Testo storiografico Le elezioni generali in Italia del 18 aprile 1948 nel quadro politico internazionale Giuseppe Ignesti (Università di Roma) Il mio intervento ha il solo scopo di inquadrare sul piano storico della politica internazionale, sul filo degli avvenimenti, il clima nel quale si svolsero in Italia le elezioni politiche generali del 1948. Spesso la storiografia ha stabilito una sorta di rigida connessione causale tra lo svolgersi del quadro politico internazionale e la vicenda politica interna del nostro Paese. E fra quei due piani ha costruito un rapporto quasi meccanicistico, come tra causa ed effetto: ora sulla base della lettura attenta delle fonti relative a quegli eventi esso è sinceramente da escludersi. Quel che certamente può affermarsi è che tra i due piani, interno e internazionale, è evidente un significativo parallelismo, una concatenazione tra le due serie di eventi, che come sempre, nella vicenda storica, sono anche interdipendenti. Si verificò in buona sostanza una emergenza; scelte di politica interna e scelte di politica internazionale verso esiti omogenei e significativamente correlati nel 1946 dal punto di vista della scena internazionale, nonostante talune pubbliche prese di posizione di parte occidentale, come il famoso discorso di Churchill del 6 marzo del 1946, e di parte orientale, come il meno noto discorso di Stalin del 9 febbraio sulla inevitabilità dello scontro tra capitalismo e socialismo. Agli inizi del 1946 il clima che si respirava, in Europa, era ancora un clima di grande collaborazione tra le potenze alleate; solo verso la fine dell’anno, verso il novembre del 1946 l’orientamento degli Stati Uniti in tema di collaborazione con l’Unione Sovietica cominciò a mutare. In primo luogo solo verso la fine di quell’anno gli americani cominciarono a rendersi conto che la rinascita stessa dell’Europa era un problema legato a quelli della sicurezza e dell’economia degli Stati Uniti. Solo da quel momento presero coscienza che tale rinascita del vecchio continente poteva essere conseguita, in particolare, solo con il reale coinvolgimento soprattutto della Germania, della sua società e della sua economia, che erano potenzialmente ancora assai robuste, nonostante le immani distruzioni causate dalla guerra. Quello che la classe dirigente americana cominciò ad avvertire è che una piena ricostruzione del sistema economico europeo nella forma di una economia capitalistica di mercato, che fosse cioè omogenea al sistema economico statunitense, avrebbe incontrato ostacoli nella presenza dei partiti comunisti alla guida dei paesi dell’Europa Orientale. Tanto più che l’esperienza stava dimostrando come tali paesi potessero subire rapide trasformazioni dei loro sistemi politici in regimi comunisti secondo il modello sovietico staliniano. Il problema economico si stava rivelando un decisivo problema politico. Tuttavia in tale prospettiva non vi era una stretta connessione né riguardo alla modalità di organizzazione nei vari paesi delle diverse forme dell’economia di 1 mercato, né rispetto alle classi dirigenti e alle forze politiche che avrebbero dovuto procedere alla ripresa economica e sociale dei diversi paesi. Per quanto riguarda l’Italia, nell’autunno del 1946 gli americani non avevano ancora le idee chiare su quale gruppo dirigente italiano potevano realmente contare, tanto meno sapevano fino a che punto potevano contare su Alcide De Gasperi. Era per loro abbastanza indifferente quale forza politica e quale esponente politico avrebbe potuto guidare quel processo di ripresa sociale da loro auspicato. Questo era il problema che soprattutto stava loro a cuore, l’altro era un problema puramente interno. Forse in buona misura per molti dirigenti americani il giudizio sull’uomo De Gasperi come il politico capace di guidare quel processo di sviluppo socio-economico non fu del tutto chiaro neppure dopo la visita di quest’ultimo in America nel gennaio 1947. Tali osservazioni ci portano però