzio: è, in qualche modo, l’atmosfera della personalità che ognuno si 49 trova
a vivere. È un po’ come il volto: ognuno è responsabile del volto che si dà, del volto nel quale si accoglie e si
lascia accogliere. È, quindi, una realtà dai contorni piuttosto indefiniti, ma molto veri.
È possibile cominciare la riflessione sul silenzio liberando il terreno dagli pseudo-silenzi. Per esempio, tace
chi rifiuta di comunicare: vive nel mutismo, nel rancore, nel risentimento, con il magone. non riuscendo a
prendere in mano la propria vita diventa prigioniero delle situazioni in cui vive, per cui s’incattivisce sempre
di più. Potremmo chiamare questo “il silenzio dei guastafeste”, perché persone così rovinano qualsiasi giorno
di festa. Questo mutismo a volte può avere delle motivazioni, ma indica sempre una mancanza di padronanza
di sé, il volere in qualche modo quasi ricattare gli altri, fargli pesare la propria realtà.
Altre volte, invece, si tace perché non si ha nulla da dire. Si hanno, in questo modo, i due estremi: da una
parte il mutismo, la parola imprigionata, il gesto sottoposto a controllo da un anonimo carceriere (perché non
è chi ha il magone che lo controlla); dall’altra parte il silenzio come assenza di comunicazione. È triste la
condizione di queste persone alle quali nulla sembra importante, che prendono tutto e non condividono nulla,
che disprezzano tutto, dalle quali non nasce niente da portare al mondo esterno. È il silenzio della sterilità.
Un altro caso di silenzio esterno è quello che potremmo chiamare “la grande murmuratio” (termine che
viene dalla tradizione monastica): la murmuratio della fantasia, della memoria. Apparentemente la persona
sembra silenziosa, ma in realtà la fantasia lavora, l’immaginazione è inquieta. Coloro che hanno la pratica
della preghiera sanno quanto la murmuratio interna, questo sottile fruscio che apparentemente non dice nulla,
sia disturbante. Come anche la mancanza di silenzio dei nostri sensi: sensi inquieti, avidi, possessivi,
accattivanti, dove apparentemente la persona non si muove, non fa nulla, ma l’agitazione interna è
estremamente grave.
50 Oppure i silenzi che sono ispirati da paura di parlare, paure di ogni genere. o ancora silenzi dettati dal
calcolo; o i silenzi subiti: il silenzio della malattia, della solitudine, dell’isolamento.
Come si vede, è molto varia la tipologia degli pseudosilenzi, cioè di tutte quelle situazioni che non sono
accompagnate da pace profonda, da gioia di vivere, da gioia di condividere. Ciò che li qualifica come
pseudo-silenzi è il fatto che l’assenza di parola è blocco di comunicazione.
Quando però si vuole arrivare a descrivere cosa il silenzio è, la questione diventa complessa. L’atmosfera
umana è un’atmosfera comunicante; viviamo in un mondo in cui la comunicazione è sempre in atto ed
andiamo di comunicazione in comunicazione attraverso le fasi di ascolto, interiorizzazione, maturità e
condivisione.
La vita, in fondo, non è che una comunicazione in rigenerazione permanente, in crescita; una comunicazione
che scaturisce dalla sorgente nella quale si è immessi e dalla quale si è portati verso una condivisione più
piena. E il silenzio ne è l’atmosfera, perché la disponibilità all’ascolto profondo, cioè il non mescolare
immediatamente le nostre rappresentazioni con quelle che ci vengono dalla realtà, è delicatissima.
Nel campo della ricerca è facile sperimentare con quanta facilità la mente inquini il messaggio, se non è
nella fase di recettività, che non è passività ma accoglienza piena.
Così nella comunicazione vera il fare silenzio permette di entrare in rapporto con l’altro in ordine ad una
prospettiva verso la quale si vuole andare insieme. È un momento di estrema delicatezza, soprattutto nella
preghiera, il mettersi nell’atteggiamento di ascolto: “Parla, il tuo servo ti ascolta” (1Sam 13,9-10).
Questo vale anche nella ricerca della verità: chi studia si rende conto di quanto sia delicato essere in
ascolto della realtà. Se nella sperimentazione (da ex-per-ire, un cammino da, attraverso un iter, verso) si
immettono dei dati, si falsifica tutto. Per cui il silenzio ha lo scopo di permettere che l’evento si realizzi, che
il messaggio arrivi esattamente nelle condizioni 51 migliori, in modo tale che l’interiorizzazione del
messaggio possa diventare vera.
