Fascicolo saggio 1_2005 - Copyright Giuffre` Editore SpA

INDICI
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Massimiliano Russo
Tassazione dei capital gains: un’ordinanza lascia irrisolto il rapporto tra la
libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali (nota a
Corte di Giustizia Ce, sez. II, causa C-268/03/2004) .........................
III,
9
Costantino Scalinci
La notifica dell’atto tributario recettizio: un “Giano bifronte” tra sanatoria
e decadenza (nota a Cass., sez. V civ., n. 1647/2004 e Cass., SS.UU.
civ., n. 19854/2004 ) ............................................................................
II,
13
Rubrica di diritto comunitario
a cura di Piera Filippi .................................................................................
III,
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Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato
a cura di Guglielmo Maisto ........................................................................
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Augusto Fantozzi
Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria .......................................................................................................
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Gaspare Falsitta
L'eterno ritorno della “questione fiscale” delle procedure concorsuali (nota a Circolari, Agenzia delle Entrate, Dir. Centrale Normativa e Contenzioso, nn. 26/E/2002 e 42/E/2004) .................................................
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Guglielmo Fransoni
Riflettendo su un convegno leccese .............................................................
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Enrico Manzon ed Adriano Modolo
Rassegna della Cassazione tributaria (II quadrimestre 2004) .....................
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Salvo Muscarà
Gli inusuali ambiti dell’autotutela in materia tributaria ..............................
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Francesco Porpora
La cosiddetta “tonnage tax”. La prospettiva italiana e le esperienze europee a confronto ....................................................................................
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INDICE
INDICE ANALITICO
Giurisprudenza e interpretazioni ministeriali
QUESTIONI GENERALI
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Accertamento - Avviso di accertamento - Natura - Atto amministrativo
sostanziale e recettizio - Provocatio ad opponendum - Esclusione Notificazione nel termine di decadenza - Necessità - Regime delle
notificazioni processuali - Previsione espressa - Sanabilità del vizio Conseguenza - Proposizione del ricorso giurisdizionale - Raggiungimento dello scopo della notificazione - Equipollenza - Impugnazione
successiva al termine di decadenza - Tardività della notifica e nullità
dell’avviso di accertamento - Conseguenza - Eccezione specifica nei
motivi di ricorso - Necessità - Rilevabilità d’ufficio della tardiva sanatoria - Esclusione (Cass., SS.UU. civ., 3.6.2004 - 5.10.2004, n.
19854, con nota di Costantino Scalinci) .............................................
Accertamento - Avviso di accertamento - Notifica a mezzo posta - Tempestività - Riferimento alla data di spedizione del plico - Necessità Giurisprudenza costituzionale additiva - Criterio dello sdoppiamento
dei termini - Fondamento (Cass., sez. V trib., 2.7.2003 - 29.1.2004,
n. 1647, con nota di Costantino Scalinci) ...........................................
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ACCERTAMENTO
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UNIONE EUROPEA
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Imposta sul reddito - Plusvalenze fuori dal regime d’impresa - Diritto di
stabilimento - Artt. 43 e 48 Trattato Ce - Libera circolazione dei capitali - Artt. 56 e 58 Trattato Ce - Discriminazione - Sussiste (Corte
di Giustizia Ce, sez. II, 8.6.2004, causa C-268/03, con nota di Massimiliano Russo) ..................................................................................
Indice cronologico
Corte di Giustizia Ce, sez. II,
8 giu. 2004, causa C-268/03 ........................................................................
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III
INDICE
Cass., sez. V civ.
2 lug. 2003 - 29 gen. 2004, n. 1647 ............................................................
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Cass., SS.UU. civ.
3 giu. 2004 - 5 ott. 2004, n. 19854 ..............................................................
II,
3
Circolare, Agenzia delle Entrate, Dir. Centrale Normativa e Contenzioso
22 mar. 2002, n. 26/E ...................................................................................
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Circolare, Agenzia delle Entrate, Dir. Centrale Normativa e Contenzioso
4 ott. 2004, n. 42/E .......................................................................................
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Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in
materia tributaria (1)
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A tre anni dall’entrata in vigore della riforma del titolo V Cost., la
mia relazione non si propone certo di esaminare lo stato di attuazione del
cosiddetto federalismo fiscale che ha assunto ormai un significato generico, ricco di accezioni diverse e tutt’ora in fieri, né di dare conto del vivace dibattito sullo stato di attuazione del coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario indicato con identica formula ma con finalità diverse nell’art. 117, comma 3 e nell’art. 119, comma 2 Cost. Il tema complessivo del nuovo assetto istituzionale della Repubblica e l’esame delle diverse proposte allo studio sono, infatti, oggetto di altre relazioni e sono stati particolarmente dibattuti di nuovo negli ultimi tempi.
Io cercherò, più modestamente, di indicare, alla luce della dottrina
che già si è espressa sulla lettura e combinazione tra loro degli artt. 117
e 119 nonché alla luce delle prime e invero caute pronunce della Corte
costituzionale, una proposta di sintesi delle disposizioni costituzionali
che, facendo perno sulla nozione di “sistema tributario” richiamata ora
non solo nel comma 2 dell'art. 53 ma anche nell'art. 117 e 119, consenta di riconoscere contenuto effettivo e attuale al principio democratico
espresso dalla riserva di legge dell’art. 23 attraverso il coordinamento dei
diversi livelli istituzionali cui è ormai attribuita la potestà di stabilire e
applicare tributi.
1. Ogni riflessione sul senso e le implicazioni della riserva di legge,
anche nel novellato quadro dei più livelli che compongono l’ordinamento repubblicano, non può prescindere dalla consapevolezza dell’esistenza di uno iato tra la costituzione formale e quella reale o materiale, ovvero ancora, la prassi costituzionale e legislativa, via via consolidatasi.
———————
(1) Relazione presentata al 50° Convegno di Studi Amministrativi “L’attuazione del
titolo V della Costituzione”, Varenna 16-18 settembre 2004.
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Basterà considerare, rapidamente, alcuni dati che sono da soli eloquenti,
pur quando esprimano mere quantità o grandezze: le iniziative legislative presentate alle Camere nella XIV legislatura e la loro percentuale di
successo, infatti, testimoniano che il promotore della produzione legislativa è, ormai e da tempo, praticamente in esclusiva, il Governo, i cui decreti sono convertiti nel 93 per cento dei casi, quando non si considerino, più propriamente, i disegni di legge di iniziativa governativa, approvati una volta su due, a differenza dei progetti di iniziativa parlamentare, che, invece, si ritagliano percentuali di successo solo decimali (0,7
per cento). Né meno noto e incisivo, specie per la materia tributaria, è il
crescente – e particolarmente tangibile nella XIII e XIV legislatura –
abuso della legge delega, volto ad esprimere un almeno triplice aspetto
fenomenico e significato: il ricorso a questo strumento – quello della delegazione al Governo della normazione (specie in materia tributaria) –
divenuto pressoché sistematico (2); quindi, la filosofia dell’“ampia delega”, che consentirebbe, con l’avallo della Corte, di desumere principi e
criteri direttivi per il delegato, dalla intera legge, dalla legislazione precedente o addirittura dal complesso generale del sistema, sino alla delega in forma implicita (3); infine, il fenomeno della delegazione “permanente”, indotto dalla consuetudine di introdurre, nel testo parlamentare,
anche una seconda delega ad integrare o modificare la disciplina ottenuta per esercizio della prima, contestualmente conferita all’esecutivo, cui
è divenuta presto complementare la prassi ricorrente di interventi delegati, reiterati più volte, con proroga del tempo originariamente previsto
e concesso.
Il senso di questi rapidi accenni, tuttavia, non può e non vuole essere quello di giungere ad una prima e grossolana (quanto fallace) conclusione, sul valore attuale della riserva di legge, già a livello statale (4).
———————
(2) Con “frequente superamento dei limiti posti nella Costituzione” (cfr., sul punto
e in termini, A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, I, Torino, 2003, cit.,
89).
(3) Cfr., in questo senso, per tutti e recentemente, E. DE MITA, La riserva di legge
tributaria nell’ordinamento italiano, in Dalle costituzioni nazionali alla costituzione europea. Potestà, diritti, doveri e giurisprudenza costituzionale in materia tributaria, Atti del
Convegno di Bergamo del 29-30 ottobre 1999, a cura di B. Pezzini e C. Sacchetto, Milano, 2001, 159-160.
(4) Aspetto, questo, che induceva autorevole Dottrina (cfr., BERLIRI, Appunti sul
fondamento e il contenuto dell’art. 23 Cost., in Jus, anno X, 1958, 327 ss., nt. 49) a svalutare senso e funzione stessi della riserva di legge, già alla fine degli anni ’50. L’Autore, con spendita retorica di una simbolica, quanto efficace percentuale (il 99 per cento),
che misurerebbe i casi in cui ciò che vuole il Governo lo vorrebbe anche la maggioran-
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Non intendo, cioè, sostenere che siamo ad una omologazione, nei fatti,
della legge all’atto del Governo, quanto, esprimere la consapevolezza del
crescente ruolo di questo nella conformazione dell’impianto essenziale
dei provvedimenti legislativi e dei regolamenti, sempre più importanti
nella vita delle imposte (5); allo stesso tempo desidero, però, sottolineare che quello parlamentare è, e resta, il luogo deputato ed il soggetto della “co-determinazione” dei contenuti normativi primari, per il concorso
simultaneo della rappresentanza fiduciaria dell’esecutivo e di quella propria delle opposizioni, che partecipano (o almeno dispongono di strumenti atti) a quel fondamentale concorso, in rappresentanza della “Nazione” e “senza vincolo di mandato” (art. 67, Cost.) (6), oltre che muniti di un complesso di garanzie costituzionali (7) (alcune delle quali recentemente espunte o attenuate) che concorrono a delineare prerogative
e peculiarità del Parlamento.
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za del Parlamento, traeva da questo ordine di grandezza la conclusione che riservare al
Parlamento, anziché al Governo, la decisione su determinate materie non offre alcuna seria garanzia per il cittadino. Un convincimento che induceva l’Autore, subito di seguito,
ad ipotizzare sufficiente e persino più efficiente una “riserva di atto generale”, in luogo
di quella di “legge”, ovvero, una compromissoria “riserva attenuata”, tradotta nella “legge di direttive” – una loi cadre come dicono i francesi – cui segua un regolamento delegato.
(5) Si veda sul punto, ancora, E. DE MITA, La riserva di legge, cit., 157 ss.
(6) Cfr., in argomento, ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico
sull’art. 67 Cost., Milano, 1991; MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 1992, 302303. Cfr., altresì, Corte cost., sent. 7 marzo 1964, n. 14, in materia di rapporti tra i membri del Parlamento ed il rispettivo partito politico, alla luce di detto, fondamentale disposto costituzionale, il quale, “collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle
Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi”, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni, bensì è “rivolto ad assicurare la libertà dei
membri del Parlamento”.
(7) Cfr., sul punto, Corte cost., sent. 30 giugno 1964, n. 66, secondo la quale: “Per
la Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica gli artt. 64, comma 1, 66 e 68
Cost. delineano nel loro insieme un compiuto ed ampio sistema di garanzie, che non ha
riscontro nelle norme riguardanti gli enti regionali. … Manca una norma costituzionale
che, come avviene per le Camere (art. 66 Cost.), attribuisca ai Consigli regionali, anche
di Regioni a statuto speciale, il giudizio definitivo dei titoli di ammissione dei loro componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità; né vi è principio
o disposizione costituzionale che riconosca ai componenti dei Consigli regionali l’immunità prevista dall’art. 68 Cost. per i membri del Parlamento, (la quale) costituisce conferma dell’indipendenza dell’organo nei confronti degli altri poteri e getta luce su tutto il
complesso delle garanzie costituzionali accordate alle Camere, a dimostrazione che il sistema costituzionale (nel suo complesso, appunto) non ha inteso attribuire all’Assemblea
regionale quelle stesse prerogative che spettano al Parlamento”.
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Non starò qui a ripercorrere in dettaglio, dinanzi ad una platea così
illustre e qualificata, il lungo excursus evolutivo – dalle origini ai nostri
giorni - della “riserva di legge in genere”, né di quella in materia tributaria, confluita, con la Costituzione repubblicana, nell’unitaria formulazione della riserva di legge in materia di cd. “prestazioni imposte” (art.
23, Cost.). Ma, facendo un passo indietro, basterà – per quanto, di qui a
poco, dirò – considerare un dato obiettivo: la riserva nasce con l’emergere dei primi aneliti al contenimento dell’arbitrio fiscale del Sovrano e,
dunque, essenzialmente, come manifestazione e strumento di “garanzia”
del patrimonio individuale, per poi assurgere alla più attuale concezione
della riserva di legge, come espressione di un principio autonomo (8), di
democraticità e rappresentatività (la cd. autotassazione o autoimposizione, in senso atecnico, di una comunità sociale). Dal diritto sovrano di imposizione (9), basato sul rapporto di sudditanza, al consenso all’imposizione, sino all’autotassazione e al principio di legalità (10): in ciascuna
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(8) Cfr., da ultimo, FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 51-53; e, dello stesso Autore, la più articolata disamina dell’art. 23, Cost., in Commentario alla Costituzione - Rapporti civili - a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1978, 21 ss. e, quindi, la voce Prestazioni imposte, in Enc. giur., Roma, 1991. Per la tesi riduttiva dell’art. 23, Cost. ad una
“garanzia della libertà personale e patrimoniale” si vedano, tra gli altri: AMORTH, Fondamento costituzionale delle prestazioni pecuniarie ad enti pubblici, in Diritto dell’economia, 1956, 1027 ss.; BERLIRI, Appunti sul fondamento, cit., 327 ss., il cui pensiero è
ancora più radicale, poiché – a suo dire –, nella Costituzione repubblicana, l’art. 23
(avrebbe) perso completamente la funzione politica (divenuta del resto già superflua sotto lo Statuto Albertino) e conservato, invece, quella di norma diretta a garantire la libertà
dei singoli (funzione resa anzi più vitale dal carattere rigido della Costituzione), ammettendo peraltro espressamente che tale libertà possa essere limitata non per legge ma in
base alla legge.