a dire che dal punto di vista più generale e cioè rispetto al quadro internazionale già a partire dalla fine del 1946 erano ben chiare presso la classe dirigente americana le linee di fondo della politica illustrata da Truman nella sua famosa dichiarazione del marzo 1947 relativa alla Grecia e alla Turchia. Dichiarazione che saldava il problema della sicurezza americana con quella dei paesi minacciati dall’estendersi della influenza sovietica nell’Europa e nel mondo oltre i confini segnati dalle regioni liberate dalle armate rosse durante la seconda guerra mondiale. Contemporaneamente al crescere delle preoccupazioni americane sul ruolo della Russia in Europa nacque anche presso il Dipartimento di Stato statunitense l’allarme per la situazione generale della penisola italiana, dove si notò una crescente instabilità che era opportuno fronteggiare con iniziative più forti che nel passato. Sarebbe stato cioè necessario passare dall’atteggiamento di non intervento negli affari interni italiani fino ad allora tenuto dagli Stati Uniti, dalla sola cessazione delle ostilità e quindi dal solo trasferimento di ogni autorità sul territorio al governo di Roma, ad un insieme di forti iniziative soprattutto di carattere politico e di tipo economico a sostegno dell’Italia, in modo da rendere evidente all’opinione pubblica della penisola che l’Italia era pienamente rientrata nella scena politica internazionale con piena dignità e con l’amichevole favore di Washington. A tal fine si auspicava che il Presidente De Gasperi fosse ufficialmente invitato negli Stati Uniti in modo che anche formalmente tale riconoscimento fosse solennemente affermato. Fu così che il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, che inizialmente si era svolto in tono quasi dimesso, durante il soggiorno americano crebbe via via di importanza e si risolse in un vero e proprio successo sul piano delle pubbliche relazioni, grazie soprattutto all’intelligente regia dell’ambasciatore italiano a Washington, Alberto Tarchiani. I momenti culminanti furono l’incontro di De Gasperi con il presidente Truman e i colloqui con il Segretario di Stato uscente e con altri alti dirigenti dell’amministrazione americana; né furono di minore importanza gli incontri che De Gasperi ebbe con esponenti della comunità italo-americana, con membri del Congresso e con i più alti prelati della Chiesa Cattolica degli Stati Uniti. Se, sotto il profilo economico, l’entità degli aiuti allora ottenuti dal Governo americano non fu 2 così rilevante, giacché si trattò di un prestito utile ma assai modesto, ben maggiore fu il valore politico e psicologico che il prestito in sé significava. I potenti senatori repubblicani Robert A. Taft e Arthur H. Vandenberg, allora di fatto i due più autorevoli membri del Congresso sulla politica estera statunitense, dichiararono a De Gasperi che il sostegno americano al suo Governo sarebbe stato di certo più consistente e duraturo qualora l’Italia avesse potuto provare concretamente con la sua politica la stabilità delle sue istituzioni e l’intelligente uso degli aiuti che a mano a mano le sarebbero stati elargiti. Si può affermare senza dubbio che a queste due linee di condotta De Gasperi avrebbe ispirato la condotta del suo Governo. E non solo perché tale era stata la linea politica richiesta dai due senatori americani ma soprattutto perché tali erano le sue personali convinzioni profondamente radicate nel suo animo. Tuttavia fu proprio il quadro internazionale che in quel periodo va deteriorandosi che spinse la classe dirigente americana a prendere maggiormente a cuore la situazione politica della penisola. E’ noto che le crisi di Grecia e Turchia mossero il Governo di Washington a sposare apertamente la linea del contenimento dell’Unione Sovietica. Linea che venne chiaramente enunciata dal presidente Truman nel suo famoso discorso al Congresso il 12 Marzo 1947. Ora in tale discorso veniva affermata la stretta connessione tra la sicurezza