Questo è un altro momento molto delicato, è il momento dell’essere fecondati e del dare l’apporto della
propria creatività. Altrimenti si è mimetici, ripetitivi, non creativi. E i momenti in cui si è veramente creativi
sono pochi. Il creativo non è il fantasioso, ma è colui il quale è capace davvero di sintonizzarsi col reale. Il
momento della creatività non è necessariamente quello della grande invenzione. Del resto, anche i momenti
geniali maturano con estrema lentezza: il genio, diceva qualcuno, è uno che ha rimeditato migliaia di volte
una realtà, finché non gli diventa incandescente. È, dunque, questo momento di fecondità, cioè la
personalizzazione della parola, della comunicazione, di quelle comunicazioni che davvero dicono qualcosa.
E non si è un ripetitore, ma c’è realmente una germinazione di vita.
Questo è un momento delicatissimo del silenzio: il passare dalla potenzialità alla condivisione per aver
vissuto un’accoglienza.
E questa è la grande povertà della vita.
Si passano vite intere ad aspettare che la verità parli, perchè è essa che educa: e quando ciò avviene, ci si
accorge che il silenzio non è un metodo ma è un maestro, che si è alla scuola di qualcuno che porta a
maturare al momento giusto. È come quando si aspetta una notizia: si fanno cose, si lavora, ma si ha sempre
l’orecchio attento al telefono, nel caso squilli; non è che si è sempre accanto al telefono, ma si lasciano le
porte aperte.
È come il dormire del piccolo Samuele: potrebbe darsi che venga il sogno.
Il maestro interiore porta verso il silenzio, al momento nel quale è possibile ascoltare.
Si pensi al momento della fecondazione: è un momento, una fase, non è tutto il tempo; tutto lo precede o lo
segue. Così nella vita: è il silenzio della primavera che arriva, dell’alba che arriva nel silenzio della notte. Per
gli autori spirituali la “notte dello spirito” era il grande momento non perché fosse qualcosa di tenebroso, ma
perchè è 52 l’affrettare l’alba, è l’inquieta attesa pacificata dell’alba. E questo cammino, dopo, porta alla
gioia di condividere.
Ora, se si ha fretta, rabbia, se si è inquieti, se si è impazienti con se stessi, se non si rispettano i tempi di
crescita, se non si accoglie la povertà della condivisione, questi momenti non avvengono. l’atmosfera del
silenzio è questa capacità di sintonizzarsi. Ed essa ha delle ricadute nella crescita personale, nella
intercomunicazione ed anche nel rapporto con la creazione.
La crescita personale è profondamente legata alla capacità di sintonizzarsi, cioè di superare l’atteggiamento
del duale, del conflittuale, del braccio di ferro, per entrare in una mentalità di condivisione. non si vive in un
mondo di sordomuti, atono, indifferente, ma in un mondo in cui è in atto una circolazione, dove le cose
parlano le une alle altre, dove nonostante alcune cesure, è in atto una comunicazione di vita, di pensiero, di
luce.
Per cui, alla base del silenzio c’è una fede: dal nulla non nasce nulla; non c’è silenzio, se non in un contesto
di fede. non una fede religiosa, ma il sapersi immersi in una realtà alla quale ci si affida (“fede” da fidere =
fidarsi). l’atto della fede è il credere e credere significa tenere a cuore e stare a cuore a qualcuno. Senza,
perciò, questo atteggiamento non ci può essere silenzio perché c’è solo assenza, mutismo, atonia. Alla base
del silenzio c’è dunque una fede: potrà essere la fede nell’universo, nell’armonia cosmica, nell’umanità... ma
la persona non si sente isolata, si sa immersa in una storia, non crede che la storia cominci e finisca con lei.
In questa condizione comincia la nostalgia del silenzio, il desiderio di sentire, il bisogno di entrare in questa
realtà. E ciò implica la vittoria sul negativo e il protendersi verso la liberazione della capacità di amare. La
capacità di amare non è tanto la capacità di compiere atti transitivi di amore (c’è oggi un consumismo di
gesti), ma la capacità di sentirsi accolti nella realtà in cui ci si accoglie lasciandosi prendere. la crescita 53
della persona non avviene se non in una comunione e in questa comunione non c’è crescita se non c’è
questa capacità di lasciarsi fare, di farsi e di fare. Sono tre movimenti: lasciarsi prendere, accrescere e
potenziare se stessi nella realtà.
