Oggetti che parlano, soggetti di storia
Note per l'intervento di Peppino Ortoleva al seminario Attanti attori agenti, Torino 3 dicembre
2008
1. L'invito a partecipare a questo seminario mi ha spinto a riprendere alcune riflessioni che
avevo cominciato a sviluppare diversi decenni fa, quando mi occupavo del cinema e della
televisione come fonti storiche e come strumenti di trasmissione del sapere. Il volume per altro
molto esile di Marc Ferro, Cinema e storia, uscito in Italia nell'80, invitava a confrontarsi con il
cinema non solo come documento, appunto, ma anche come agente di storia. La cosa da una
parte mi incuriosì, dall'altra parte mi pose subito almeno due interrogativi, proprio per l'ambiguità
dell'espressione.
Il primo interrogativo: siamo abituati naturalmente a parlare di agenti di storia a proposito dei
soggetti umani, e in qualche misura anche delle istituzioni (a cominciare da quelle che
costituiscono a loro volta grandi aggregati di persone, come gli stati, le chiese ecc.); possiamo
attribuire una funzione diversa ma paragonabile a grandi fatti naturali come per esempio il
terremoto di Lisbona che tante riflessioni suscitò tra gli illuministi: per altro vien fatto in questo caso
da parlare più che di un agente di un evento che come tale è parte della storia. Ma in che senso si
può attribuire una funzione “attiva” cioè determinante a entità di altro genere, oggetti fabbricati
dall'uomo?
Il secondo interrogativo: l'espressione “cinema” (ma lo stesso vale per “radio” o “stampa”, e
sostanzialmente per tutti i media e per tutti i sistemi tecnici complessi) include in sé una varietà di
significati. Parliamo di cinema come di un fatto strettamente tecnologico, quello che ha permesso
di “movimentare” l'immagine, fotografica o disegnata; come di un linguaggio; come di un insieme di
abitudini socialmente diffuse (“andare al cinema”); come di un apparato produttivo. Quando
diciamo che il cinema è “agente di storia”, ammesso che l'espressione in sé abbia un senso, di
quale cinema parliamo? Per Ferro sembra valere soprattutto il riferimento al cinema come
apparato produttivo condizionato anche e soprattutto dalle istituzioni politiche e dalle ideologie
dominanti; per non dire: loro diretto prolungamento.
E' una visione lineare strettamente legata a quella per cui molti storici preferiscono studiare gli
usi propagandistici dei media rispetto a quelli meno direttamente finalizzati. Ma possiamo parlare
del cinema “agente di storia” anche in quanto abitudine? E in quanto tecnologia? E in che senso
“agente”?
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2. Cominciamo dal primo interrogativo. In che senso un'entità non-umana, per quanto nata
dalla mente e soprattutto dalle pratiche umane, può “fare la storia”? Una domanda del genere non
riguarda solo un'affermazione in sé fragile come quella di Ferro, ma asserzioni di ben altro peso,
per esempio quella celebre di Bacone nel Novum Organum secondo cui "Printing, gunpowder, and
the compass. These three have changed the whole face and state of things throughout the world;
the first in literature, the second in warfare, the third in navigation; whence have followed
innumerable changes, in so much that no empire, no sect, no star seems to have exerted greater
power and influence in human affairs than these mechanical discoveries”.
Ed è anzi proprio l'aforisma di Bacone quello che più ci sfida: anche per la sua radicalità.
Mechanical discoveries che cambiano il mondo più di imperi e sette, e più delle stelle. Così
radicale che due secoli dopo e oltre (il Novum Organum è del 1620, il Sartor Resartus del 1833)
Carlyle, che pure in quanto a radicalità non scherza, non se la sente di seguirlo fino in fondo: “He
who first shortened the labour of Copyists by device of Movable Type was disbanding hired Armies,
and cashiering most Kings and Senates, and creating a whole new Democratic world; he had
invented the Art of Printing”. In fatto di poteri attribuiti alla stampa C. fa invidia a McLuhan; ma
l'agente del cambiamento è comunque in primo luogo una persona, un inventore.