(9) Seppure scritte nell’intento di definire ed esaminare il concetto di tributo, sono
di grande interesse, in proposito, le pagine del VANONI (Opere Giuridiche, Milano, 1962,
I, 73 ss. e II, 30 ss., segnatamente 35), critiche, tanto della teoria del tributo come “manifestazione della sovranità dello Stato” (formulata e sostenuta, tra gli altri, dal Romano
e dal Vanni) – ossia del diritto d’imposizione come essenziale attributo della sovranità e
fondato sul solo rapporto di sudditanza – quanto della teoria del tributo come “manifestazione della supremazia dello Stato” (essenzialmente elaborata e sviluppata dalla scuola tedesca, giuridica ed economico-finanziaria), cioè del tributo inteso quale mera conseguenza della supremazia dello Stato, della sua possibilità “di imporre la propria volontà”,
indipendentemente da giustificazioni etiche e giuridiche. Il Vanoni esprime tutto il proprio dissenso da quelle impostazioni ed esplicita il proprio convincimento, osservando
che “il tributo appare legato alla partecipazione personale (con la presenza nel territorio
e col godimento della cittadinanza) od alla partecipazione economica (colla percezione di
redditi prodotti nel territorio) alla vita dell’ente impositore”.
(10) Sui profili storici e la parallela evoluzione concettuale e teoretica, si vedano,
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fase è una costante l’idea dell’imposizione fiscale come attributo essenziale della sovranità, via via affrancatasi, quest’ultima, dal principio di
supremazia, sino alla identificazione con quello di rappresentatività e responsabilità democratica (11). L’istituto va, quindi, inquadrato nell’ambito dell’assetto complessivo dei pubblici poteri in un dato sistema costituzionale e la sua conformazione non rappresenta una “variabile indipendente”. Riserva di legge e confini dell’autonomia normativa sub-statale non sono e non possono costituire risultanti mere della loro regolazione specifica, anche di rango costituzionale; e, piuttosto, questo delicatissimo equilibrio, stretto tra la rappresentanza politica, la forma di
Stato e l’unità dell’ordinamento giuridico, appare segnato da una correlazione essenziale, che tende ad escludere una “politica” dei poteri, indipendente dalla “politica” della rappresentatività (12), almeno in linea di
principio.
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oltre ai già citati contributi di A. FEDELE, tra gli altri, S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, Padova, 1957, A. BERLIRI, Appunti sul fondamento, cit.
(11) Cfr., sul punto, P. BILANCIA, Il paradigma della legge statale: i riflessi del nuovo
art. 117, comma 2, sull’art. 70 Cost., in Trasformazioni della funzione legislativa, III.1. Rilevanti novità in tema di fonti del diritto dopo la riforma del Titolo V della II Parte della Costituzione, a cura di F. Modugno e P. Carnevale, Milano, 2003, 1 ss. e, segnatamente, 1213, laddove l’Autore (essenzialmente valorizzando il “formale” venir meno, nel nuovo Titolo V, del limite dell’interesse nazionale, consapevolmente giudicato dato più apparente che
effettivo) osserva che la sintesi tra unità della Repubblica ed autonomia degli ordinamenti
regionali non può più ormai definirsi sulla base di un presunto legame relazionale tra i concetti di sovranità ed autonomia inteso come rapporto di implicazone necessaria proprio di
una cultura giuridica legata al panstatualismo; l’unità della Repubblica si iscrive necessariamente in un complesso di principi fondamentali contenuti nella Costituzione e la “sovranità
popolare” non può più concorrere a qualificare la supremazia dello Stato sugli enti di autonomia, anch’essi rappresentativi e determinanti nella definizione della nozione di Repubblica. La stessa Corte costituzionale risolve e rappresenta l’attuale consistenza delle relazioni
tra principi di sovranità ed autonomia in termini del tutto differenti dall’impianto teorico tradizionale, sulla base dell’assunto che l’attuale declinazione giuridica del principio di rappresentanza non consente più di ritenere che la sovranità del popolo si esaurisca in essa, né
in altri luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale (sent. n. 106/2002, p.to 3, in diritto).
Principi poi ripresi e sviluppati nella successiva sentenza n. 29/2003 (p.to 3, in diritto), nella quale il Giudice delle leggi osserva che le forme ed i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali.
(12) Cfr., in questo senso, R. BALDUZZI, F. SORRENTINO, voce Riserva di legge, in
Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1212-1213; e, più recentemente, C. SCALINCI, Riserva di
legge e primato della fonte statale nel “sistema” delle autonomie fiscali, in questa Rivista, n. 4-2004, II, 235.
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Solo sullo sfondo permane l’originaria concezione e vocazione strumentale della legge, come “guarentigia”, che pure potrebbe recuperare
rilievo autonomo oggi, se intesa in senso nuovo (in un significato pur
sempre riducibile alla giustificazione democratica) come garanzia di
equilibrio e rappresentatività, rispetto a quei livelli ordinamentali e territoriali sub-statali, nei quali il meccanismo democratico è più condizionato dai localismi, dai personalismi, persino dalle contiguità fisiche tra
amministratori ed amministrati: si tratterebbe, in sostanza, di una delle
possibili giustificazioni concorrenti della “prerogativa”, statale e regionale, della funzione “legislativa”, conservata tale anche nel nuovo titolo
V, almeno secondo il testuale tenore delle novellate disposizioni costituzionali.
Nell’architettura costituzionale vigente – come osserva la dottrina
(13) che si è occupata dell’argomento – la riserva di legge in materia di
prestazioni patrimoniali imposte si pone in funzione immediata e prevalente di “interessi generali” e solo in via mediata e subordinata degli “interessi dei privati”: di qui la sua giustificazione essenzialmente democratica ed autonoma, rispetto all’originaria accezione garantista della riserva stessa, strumentale (questa) ad una integrità patrimoniale che, nel
complessivo tessuto costituzionale, non pare avere quel supposto primato e (sembra) trovare, semmai, tutela in una disciplina pari rango, “speciale” e sostanziale allo stesso tempo (artt. 41 ss., Cost.) (14).
Pubblicità del procedimento, tutela delle minoranze, più diretto rapporto con il corpo elettorale degli organi che della disciplina stessa formulano le linee essenziali, controllo della sostanziale legittimità costituzionale, sono tutte “prerogative” di diversa intensità di quella “legge” alla quale il legislatore riserva tutela ed attuazione di una pluralità di interessi e valori. È questa la ben nota idea di una diversa “rigidità” della riserva di legge prevista dall’art. 23 (quanto al suo cd. “aspetto positivo”
———————
(13) Cfr., A. FEDELE, Art. 23, cit., 126 ss., e, segnatamente, 132-134, 142.
(14) È, esemplare, di questo ordine di idee e, comunque, del diverso ambito proprio
della riserva ex art. 23, Cost., tra le altre, la nota sentenza 24 luglio 1972, n. 144, nella
quale la Consulta ebbe, testualmente, a precisare quanto segue: “dalla definizione dello
sconto (sui farmaci) come prestazione patrimoniale, cui la Corte è pervenuta con la già
menzionata sentenza n. 70/1960, consegue ovviamente che la materia in esame rientra
nella sfera di applicazione dell’art. 23 Cost. ed è pertanto estranea all’art. 41 Cost., che
disciplina, invece, l'iniziativa economica privata, ed all’art. 43 Cost., che a sua volta consente alla legge, fra l’altro, la possibilità di attribuire a enti pubblici, per ragioni di utilità
generale, e in esclusiva, determinate categorie di imprese”.
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(15)), a seconda dei diversi tipi di prestazione imposta e dei molteplici
interessi generali e pubblici: in definitiva, in relazione alla particolare natura e funzione dei singoli istituti cui trova applicazione quel disposto
costituzionale (16). Vanno distinte – in quest’ottica, ricostruttiva – le
prestazioni personali, per le quali è diretta e prevalente la funzione garantista della riserva, in relazione alla libera destinazione delle energie fisiche e psichiche dell’individuo, quali valori di sicura e somma protezione superiore. Ma anche tra le prestazioni patrimoniali può e deve essere operato più di un distinguo, dandosene talune di tipo afflittivo, talaltre risarcitorie o indennitarie, altre ancora, appunto, tributarie.
Il contenuto minimo della riserva di legge potrebbe cioè variare in
dipendenza della natura della prestazione patrimoniale imposta e, soprattutto, della sua giustificazione e funzione: distributiva della spesa, piuttosto che redistributiva della individuale ricchezza.
Non mi soffermerò sulla struttura essenziale del contenuto minimo
della fattispecie impositiva “legislativa”. In linea di principio, ricordo
che soggetti, indici di contribuzione e presupposto d’imposta ne costituiscono il nucleo comunemente condiviso ed irrinunciabile, poiché concretano proprio quel criterio di riparto delle pubbliche spese che costituisce “valore” costituzionale tutelato ed affidato alla riserva stessa (17);
entità, generalità e effettività del prelievo, invece, sono tutti aspetti che,
a talune condizioni, anche la giurisprudenza costituzionale consente di
imputare a scelte democratiche locali e per il tramite di fonti normative
non legislative (18), tenendo conto persino dei rischi che una legislazio-
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(15) Cfr., R. GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato di diritto civile e
commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, ora continuato da L. Mengoni, Milano, 1998, I, t. 1, 434.
(16) Cfr., in termini, A. FEDELE, Appunti, cit., 51-52.
(17) La riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. è soddisfatta purché la legge (anche
regionale: cfr., sentenze n. 435/2001, n. 64/1965, n. 148/1979, n. 180/1996, n. 269/1997
– ordinanze) stabilisca gli elementi fondamentali dell’imposizione, anche se demanda a
fonti secondarie o al potere dell’amministrazione la specificazione e l’integrazione di tale disciplina.
(18) Fondamentale, a questo proposito, è ricordare quanto precisato dalla Consulta
nella celebre sentenza 23 maggio 1985, n. 159, meglio nota come “sentenza Socof” (sovraimposta comunale sui fabbricati – contenuta nel DL n. 55/1983, conv. con modif. nella legge n. 131/1983): “La prestazione pecuniaria, pur quando si configuri come onere fiscale in senso proprio, è imposta “in base” alla legge” … “anche se lascia all’ente autonomo la facoltà di istituire, oppur no, la sovrimposta”. Un pronunciato, questo, nel quale in sostanza la Consulta ha saputo confermare l’esistenza di uno spazio (già all’epoca),
utile allo svolgimento del valore dell’autonomia locale, identificandolo nel potere di istituire o meno un tributo di regolazione statale. Si tratta di un ordine di idee già manife-
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ne nazionale ed uniforme, eccessivamente analitica, può comportare per
l’eguaglianza tributaria sostanziale, in rapporto alle diverse realtà locali
(19).
Nella “fiscalità locale” la riserva di legge deve, tuttavia, essere indagata e declinata contemperando il “valore” tributario con il “valore”
dell’autonomia fiscale, la quale è, prima di tutto, riconoscimento (20)
della dignità democratica e della rappresentatività degli organi istituzionali degli Enti locali: un profilo, questo, che consentirebbe una maggiore flessibilità del minimo contenuto della legge, proprio per conferire
spazio di autonoma manovra fiscale a livello locale ed, in definitiva, di
gestione autonoma e responsabile, tanto più se questa operazione fosse
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stato circa venti anni prima, nella sentenza 23 maggio 1966, n. 44 (in materia di Imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili - legge 5 marzo 1963, n. 246), secondo il seguente, testuale, ragionamento: “dalla libertà di istituire o no l’imposta, lasciata ai Comuni … non deriva una violazione del principio di eguaglianza, giacché l’attribuzione ad Enti locali di una discrezionalità nell’usare o non il potere imposizionale
loro conferito, quando non ricorrano ragioni generali di imposizione obbligatoria, è
conforme al principio di autonomia degli Enti locali, costituzionalmente garantito (artt. 5
e 128 Cost.)”; né “ha maggior fondamento l’affermazione che con l’attribuzione della
detta facoltà sarebbe violato l’art. 23 Cost.”, poiché “la legge non ha lasciato i detti Comuni liberi nelle loro determinazioni” ed “essi, invece, in ordine al periodo assumibile
per la determinazione dell’incremento tassabile, sono vincolati alla norma dell’art. 5 della legge stessa, e in ordine all’aliquota, sono vincolati, come tutti gli altri Comuni, alle
norme dell’art. 21”. “Pertanto” – concludeva la Corte – “l’esercizio da parte loro del potere ad essi conferito, trovando i suoi limiti nelle predette norme, dà luogo ad una imposizione di prestazioni patrimoniali fondata sulla legge”. Questa declinazione della riserva di legge, in relazione al valore autonomia e, comunque, al potere di applicare o meno
un tributo di regolazione statale, infine, è stato confermato, successivamente anche in
materia di Invim, nella sentenza 22 novembre 1991, n. 423, sul presupposto che sia coerente, con i contenuti degli artt. 3 e 23 Cost., una normativa rispondente all’esigenza di
“assicurare una imposizione atta a rispecchiare la situazione propria a ciascun Comune”,
“lungi, in tal modo,” sia dal comportare “pretese violazioni del principio d’eguaglianza”,
sia dal conferire agli “enti impositori … un potere illimitato, … in contrasto con la riserva di legge garantita dall’art. 23”.
(19) Mi riferisco, ancora, alla sentenza n. 44/1966, nella quale la Consulta ebbe a
soggiungere, direi molto significativamente, che: “una maggiore determinazione, in via
generale, dei criteri per stabilire l’incremento dei valori tassabili avrebbe prodotto disuguaglianze e sperequazioni, col ricondurre sotto norme comuni situazioni diverse”.