Non vi è nulla di individualista: l’individualista non riceve né dà, non tace né parla. È, invece, qualcosa di
solidale e in questo senso è frutto, è il dono che si riceve dalla persona o dalla realtà con la quale ci si
sintonizza e dalla quale ci si lascia sintonizzare: si tenga presente il testo di Geremia: “Mi hai sedotto e io mi
sono lasciato sedurre e sono stato insieme con te” (Ger 20,7).
Si tratta di entrare, dunque, in questo ciclo. E ciascuna di queste fasi ha la sua qualità di silenzio: il silenzio
dell’accoglienza, il silenzio del dire sì, il silenzio dello stare insieme. Perché questa comunicazione ha i suoi
spazi di silenzio, come nella musica è essenziale la separazione delle note; quando non ci sono queste attese,
non c’è vero ascolto e non c’è vera comunicazione. la qualità della persona matura in questa realtà.
E il primo contesto in cui matura pare essere proprio quello della creazione.
Oggi è possibile rendersene conto da tutto ciò che si dice dell’ecologia, dell’umanità nel cosmo, del
superamento dell’antropocentrismo per mettersi in un’ottica più solidale. Si percepisce il desiderio di essere
in ambienti belli, di godere di paesaggi stupendi. Eppure a volte ci si accorge che anche quando capita di
poterne godere non si riesce a farlo, ci si annoia, si deve fare altro: non basta il silenzio delle cose, non si
riesce a sintonizzarsi; forse perché si è troppo pieni di altre cose o perché ci si aspettava altro o perché manca
la gratuità, non si riesce ad ascoltare il “movimento dei cieli”, come diceva Platone.
Sentire questa armonia, invece, è una prerogativa che dovrebbe sempre più essere sviluppata. Purtroppo essa
è sempre più contrastata, interferita. tuttavia la realtà gratifica coloro che la amano; per cui anche in un luogo
dove c’è 54 molta distrazione, se si è sintonizzati in qualche modo la realtà non lascia soli: le cose sono tutte
assunte da un maestro interiore il quale, attraverso gli eventi, parla alle persone che sanno ascoltare. La
persona non è totalmente dipendente dal contesto in cui vive, è molto più collegata al mondo personale in cui
è inserita che non al mondo intraumano da cui è condizionata. È vero che le strutture condizionano la
persona, ma è anche vero che la persona, se collegata alla sua sorgente, ha un potere di intervenire, di
coinvolgere le strutture. Si veda il testo della lettera ai romani: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”
(Rm 8,31).
Quando la creatura entra in un rapporto non idolatrico, ma vero con Dio, il Dio vivente parla. Ma Egli parla
producendo un silenzio; un silenzio che non è destinato a rimanere improduttivo, ma ad aprire parola.
Un altro tipo di silenzio è quello dei rapporti interumani, che richiedono disponibilità, rispetto dei tempi di
crescita, attese, sollecitudini, capire quando è bene e quando non lo è, discernere il tempo, maturare le parole,
in un atteggiamento d’amore. Allora è importante domandarsi: silenzio per chi? Per chi interessa fare
silenzio? Per noi stessi, per non essere disturbati, per non avere interferenze, o perché le persone prendano in
mano la loro storia, facciano il loro cammino? Qual è la realtà che sta al primo posto? In ogni realtà c’è una
dimensione di comunicabile e una di incomunicabile. Colpisce molto il modo in cui avviene la fecondazione:
sono due cellule complete, con 46 cromosomi ciascuna, ma poi solamente 23 di una e 23 dell’altra vanno a
formare lo zigote; non è che l’uno mette tutti e 46 i cromosomi e l’altro nulla. Così sembra che anche nei
rapporti ci sia qualcosa di simile: tutti e due hanno un patrimonio intero, ma solo una parte dei due interi
viene messa in gioco e c’è una parte di indisponibilità. Per cui le invadenze totali o le assenze totali
impediscono la comunicazione. È dunque importante saper dosare la propria vita: i tempi di 55 crescita, i
tempi di crisi, i tempi di sviluppo di ognuno. È una riflessione, questa, non destinata ad alimentare sensi di
colpa o sensi di autosufficienza, ma a richiamare l’attenzione sulla delicatezza di un cammino. Per arrivare
a ciò, c’è bisogno realmente di una “università del silenzio”.