Ma riprendendo alla lettera Bacone, la domanda è: in che senso la stampa (o la bussola, o il
cinema) “fa la storia”? In che senso, nel linguaggio comune, si dice spesso che il computer ha
cambiato il modo di pensare, la posta elettronica ha rivoluzionato le relazioni tra le persone,
Internet sta distruggendo l'informazione tradizionale?
In realtà, queste espressioni possono avere una varietà di significati che spesso, soprattutto
nel linguaggio corrente, si sovrappongono, ma sono concettualmente differenti. Distinguerli è la
premessa indispensabile per ragionarci. Per poi magari tornare a sovrapporli ma a patto di farlo in
modo motivato.
2.1. C'è un primo significato apparentemente innocuo ma in realtà sottilmente carico di insidie,
quello che attribuisce alle nuove macchine un valore periodizzante. Dove stanno le insidie? In due
implicazioni sottintese:
-la prima sta nel concentrarsi sull'innovazione, quasi che la funzione agente del fattore non
umano si esercitasse principalmente nel suo apparire. Riferimento all'interpretazione ciclica
proposta in Mediastoria;
-la seconda sta nel distinguere la periodizzazione dalla lettura dei processi causali; è una
tendenza ossessiva negli ultimi trent'anni, quella di interrogarsi sulle fasi della storia non solo
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scindendo queste interpretazioni dalle grandi spiegazioni causali ma addirittura contrapponendo
periodizzazioni come moderno e postmoderno alle precedenti. Diciamolo una volta per tutte: se un
fatto tecnico ha portata periodizzante, vuol dire che implica un cambiamento il quale va spiegato
come dato storico e non semplicemente accolto a fini classificatori;
-c'è poi un fenomeno connesso non meno problematico: la tendenza a fare di un medium il
simbolo di un'epoca: un esempio Bauman in L'età dell'incertezza. La “corrispondenza” che viene
stabilita tra il modo di funzionare di una tecnologia e di un'abitudine sociale, da una parte, e la
mentalité del tempo, dall'altra, può apparire ben diversa da un'attribuzione alle stesse di un ruolo
attivo; ma la domanda è: come si motiva una simile corrispondenza? Con un generico “spirito del
tempo”? Ma quella di Hegel era una filosofia della storia sul serio... Con un'azione più o meno
diretta del medium sulla mentalité ? E allora torniamo a un'agency, però concettualmente fragile
perché non analizzata in quanto processo, ma evocata semplicemente sulla base di rapporti
analogici.
2.2. Un secondo significato, che come vedremo è probabilmente il più vicino all'interpretazione
prevalente di espressioni come “il cinema agente di storia”, è legato all'attribuzione ai grandi
sistemi tecnici di un ruolo istituzionale: non solo di istituzioni più o meno strutturate e formalizzate,
come spesso accade (la rete telefonica, la radiotelevisione ecc. sono apparati proprio in questo
senso), ma anche di istituzioni by default. Per chiarire questo concetto, riferimento al cap. 8 di
Eredità. Ma una lunga storia alle spalle: pensiamo per esempio al ruolo di aggregatori sociali
attribuito ai giornali (e alla stampa in generale) da Gabriel Tarde: una vera e propria formazione
sociale, il pubblico, distinto dalle aggregazioni pre-esistenti.
2.3. Un terzo significato ci riporta a una nota tesi di Bruno Latour, nel saggio Where Are The
Missing Masses? In una società fatta di persone e macchine, secondo Latour, dobbiamo attribuire
alle seconde una presenza relazionale e sociale che tendiamo generalmente a schiacciare. Non a
caso proprio Latour ha ripreso il concetto di attante dalla semiotica greimassiana per dargli un
significato sociologico. Suggestivo, certo. Ma che cosa vuol dire che le macchine sono “entità che
agiscono”? Si aprono qui ancora altre possibilità
-l'automatismo, con tutte le implicazioni inquietanti del termine: le macchine agiscono in
quanto dotate di meccanismi che ne determinano il movimento indipendentemente dall'azione
umana;
-il “dispositif” inteso come espressione pigliatutto ma anche come espressione relativamente
rigorosa, per esempio come portatore di regole;
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-l'oggetto parlante: ovvero le macchine di comunicazione attive in quanto capaci di istituire un
dialogo o almeno un fantasma di dialogo con gli umani.