nazionale e la libertà stessa della nazione americana e la difesa dell’indipendenza dei popoli liberi, minacciata dalla dominazione comunista. In tale quadro la stabilizzazione politica e sociale dell’Italia diveniva strettamente correlata a quella della Grecia e della Turchia e costituiva quindi elemento essenziale per la creazione di un fronte di difesa del fianco mediterraneo orientale rispetto alla pressione esercitata in quell’area dall’espansionismo sovietico. In questa ottica il Governo statunitense dispose programmi intesi ad aiutare economicamente l’Italia al fine di contribuire in tal modo a rafforzare indirettamente le istituzioni della sua ancora fragile democrazia, convinto che questo fosse anche il mezzo più sicuro per sconfiggere il comunismo impedendone la diffusione fra la popolazione della Penisola. Parve tuttavia subito evidente che la presenza dei comunisti e dei loro alleati nel Governo italiano fosse elemento di incertezza e instabilità: la verità è che con la politica della doppiezza essi operavano oggettivamente in direzione opposta a tale finalità, e questo a Washington veniva percepito come incapacità da parte del governo di Roma a dare avvio ad un coerente programma di risanamento economico, rendendo così vano ogni aiuto che venisse dagli Stati Uniti. In tale delicata situazione entrò decisamente in azione da protagonista l’ambasciatore statunitense James C. Dunn, politico di forti convinzioni anticomuniste, il quale si prodigò personalmente durante quei cruciali mesi con intelligenza, passione e forte determinazione, da un lato per persuadere l’amministrazione americana della necessità e dell’urgenza dell’aiuto all’Italia per battere il comunismo e dall’altro per organizzare gli aiuti e per diffondere nell’opinione pubblica italiana con ben orchestrate manifestazioni pubbliche le molteplici iniziative poste in essere dagli Stati Uniti a vantaggio dell’Italia. 3 Tarchiani, il nostro ambasciatore a Washington, in quelle incerte settimane cercò di sondare gli orientamenti del Dipartimento di Stato sul tema della presenza di esponenti comunisti all’interno del governo italiano: il suo obiettivo era quello di favorire una collaborazione sempre più stretta fra l’amministrazione americana e il governo di Roma, eliminando ogni problema che fosse di ostacolo. Accordi commerciali rapidamente conclusi dall’Italia con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, nonché la vendita a prezzo di favore di equipaggiamento militare in eccedenza delle forze armate statunitensi consentirono in quei mesi di rafforzare i reparti militari italiani preposti alla difesa dell’ordine pubblico interno. De Gasperi da parte sua si mosse con grande prudenza cercando di salvare la collaborazione con i comunisti, sia pur limitandone fortemente il peso all’interno del Governo. La sua preoccupazione, prima di procedere a qualsiasi modifica alla compagine governativa, era quella di raggiungere possibilmente anche con il consenso dei due grandi partiti di sinistra almeno due fra i più importanti obiettivi di politica interna, quello dell’inserimento dei Patti Lateranensi nel testo della Costituzione e quella dell’approvazione alla ratifica del Trattato di pace. Obiettivi entrambi essenziali per consentire al Paese un clima di tranquilla convivenza e al suo partito, la Democrazia Cristiana, il riconoscimento interno e internazionale di essere in grado di guidare la politica del Paese con il consenso pieno del mondo cattolico e senza dover subire contraccolpi nell’opinione pubblica, soprattutto di sentimenti conservatori e moderati, rispetto alle dure condizioni poste dalla pace. Una volta conseguiti entrambi gli obiettivi, solo allora – secondo De Gasperi – sarebbe stato possibile, sia pure con qualche accortezza, procedere alla rottura dell’alleanza governativa con i due partiti di Sinistra. Come è noto, nella notte fra il 25 e 26 marzo, l’art. 7 relativo all’inclusione dei Patti Lateranensi nel testo della