Ora, la famiglia è la cartina di tornasole delle personalità: negli ambienti delle grandi relazioni sociali ci si
può sempre mimetizzare, ma lì ci si scopre, si appare nudi. Il silenzio, in questo caso, non ha paura di essere
nudo, non ha nulla da nascondere e nulla da ostentare – il bisogno di nascondere e quello di ostentare sono i
due anti-silenzi – un silenzio in cui la persona recupera la sua nudità costitutiva, che non è assenza di
vestito ma rifiuto di orpelli, in maniera tale che appaia nella sua verità. È un tema molto delicato, soprattutto
perché nei rapporti di tipo familiare si vivono momenti difficili. Si pensi, ad esempio, ai momenti di
malattia: che cosa non avviene al letto di un ammalato, che complicità, che mancanza di verità, che
indiscrezione! lì si comprende dove il silenzio è un tradimento e dove il silenzio è una tenerezza. Spesso ci si
chiede se “dire la verità” alla persona, quasi che questa verità abbia criteri astratti; ma la verità è un rapporto,
è il vedere cosa effettivamente la persona può tollerare, può portare di peso di una realtà. Ci vuole molto
silenzio, ci vuole molta discrezione per poterla comunicare. E invece, purtroppo, o si è spietati («bisogna
dire le cose come sono») o si vive in atteggiamenti di iperprotezionismo. E cominciano quei tradimenti di
silenzio reciproco, in cui io non dico ma so e tu non dici ma sai; e tutti e due sanno e nessuno dei due dice. Si
pensi anche a quando ci si accorge di certe situazioni che fanno male e nessuno ha il coraggio di affrontarle:
tutti sanno e nessuno parla, oppure si parla ad altri. È ciò che abbiamo chiamato il silenzio-paura. I nostri
rapporti, di quanti silenzi sono vittima e di quante parole sono preda? Il coraggio di non parlare più ad una
persona cara: quando si sa qualcosa di una persona cara, quanto è difficile 56 continuare a trattarla in verità!
È silenzio tacere ad un’altra persona una realtà che potrebbe veramente compromettere il rapporto? o è
parlare? Anche qui: tacere in ordine a che, parlare in ordine a che? Se taccio a favore di un futuro di
comunicazione, in realtà parlo; mentre se, parlando, si interrompe la comunicazione, in realtà taccio. È una
questione difficile, viaggia su un crinale che può dare adito a tutte le situazioni di simulazione o di
dissimulazione e a tutte le intemperanze e a tutti i dispetti. l’unica cosa che ci può garantire e permettere di
superare alcuni ostacoli è l’essere sinceri nell’arrivare ad amare, a volere il bene della persona.
Cos’è, invece, il silenzio nel campo della comunicazione sociale, politica? Cosa significa rispettare il
silenzio in un mondo conflittuale quale quello in cui siamo, in cui la divulgazione di una notizia diventa
l’occasione per eliminare un concorrente, per capovolgere una situazione? E d’altra parte: come continuare a
mantenere questa forma di comunicazione con se stessi, per non diventare vittima dell’accadere di questi
eventi che ti travolgono, per mantenere un certo distacco di discernimento per cercare di vedere la realtà
come è? A questo livello il silenzio potrebbe essere trovato in un equilibrio tra verità, missione e
prospettiva: essere veri, sentirsi in una certa missione ed avere una prospettiva di futuro per non lasciare che
le situazioni si blocchino, per rimettere in moto situazioni statiche.