(20) S. BARTHOLINI (Il principio di legalità, cit., 111) ipotizzava, già nel ’57, che
l’art. 23 potesse non operare con “severità” nei confronti degli enti rappresentativi minori
territoriali, sostanzialmente, ritenendoli espressione diretta della volontà politica del contribuente. Sul punto, si veda, altresì, FORTE, Note sulla nozione dei tributi nell’ordinamento finanziario italiano e sul significato dell’art. 23 Cost., in Riv. dir. fin e sc. fin.,
1956, I, 248 ss. e, segnatamente, 278.
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possibile almeno per una certa tipologia di tributi. La giustificazione della riserva di legge – il principio democratico – appare coerente e comprensiva del valore dell’autonomia e della responsabilità di governo locale. Tuttavia, la riserva ex art. 23 è concepita come relativa anche nella “rigidità”: dunque, disomogenea o almeno dipendente dalla tipologia
di prestazione di volta in volta considerata. In perfetta coerenza con la ricerca del contenuto minimo della riserva nelle implicazioni del valore
costituzionale della prestazione imposta individuata, quindi, proprio
l’area della contribuzione commutativa (21) o para-commutativa potrebbe essere anche quella di maggiore svolgimento di una potestà normativa diversa da quella legislativa (22).
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2. Dopo avere accennato in termini generali alla riserva di legge e
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(21) La giurisprudenza del Giudice delle leggi – a dire della stessa Consulta (il testo virgolettato è tratto dalla recente sentenza 28 dicembre 2001, n. 435) – “ha (infatti)
allargato la nozione di “prestazione patrimoniale imposta”, ai sensi dell’art. 23 Cost., riconducendovi anche prestazioni di natura non tributaria, e aventi funzione di corrispettivo, quando, per i caratteri e il regime giuridico dell’attività resa, sia pure su richiesta del
privato, a fronte della prestazione patrimoniale, è apparso prevalente l’elemento della imposizione legale (cfr. ad es. sentenze n. 55/1963, n. 72/1969, n. 127/1988, n. 236/1994,
n. 215/1998)”; e “per ritenere la prestazione imposta”, ha fatto ricorso ad elementi di non
facile definizione, come il carattere di “servizio essenziale” ai bisogni della vita, rivestito dall’attività del soggetto cui la prestazione patrimoniale è dovuta (cfr. sentenze n.
72/1969, n. 127/1988, n. 215/1998)”. Sul piano concettuale e lessicale, peraltro va evidenziato che la Consulta, diversamente da quanto ho già sostenuto e qui do essenzialmente per scontato, pur nel contesto di pronunzie molto e volutamente condizionate dalla casistica, è apparsa escludere dal concetto di tributo quelle prestazioni che avessero un
titolo commutativo o paracommutativo, comprese quelle “imposte” nel senso vago e
complesso reso dal criterio, tra gli altri, della natura essenziale del servizio pubblico cui
sono correlate.
(22) Mi è parso assai significativo e coerente con questa impostazione teorica, basata sulla struttura e lettura più condivisa della riserva di legge ex art. 23 Cost., un passaggio essenziale della già citata sentenza n. 435/2001: “È bensì sufficiente, per rispettare la riserva di legge, che idonei criteri e limiti, di natura oggettiva o tecnica, atti a vincolare la determinazione quantitativa dell’imposizione, si desumano dall’insieme della
disciplina considerata (cfr. sentenze n. 72/1969, n. 507/1988). Ciò può verificarsi, in particolare, quando la prestazione imposta costituisca il corrispettivo di un’attività il cui valore economico sia determinabile sulla base di criteri tecnici, e il corrispettivo debba per
legge essere determinato in riferimento a tale valore”. La Corte, nell’occasione, formulava questo criterio per esprimere l’astratta legittimità di una legge regionale che rimettesse alla Giunta la determinazione del quantum dell’imposizione; ma si tratta di un passo
di significato più generale e ricognitivo, almeno in nuce, della minore rigidità della riserva di legge, quando la prestazione imposta sia di tipo o titolo para-commutativo.
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prima di esaminare la portata nel testo vigente del titolo V, appare importante richiamare gli essenziali interventi legislativi che hanno preceduto la novella costituzionale.
Il legislatore ordinario, ancor prima di “farsi costituente” e nelle battute conclusive della XIII legislatura, ha saputo imprimere una svolta
obiettiva e concreta, con una fuga in avanti, nella presumibile consapevolezza dello iato tra l’esistente ordinamento normativo della fiscalità locale e l’ordinamento possibile, anche alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale dell’originario Titolo V e dell’art. 23, Cost.
Dirò subito che la cd. Riforma Visco, in materia di fiscalità locale
(D.Lgs. n. 446/1997), ha tracciato un percorso, per così dire, binario: da
un lato, un forte e talvolta marcato decentramento della potestà normativa tributaria sostanziale, con obiettivo privilegio (23) per gli Enti locali
conformato all’esigenza di una “base” nella “legge”; dall’altro, la “formale” defiscalizzazione di molte e significative “entrate locali” (essenzialmente, ma non solo, correlabili a servizi divisibili), le quali, nella sostanza, sono state protagoniste di un’“emancipazione solo nominalistica”
(in “tariffe”), senza perdere la natura di “tributi” (di imposte e tasse, segnatamente).
La migliore dottrina ha saputo cogliere entrambi questi aspetti (24),
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(23) Semplificando ai fini che ci occupano, direi che per quanto attiene alla fiscalità regionale, le novità più significative sono state, per così dire, “di gettito”: l’istituzione dell’Irap e la previsione di addizionali, dotate, in entrambi i casi – e con disposizioni
presto paralizzate dall’evolversi della situazione economica e politica – di una limitata
possibilità di manovra delle aliquote, nonché per la prima, a regime (cfr., art. 24, D.Lgs.
n. 446 cit.), della possibilità di regolare con leggi proprie le procedure di applicazione del
tributo. Operazioni, queste, che non sono apparse significative, nella prospettiva del nuovo titolo V, come del resto la stessa Corte costituzionale – da ultimo con sentenza 19 luglio 2004, n. 241 – ha inequivocabilmente sostenuto, escludendo una potestà legislativa
regionale in materia di Irap ed affermando che tuttora la disciplina sostanziale dell’imposta rientra nella esclusiva competenza dello Stato in materia di tributi erariali (e, nello
stesso senso, già le sentenze nn. 296, 297 e 331/2003, con riferimento alla tassa automobilistica regionale).
(24) Cfr., A. FEDELE, La potestà normativa degli enti locali, in Fin. loc., 1998, 10
ss.; e, più recentemente e diffusamente, in Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit.
In genere, in argomento, si vedano P. BORIA, Le scelte di federalismo fiscale con D.Lgs.
15 dicembre 1997, n. 446, in Commento agli interventi di riforma tributaria. I decreti legislativi di attuazione delle deleghe contenute nell’art. 3 della legge 26 dicembre 1996 n.
662, Padova, 1999, 861 ss. e, segnatamente, 880-898; cfr., altresì, L. PERRONE, Appunti
sulle garanzie costituzionali in materia tributaria, in questa Rivista, 1997, I, 584. Critico ed in una insolita collocazione, L. DEL FEDERICO, Presentazione del supplemento al
Corriere tributario n. 12 del 25 marzo 2002, codice tascabile dei “Tributi locali”, Ipsoa,
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e soprattutto il primo; quello che ha assunto la caratteristica di una sorta
di “vigilia normativa” rispetto alla introduzione del cd. nuovo Titolo V,
accompagnandone anche le fasi di prima applicazione. Quello tracciato e
indicato dal D.Lgs. n. 446/1997, è, dunque, un doppio binario, che sembra dover assumere un ruolo anche nella lettura e sistematizzazione della novella costituzionale in materia tributaria: il decentramento della potestà normativa tributaria faticosamente costruito in capo agli Enti locali, infatti, per un verso, potrebbe subire (o aver già subito, nella novella
costituzionale) una precoce e significativa erosione, già paventata dalla
dottrina (25); per altro verso, sembrerebbe materializzare, in materia tributaria, un processo di maturazione più radicata e profonda, concernente, in genere, i criteri di riparto (soprattutto orizzontale) della potestà normativa.
Mi pare sia giudizio diffusamente condiviso quello, secondo il quale, la riforma Visco avrebbe largamente anticipato lo spirito della novella costituzionale, pur non avendone il fondamentale rango; e, probabilmente, per certi versi, quell’apertura al dispiegarsi pieno dell’autonomia
tributaria dell’Ente locale, nel sostanziale rispetto della riserva ex art. 23,
Cost., è andata oltre le più rosee aspettative. In linea di massima, mi pare di poter dire che il decreto delegato n. 446 ha conservato, negli aspetti qualificanti, il fondamentale assetto omogeneo della fiscalità locale sul
piano nazionale: si tratta, infatti, di tributi identificati, nel cd. nucleo forte e riservato, da leggi valide per tutti, e largamente devoluti ad una disciplina autonoma e locale, di rango secondario, espressione del potere,
democraticamente fondato, di applicazione o disapplicazione “responsabile”, con ampia possibilità di diversamente conformare il tributo di
“fonte statale”, di fare persino politica della spesa e di ritagliare un primo spazio di flessibilità per il fabbisogno finanziario territoriale.
Come ho accennato ed ora spiegherò meglio, inoltre, la riforma del
‘97 sembra esprimere, nel riparto della competenza alla disciplina dei tributi, una nuova inerzia; sembra, cioè, presupporre e declinare in concreto l’elasticità propria della riserva di legge in senso sostanziale, compo———————
Editore, 5-6, secondo il quale, in relazione al potere regolamentare attribuito alle Province ed ai Comuni dall’art. 52, D.Lgs. n. 446/1997, “si attribuisce agli enti locali, in sostanza, una potestà così ampia da poter addirittura sovrapporsi (o meglio, più brutalmente, derogare) alla legge, donde il problematico rapporto tra le fonti e l’arduo contemperamento con la riserva di legge ex art. 23 Cost.”. Più compiutamente, dello stesso Autore, Tasse Tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 254 ss.
(25) Cfr., sul punto ed in questo senso, A. FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 101102.
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nendo, tra loro, il criterio di riparto gerarchico e per fonti tipiche, con
quello della competenza, intesa, tendenzialmente, come “misura della ragionevolezza” (26). È l’idea – come di qui a poco ricorderò più in dettaglio – della identificazione della fonte competente, secondo il criterio
della approssimazione alla “dimensione ottimale” dei “valori” ed, in definitiva, della funzione (“attuativa” degli stessi) propria della riserva: il
valore “autonomia locale” e della responsabilità democratica, sub specie
fiscale, degli organi di governo territoriali; ma anche il “valore tributario”, così come inteso e voluto nella nostra Carta costituzionale, soprattutto nella sua dimensione e qualità “sistematica”.
In qualche misura, ferma l’esigenza di una “base legislativa”,
quell’intervento del legislatore ordinario e di quello delegato – in chiusura di secondo millennio –, produce ed ha prodotto un reale decentramento della potestà normativa fiscale, nei limiti consentiti dalla riserva
di legge, così come attenuata dal valore costituzionale al quale dà attuazione: la riforma esemplifica l’idea di una identificazione della competenza normativa, secondo ragionevole approssimazione alla dimensione
ottimale dei valori sostanziali.
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3. Prima di esaminare i contenuti più direttamente “tributari” della
novella costituzionale dell’autunno 2001, svolgo, rapidamente, alcune
considerazioni di insieme sull’impianto complessivo del nuovo Titolo V.
Considererei, prima di tutto, il primo alinea dell’art. 114, Cost., secondo il quale, testualmente, la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato: un disposto che esprime, obiettivamente, l’idea della “equiordinazione” anche
per l’ordine di elencazione, da molti inteso come eloquente e fecondo di
implicazioni.
Merita, quindi, una celere notazione anche l’art. 116, Cost., contenente un meccanismo di riparto “flessibile” ed ulteriore – rispetto a quel———————
(26) Proprio su questo aspetto, del quale esprime consapevolezza, è fortemente critico DEL FEDERICO (Presentazione, cit., 6), il quale, “indipendentemente dall’opzione
dogmatica, per la competenza o per la gerarchia”, ribadisce che “certo gli enti locali non
possono invadere le aree sottoposte alla riserva di legge”: un giudizio che, a condizione
di una più articolata e profonda delimitazione di dette aree di riserva, può essere condiviso in linea di principio ed astrattamente, conservando appieno, però, il criterio della
identificazione della fonte “competente” in quella di ragionevole approssimazione ottimale alla misura o qualità dei valori, niente affatto irrilevante o variabile indipendente e,
piuttosto, utile a spiegare e cogliere il senso della cd. riforma Visco (forse persino di ciò
che l’ha seguita e la seguirà).
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li più diffusamente considerati dalla speculazione dogmatica –, del quale occorre tenere conto nella più complessiva ricostruzione del sistema
emergente dalla novella (27). Le aree di competenza esclusiva del legislatore statale costituiscono ambiti che ammettono, nel quadro della nuova disciplina, interventi derogatori disposti dal legislatore ordinario:
l’art. 116 rimette, infatti, ad una legge statale – da adottare in base ad una
speciale procedura di iniziativa regionale (una legge postulante il raggiungimento di un “accordo” tra Stato e Regione) – la eventuale sottrazione al regime della gestione monopolistica statale di certe materie, che
pur ricadono tra quelle riservate in via esclusiva allo Stato (art. 117,
comma 2). Ciò accade in materia di “disposizioni generali sull’istruzione”, in materia di giurisdizione “di pace” e per quel che concerne l’ecosistema, l’ambiente e i beni culturali. Si può, dunque, pervenire, attraverso un intervento legislativo statale (meglio attraverso “intese” tra Stato e Regione alle quali la legge statale deve dare finale approvazione), ad
ulteriori forme di gestione normativa “a due mani”, che imitano la competenza concorrente Stato-Regione prevista in materie definite dalla Costituzione.