Carta Costituzionale ottenne larga maggioranza nell’Assemblea Costituente, anche grazie al voto favorevole degli stessi comunisti. Quanto al Trattato di Pace, previa approvazione e mandato del Consiglio dei Ministri, esso era già stato firmato a Parigi, sia pure con una Dichiarazione italiana di riserva circa la competenza specifica in materia di trattati da parte dell’Assemblea Costituente. Quest’ultima approverà di lì a poco, il 31 luglio, dopo un ampio dibattito, l’autorizzazione alla ratifica con ampia maggioranza, astenuti i comunisti. Si era finalmente raggiunto quel presupposto irrinunciabile, perché non solo si potesse porre fine allo stato di guerra, ma cessassero pure le condizioni eccezionali poste dall’amministrazione militare, con tutti i limiti che ne conseguivano, sia pur mitigati dallo status di cobelligeranza. Si trattò, com’è noto, di un trattato non negoziato ma imposto, che rappresentava tuttavia la condizione stessa perché l’Italia potesse riassumere pienamente il suo posto nella comunità internazionale e porre a breve in discussione la revisione delle dure condizioni previste dallo stesso trattato. Nel frattempo si era aperta la crisi di governo. Le improvvise dimissioni presentate da De Gasperi il 12 maggio, seguite il 31 maggio dalla formazione del monocolore democristiano di minoranza, con la sola presenza a titolo personale dei liberali Einaudi e Grassi nonché degli indipendenti Sforza, Merzagora, Corbellini e Del Vecchio, colsero di sorpresa i due grandi partiti di sinistra. Il 2 giugno Marshall 4 espresse pubblicamente il suo apprezzamento per il nuovo Governo italiano e tre giorni dopo lo stesso Segretario di Stato nel suo famoso discorso all’università di Harward lanciava la sua proposta di un piano di ricostruzione economica del vecchio Continente finanziato dagli Stati Uniti. Esso era un invito, rivolto anche all’Italia, a partecipare a un vasto programma di rinascita sociale dei Paesi europei finanziato dagli Stati Uniti. La risposta ufficiale di Togliatti agli avvenimenti fu di una durezza estrema fino a minacciare, in un memorabile discorso da lui tenuto a Parma il 7 settembre, l’uso della forza contro il Governo, ricorrendo alle formazioni paramilitari costituite da ex partigiani, forti a suo dire di ben 30 mila uomini. Furono dichiarazioni che miravano a dare soddisfazione alle richieste dell’ala più oltranzista del Partito Comunista, frustrate dall’esclusione delle sinistre dal Governo. Ma anche a rispondere in qualche modo alle critiche che venivano da Mosca per il fallimento della linea collaborazionista sostenuta da Togliatti. Tali dichiarazioni pubbliche contrastavano con i consigli alla cautela che lo stesso leader comunista dava in privato ai dirigenti del suo partito. Ma tanto bastava a che quelle ricorrenti pubbliche minacce di ricorso alla violenza fossero utilizzate per rafforzare le posizioni di quanti nell’amministrazione americana, al Congresso di Washington e presso la stampa e l’opinione pubblica statunitensi sostenevano la necessità di aiuti all’Italia, sì che questa potesse meglio fronteggiare eventuali iniziative promosse dai comunisti. In alcuni documenti riservati del Dipartimento di Stato americano si studiarono i vari scenari che si ponevano nel caso di uno scoppio di una guerra civile in Italia provocata dai comunisti; in questi studi di previsione si escluse sempre l’intervento diretto delle forze armate statunitensi nella Penisola e si suggeriva l’invio di aiuti economici, politici e militari al Governo italiano. Soprattutto si consigliava di proseguire nell’aiuto alimentare al fine di alleviare le precarie condizioni di vita del popolo italiano, di ampliare prestiti e crediti per la ricostruzione economica del Paese, di rafforzare gli aiuti militari per le forze dell’ordine e di sostenere i principali obiettivi della politica estera italiana: revisione del Trattato di Pace, ingresso nelle Nazioni Unite, modifiche di confine con la Jugoslavia. Gli