C’è, inoltre, il silenzio nella relazione con Dio. È possibile suddividere l’argomento in tre parti: il silenzio
di fronte a Dio, il silenzio su Dio e il silenzio Suo. Qui il silenzio assume la sua dimensione più sublime e
anche più tragica. Il silenzio di fronte a Dio. Il silenzio è richiesto per ascoltare la Parola, ma l’ascolto deve
diventare parola. La Parola, cioè, non genera l’ascolto ma genera la parola, perché è la Parola di Dio che
deve arrivare fino alla fine della storia. E questa Parola parla nell’ascolto in cui diventa eloquente. Anche
qui, si va di parola in parola. La Parola di Dio, che è 57 scritta nella Bibbia, è fatta per essere parlata; deve
essere ascoltata perché deve diventare parola. Quindi la Parola genera la parola attraverso l’ascolto. Per cui
cosa significa stare in silenzio nell’ascolto della Parola? Significa permettere che la Parola generi te come
parlante, perché non sono delle parole che tu dici, ma la Parola parla attraverso te, attraverso la tua vita. la
storia di Gesù è la storia degli eventi che Egli ha vissuto, quelli che sono trasmessi attraverso le parole, per
poter diventare poi la nostra vita. Ascoltare in silenzio in modo da non interferire, perché la Parola si
riproduca in noi, non attraverso una ripetizione meccanica, ma attraverso un “come” generativo. Quando
Gesù dice: «Amatevi come io vi ho amato» (Gv 15,12), non vuole invitarci ad essere degli scimmiottatori di
gesti; si tratta di essere immersi nello stesso processo, che si ripete non attraverso degli automatismi, ma
attraverso un’associazione nella stessa sorgente.
È qui il momento alto del silenzio, questo lasciarsi generare fecondi, dove non c’è passività. nel
cristianesimo non esiste la passività; il passivo biblico è l’implicativo, cioè è il passivo del fedele, il quale
non è ripetitivo di parole, non scimmiotta comportamenti: è veramente lui che li fa, ma non li fa da solo, li fa
insieme con un Altro. Il Creatore genera i creativi. Dunque lasciarsi generare creativi davanti a Dio, questo è
il silenzio.
Questo lo si nota soprattutto nella liturgia e nella contemplazione. Purtroppo per noi gli atti liturgici sono riti,
ma è nella liturgia che i fedeli sono generati da Dio. Essa è questa disponibilità a lasciarsi coinvolgere
pienamente nel diventare come lui. E ciò assume il suo aspetto più vero nella preghiera contemplativa.
Sappiamo che c’è sempre stata, nel cristianesimo, la discussione su cosa sia la contemplazione. Circa
quaranta anni fa il grande filosofo e teologo cattolico J. Maritain scrisse un libro molto duro contro le
comunità monastiche2, in cui af58fermava che la liturgia non può essere contemplativa perché la
contemplazione è la totale astrazione da tutta la realtà, mentre nella liturgia c’è il canto, la parola, i gesti
2 Cfr J. Maritain – R. Maritain, Vita di preghiera, liturgia, contemplazione, Borla, Roma 1979 (ediz. originale 1959).
Gli avversari, invece, sostenevano che la liturgia è l’unica contemplazione, cioè è l’unica possibilità di
entrare in questo movimento in cui Dio forma il popolo, questa gioiosa, consenziente, solidale partecipazione
a diventare famiglia. E quand’è che le famiglie contemplano di più? nel giorno di festa o quando ciascuno se
ne sta chiuso nella sua stanza a studiare? Il momento della grande festa è per la famiglia il momento della
grande contemplazione. I momenti più belli della storia familiare sono quelli in cui ci si ritrova tutti insieme,
ci si concentra nell’intimità degli affetti, nella condivisione della vita.
Un discorso analogo può essere fatto per la clausura. Cos’è la clausura? Per me è il chiudersi al peccato e
l’aprirsi all’umano, mentre per altri è il chiudersi alle persone. Allora cosa sarà la gioia di una famiglia? È la
chiusura a ciò che impedisce di partecipare. nell’ultima cena, chi era in clausura, chi era in silenzio? Giuda
che meditava su come fare per tradire Gesù o gli altri che facevano festa, che parlavano?
Dunque il silenzio, l’atteggiamento vero di fronte a Dio è questo sentirsi immersi nel Suo popolo, essere
felici di essere nella Sua provvidenza. Come i bambini che, quando in casa c’è un minimo di serenità,
giocano, corrono. «Se non diventerete come bambini...» (Mt 18,3): ecco, il bambino rompe il silenzio o no?
Può darsi che non lo rompa mai. Una casa dove non ci fosse la gioia di queste creaturine non sarebbe una
casa dove c’è silenzio, ma una casa dove c’è morte. È importante questa relativizzazione del concetto di
silenzio come situazione ambientale e questo collegamento al fenomeno dell’amore.