Va, quindi, considerato il disposto dell’art. 120, Cost., che – per
quanto ci occupa più direttamente –, al comma 1, ribadisce vincoli di ordine e formulazione “negativa”, ma di carattere “materiale”, alla potestà
normativa regionale di innegabile e diffuso riflesso sulla fiscalità interna
(indiretta, prevalentemente (28), e direi, essenzialmente, regionale e locale): obblighi di risultato (“negativo”, appunto), che in definitiva delineano il primato delle libertà economiche e del mercato unico (nazionale e, quindi, europeo), pur senza mai evocare direttamente la matrice comunitaria, né quindi necessariamente delimitare a quella dimensione spaziale e giuridica la portata delle indicazioni costituzionali. Di più ampio
respiro e significato, infine, è la prima parte del comma 2 di detto disposto costituzionale, nella quale è previsto un generico “potere sostitu———————
(27) Cfr., sul punto, A. DE ROBERTO, La ripartizione delle funzioni normative, in La
Riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione - (settimana culturale di Sperlonga 47 settembre 2002) ed in www.giustizia-amministrativa.it.
(28) È un disposto, infatti, estremamente ampio, che dà la misura dei sempre più
angusti spazi residui ed utili ad azionare la cd. “leva fiscale”, soprattutto a livello substatale ed in materia di imposizione indiretta, deputato, dichiaratamente, alla fluidità del
mercato nazionale ed, inevitabilmente, di quello comunitario; la fiscalità “diretta”, invece – nella dimensione nazionale, almeno – dovrebbe rivelarsi meno sensibile a questo ordine di vincoli negativi, anche se sarebbe, qui, troppo complesso ed arduo sintetizzare le
possibili implicazioni ed interrelazioni sul terreno dei cd. aiuti di Stato.
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tivo” dello Stato (testualmente, del “Governo” – l’esecutivo) rispetto ad
“organi” degli enti sub-statali, compresi quelli regionali, essenzialmente
(per quanto ci occupa): a) in caso di violazioni comunitarie o internazionali; b) e quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità
economica; “prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. La
legge (statale) – secondo quanto previsto all’ultimo periodo della disposizione –, definisce procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione.
Il sistema delineato dal nuovo art. 120 mi pare, dunque, che, per un
verso, confermi gli angusti e strettissimi margini di autonomia normativa tributaria ipotizzabile a livello locale e, per altro verso, realizzi
l’emersione di una sorta di (o formalizzi il) “primato” dell’unità “giuridica” ed “economica”, quale veicolo o ragione “materiale”, di soggezione della fonte e dell’organo locale a quello centrale (ma, ritengo, “nella
veste “repubblicana, comprensiva ed unitaria”). Questo meccanismo,
previsto al comma 2, dell’art. 120, potrebbe risolversi, per lo più, nel
coordinamento “nazionale” – per quanto ci occupa, nel contesto dell’applicazione del combinato disposto degli artt. 117 e 119, Cost. – mediante opportuni principi fondamentali, ed indurre a concepire, in parte qua
(ovvero, al fine di garantire quei predicati di ordine materiale, compresi
quelli posti al comma 1 dell’art. 120), come “integrativa” e “attuativa”
(29) la disciplina riservata all’opera degli enti sub-statali. Tale enunciato costituzionale, comunque, esprime il forte peso del vincolo sostanziale, nel riparto delle competenze o delle potestà normative, riassunto dai
concetti di unità giuridica e unità economica – estremamente ampi e
comprensivi –, nonché l’essenziale “dinamismo” di ogni sistemazione ripartita, connaturato ad un ordinamento ed un sistema autenticamente
“pluralisti” e fortemente decentrati.
Gli artt. 114, 116 e 120, pertanto, rendono – immediata – l’idea della complessità del sistema e dei meccanismi delineati dal legislatore co———————
(29) Comunque, coerente e non derogatoria rispetto alla ratio dei principi fondamentali, sul modello della giurisprudenza costituzionale in materia di diritto civile, privato o comune, che ha saputo aprire ad una limitata autonomia periferica, a quelle delicate ed originali condizioni di risultato, essenzialmente perché sia assicurata su tutto il
territorio nazionale una uniformità di disciplina e di trattamento: non sarebbe accettabile, invece, una violazione, ancorché indiretta, dei principi di fondo; né un regime locale
che eluda quegli obblighi di risultato “negativo” o sia manifestamente irragionevole,
piuttosto che espressione di finalità pubbliche connesse allo svolgimento delle competenze costituzionalmente assegnate (cfr., sul punto, Corte cost., sentenza n. 352/2001).
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stituzionale, soprattutto per la compresenza, accanto a disposizioni di riparto “materiale” della potestà normativa, di significativi contrappesi e
criteri di tipo flessibile: una sorta di dualismo – a mio modo di vedere,
apparente – tra assetto strutturale ripartito e assetto strutturale condiviso
o collaborativo – proprio in ordine alla potestà normativa –, riassunto, in
breve, dalla relazione di complementarità intercorrente tra disposizioni
del primo e del secondo tipo (tra l’art. 117 e l’art. 120, comma 2 (30),
Cost., per tutti (31)).
Nel giudizio di costituzionalità (32) dell’art. 8, commi 1-4, della legge (cd. La Loggia, 5 giugno 2003, n. 131) “di adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”,
proprio nella parte concernente il “potere sostitutivo” (33) di cui al novellato art. 120, comma 2 (34), Cost., la Corte è stata inequivocabile e
lapidaria, su questo punto, (cfr. 4.1, in diritto), premettendo, al ragionamento di dettaglio, che “la previsione del potere sostitutivo “fa sistema”
con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando
comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a
tutela di “interessi unitari””. Assai significativo ed eloquente, rispetto al
pensiero del Giudice delle leggi, è soprattutto l’aver escluso nettamente
(anche se in forma non del tutto esplicita e diretta) ogni possibilità di
configurare l’interesse sotteso ad una materia attribuita alle Regioni (ed
il concetto di attribuzione stessa conserva indubbio significato costitu-
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(30) Cfr., sul punto, E. GIANFRANCESCO, Il potere sostitutivo, in Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V (La Repubblica delle autonomie), a cura di T. Groppi e M. Olivetti, Torino, 2003, 184-185, il quale ipotizza che si tratti di un sostanziale, ancorché non
esplicito, superamento della rigidità del riparto per materie, difficilmente suscettibile di
sindacato di costituzionalità.
(31) È utile menzionare, peraltro, anche il disposto dell’art. 118, Cost., concernente il riparto delle funzioni amministrative e non privo di rilevanti implicazioni in materia tributaria, dal quale emerge un disegno senza soluzione di continuità, rispetto a quanto, più in generale, ha inteso esprimere – a mio modo di vedere – il successivo art. 120,
comma 2, Cost. Sul principio di “sussidiarietà orizzontale”, in relazione specifica all’art.
118, Cost., si veda, L. ANTONINI, Sussidiarietà, libertà e democrazia, in I percorsi del federalismo a cura di B. Caravita di Toritto, Milano, 2004, 51-58.
(32) Cfr., Corte cost., sent. 19 luglio 2004, n. 236.
(33) Sul tema del potere sostitutivo, anche per la completezza dei riferimenti, si veda R. BIN, Legge regionale, in Dig. disc. pubb., IX, Torino, 1994, e, quindi, in Saggi e
materiali di diritto regionale, a cura di A. Barbera e L. Califano, Rimini, 1997, 106 ss.;
cfr., altresì, M. CAMMELLI, Poteri sostitutivi, in Le Regioni, 1998, 492 ss.
(34) Sul novellato comma 2 dell’art. 120, Cost. ed in genere la sostituzione normativa, la sostituzione amministrativa ed i rapporti di entrambe con il principio di sussidiarietà, si veda, recentemente, E. GIANFRANCESCO, Il potere sostitutivo, cit., 183 ss.
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zionale) come autonomo o proprio, nel senso di separato o conflittuale,
in relazione all’interesse nazionale: testualmente, vi è “un “legame indissolubile” fra il conferimento di una attribuzione (in quel caso, ex lett.
m) dell’art. 117, comma 2, Cost. (35)) e la previsione di un intervento
sostitutivo diretto a garantire che la finalità cui è preordinato il primo
(quel conferimento) non sacrifichi l’unità e la coerenza dell’ordinamento”.
Del resto già prima della novella, la dottrina pubblicistica (36), con
il conforto di alcuna giurisprudenza della Consulta, aveva prefigurato il
superamento della logica dei riparti meccanici e rigorosi di materie e
competenze – ossia del riparto secco (37), esclusivamente formale e statico – identificando i profili sintomatici di un processo in fieri: orientandosi, in altri termini, a ragionare in termini di integrazione delle fonti, secondo un modello ricostruttivo “dinamico” e “materiale”, che la giurisprudenza costituzionale parrebbe confortare (38). Un processo di lunga
gestazione, ed un percorso che, semplificando estremamente, ha preso
avvio dall’ordinamento gerarchico delle fonti-atto, è passato, più o meno
rapidamente, al sistema del doppio criterio “di gerarchia e competenza”
(39), con la costante della “tipicità” e del cd. numerus clausus (40), e di
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(35) Che già A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino, 2001,
93, indica, nel quadro del Titolo novellato, come esemplare della “razionalizzazione”
dello spostamento del piano di rilevanza del limite statale, dalla struttura, alla funzione
degli atti statali incidenti sulle materie di competenza regionale; sì che sono state considerate idonee a vincolare la produzione normativa regionale, non solo le disposizioni dotate di una struttura nomologica di principio, bensì ogni disposizione servente il bene
dell’unità-indivisibilità dell’ordinamento, ossia idonea a farsi cura di interessi nazionali
(o sopranazionali) indisponibili. L’art. 117, comma 2, lett. m), secondo l’Autore, quindi,
dà modo alla legge statale di immettersi nei “campi regionali in genere” (dunque, sia con
riguardo alle materie di potestà ripartita che per quelle di potestà piena).
(36) Cfr., per tutti, A. SPADARO, Sui principi di continuità dell’ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione Europea, Stato e Regioni, in Riv. trim.
dir. pubbl., 1994, 1041 ss.
(37) Secondo quanto osserva e ci ricorda, più recentemente, A. RUGGERI, Fonti,
norme, cit., 84.
(38) In termini, ancora, A. RUGGERI, Fonti, norme, cit., 84.
(39) Con specifico riguardo ai criteri ordinatori e segnatamente al criterio di competenza, si veda il noto saggio di V. CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 775 ss.
(40) Si tratta di una nota “obiezione” di CRISAFULLI (Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano, Milano, 1976, II, 171 ss.), concernente il cd.
numerus clausus delle fonti preventivate e regolate nella Carta costituzionale: il principio della inderogabile ascrizione alla Costituzione formale della funzione di ripartire le
competenze normative, anche verticalmente, che deve portare a rifiutare ogni rapporto di
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qui, ancora – dopo il tentativo di Modugno (41) di superare il numero
chiuso o il principio di tassatività o tipicità – all’approdo, più recente ed
aderente alla lettura della giurisprudenza costituzionale, indicato da Ruggeri (tra gli altri): quello della “gerarchia delle norme”, di un sistema delle fonti, cioè, ordinato secondo criterio di ragionevolezza (42), mediante
norme costituzionali sulla normazione essenzialmente “aperte”, simultaneamente, “verso l’alto” – dai e sui “valori” (43) – e “verso il basso” (va-
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esclusione o subordinazione nella competenza normativa, che non trovi esplicito fondamento nella Carta Costituzionale stessa, la Lex legum per eccellenza.
(41) Muovendo dalla crisi della legge formale, che ha avuto l’acme nel passaggio
ad un sistema a costituzione rigida ed ha visto ampliare i livelli gerarchici di normazione – come pure affiancare al criterio della forma quello della competenza – questa dottrina (cfr., F. MODUGNO, voce Fonti del diritto (gerarchia delle), in Enc. dir., Milano,
1997, Agg. I, 567 ss.) ha evidenziato, nella stessa disciplina costituzionale delle fonti e
della normazione, i germi di una diversa regolazione del concorso tra fonti e tra atti normativi, nonché della de-tipizzazione di questi ultimi: “nuovi atti normativi vengono
emergendo accanto a quelli già conosciuti e considerati non solo dall’ordinamento nella
sua continuità storica, ma perfino dalla Costituente: essi si affermano nella realtà dell’ordinamento con efficacia, pur, volta per volta, differenziata, ma sempre in definitiva, commisurata allo scopo che si prefiggono le forze che vi hanno dato origine” (cfr., op. loc.
cit., 586).
(42) “La competenza, così si fa, naturalmente, ragionevolezza, nella sua forma delle congruità delle norme ai “fatti” (o agli interessi), alla luce dei valori” (così, A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino, 2001, 231): e segnatamente del
“bilanciato” rapporto tra unità-indivisibilità ed autonomia, imposto dall’art. 5 Cost. (così, op. loc. cit., 95). Si tratta della nota impostazione che conduce l’Autore al superamento della “gerarchia degli atti” ed all’affermazione di una “gerarchia delle norme”, le
quali, quindi, essenzialmente, sarebbero assiologicamente orientate (cfr., in argomento,
A. RUGGERI, “Itinerari” di una ricerca, cit., IV, 83 ss. e, soprattutto, specie per quanto
ci occupa, il Suo, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti
normative, Milano, 1977, 240 ss.; cfr., altresì, L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano,
Bologna, 1996, 91).