aiuti economici previsti dal Piano Marshall avrebbero richiesto molto tempo prima di poter essere inviati in Italia a causa delle procedure complesse previste dal Programma, nel frattempo l’economia italiana sarebbe crollata con incredibili conseguenze sull’esito stesso delle elezioni politiche. Fu così necessario predisporre piani di aiuto suppletivi di emergenza a carattere transitorio che solo in una sessione speciale del Congresso si potettero approvare, sia per la Francia che per l’Italia, al fine di consentire alle loro economie di giungere fino all’effettiva entrata in funzione del Piano Marshall, non prima quindi del 1° luglio 1948. Nel frattempo l’Assemblea Costituente italiana ratificava il Trattato di Pace, obiettivo che consentiva all’Italia di potersi reinserire nella Comunità Internazionale, chiudendo con la parentesi aperta dalla guerra. Ma se da un lato questo evento consentiva al nostro Paese il ritorno a una normalità nelle relazioni internazionali, dall’altra esso poneva, con imminenza come previsto dal Trattato stesso, il delicato problema del ritiro delle truppe americane dal territorio italiano: in corrispondenza con l’avvicinarsi di tale evento aumentarono le 5 dimostrazioni di forza da parte dei comunisti in tutta la Penisola attraverso scioperi di massa. Fu necessario allora che gli Stati Uniti, attraverso il loro stesso Presidente, facessero sentire la loro voce, minacciando reazioni decise e ferme di fronte a qualsiasi uso della forza. Ove la libertà e l’indipendenza fossero minacciate direttamente o indirettamente, dichiarò infatti Truman il 13 dicembre, gli Stati Uniti si sarebbero trovati nella necessità di studiare misure adeguate per il mantenimento della pace e della sicurezza. In Italia, in quel torno di tempo, si rafforzarono ulteriormente le forze di polizia, si predispose l’organizzazione di strutture segrete di agenti italiani per eventuali necessità di azioni anticomuniste, si pianificò infine un’eventuale azione di supporto militare in caso di guerra civile. Anche il Vaticano in più occasioni espresse il timore della possibilità di un colpo di Stato comunista in Italia. Nei palazzi apostolici infatti si condividevano i dubbi di esponenti dell’amministrazione statunitense sulle capacità di tenuta della dirigenza democristiana e dello stesso De Gasperi. In Vaticano, inoltre, da parte di taluni alti prelati venivano espresse molte riserve sul tipo di democrazia che stava allora nascendo in Italia. Tuttavia, la possibilità di avvento al potere del comunismo nel nostro Paese rappresentava per la Santa Sede un pericolo tale, che fu quasi scelta obbligata quella di chiamare ad unità i cattolici attorno al partito della Democrazia Cristiana e al suo leader De Gasperi, al fine di opporsi ad una forza politica che si ispirava apertamente ad una ideologia atea e materialista e che ovunque nel mondo tendeva a realizzare politiche di oppressione della religione e della morale cattolica. Sotto questo profilo, soprattutto in quei mesi di autunno-inverno del ’47, lo scontro divenne qualcosa di più forte e radicale. Quelle che si fronteggiavano erano due concezioni radicalmente opposte della vita e in alcun modo potevano coesistere. Fu allora che Pio XII, accogliendo progetti da parte di taluni ambienti cattolici, ordinò all’Azione Cattolica di assumere iniziative dirette a contrastare le crescenti manifestazioni di forza organizzate dai comunisti. In quello stesso periodo De Gasperi procedette, anche su sollecitazione degli americani, alla inclusione di esponenti dei Social-democratici e dei Repubblicani nel proprio Governo. Il 15 dicembre Giuseppe Saragat e Randolfo Pacciardi, rispettivamente per i due partiti, divennero Vicepresidenti del Consiglio dei Ministri, mentre furono nominati ministri anche il repubblicano Facchinetti e i socialisti Ludovico D’Aragona e Roberto Tremelloni. Venne anche approvata una manovra economica e finanziaria predisposta da Luigi Einaudi. Rigide