59 Il silenzio su Dio.
Nel cristianesimo ci troviamo di fronte a due dati: «non nominare il nome di Dio invano» e «Guai a mese
non ti nomino». Dov’è il silenzio qui? Chi fa silenzio? Fa silenzio colui che parla del Mistero con rispetto o
colui che tace sul Mistero? Che significa oggi “nominare Dio” nelle nostre realtà? Significa indulgere a quei
movimenti per i quali se non si sente in modo esplicito «Gesù, Maria, Dio» sembra che non si parli, o
significa comportarsi onestamente, fare il proprio lavoro bene, con rettitudine? Chi tace Dio e chi lo nomina?
Dov’è il silenzio che parla di lui e dov’è il parlare che tace di lui? Quanto parlare di Dio tace di lui, non dice
nulla, e quanti silenzi, dove il Suo nome non si sente nominare, trasportano in lui!
Anche in teologia ci sono state due grandi tendenze: la teologia che tace sul mistero e la teologia che cerca di
parlarne, di prestare le sue parole, le sue categorie, i suoi concetti, le sue strutture, perché il mistero si disveli.
Oggi viviamo questo terribile conflitto: questa Chiesa quando parla? Quando si mostra nelle grandi
istituzioni, nelle grandi processioni, o parla nell’atteggiamento silenzioso di un povero individuo che porta
avanti la sua vita? Dove si visibilizza, dove parla? nelle grandi strutture o nel comportamento semplice? nella
nostra comunità cristiana c’è un consumismo di nomi, si pensa di aver fatto un bel discorso perché si è
nominato trecento volte il nome di Dio: ma qua è il discorso che t’invita a fare pace con la tua storia, con la
tua vita? Chi parla di Dio?
II silenzio di Dio.
È veramente un Dio che parla o è un Dio che tace? È un Dio che si svela o è un Dio che si rivela, cioè che si
nasconde (“rivelare” vuol dire mettere un velo su un altro)? Cioè: la rivelazione è lo svelamento di Dio o è il
nascondimento di Dio, per cui apparentemente sembra che ti dica qualcosa, ma in realtà si nasconde sempre
di più? nel suo libro L’attesa di Dio (1966), Simon Weil ha delle pagine stupende 60 sulla sventura: questo Dio che
non parla, che vuole abituarti ad aspettare con fatica la Sua epifania, che ti fa tanto pesare questa parola e poi
quando arriva scompare, come ai discepoli di Emmaus.
Nelle comunità cristiane c’è un grande fabulare, per cui tutto è chiaro, tutto è evidente; c’è una apologetica a
buon mercato che offende tutti, noi teologi che sappiamo tutto… È necessario tacere di fronte ai silenzi di
Dio, lasciare che Dio parli quando vuol parlare. Certo, è facile dirlo, ma è difficilissimo realizzarlo. Qui
l’ascesi del silenzio ci porta alle sue dimensioni più profonde: tacere quello che non sai. Dio non lo conosci,
di lui non sai: taci.
Ma il tacere significa ritenere che lui sia assente, che non c’è? Che significa? nelle situazioni in cui la
sventura e il dolore ti scarnificano, che cos’è questo silenzio di Dio? Perché? Fortunatamente anche Gesù ha
detto: «Perché?» (Mc 15,34). Se non lo avesse detto, chissà quanti sensi di colpa noi avremmo o chissà
quante volte diremmo che sono perverse quelle persone che si chiedono «Perché?». Ma avendolo chiesto
anche lui, ha legittimato tutti i “perché” della storia.
Ma come essere i testimoni di Dio nei confronti di qualcuno che Gli chiede «perché?» e lui non parla? non
parla o parla? Che atteggiamento assumere per non nascondere Dio e per non interferire su di lui? Sono
situazioni al di sopra di ogni possibilità di calcolo, di fronte alle quali non è possibile prendere una posizione
piuttosto che un’altra. Quanto è delicato assumere il rischio di dire il nome Suo! S. Alfonso, il patrono dei
moralisti, col suo fine humour, diceva, in un libro che aveva scritto per formare i preti, «Quando andate in
una casa dov’è successa una grossa disgrazia e sentite bestemmiare, non vi preoccupate: lì dicono le litanie».