(43) Recentemente ha ribadito il proprio pensiero e questa impostazione di fondo,
A. RUGGERI, Potestà legislativa primaria e potestà “residuale” a confronto (nota minima a Corte cost. n. 48/2003), in Consulta online – Rivista giuridica telematica –
www.giurcost.org/studi, osservando che: “Uno stesso limite, come si sa, non rimane sempre identico a sé, suscettibile di meccaniche ed uniformi applicazioni, quasi fosse una
sorta di aggeggio a scatto automatico, manovrabile ad occhi chiusi anche da parte di operatori sprovveduti. La capacità di vincolo per l’autonomia delle “norme fondamentali delle riforme” o di altri limiti ancora (quanto alla potestà piena) o dei “princìpi fondamentali” (per la potestà ripartita) va posta in rapporto (ed in un rapporto in ultima istanza
qualificabile unicamente secondo ragionevolezza) con la qualità e natura degli interessi
da soddisfare, la loro mobile combinazione pur nella costante tensione verso un equilibrato appagamento sia delle istanze di unità che delle istanze di autonomia. E lo stesso,
com’è chiaro, vale anche per i nuovi limiti, ancorché innaturalmente mascherati e fatti
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le a dire verso l’esperienza), dai e sugli “interessi” (44). La giurisprudenza costituzionale (45), alle soglie del Titolo V e al suo esordio è sembrata particolarmente sensibile a quell’ordine di idee, e, quindi, a una costruzione moderna, flessibile ed integrata dell’ordinamento delle fonti,
ancorato al poco palpabile e molto casistico criterio degli “interessi coinvolti” o delle “materie trasversali” (specie quando di legislazione cd.
concorrente, nella particolare struttura sbilanciata “verso il basso” dell'art. 117, comma 3, Cost. novellato (46)): un criterio, o un modello ri-
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passare per “materie”, quali quelli espressi dalle norme “trasversali” suddette: i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti non possono che disporsi a diverse “altezze”, tanto nel passaggio da un campo materiale all’altro, quanto per uno stesso campo nel
tempo”.
(44) Cfr., in termini, ancora A. RUGGERI, Fonti, norme, cit., 228-229.
(45) Cfr., in particolare, Corte cost., sentenza 26 luglio 2002, n. 407, in Giur. cost.,
2002, 2946 ss. - p.to 3.2., in diritto: secondo la quale, “non tutti gli ambiti materiali specificati nel comma 2 dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come “materie” in
senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie (cfr. sentenza n. 282/2002). In questo senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere
che possa identificarsi una “materia” in senso tecnico, qualificabile come “tutela dell’ambiente”, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della
Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell’ambiente come “valore” costituzionalmente protetto, che,
in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale (cfr., da ultimo, sentenze n. 507 e n. 54/2000, n. 382/1999, n.
273/1998); cfr., altresì, Corte cost., sentenza 26 giugno 2002, n. 282 (in relazione ad una
“materia”, quella della tutela della salute, per la quale la novella costituzionale ha previsto un riparto della potestà normativa concorrente, analogo a quello in materia di sistema e coordinamento del sistema fiscale (art. 117, comma 3, Cost.); cfr., infine, in materia “venatoria” e “redivivo” “interesse nazionale”, la sentenza Corte cost., 20 dicembre
2002, n. 536 (in particolare, p.to 5 in diritto), che chiude, simbolicamente, quell’anno
giudiziario costituzionale.
(46) È il concetto di “valore e materia trasversale”, elaborato dalla Consulta ed oggetto di ampio approfondimento nella speculazione dogmatica (cfr., P. BILANCIA, Il paradigma della legge statale, cit., 3-4 ed nt. 7; cfr., altresì, già, F.S. MARINI, La Corte costituzionale nel labirinto delle “materie trasversali”: dalla sent. n. 282 alla n. 407/2002,
in Giur. cost., 2002, 2951 ss.; G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, in Le Regioni, 2001, segnatamente, 1249), che induce ad
una più cauta analisi del tema del riparto della potestà normativa, a maggior ragione in
un ordinamento che si profila e prefigura (costituzionalmente) come “plurilivello”: è anche la teorica, munita di buon fondamento in quella giurisprudenza costituzionale, del
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costruttivo e operativo che ha indotto la Consulta a stemperare l’elencazione (di materie, appunto) già contenuta nel vecchio art. 117 Cost. e, di
qui, ad ammettere il superamento o la relatività delle indicazioni sul riparto di competenze tra Stato e Regioni, soprattutto, di quelle contenute
in quel disposto costituzionale. È a questo punto, sostanzialmente, che
sopraggiunge la riforma del Titolo V, affidata ad un simbolico rovesciamento dei criteri di riparto, con slittamento significativo di alcune materie già dello Stato, verso le Regioni (nuovo art. 117, Cost.).
Così, sostanzialmente, riassumerei la lunga vigilia, che ha preceduto l’accelerazione, su questo terreno, impressa dalla novella costituzionale, con l’equiordinazione dei soggetti (art. 114, Cost.), il pluralismo ordinamentale, la concertazione e collaborazione normativa a più livelli infra-nazionali e non solo (livello comunitario): sintetizzando, sembra fare
la sua emersione costituzionale il criterio della approssimazione della
fonte al livello e ambito ottimale di regolazione (materiale), ma anche il
criterio della complementarità dei più livelli, persino in una stessa materia.
“Equiordinazione” – abbiamo detto – che tuttavia – anche secondo
l’attuale pensiero della Consulta (47) – non è da intendere piena, o tale
in senso statico, quanto semmai dinamico: non è “equiparazione”, in altri termini, quanto espressione del conseguimento di giustificazione sovrana, per attribuzione o conferimento di poteri e prerogative obiettivi.
Lo stesso art. 114 Cost. – frequentemente inteso e sentito come simbolico di una effettiva “emancipazione ontologica” degli “enti sub-statali”
(48) – “non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in es-
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contemperamento tra criterio di riparto “formale” – che pure per i tributi non è così chiaro ed univoco – e verifica delle ragioni sostanziali, di volta in volta pretensive e compresenti, prima fra tutte – per quanto ci occupa – quella di unità, ma non di uniformità,
del sistema fiscale.
(47) Cfr., in termini, Corte cost., sentenza 24 luglio 2003, n. 274.
(48) Che pure emerge nel suo significato più autentico e condivisibile nella sentenza 12 aprile 2002, n. 106, allorché la Consulta ha espresso concetti inequivocabili sul
punto, nel ragionare della possibilità di impiego della denominazione “Parlamento”: il
nuovo Titolo V – con l’attribuzione alle Regioni della potestà di determinare la propria
forma di governo, l’elevazione al rango costituzionale del diritto degli enti territoriali minori di darsi un proprio statuto, la clausola di residualità a favore delle Regioni, che ne
ha potenziato la funzione di produzione legislativa, il rafforzamento della autonomia finanziaria regionale, l’abolizione dei controlli statali – ha disegnato di certo un “nuovo
modo d’essere” del “sistema delle autonomie”. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e Regioni, che sono stati in tal modo introdotti, non
hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio auto-
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so indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da
quelle autonome) non hanno potestà legislativa” (49). Del resto – sempre a dire del Giudice delle leggi – “pur dopo la riforma, lo Stato può
impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione
di qualsiasi parametro costituzionale”. Dunque, anche nel nuovo assetto
costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato è pur sempre riservata,
nell’ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare
(50), desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art.
5 Cost., ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (51) e dagli obblighi internazionali
(52), come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1), e dal
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nomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che “il nucleo centrale” attorno al quale esse ruotavano abbia trovato
oggi una “positiva eco” “nella formulazione del nuovo art. 114” Cost., nel quale gli enti
territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato, come elementi costitutivi della
Repubblica, quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la “comune derivazione” dal
principio democratico e dalla sovranità popolare.
(49) Cfr., ancora ed in termini, Corte cost., sentenza 24 luglio 2003, n. 274.
(50) Cfr. Corte cost., sentenza 24 luglio 2003, n. 274.
(51) Pur essendo prevista (art. 117, comma V, Cost.) la loro partecipazione alla fase cd. ascendente del diritto comunitario, anche per le Regioni speciali e le Province autonome la Costituzione non ha previsto una competenza concorrente, bensì ha affidato alla legge statale il compito di stabilire la disciplina delle modalità procedurali di tale partecipazione e previsto una perdurante competenza statale in tema di relazioni con l’Unione Europea, “a prescindere dai settori materiali coinvolti” (così, Corte cost., sentenza 19
luglio 2004, n. 239): la rappresentanza italiana in quella sede deve necessariamente essere caratterizzata da una posizione unitaria (Corte cost., sentenze nn. 317/2001 e
425/1999), né esiste alcuna prerogativa costituzionale di detti Enti sub-statali “speciali”
a far valere eventuali illegittimità degli atti normativi comunitari davanti agli organi
competenti, sì che anche l’obbligo – per il Governo e previsto all’art. 5, comma 2, legge
cd. La Loggia n. 131/2003 – di proporre ricorso dinanzi alla Corte di Giustizia Ce avverso atti comunitari, “qualora esso sia richiesto dalla Conferenza Stato-Regioni a maggioranza assoluta delle Regioni e delle Province autonome” è “riferibile alla discrezionalità del legislatore statale; si tratta di una “scelta (statale) di prevedere quell’obbligo”
(così, in termini, Corte cost., sent. 19 luglio 2004, n. 239).
(52) Cfr., Corte cost., sentenza 19 luglio 2004, n. 238, secondo la quale, tuttavia –
e va qui sottolineato – la novità che discende dal mutato quadro normativo è il riconoscimento a livello costituzionale di un “potere estero” delle Regioni (un “potere proprio”,
dice la Consulta al p.to 9, in diritto), cioè della potestà di stipulare, nell’ambito delle proprie competenze, anche veri e propri accordi con altri Stati, sia pure nei casi e con le for-
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riconoscimento, infine, dell’esigenza di tutelare “l’unità giuridica ed economica” (53) dell’ordinamento stesso (art. 120, comma 2): una istanza,
quest’ultima, che “postula, necessariamente, che nel sistema esista un
soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno
soddisfacimento” (54). A poco più di un anno di distanza (55), la Consulta ha soggiunto che quest’ultima “disposizione è posta a presidio di
fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità”, le quali potrebbero restare insoddisfatte o venir pregiudicate dall’operare degli enti
sub-statali”: di qui, emerge la stessa ragion d’essere, sostanziale, del potere sostitutivo “governativo”, “diretto a garantire l’unità e la coerenza
dell’ordinamento” (56).
Ciò detto, non credo, in definitiva, che la sfida del nuovo Titolo V,
per noi tutti feconda di incognite, ma anche di opportunità, possa essere
affrontata ponendosi in un’ottica superata da tempo, nella giurisprudenza costituzionale e nella dogmatica più o meno unanimi. L’approccio
della dogmatica tributaria deve essere, in questo senso, consapevole e
contestualizzato nel quadro dei principi e delle metodiche interpretative,
o ricostruttive, che hanno fatto breccia anche nella giurisprudenza costituzionale, salvo verificare la specificità della materia tributaria in senso
stretto e, quindi, i suoi riflessi sul riparto della potestà normativa, quando abbia tali peculiari oggetto, fine e giustificazione.
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me determinati da leggi statali (art. 117, comma 9, Cost.); anche tale “potere estero” deve peraltro essere coordinato con l’esclusiva competenza statale in tema di politica estera “nazionale”, così da salvaguardare gli interessi unitari. Un limite significativo ed
esemplificativo della reductio ad unitatem dello Stato e delle Regioni, le quali, però, non
operano più come “delegate” del primo, bensì come “soggetti autonomi” e pur sempre
nel quadro di garanzia e di coordinamento apprestato dai poteri dello Stato (cfr., in termini, p.to 6, in diritto).
(53) Obiettivi strutturalmente elastici e flessibili “tendenzialmente restii ad essere
verificati dall’esterno, in specie dal giudice costituzionale, e non raggiungibili soltanto attraverso misure di tipo amministrativo, potendo e dovendo implicare, invece, l’adozione
di misure normative: si tratterebbe di un elemento di flessibilità e di istituzionale assenza di predeterminazione costituzionale del limite di intervento del legislatore centrale,
“caratteristico del tipo di potestà legislativa presente nei modelli federali mitteleuropei”
(così, E. GIANFRANCESCO, Il potere sostitutivo, cit., 185).
(54) In termini, ancora, Corte cost., sentenza 24 luglio 2003, n. 274.
(55) Così e di seguito, Corte cost., sentenza 19 luglio 2004, n. 236.
(56) Si veda, in argomento, l’interessante e puntuale lavoro di R. DICKMANN, Spetta allo Stato la responsabilità di garantire il pieno soddisfacimento delle “istanze unitarie” previste dalla Costituzione, in I percorsi del federalismo, a cura di B. Caravita di
Toritto, Milano, 2004, 71-84.
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4. È giunto, quindi, il momento di esaminare i contenuti della novella costituzionale, più direttamente rilevanti nel tema che ci occupa,
per saggiare quale possa essere l’attuale o futuro riparto della potestà
normativa tributaria: mi riferisco, ovviamente, agli artt. 117 e 119, nella
nuova formulazione. La prima disposizione si apre (comma 1) con una
ulteriore (rispetto a quelle già esaminate fino ad ora) affermazione di
principio e respiro generale, sul rapporto tra potestà normativa statale e
regionale, da una parte, e Costituzione, vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed obblighi internazionali, dall’altra. Si tratta di un enunciato costituzionale da subito accolto come il primo luogo di codificazione stabile, compiuta e diretta della subordinazione delle fonti legislative interne a quelle di matrice comunitaria: affermazione che, se appare
valida in linea astratta e generale, va certamente meditata in concreto ed
in relazione specifica al rapporto intercorrente tra principi costituzionali
“supremi” e fonti, norme e principi comunitari. In particolare in materia
tributaria, con una grossolana semplificazione, mi pare dubitabile che vi
possa essere equiordinazione tra fondamento o statuto costituzionale del
tributo e del sistema tributario, da una parte, e principi e norme comunitarie tributarie, dall’altra. Almeno l’area della fiscalità diretta, rimasta il
vero nucleo forte degli ordinamenti sovrani nazionali, mi pare che non
possa essere erosa da un processo di silente armonizzazione “eurocentrica”, magari realizzato o sospinto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia: occorreva, piuttosto, profittare responsabilmente dell’occasione –
storica e per ora sfumata – di elaborare principi costituzionali comuni,
anche in questa delicatissima e strategica materia. Ciò detto, mi pare meriti una sottolineatura la sensibilità dell’estensore dell’enunciato costituzionale in esame, poiché ha saputo distinguere tra vincoli derivanti
dall’“ordinamento” comunitario ed “obblighi” internazionali.