2.4. Qui si apre un altro problema: gli oggetti includibili sono comunque soltanto macchine?
Non dovremmo interessarci anche a oggetti apparentemente più umili ma che hanno modificato il
mondo nella loro pervasività. La quantità che trascende in qualità. Interessante il caso dei mattoni,
o dei jeans. Molto meno citati di altri che pure forse sono stati meno influenti.
2.5. Un quarto significato ci riporta a quel (poco) che sappiamo dei megasistemi: oltre alle
regolatività, la path dependency e l'irreversibilità, l'intelligenza di sistema. Rinvio su questo tema
all'introduzione che ho scritto anni fa con Michela Nacci per il volume di Alain Gras Nella rete
tecnologica, UTET-Telecom, Torino, 1997.
Sono modelli di azione profondamente differenti, se ci pensiamo: il 2.2 sottolinea un
cambiamento nei quadri di riferimento sociali; il 2.3. a vario titolo, a parte la sua varietà interna,
attribuisce un ruolo agli oggetti stessi ; il 2.4 sottolinea il peso della quantità; il 2.5. un
cambiamento di organizzazione; mentre dell'ambiguità del 2.1 si è già detto. Di che parliamo
quando parliamo di agire?
3. E non abbiamo neppure esaurito il quadro. Si può parlare di framing o se vogliamo di
outillage mental.
3.1. Ci sono inoltre innovazioni che agiscono in quanto favoriscono un cambiamento del
frame, del “quadro” in cui vengono inseriti i fenomeni e i processi anche apparentemente banali. Il
caso più tipico è la “forma simbolica”, come la definì Panofski, della prospettiva, o anche la “forma
culturale”, nella terminologia di Williams, della televisione: la prima definisce con regole quasimatematiche (e proprio nei secoli in cui si afferma l'idea secondo cui il mondo 'è stato scritto da
Dio su basi matematiche) il punto di vista e l'ordinamento spaziale; la seconda struttura l'abitudine
di fruizione dell'informazione come dell'intrattenimento e contribuisce a riorganizzare l'intero tempo
domestico.
3.2. Ma possiamo andare più in là, per esempio in materia di memoria: di una potenza
condizionante della comunicazione parlava un celebre brano del Fedro, che per comodità cito per
ora in inglese. “His invention will produce forgetfulness in the minds of those who learn to use it,
because they will not practice their memory. Their trust in writing, produced by external characters
which are no part of themselves, will discourage the use of their own memory within them. You
have invented an elixir not of memory, but of reminding; and you offer your pupils the appearance
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of wisdom, not true wisdom, for they will read many things without instruction and will therefore
seem [to know many things, when they are for the most part ignorant and hard to get along with,
since they are not wise, but only appear wise”. E' un modo per contrapporre la memoria al mezzo,
di esaltare una facoltà nella sua presunta “purezza” astorica. Ma la realtà è che la storia dei mezzi
è parte della storia della memoria umana, e viceversa: che memoria e reminiscenza, per restare
alla terminologia aristotelica, si trasformano progressivamente man mano che si dotano di
strumenti per depositarsi ma anche man mano che si dotano di differenti logiche di accostamento e
recupero.