misure anti-inflazione diedero stabilità alla lira e posero le basi per una efficace attuazione in Italia delle iniziative previste dal Piano Marshall. Provvedimenti furono presi per impedire l’organizzazione di formazioni paramilitari, sia da parte dell’estrema destra sia dell’estrema sinistra. A mano a mano che si avvicinava la data delle elezioni cresceva però il pericolo che seppur con mezzi pacifici i comunisti avrebbero potuto conquistare il potere in Italia. Alla fine del gennaio 1948 il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista 6 formarono un unico blocco elettorale: il Fronte Democratico Popolare. In America si pose drammaticamente il problema di come sconfiggere le sinistre italiane, senza provocare una insurrezione. Un nuovo documento del Dipartimento di Stato definiva l’Italia come un elemento chiave della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Veniva suggerito l’avvio di una campagna di stampa diretta a diffondere tra gli italiani l’idea di quanto fosse profonda la solidarietà tra l’America e l’Italia. Aiuti finanziari furono allora segretamente inviati alla Democrazia Cristiana e al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, diretto da Saragat. In un momento in cui molti in Italia di entrambe le parti in lotta prevedevano ormai una massiccia affermazione delle sinistre, un evento internazionale ebbe una forte ripercussione nella popolazione della Penisola, anche a motivo del particolare clima di viva eccitazione pre-elettorale. Il 25 febbraio a Praga i comunisti cecoslovacchi presero violentemente il potere. Le elezioni italiane divennero in breve l’oggetto principale di attenzione di tutte le opinioni pubbliche e di tutti i governi occidentali. Sotto la pressione di questi eventi il Governo americano approvò l’European Recovery Program Act e il 2 aprile Truman firmò la relativa legge, evento che ebbe una forte eco nei mass media. Il 16 marzo ben 29 navi mercantili vennero donate all’Italia durante una solenne cerimonia alla Casa Bianca. L’ambasciatore Dunn si sottopose ad uno stressante programma di pubbliche relazioni, recandosi in ogni porto della Penisola a salutare l’arrivo di ogni nave carica di rifornimenti americani per l’Italia. Trasmissioni radiofoniche della “Voce d’America” inondarono la Penisola. Rappresentanti della comunità italo-americana si prodigarono per diffondere tra la popolazione statunitense di origine italiana appelli contro il comunismo, come la campagna di “lettere all’Italia”, campagna che ebbe spontaneamente origine a Toledo, nell’Ohio. L’iniziativa si diffuse per tutti gli Stati Uniti a partire dal gennaio del 1948, soprattutto ad opera di Generoso Pope, editore del quotidiano di New York, “Il progresso italo-americano”, le cui pagine divennero strumento di una martellante campagna mediatica e vennero inondate da messaggi di oriundi italiani diretti ai loro parenti rimasti nei paesi d’origine. L’Italia, soprattutto il Mezzogiorno, fu invasa da questa efficace propaganda. Ma il settore nel quale l’azione poteva giungere con maggior forza all’Italia era certamente quello della politica internazionale, in direzione dei tanti problemi lasciati in eredità dalla guerra, problemi che vivamente bruciavano nell’animo degli italiani. E fra i tanti problemi quello che era allora il più diffuso e sentito era sicuramente quello sull’incerto futuro previsto per Trieste e il suo territorio, una città simbolo della nazione, per la quale si era combattuta una lunga e dolorosa guerra, considerata come il compimento stesso del Risorgimento nazionale. E legato a questo problema era il tema della sicurezza interna ed esterna del nostro Paese. Tale problema era stato sollevato fin dall’entrata in vigore del Trattato di Pace del 15 settembre 1947: era previsto infatti che entro tre mesi le truppe angloamericane avrebbero dovuto sgombrare il nostro territorio nazionale. 