Veniamo, dunque, al comma 2 dell’art. 117, Cost., ed, in particolare, alla sua lett. e), laddove il legislatore costituzionale colloca, tra le
“materie” nelle quali lo Stato ha “esclusiva” legislazione, il “sistema tributario e contabile dello Stato”: con un significativo accostamento alla
“moneta, alla tutela del risparmio e ai mercati finanziari; alla tutela della concorrenza, al sistema valutario, alla perequazione delle risorse finanziarie”. Dopo quanto enunciato dall’immutato disposto dell’art. 53,
comma 2, Cost., circa il suo essere “informato a criteri di progressività”,
il legislatore della novella costituzionale conferisce nuova rilevanza alla
locuzione “sistema tributario”, al quale non accosta testualmente la specificazione “dello Stato”.
E, quindi, al successivo comma 3 dell’art. 117 – nelle materie di le-
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gislazione cd. concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata
alla legislazione dello Stato (cfr., ultimo periodo) – il legislatore costituzionale, senza soluzione di continuità “sintattica”, ha collocato l’“armonizzazione dei bilanci pubblici ed (il) coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Il nuovo art. 117, Cost., in relazione alla “riserva di legge” in senso
formale, fa registrare un dato di obiettiva continuità con la precedente
formulazione costituzionale, in quanto la “legge” resta forma tipica di
potestà normativa dello Stato e delle Regioni: una prerogativa di entrambi che è tale obiettivamente anche nel testo costituzionale novellato,
ma che, tenuto conto della maturazione democratica degli enti sub-statali in genere, della tendenziale inerzia verso una gerarchia delle fonti secondo criterio sostanziale e materiale, oltre che della prospettiva della
equiordinazione “di massima” tra quegli enti e lo Stato-soggetto, in chiave democratica, non escludo possa avere natura di scelta “costituzionalmente, contingente”. Potrebbe, così, trattarsi di una soluzione e giustapposizione, rispetto alla potestà regolamentare “materialmente legislativa”, non insuperabile in avvenire. Il disposto costituzionale novellato,
comunque, nel suo tenore testuale, attribuisce il “sistema tributario”, a
seconda che sia dello Stato o il più complessivo, rispettivamente, alla potestà legislativa esclusiva del primo, ovvero, a quella delle Regioni, concorrente in quanto è lo Stato a doverne delineare principi e tratti fondamentali. Gli enti-sub-regionali o locali in senso stretto, invece, hanno una
potestà normativa, formalmente, regolamentare, individuata “materialmente” – per quanto ci occupa – dalla possibilità di stabilire ed istituire
non meglio precisati “tributi propri”, nei limiti della conformità alla Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e
del sistema. Un distinguo, che mi pare fecondo, in quanto nella Costituzione, più direttamente, dovrà essere rinvenuto l’aspetto o limite “negativo” sia per quanto attiene al profilo formale, sia per quanto attiene
all’oggetto materiale di esercizio della potestà normativa tributaria locale; mentre i principi fondamentali di coordinamento, dovrebbero assolvere alla funzione positiva di specificare, qualificare e concretizzare
quell’ambito materiale di potestà tributaria riservata agli enti sub-regionali dalla stessa Costituzione.
Non ritengo proficuo esprimere già qui considerazioni ulteriori sulla portata ed il senso possibili di tali enunciati costituzionali, poiché appare più prudente e produttivo ragionare nel complesso del quadro tracciato dai novellati artt. 117 e 119 Cost. Quest’ultimo, in particolare, è ap-
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parso da subito “orbitare” intorno ad un centro simbolico e di indubbia
presa psicologica, prima ancora che di obiettivo e preciso valore giuridico: quello di “tributi propri”, menzionati, dal legislatore costituzionale,
per identificare entrate tributarie locali, diverse da quelle consistenti in
“compartecipazioni al gettito di tributi erariali”, considerate (queste) tra
le risorse previste, limitatamente al “gettito riferibile al territorio”
dell’ente sub-statale. Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni
hanno “risorse autonome”; “stabiliscono e applicano tributi ed entrate
propri”, appunto: “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (nuovamente menzionati i secondi, e posti in relazione con la fiscalità locale
“autonoma”) (art. 119, comma 2, Cost.).
Dicevo che questo enunciato e, soprattutto la locuzione “tributi propri”, ha assunto nel dibattito dottrinale e, persino, nella giurisprudenza
una immediata centralità: financo eccessiva per le estreme conseguenze
che se ne sono volute trarre. Appare, infatti, fuorviante l’idea che l’attributo “proprio” o il termine “istituiti” possano spiegare, giustificare o imporre una determinata lettura di un sistema così complesso, articolato e
molto condizionato dal dato politico. Tributi “propri” certo non possono
essere intesi quelli a compartecipazione di gettito, ma non necessariamente dovrebbero essere tributi “ideati” ed “istituiti” dall’Ente sub-statale. “Stabilire” di imporre (“tributi ed entrate propri”), può esprimere altro dall’applicare tributi etero-disciplinati, ma non necessariamente significa anche o sempre “creare” o “ideare” taluni tributi, più o meno “in
proprio”, unilateralmente e dalle fondamenta. L’autonomia tributaria non
dovrebbe necessariamente esigere questa ulteriore potestà; e, del resto, è
opinabile la stessa possibilità concreta di un coordinamento a sistema ed
ex ante dei più legislatori regionali, quando muniti di un generale potere
di ideare e scegliere, del tutto autonomamente, qualità e struttura del tributo “proprio” (57).
———————
(57) Mi riferisco, nuovamente, all’art. 117 Cost., ma anche all’art. 119, Cost. laddove individua, senza precisarlo, un ambito di materiale competenza tributaria devoluto
alla potestà normativa sub-statale. Si tratta, in entrambi i casi, di “indicazioni di tendenza”: le leggi statali sono chiamate a porre principi e norme fondamentali, in quanto ad
esse sono dati in cura, per ciascuna materia, gli interessi nazionali (e sopranazionali);
mentre è tipico delle regole regionali (e sub-statali, in genere) la soddisfazione degli interessi locali. Le prime costituiscono (e dovrebbero costituire), cioè, solo un inizio di sistemazione, uno “scheletro” di una complessiva struttura che solo la pratica giuridica può
riempire di contenuti (cfr., in questo senso ed in termini più generali, A. RUGGERI, Fonti, norme, cit., 95-96).
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Ragionare per i tributi come se si potesse ordinare e imporre liberamente (“finanza locale creativa”, per impiegare una formula in voga) e
poi, in un secondo momento coordinare, non si sa bene come, né perché,
solo in quanto una norma parla di “tributi propri” ed un’altra parla di
coordinamento concorrente, significherebbe fare una operazione superficiale e lontana da ogni ragionevole aspirazione federalista o regionalista.
Accostarsi alla costruzione costituzionale come se si trattasse di un qualunque provvedimento normativo e senza la necessaria consapevolezza
del dinamismo suo proprio, affidato, in genere, a poco definiti meccanismi di pesi e contrappesi, mi pare che sia operazione poco proficua e destinata a perdere di presa nella realtà.
Torniamo, piuttosto, allo Statuto costituzionale del tributo e al “sistema tributario”, capaci entrambi di dare contenuto vero e determinante
anche agli enunciati novellati nella parte II della Carta fondamentale
(58); e, soprattutto, espressioni, ambedue, del “valore” del tributo e del
riparto delle pubbliche spese, nella nostra architettura costituzionale, rimasta immutata dall’origine e, semmai, rivitalizzata – non so dire quanto intenzionalmente – dalla novella del Titolo V, prodiga di richiami e
rinvii a questi concetti generali e fondativi.
Riassumerò, successivamente, i punti di contatto e coerenza, con
questa costruzione, degli scenari prefigurati dalla giurisprudenza costituzionale del 2003 (59) e 2004 (60), esemplificando, per quanto possibile,
le implicazioni che intravedo sul riparto della potestà normativa tributaria, alla luce del concetto sostanziale di riserva di legge, e della sua interazione – nella prospettiva del contemperamento tra loro – con i valori costituzionali dell’autonomia e del sistema “preferito” di riparto delle
pubbliche spese.
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5. Il “sistema tributario” è “uno” e “unitario”, non territoriale, né
espresso e qualificato da collettività territoriali (comunità locali o regionali), orientato – “per scelta costituente” – ad assolvere ad una “funzione solidaristica e di redistribuzione della ricchezza”, “su base individuale”: questo è quanto, in sintesi, si potrebbe desumere immediatamente
dai due alinea dell’art. 53, Cost.
———————
(58) Una prospettiva di indagine, recentemente, intravista e valorizzata dalla migliore dottrina: cfr., A. FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 37 e 140.
(59) Si vedano, in particolare, Corte cost., sentenze 26 settembre 2003, nn. 296 e
297, e 15 ottobre 2003, n. 311, specie, o essenzialmente, per il concetto di “tributo proprio” (per la Regione, in quel caso).
(60) Cfr., Corte cost., sentenze 26 gennaio 2004, n. 37 e 19 luglio 2004, n. 241.
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Mi spiego meglio. Il nuovo titolo V ed il riparto della potestà normativa tributaria in senso orizzontale, non possono essere decifrati, se
non guardando allo “statuto costituzionale” del tributo e del sistema tributario, in quanto quello contenuto nella nostra Carta fondamentale non
è un “sistema di riparto” delle pubbliche spese “neutrale” e, soprattutto,
non è pensato – né pensabile, direi – per operare “su base territoriale infra-nazionale”.
Ho già più volte accennato, nel corso di questa trattazione, alle ragioni molteplici che inducono a porre il sistema tributario al centro della questione sintetizzata dal titolo di questa mia relazione: è giunto il momento di precisare, meglio e ulteriormente, quell’assunto e di dimostrarne il valore giuridico.
Nella dogmatica, tradizionalmente e con rare eccezioni, il concetto
di “sistema tributario” è stato collocato in secondo piano (61), in quanto
ragione essenziale di sua rilevanza costituzionale e normativa era (ed è,
comunque) l’ispirazione a criteri di progressività, vaga nella realtà delle
cose, ma pur sempre “voluta” o “prefigurata” dalla Costituente, per i tributi e la fiscalità nel loro complesso, indipendentemente dalla loro ripartizione, dislocazione o matrice territoriale infra-nazionale. La progressività dell’imposizione o, più semplicemente, l’attitudine alla redistribuzione della ricchezza su base individuale (e non per aree territoriali), almeno fino all’autunno del 2001, è quindi stata la ragione essenziale,
quanto poco considerata, di rilevanza del “sistema tributario” nel suo
complesso (62).
Si diceva e si dice che, ad “informare” il sistema a criteri di progressività (art. 53, comma 2, Cost.), basterebbe la struttura redistributiva
e progressiva del suo tributo principale (63), tale almeno per gettito; ma
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———————
(61) Persino nelle collocazioni scientifiche più significative e tematiche: cfr., F. BATISTONI FERRARA, Art. 53, Cost., in Commentario alla Costituzione - Rapporti civili - a
cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1994, 1-46, e per quanto attiene al secondo alinea del
disposto costituzionale, 44.
(62) G. FALSITTA, Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, 2003, 72, conia
una espressione assai eloquente, in questo senso, definendolo “vincolo evanescente”, posto che non concerne singoli tributi ma il sistema tributario nel suo complesso.
(63) Del resto, se inteso come crescita dell’aliquota correlata con l’ammontare del
reddito, il principio o criterio di progressività non può che aver riguardo al rapporto diretto fra imposizione e reddito personale complessivo del contribuente (così, Corte cost.,
sentenze n. 159/1985 e n. 263/1994). Cfr., in questo senso, F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2000, 70, il quale concorda con questa giurisprudenza costituzionale (si tratta della sentenza 20 dicembre 1966, n. 128) e, segnatamente, sul fatto che,
“nella varietà e molteplicità di imposte attraverso le quali viene ripartito tra i cittadini il
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anche l’imposizione diretta sul reddito delle persone fisiche (alla quale
ho qui inteso riferirmi) non mi pare – come da ultimo in questa calda
estate politica ho nuovamente denunziato (64) – che assolva a quel fondamentale compito costituzionale, almeno nella sua dimensione “reale”,
tanto distante da quella “formale”. Anche sotto tale profilo, quindi, è urgente rimeditare, riaffermare e rendere concreta – con pragmatismo e
saggezza – l’essenziale funzione solidaristica e redistributiva del tributo
(o del sistema, nel suo complesso): i dati macroeconomici fotografano
inesorabilmente uno stato di cose, non tollerabile oltre.
Secondo il panorama configurato dalla speculazione dogmatica e
dalla giurisprudenza costituzionale, l’art. 53, comma 2, Cost., è un enunciato di dubbia portata precettiva (65), o norma direttiva (o di principio)
per il legislatore ordinario (66), che è stato sempre pensato e saggiato al
cospetto di un sistema tributario disciplinato, essenzialmente, dalla fonte
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carico tributario, non tutti i tributi si prestino, dal punto di vista tecnico, al principio di
progressività, che – inteso nel senso dell’aumento d’aliquota col crescere del reddito, presuppone un rapporto diretto tra imposizione reddito individuale di ogni contribuente”.
L’Autore sottolinea, inoltre, che il principio di progressività implicherebbe che il sistema
tributario, non solo fornisca mezzi finanziari allo Stato, ma assolva anche ad una funzione redistributiva, per il raggiungimento di fini di giustizia sociale fissati dalla Costituzione.