È un paradosso, ma c’è un glorificare Dio nella bestemmia.
Il punto più importante di tutto il discorso è che si ha bisogno di un maestro: «Signore, apri le mie labbra»;
«Metti 61 sulle mie labbra la Parola tua», questa Parola che è il Figlio. Chiedere, cioè di essere associati al
parlare del Figlio, come il Figlio ha parlato del Padre. lui ha detto: «non vi preoccupate quando vi porteranno
davanti ai principi e ai re; non vi preoccupate, vi dirò io quello che dovete dire» (Mt 10,19). E questo
succede. tante volte capita di incontrare persone che dicono: «Quanto bene mi ha fatto quella parola che mi
dicesti quella volta!»: quella parola per quella persona è stata un punto di riferimento, mentre magari la si è
detta senza pensarci troppo. C’è quindi questa confidenza: «Metti sulle mie labbra la parola giusta». Il
cristianesimo, in fondo, non è altro che una scuola di affidamento: ti affidi a Uno che ti porta poco alla volta
a dire: «opera attraverso di me». È la Preghiera semplice di S. Francesco: «Fa’ di me uno strumento della tua
pace».
Il nocciolo del discorso è questo, non è questione di metodi. Se anche nella preghiera bisogna andare a
scuola per imparare a parlare, esercitarsi in metodi di preghiera, allora è finita, significa che si è legati più al
metodo che alla comunicazione. Bisogna lasciare che il Signore parli. Dovremmo diventare “icone di vita
liberata”, dare cioè la testimonianza di una vita liberata, che può anche sbagliare, perché il cristianesimo non
è la religione degli infallibili o degli impeccabili, è la religione di quelli che hanno fame e sete di carne e di
sangue: «Prendete e mangiate… prendete e bevete» (Mt 26,26-27). È una religione di “mangiamenti” e di
“bevimenti”: tutto sta a vedere quale cibo devi mangiare e quale liquido devi bere. Il Cristo ci ha dato solo la
sua carne e il suo sangue: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita» (Gv 6,54). Per cui il
cristianesimo è una fede che vuole alimentare la fame e la sete: mangi non per estinguere la fame ma per
coltivare la fame e bevi non per estinguere la sete ma per coltivare la sete. Si tratta di liberare la sete e di
liberare la fame: «Perché vi costruite tante cisterne? Bevete l’acqua che Io vi do. Voi che non avete soldi,
prendete e mangiate...».
62 Il silenzio è l’atteggiamento che permette in qualche modo di dire: «Ho veramente fame di te o ho fame
di me? Voglio incapsulare te nella mia storia o voglio vivere con te?». Questa dovrebbe essere la meta
verso cui ci conduce il silenzio: il discernimento di chi abbiamo fame e di chi abbiamo sete. Se abbiamo più
sete di lui o della sete di lui, se abbiamo più fame di lui o della fame di lui. Il coinvolgimento più profondo è
proprio a questo livello. Perché possiamo anche arrivare ad avere fame di lui e sete di lui, ma Egli vorrebbe
che noi incominciassimo ad avere sete della Sua sete e fame della Sua fame. Questa è la meta del silenzio.
Dove fai tacere questo desiderio: non più «Voglio te» ma «Voglio essere in te e con te». Dunque il silenzio
porta progressivamente dall’aver fame e sete di cose, all’aver fame e sete di persone; dall’aver fame e sete di
persone per mangiarle e sfamarti all’aver fame e sete della fame e della sete che queste persone hanno, in
modo tale da arrivare insieme ad avere fame della Sua fame e sete della Sua sete, cioè che il regno venga,
che la giustizia si faccia, che la liberazione avvenga per tutti, che il mondo diventi pacificato, che uomini e
donne si amino, che cadano le barriere, quelle cose cioè delle quali lui aveva fame e sete. Il silenzio e la
Parola portano poco alla volta in questo cammino di successiva liberazione, finché non si entri almeno nel
desiderio sincero: «tienimi con te; beviamo insieme e mangiamo insieme. Io ho sete della tua sete e fame
della tua fame».
Lui ci porta verso questo e sa dove ci porta. l’importante è non sottrarsi a questo Maestro il quale ci porta,
dosa le cose; e ci si accorge che le cose si arriva a vederle al momento opportuno. non è importante quando
le si vede, è importante che si arrivi a vederle.