7 Ora dal punto di vista della sicurezza esterna, l’unica frontiera pericolosa era quella orientale con la Jugoslavia, frontiera che solo nel tratto triestino era presidiata militarmente proprio dalle forze armate anglo-americane. Con il 16 settembre, infatti, truppe jugoslave avevano occupato, oltre la linea di confine prefissata e concordata tra le potenze alleate, alcune zone di importanza strategica in territorio formalmente attribuito alla sovranità italiana e nulla avevano potuto fare le truppe italiane, troppo deboli numericamente e militarmente, mostrando così di non essere in grado di garantire la sicurezza del territorio. Nella regione rimaneva solo un contingente di 10 mila uomini anglo-americani nel Territorio Libero di Trieste, un contingente che doveva essere ritirato entro 90 giorni dall’insediamento di un Governatore previsto per il governo del Territorio, nominato dal Consiglio di Sicurezza. Fu gioco forza per l’Italia e gli anglo-americani convenire sull’opportunità di non procedere alla designazione del Governatore e di rinviare così l’entrata in vigore dello Statuto del Territorio Libero di Trieste. Da un lato l’Italia poteva così contare sulla garanzia di sicurezza offerta dalle truppe alleate. Dall’altro gli anglo-americani potevano continuare a presidiare quell’importante punta della frontiera nord-ovest. Vanamente infatti De Gasperi aveva cercato di ottenere dagli americani una dilazione della data di sgombero delle loro truppe dal territorio italiano prevista dal Trattato di Pace. Né migliore sorte aveva ottenuto con le richieste più volte reiterate di rafforzare i loro contingenti di truppe in Austria e in Nord Africa, paesi vicini alla penisola italiana, dai quali sarebbe stato facile, in caso di necessità, accorrere in difesa del governo di Roma. Sul piano militare l’unico accordo possibile tra Roma e Washington fu quello sulle forniture americane per l’esercito italiano. Forniture che vennero spedite via Germania in modo che arrivassero in Italia prima del 18 aprile, giorno per il quale erano state indette le elezioni generali. Ottimo risultato venne raggiunto sul piano politico-diplomatico dalla dichiarazione congiunta anglo-franco-americana a favore del ritorno all’Italia di tutto il Territorio Libero di Trieste, zona A anglo-americana e zona B jugoslava. Dai governi alleati, infatti, venne lasciata a De Gasperi la decisione se la dichiarazione avrebbe dovuto limitarsi alla zona A oppure riferirsi a entrambe le zone. De Gasperi optò per questa seconda indicazione e tale fu il contenuto della Dichiarazione che le tre potenze occidentali alleate rilasciarono il 28 marzo. Dichiarazione che ebbe un forte, positivo impatto sull’opinione pubblica italiana. Molto si è discusso sull’opportunità di questa scelta operata da De Gasperi, poiché giustamente da molti si è affermato che mai e poi mai la Jugoslavia avrebbe accettato di ritirarsi da quella parte del Territorio ormai stabilmente occupata dalle sue truppe. E si è anche aggiunto che la scelta operata da De Gasperi avrebbe contribuito ad allontanare nel tempo la soluzione definitiva dell’intricata questione. Tuttavia, per il momento in cui fu resa, la Dichiarazione raggiunse pienamente il suo scopo giacché l’opinione pubblica italiana, già dolorosamente colpita dalla perdita di tutta l’Istria, poteva in parte lenire il suo dolore con la solenne promessa di una futura restituzione di tutto il restante territorio triestino. 8 La Dichiarazione poi contrastava pienamente con la proposta avanzata da Togliatti di barattare Gorizia per ottenere Trieste. E, al momento stesso, bloccando la soluzione del problema, rinviava sine die l’evacuazione delle truppe anglo-americane dalla zona, costringendole ad assolvere quella funzione di tutela della frontiera italoiugoslava, che le truppe italiane da sole non potevano difendere, anche se questo non era certo tra gli obiettivi né di Londra né di Washington, desiderose entrambe di abbandonare quanto prima quella scomoda posizione. Il successo presso l’opinione pubblica italiana