(64) Mi riferisco al mio “Meno tasse? Inutile in un’Italia ricca di evasori”, in Il
Sole-24-Ore di mercoledì 7 luglio 2004, n. 186, 5, laddove esprimevo un giudizio di sintesi, già in precedenza formulato nel mio “Il diritto tributario”, Torino, 2003, 51: continuo, dunque, a nutrire forti dubbi sulla reale corrispondenza del nostro sistema tributario
al disposto dell’art. 53, comma 2, Cost. Sul principio di progressività, si veda, in particolare, FORTE, Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin., 1952, I, 2304; MANZONI, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 186 ss.; CHIAPPETTI, Efficacia del principio di progressività, in Giur. it., 1967, I, 1, 754.
(65) In questo senso, per tutti, G.A. MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino,
1989, 94, il quale non riconosceva, all’art. 53, comma 2, valore di norma precettiva, ma
di sola direttiva per il legislatore. Nel pensiero di questo illustre Maestro per noi tutti, rispetto all’intero sistema tributario nel suo complesso, il principio della progressività è
prefigurato ed inteso come “strumento che deve essere adottato dal legislatore ordinario
al fine di attuare l’altro precetto costituzionale dell’eliminazione degli ostacoli economici alla partecipazione di tutti i cittadini alla vita dello Stato”. Si veda, peraltro, MAFFEZZONI, voce Capacità contributiva, in Noviss. dig. it., Appendice, 1022, secondo il quale
i due commi dell’art. 53, Cost. sono intimamente collegati e possiedono un pari contenuto immediatamente precettivo: i criteri di progressività costituiscono la totalità delle
caratteristiche del sistema, nel pensiero dell’autorevole dottrina.
(66) In tal senso, si vedano, Corte cost., sentenze nn. 12/1960; 30/1964; 128/1966;
23/1968; 159/1987; 263/1994.
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legislativa parlamentare; è, in ogni caso, complemento e specificazione
del principio di uguaglianza ed “accentuazione” del principio solidaristico (67), espressivo della “scelta” costituente per la partecipazione ai carichi pubblici, sia pure a livello di sistema e non di singolo tributo, in misura più che proporzionale rispetto alla capacità individuale (68).
Non si può dire, però, che la progressività specifichi e qualifichi la
nozione di capacità contributiva (ergo, non si può dire che connoti ogni
tributo, né che serva a connotare quelli redistributivi, mentre serve a
connotare il sistema) – secondo un Illustre Maestro (69) –, ma non si può
neppure negare che la progressività dell’imposizione – dovendo essere
tenuta presente, tanto dal legislatore, quanto, in genere, dal potere pubblico – valga a dare uno spicco ancora più pronunciato al principio solidaristico enunciato dall’art. 2 Cost. e reso concreto con il comma 1
dell’art. 53.
L’art. 53, comma 2, dunque, fin dall’origine della nostra Carta fondamentale, esprimeva il sistema costituzionale di riparto delle pubbliche
spese, specificandone il carattere – e la funzione minima – nel concetto
di “redistribuzione”, su base individuale, della ricchezza, “affidata” essenzialmente, ma non solo, ai tributi: ovvero, più correttamente, all’epoca, quel disposto costituzionale ne prefigurava uno al quale tendere, che
fosse “tributario”, erariale e “progressivamente” qualificato; oggi quel
disposto costituzionale, invece, potrebbe esprimere il primato della redistribuzione, su base individuale, per il finanziamento delle pubbliche
spese tra i più livelli ordinamentali equiordinati.
Ma, andando per ordine, l’art. 53, comma 1, Cost., ci dice, prima di
tutto, che la contribuzione alle pubbliche spese avviene su “base economica” “individuale” secondo criterio di razionalità: ed oggi è, diffusamente, inteso nel senso più vago e generico di criterio economico di ra———————
(67) Cfr., per tutti, P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 62.
(68) Se è vero che il sistema nel suo complesso deve informarsi a criteri di progressività, sembra inevitabile ritenere che ciò imponga al legislatore di istituire con simili
caratteristiche uno o più tributi che per la latitudine del presupposto e correlativamente
per la rilevanza del gettito, si configurino come principali e caratterizzanti nell’ambito
del sistema di cui trattasi; pena, in caso contrario, e conseguentemente, l’incostituzionalità delle norme relative (così, P. RUSSO, Manuale, cit., 62): Autore che riconosce natura
precettiva e non meramente programmatica all’art. 53, comma 2, Cost.; al tempo stesso
sottolineando le difficoltà di esercizio, sulla base di essa, del controllo di legittimità costituzionale, posto che la disposizione non risulta violata per ciò che vi siano nell’ordinamento positivo vigente tributi applicati con l’aliquota proporzionale.
(69) Così, G.A. MICHELI, op. ult. cit., 94.
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zionalità, capace di dare copertura superiore anche ad indici normativi di
riparto, sostanzialmente, “impersonali” (realità della capacità contributiva - Irap). Si tratta del luogo costituzionale di emersione e disciplina della contribuzione alle pubbliche spese, nella forma tributaria.
Il comma 2 dell’art. 53, non esprime un contenuto riferibile al singolo tributo, ovvero, ad ogni mezzo di riparto delle pubbliche spese, ma
al sistema complessivo dei tributi, deputato ad assolvere ad una funzione di redistribuzione più che proporzionale rispetto alla “capacità individuale”, ovvero ancora ed in un solo termine, “progressiva”.
Il tributo può, dunque, essere inteso come “riparto delle spese pubbliche”, in parte (art. 53, comma 1) basato sulla individualità, più che sul
beneficio individuale (spesa goduta). Il comma 2 dell’art. 53, Cost., invece, dispone che il “sistema dei riparti” (mezzi di riparto) o – più semplicemente – il “sistema tributario” sia, non solo redistributivo (commisurazione a capacità individuale), ma addirittura progressivo: sì che appare elementare l’induzione che sia esclusa e da escludere, almeno, una
preponderanza di mezzi di riparto di base e struttura commutativa, poiché, diversamente, verrebbe mortificato quel predicato “costituzionale”
di riparto redistributivo, dei carichi pubblici.
Riassumendo, quindi, il comma 1 dell’art. 53 ci dice, in buona sostanza, quale è il “tributo preferito”. Il successivo comma 2, invece, soggiunge che quella preferenza può essere accentuata (progressività) ed è
anche il predicato del sistema: è ragione del suo ordinamento tendenzialmente unitario, su base personale, piuttosto che territoriale. Questo
secondo alinea, quindi, è il luogo costituzionale di emersione della “qualità” o “essenza” tributaria” “complessiva” (la redistribuzione su base individuale e non territoriale delle pubbliche spese): il singolo tributo, invece, non ne appare qualificato.
Le pubbliche spese – almeno tendenzialmente – vanno redistribuite
e non ancorate al costo divisibile o al beneficio individuale; ergo il sistema tributario è il sistema degli strumenti di finanziamento pubblico
che deve essere strumento redistributivo.
Mi pare, dunque, di evidenza lapalissiana la rinnovata centralità del
sistema tributario. Centro e perno del nuovo sistema tributario a più livelli ordinamentali, quindi, restano le scelte per esso fatte dalla Costituente e tradotte nell’articolo fondamentale dello statuto costituzionale
della potestà normativa tributaria, riassumibili: nella “rilevanza complessiva e unitaria” dei mezzi di riparto dei carichi pubblici; e nel connotato
redistributivo, su base “personale”, che essi – tutti insieme – devono concretizzare realmente. Al suo interno, il sistema sembra costituzionalmen-
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te qualificato, non solo dall’inevitabile relazione di preponderanza tra il
riparto redistributivo e quello su base commutativa, ma anche dalla preferenza, qualitativa, per il tributo di base e funzione redistributiva (art.
53, comma 1, Cost.): cioè, il singolo componente o “mezzo di riparto”
dovrebbe essere tendenzialmente o preferibilmente quello redistributivo;
direi, persino che le spese pubbliche ordinarie e correnti dovrebbero trovare su quel terreno il mezzo proprio o privilegiato di riparto.
Il “sistema” è “tributario”, se è progressivo (nella Costituzione) – o
meglio il sistema di riparto delle pubbliche spese è il sistema tributario,
il quale deve essere “redistributivo” su base individuale. Il che può anche significare che il tributo non è necessariamente redistributivo e può
essere commutativo, mentre il sistema tributario deve essere redistributivo, nel senso che deve essere “qualificato” da tributi (forme di riparto)
che abbiano connotato “personale” e “progressivo”.
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6. Nel quadro del pluralismo ordinamentale e della declinazione in
senso “materiale” o sostanziale della riserva di legge, muta o cresce di
valore, trasformandosi in limite o concetto di sistema (di sintesi, per intenderci), anche il cd. minimo vitale, costituente corollario del principio
di personalità del riparto dei carichi pubblici e di quello di capacità contributiva: quella soglia individuale e qualitativa, riferibile al singolo, ma
anche al nucleo familiare (o, meglio, ai suoi bisogni di tipo e grandezza
familiare), che funge da ideale demarcazione verso il basso della fiscalità diretta, non sembra più poter restare, rigidamente, ancorata ad uno o
più tributi personali “qualificanti” il “sistema dei riparti dei carichi pubblici”. Anche il cd. minimo vitale è, cioè, oggi – e sempre più lo sarà –,
un concetto ed un valore “di sistema”: un predicato costituzionale da riferire al “sistema”, piuttosto che al singolo tributo, ovvero, da pensare e
garantire nel quadro dell’ingegneria complessiva dei tributi, ai più livelli dell’ordinamento, proprio per effetto della accelerazione impressa dal
novellato Titolo V al pluralismo ordinamentale in materia tributaria, ovvero, alla polverizzazione dell’esercizio del potere di imposizione o di
quello di “non imposizione”. Si tratta, peraltro, di un effetto giuridico
molto condizionato dal dato fenomenico, persino da come si concretizzerà quel coordinamento della finanza pubblica, che gli artt. 117 e 119,
Cost., pongono al vertice, nell’astratta gerarchia materiale della normativa tributaria in senso stretto. Molto dipenderà, inoltre, da quale assetto
tenderà a prevalere nella gestione dei servizi pubblici: essenziali e non.
Il processo da tempo iniziato di “privatizzazione” di alcuni di essi, persino di quelli essenziali e “tributari” (accertamento, liquidazione e ri-
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scossione dei tributi – nella Riforma Visco e nell’ordinamento delle istituite Agenzie fiscali), potrebbe incidere, significativamente, sul contemporaneo processo di “formale” defiscalizzazione al quale ho già, sopra,
accennato: il che potrebbe tradursi in una combinazione di effetti di difficile previsione.
Certo è che, fin d’ora, l’art. 53, comma 1, Cost. e il concetto di personalità o individualità della “capacità” di contribuire alle pubbliche spese – relativo alla persona e alla sua eventuale, più “complessa soggettività tributaria” (nucleo familiare e, in genere, il contribuente che ha famiglia (70)) – implicano una ulteriore ragione di rilevanza del sistema
complessivo e di sua connotazione unitaria, personale, territorialmente
indifferente: alla quale non si accenna, mi pare, nel testo costituzionale
novellato. Ma proprio il concetto di minimo vitale, riducibile a misura
del bisogno personale e soggettivo, è anche e necessariamente “concetto
ponte” tra la fiscalità redistributiva ed il territorio o i livelli di governo
territoriale sub-statali. Esemplificando, infatti, a Caltanissetta, la vita
(nell’immaginario collettivo nazionale) probabilmente costa meno che a
Milano; mentre per altro verso, nel capoluogo lombardo il servizio pubblico, in genere, copre una gamma più estesa di bisogni (anche non essenziali) e, tendenzialmente produce risultati più satisfattivi (71).
Fuori dai luoghi comuni e riducendo all’essenza il ragionamento,
certo è che entrambi quei fattori – tipologia ed estensione dei servizi
pubblici, da un lato, grado di efficienza/soddisfazione, dall’altro – sono
destinati ad operare in modo sempre più diversificato e incisivo nelle disomogenee realtà territoriali del nostro Paese. Dunque il territorio, le
scelte territoriali di governo e di gestione della funzione pubblica e dei
servizi pubblici, essenziali e non, persino di carattere “infra-strutturale”,
condizionano oggi, e condizioneranno molto più domani, la qualità della vita, anche nel suo aspetto economico e quantitativo soggettivo, indi———————
(70) Cfr., sul punto, G.A. MICHELI, Soggettività e responsabilità tributarie. Capacità contributiva della famiglia, in Diritto di Famiglia, Raccolta di scritti di colleghi della Facoltà Giuridica di Roma e di allievi. In onore di Rosario Nicolò, Milano, 1982, 684;
più recentemente, si veda L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 352 ss. e, segnatamente, 366-367, specie laddove coglie il
nesso tra la scarsa chiarezza sulla rilevanza costituzionale dei redditi minimi e la discutibile giurisprudenza costituzionale sul trattamento fiscale della famiglia.
(71) La complessità è estrema, se solo ricorriamo ad un’altra considerazione esemplificativa degli scenari possibili, localmente: se è vero che a Caltanissetta vitto e alloggio costano meno, è anche vero che dovrò prendere più spesso l’automobile rispetto alla
metropoli munita di metropolitana.
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viduale, relativo. Il marcato decentramento delle funzioni e ciò che, generalmente, si prefigura come scenario prossimo, sulla base del nuovo riparto orizzontale – specie regolamentare ed amministrativo in genere
(artt. 118 e 119, Cost.) – tratteggiato dal Titolo V novellato, dovrebbero
o potrebbero far pendere l’ago dell’ideale bilancia della spesa pubblica,
divisibile e indivisibile (o “non escludibile”, nel senso proprio della
scienza delle finanze), pesantemente verso il basso, verso le amministrazioni regionali e, soprattutto, locali: virtuosamente, ben inteso, se avrà
buono ed equilibrato compimento il disegno ispirato ai valori a base della sussidiarietà. Un dato, questo, che ancor di più induce a ripensare il
minimo vitale, quale soglia di “no tax area”, in un sistema pluriordinamentale, complesso e nel quale la spesa pubblica tenderebbe ad essere
localizzata e localmente decisa, indirizzata, differenziata.