Da questo punto di vista, tutta la storia degli ultimi centosettant'anni è stata attraversata da
una serie di passaggi nel nesso media-memoria, per alcuni versi in continuità tra loro, per altri
segmentati e perfino contrapposti. La fotografia fin dall'origine dà vita il sogno di fissare il tempo: a
mirror with a memory è la definizione che del dagherrotipo dava Oliver W. Holmes. Lo snapshot poi
diventa sistema di sequenze parallele alla quotidianità, che da un lato fissa con incredibile
efficacia, un universo omologo a quello vitale, sotto lo sguardo prospettico della macchina e nella
spontaneità dei gesti; dall'altro blocca i gesti stessi e le espressioni in immagini che sono solo in
parte riconoscibili da chi ne è protagonista; e lo stesso vale per i suoni registrati. I centoventi anni
dell'istantanea hanno insomma costituito un grandioso seppure volatile deposito di memorie che
sono poi in gran parte di tutti e di nessuno, e dato vita a una forma di memoria alternativa a quella
strettamente psichica, di qui il senso di mistero che accompagna il vedere foto “che non si sa di chi
siano”. Senso di mistero con una sua valenza estetica, e che spiega l'osservazione acutissima di
Susan Sontag secondo cui dopo una trentina d'anni tutte le fotografie diventano “belle”. Una
memoria sociale perché se non altro è socializzato lo strumento della sua costruzione, ma anche
perché è stata man mano oggetto di processi di condivisione sociale, “cartamoneta dei sentimenti”
(ancora Holmes, questa volta sulle fotografie su cartoncino): dall'album e dall'invio via posta alla
formazione di regole condivise e standardizzate di rappresentazione. Memoria anche istituzionale,
perché la fotografia non è preservata automaticamente ma appoggiata a diverse logiche di
archiviazione, familiare, aziendale, giornalistica. Sarebbe sciocco negare che la fotografia abbia
agito sulla memoria umana quanto lo sarebbe attribuire quest'affermazione a un pregiudizio
deterministico.
Il cinema, poi, ha rappresentato un primo salto importante nella storia della memoria
fotografica, in quanto ha abituato un pubblico di milioni di persone al montaggio come processo
mentale straordinariamente simile alla reminiscenza e insieme esternalizzato. Il cinema ha dato
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vita a forme di rappresentazione efficacissima della memoria, oltre che a propri e distinti depositi di
memoria: a cominciare dal flash back, che rappresenta il ricordo appunto come viaggio all'indietro,
ma per certi versi (dal punto di vista dello spettatore) come mondo parallelo.
Oggi siamo di fronte a un nuovo salto, con la fotocamera e la videocamera digitali. Novità non
solo nella costruzione dal basso ma anche e soprattutto nella quantità, e nei modelli di circolazione
e appropriazione della memoria propria e altrui. Basta guardare flickr. Si fa esperienza dei luoghi
trascrivendoli e si fa uso dell'immagine non come piacere estetico ma come memo:
generalizzazione del libro degli schizzi ma anche sua casualità.
O basta guardare gli album di Facebook: il tagging e la formazione di album all'insaputa o
quasi dell'interessato. Ma attenzione a non esaltare il mito della community, quasi che queste
forme di comunicazione discendessero da sistemi di relazione già definiti. Vi sono elementi di
standardizzazione ma anche scambio come esperienza allargata.
Questo lungo excursus su media e memoria, nella sua superficialità, inverte in certo senso
l'interrogativo di Ferro da cui ero partito. Emerge non o non solo un cinema “agente” di storia ma
un cinema, tra gli altri media, come fattore motivante (agente in un altro senso per molti versi più
profondo) di che cosa vuol dire memoria e di come si ricostruisce il passato.
4. Tanto più che c'è l'altro interrogativo di cui all'inizio. Perché “cinema” è tante cose insieme.
Ci sono alcune risposte abbastanza automatiche anche per logiche disciplinari: se uno dice che ad
agire nella storia è stata l'invenzione dei Lumière scatta abbastanza automatica l'accusa di
determinismo tecnologico. Ma è motivata? E che vuol dire? Perché dare del determinista
tecnologico a un altro è un po' come dargli del consumatore di pornografia: quello che piace a me
è sempre erotismo, la tua è pornografia, sporcaccione.
Il punto è che se il cinema agisce è nei processi che attraversano queste diverse modalità di
presenza sociale, e di azione; processi che fanno del cinema quello che è, cioè una realtà storica.
In altri termini, che la storia è insieme la premessa e l'approdo di qualsiasi discorso sull'azione in
quanto è nel tempo, nella conoscenza totale che include anche la ricostruzione narrativa (Ricoeur),
che le diverse forme di causalità si intrecciano e insieme si distendono. Nella storia le diverse
definizione di azione si possono nuovamente sedimentare e sovrapporre, non per confusione
concettuale come avviene spesso nel senso comune, ma dopo una distinzione che è teoricamente
indispensabile e che al tempo stesso risulta, nell'agire umano che è agire storico, inevitabilmente
astratta. Nella storia tutti agiamo, singoli, istituzioni, cose; e nella storia inevitabilmente ci
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arrangiamo.
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