della Dichiarazione Tripartita su Trieste fu enorme, e certamente non a vantaggio del blocco elettorale delle sinistre. Il 18 aprile la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati e la parallela sconfitta del blocco social-comunista ebbero forti ripercussioni sul piano interno dove rappresentarono di fatto la solida base, il punto di non ritorno di un regime politico parlamentare di ispirazione liberal-democratica destinato a durare per una lunga stagione storica, mentre su quello internazionale esso paradossalmente si risolse, almeno nel breve periodo, in un indebolimento delle relazioni dell’Italia con le democrazie occidentali. Queste ultime, infatti, se furono per l’immediato soddisfatte ormai dello scampato pericolo, rimasero a lungo sospettose verso un governo come quello italiano condizionato all’interno da orientamenti di tipo pacifista e neutralista largamente diffusi, anche nelle file delle stesse forze di maggioranza governativa, che ne rendevano insicura la rotta. Mentre la sicurezza interna del Paese ebbe in questa fase una rilevanza prioritaria, quella esterna diventava indistinguibile dall’esito elettorale del 18 aprile giacché le clausole stesse del Trattato di Pace rendevano impossibile una difesa autonoma del territorio nazionale a causa delle stesse condizioni economiche dell’Italia. Quando il 22 gennaio del ’48 il ministro degli Esteri inglese Bevin propose ai Comuni di trasformare il trattato di Dunquerque del 4 marzo 1947 in un nuovo accordo dell’Europa Occidentale, la reazione dell’Italia fu assai tiepida. Formalmente De Gasperi si trincerò dietro un motivo di correttezza costituzionale: l’inopportunità di assumere una decisione di tale natura alla vigilia di elezioni che avrebbero dovuto dare vita al primo Parlamento repubblicano. Tuttavia altri più corposi motivi spingevano a quel rinvio. La natura parzialmente antitedesca di quell’accordo; le condizioni di non parità dell’Italia rispetto agli altri Paesi membri del Patto, a causa delle limitazioni poste dal Trattato di Pace; l’ancora insoluto problema delle colonie; ma soprattutto ragioni di carattere interno legate alla stagione elettorale: questioni tutte che al momento fortemente sconsigliavano De Gasperi dall’aderire ad una alleanza che, almeno alle origini, aveva l’aspetto di un patto politico-militare. Gli umori dell’opinione pubblica, a prescindere da quelli delle forze politiche di opposizione, erano in quei mesi decisamente orientati a respingere ogni coinvolgimento dell’Italia in alleanze a carattere anche solo indirettamente politico-militare: posizioni politiche tra il pacifismo e il neutralismo erano largamente diffuse nel mondo cattolico italiano, sia negli ambienti vaticani, sia nelle file stesse della Democrazia cristiana. E De Gasperi, accortamente, non poteva non tenerne conto. Ogni iniziativa in tale direzione non poteva che essere rinviata a dopo le elezioni, anche se allora sarebbe stato troppo tardi. 9 L’Italia avrebbe così vissuto un periodo di relazioni assai difficili con i paesi democratici occidentali, che non compresero le ragioni di tale disimpegno da parte del governo di Roma. Nell’immediato dunque l’azione di De Gasperi sarebbe stata diretta a superare questo momento di isolamento politico-diplomatico del nostro Paese. Alle armi della diplomazia tradizionale si aggiunsero in quegli anni le iniziative parallele. Assai efficaci risultarono allora, soprattutto in quella stagione, le relazioni tra le forze politiche europee di orientamento democratico-cristiano, che concretamente operarono per la costruzione di una solidarietà tra le Nazioni nel vecchio Continente in spirito di aperta collaborazione e di pace fra i popoli, riuscendo in quel difficile primo dopoguerra ad agire laddove le diplomazie ufficiali ebbero alcune oggettive difficoltà. Fu questa la solida base che avrebbe consentito all’Italia il pieno reinserimento nella Comunità Internazionale. Giuseppe Ignesti (Università di Roma) 10