Nella speculazione dogmatica (72) è già emerso, in nuce, il valore
“sistematico” del minimo vitale e – aggiungo io – della pressione fiscale individuale, che va concertata e, per quota, potrebbe essere e dovrebbe essere localizzata sul modello della “perequazione”. Non basta, però,
ritrasferire risorse su base territoriale (perequazione), ma occorre anche
prelevarne in misura eguale, intesa questa “individualmente” (o relativamente), come “qualità” e non come “quantità”. Mi pare, quindi, che questo aspetto è in perfetta armonia con la giurisprudenza costituzionale maturata sull’originario testo del Titolo V, in materia di eguaglianza tributaria sostanziale, nella misura in cui il contemperamento tra il valore individuale e redistributivo della fiscalità, da una parte, ed il valore
dell’autonomia tributaria, dall’altra, veniva prefigurato sul terreno della
qualità del prelievo tributario, giustificandosi, invece, differenziazioni
quantitative – dovute all’operare congiunto e su base individuale di più
livelli di imposizione territoriale – che non trasmodino in mortificazione
del principio di eguale trattamento ed eguali possibilità per tutti gli individui (73). Già in quella giurisprudenza, faceva la sua emersione il concetto di “sistema tributario” plurilivello e la sua correlazione con l’eguaglianza tributaria sostanziale (74), sia pure, nella diversa implicazione
della omogeneità di tipologie di prelievo (75). Il fondamentale principio
dell’eguaglianza dei cittadini di fronte al carico tributario (artt. 3 e 53,
Cost.) – giova qui ribadire - va quindi considerato in armonia con il prin———————
(72) P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2003, 56-57.
(73) Cfr., Corte cost., sentenza n. 64/1965 cit.
(74) Cfr., in questo senso, Corte cost., sentenza 29 maggio 1974, n. 151).
(75) Cfr., sul punto, Corte cost., sentenza 11 ottobre 1983, n. 307.
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cipio dell’autonomia tributaria e finanziaria degli enti sub-statali (art.
119, Cost.) (76): mentre è ovvio che la possibilità stessa di applicare, disapplicare o diversamente conformare tributi “propri”, persino quella di
istituirne unilateralmente, implichi, per forza di cose, una “diversità
quantitativa nel carico” gravante sui contribuenti, senza incisione o erosione del principio di eguaglianza tributaria sostanziale, in relazione ai
singoli tributi.
Il sistema tributario dovrà inoltre conformarsi secondo linee coerenti alla sua costituzionale funzione (e struttura) “non espropriativa” (nel
senso di “non sostitutiva”): intendo dire che la funzione redistributiva e
solidaristica dovrebbe, in linea di principio, escludere un andamento “individualmente, circolare” del “tributo esatto” (77); questo, cioè, non può
determinare proprio quell’impoverimento individuale che, a sua volta,
giustificherebbe una maggiore domanda di servizi da parte di quel singolo contribuente e, quindi, un “ritorno” del tributo (da questi versato)
nella forma di “servizi pubblici sostitutivi” (essenziali, in altre parole).
Ancor più inaccettabile, alla stregua dello statuto costituzionale del riparto dei carichi pubblici (funzione redistributiva), sarebbe se in quel
malaugurato caso, quei servizi essenziali fossero “divisibili o escludibili” e resi dietro “controprestazione”, sì da determinare, individualmente,
una accresciuta pressione fiscale, proprio in capo a chi più ha bisogno e
meno, quindi, dovrebbe contribuire.
Per altro verso, la stessa “perequazione” prevista dall’art. 119, Cost., dovrebbe essere rimeditata o sperimentata, tenendo conto di tutto
questo: chi ha di più deve contribuire di più e la collettività più ricca deve dare a quella più disagiata (perequazione), ma, anche in questo caso,
tenendo conto dell’individuo e della condizione individuale di vita, compresa l’aspettativa di servizi pubblici.
———————
(76) Rinvio, nuovamente, ai passi in argomento riportati in nota, nelle pagine che
precedono, e tratti dalla già citata sentenza n. 64/1965.
(77) Cfr, in questo senso già, L. ANTONINI, Dovere tributario, cit., 372: laddove
l’Autore coglie e valorizza gli approdi della giurisprudenza costituzionale tedesca (degli
anni ’90); quella che sulla sussidiarietà ed il primato della responsabilità personale, aveva costruito il divieto di trasformare il contribuente (a causa del prelievo fiscale) in un
caso sociale, per poi assicurargli il minimo di esistenza tramite provvedimenti di aiuto tipici dello stato sociale. Anche sotto tale profilo, quindi, l’Autore e la giurisprudenza da
questi richiamata identificano un principio di “sussidiarietà fiscale” e, nel minimo vitale,
il luogo naturale di emersione fiscale della peculiarità qualitativa dei mezzi finanziari
“autonomi”, rispetto a quelli derivanti da transfer statale: essenzialmente, per quanto attiene ai bisogni propri e dei familiari.
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Concludendo, su questo punto, mi pare, quindi, che anche il predicato costituzionale di personalità del tributo e di eguaglianza tributaria
sostanziale, sub specie di minimo vitale, esigano un marcato coordinamento di ogni esercizio di potestà normativa in materia tributaria ai più
livelli dell’ordinamento delineato dal nuovo Titolo V: il minimo vitale è
individuale, è concetto tributario nazionale, basato su un riferimento unitario – una dimensione territoriale statale (rectius, nazionale) –, è, cioè,
la “risultante” del complesso dei tributi “esatti” o (meno impegnativamente) “percetti” ai più livelli territoriali, da uno stesso contribuente (cd.
“sussidiarietà “fiscale” (78)).
Volgendo lo sguardo alle attuali inerzie della fiscalità locale (e non
solo), registro, invece, che il sistema tende alla privatizzazione di molti
dei servizi pubblici (essenziali e non), dal lato della spesa, e dal lato delle entrate, invece, mostra i primi sintomi, almeno, di una sorta di deriva
verso la “tassazione per servizi” o la tassazione “impersonale” e “reale”:
attualmente bilanciata, questa, solo dalla forte connotazione opposta,
propria (almeno sulla carta, direi) della fiscalità erariale, essenzialmente
di quella diretta sulle persone fisiche.
Sembra profilarsi un’erosione del sistema di riparto dei carichi pubblici, soprattutto locali, a favore dell’area delle entrate pubbliche non tributarie o – sul presupposto (da taluni condiviso) che vi sia una relazione sinonimica tra tributo e tributo redistribuitivo – non tributaria, nel
senso di non redistributiva: penso alla tassazione o peggio alla “tariffazione” dei servizi, ma anche alla cennata “formale” defiscalizzazione,
che colorano di toni ibridi o più decisamente commutativi, la voce contabile delle entrate: polverizzata anch’essa tra una molteplicità di soggetti pubblici e privati (essenzialmente, penso al sempre più diffuso ricorso alla gestione in outsourcing).
Un sistema di finanza pubblica qual è quello attuale ed, a maggior
———————
(78) Tornando, in chiusura, a fare qualche esemplificazione o ragionamento ad alta voce, se lo Stato con l’Irpef prefigura quella qualità “minima” nella misura di 50, e poi
Palermo o Milano – poco importa – non dà servizi e magari pone tributi per 49 è chiaro
che il minimo del singolo tributo non regge più, neanche se affidato a quello più significativo per gettito e nazionale, dunque omogeneo in se stesso sul territorio e tra i cittadini tutti. Se 50 è il minimo e Milano tassasse anche l’aria (fiscalità ambientale), chiaramente il discorso non cambia; come è immutato se mi dà 100 servizi e li pago sempre
sulla base del beneficio, evidentemente ho una pressione superiore, un minore “minimo”
esente di fatto e una contribuzione non più personale e per capacità, ma impersonale, regressiva e sostanzialmente commutativa: tanto ricevo, tanto do – e non tanto posso, tanto do.
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ragione, quello che potrebbe profilarsi all’orizzonte – con il crescente
fabbisogno locale presumibile dal tenore degli enunciati costituzionali
concernenti il “lato della spesa” (devoluzione o decentramento delle funzioni amministrative) (art. 118, Cost.) –, potrebbe, quindi, facilitare una
degenerazione del modello, o favorire un più diffuso ricorso a indici di
contribuzione impersonali: tenderebbe, in questo caso – ed inevitabilmente, credo – alla regressività o alla “propria” neutralità; in entrambi i
casi, quindi, ad eludere, se non mortificare, le ragioni costituzionali del
riparto tributario e la scelta costituente per un sistema fiscale redistributivo ed “in base alla capacità individuale” di concorso.
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7. L’art. 53, Cost. – comma 1 e 2 - esprime la ragione –, per la quale, anche al cospetto del nuovo Titolo V Cost., la riserva di legge in materia tributaria (in senso stretto) può e deve essere “declinata” in “esercizio contestuale” della potestà normativa tributaria: il criterio materiale o
sostanziale era e resta l’unicità e la personalità del sistema di riparto delle pubbliche spese. Il sistema, cioè, non può non essere coordinato in
partenza ed oggetto di disciplina unitaria o – nell’essenza – omogenea,
che non vuol dire “uniforme”.
La riserva di legge, nell’accezione di criterio di riparto della potestà
normativa, basato sul rapporto tra “livello di rappresentatività democratica” – persino, di garanzia – ed “oggetto di normazione”, consentirebbe,
astrattamente, di decentrare la potestà normativa ai più livelli dell’ordinamento; ma quando il suo oggetto sia quello “tributario”, il suo unitario e personale “valore costituzionale” conduce, inevitabilmente, a questa prima conclusione: deve trattarsi di una disciplina unitaria, nei suoi
tratti fondamentali e qualificanti, perché sia composta a sistema conforme a quello “costituzionalmente preferito”, dunque, redistributivo.
È, del resto, un ordine di idee che potrebbe aver ispirato anche la
giurisprudenza costituzionale dell’anno in corso (79), basata sul convincimento della Consulta della ingessatura momentanea della potestà normativa tributaria degli enti sub-statali, fin tanto che lo Stato, non assolva al proprio compito di delineare il sistema tributario nei suoi tratti e
principi fondamentali: una conclusione che può essere condivisa, se
mossa dal cennato ordine di idee non completamente esplicitato dei giudici costituzionali.
Non abbiamo ancora, infatti, – o non è ancora stato sperimentato
(Conferenza Stato-Regioni e Commissione bicamerale integrata, secon———————
(79) Cfr., Corte cost., sentenze 26 gennaio 2004, n. 37 e 19 luglio 2004, n. 241.
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do il regime transitorio prefigurato all’art. 11, legge cost. n. 3/2001) – un
“luogo di composizione e concertazione normativa” delle istanze dei più
livelli ordinamentali: non c’è, o non opera, in altre parole, una fonte che
possa dirsi “nazionale”, nel senso proprio del termine; quella che è complemento naturale di un ordinamento plurilivello, composto da elementi
“equiordinati” (Repubblica). Quella giurisprudenza, quindi, da un lato,
non poteva che assolvere ad una sorta di “supplenza” del legislatore statale; dall’altro, non poteva che indicare in quest’ultimo, il legislatore della disciplina “contestuale e unitaria” (ma non uniforme), del sistema tributario e dei suoi principi fondamentali: del resto, lo stesso Titolo V conferisce (testualmente) allo Stato , quella funzione e potestà normativa sostanziale.
Il lungo percorso sin qui seguito, quindi, ha espresso risultati, parziali e di sintesi, cui sono coerenti i contenuti, se non le ragioni, di quella giurisprudenza costituzionale. La Consulta si è fatta carico di diradare
le nebbie, indicando nel “primato” della fonte statale una possibile via di
transizione e, sapientemente, bilanciando questa prima (e già consolidata) indicazione, con la contestuale affermazione del cd. divieto di reformatio in peius (80). È un principio, quest’ultimo, avente natura di crite-
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(80) Un divieto, peraltro, fortemente svilito ed, in definitiva esautorato dei significati più coerenti ad un”sistema tributario plurilivello”, composto di elementi equiordinati ed autonomi, dalla più recente giurisprudenza della Consulta. Da un lato, infatti, il Giudice delle leggi è apparso confermare che “condizione di legittimità dell’intervento statale” abrogativo, modificativo e/o sostitutivo dell’attuale assetto della fiscalità sub-statale (per destinazione di gettito e per una parziale potestà normativa decentrata o autonoma) (dell’Irap, in particolare) “è il divieto di procedere in senso inverso a quanto prescritto dal nuovo art. 119 Cost., sopprimendo, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già
riconosciuti dalle leggi statali, o configurando un sistema finanziario complessivo in contraddizione con l’art. 119 (richiamandosi a quanto già detto nella sentenza. n. 37/2004 n.d.r.)”. Dall’altro, però, la stessa Corte, in quello stesso pronunciato, ha concluso che:
“Escluso che l’Irap possa considerarsi “tributo proprio” della Regione ed affermata la
spettanza al legislatore statale della potestà di dettare norme modificative della disciplina della stessa, si deve aggiungere che il legislatore non ha violato il disposto del nuovo
art. 119 Cost.”, poiché “la previsione della graduale soppressione dell’Irap, l’assicurazione che – sino al completamento del processo di attuazione della riforma costituzionale – sono garantiti anche in termini qualitativi, oltre che quantitativi, gli attuali meccanismi di finanza regionale, nonché la prevista intesa con le Regioni per compensare la progressiva riduzione dell’Irap con trasferimenti e compartecipazioni e, non ultima, la salvezza delle eventuali anticipazioni del federalismo fiscale, sono tutti elementi idonei a
fondare la conformità dell’intervento legislativo ai principi che il novellato art. 119 Cost. pone a garanzia dell’autonomia regionale in materia tributaria (cfr., in termini, Corte
cost., sentenza 19 luglio 2004, n. 241). Per alcune prime ipotesi esemplificative del concetto, in termini più specifici, cfr., C. SCALINCI, Riserva di legge, cit., 237-238.
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rio materiale negativo della potestà normativa tributaria dello Stato, che,
nell’essenza, appare coerente, non solo con l’idea che il nuovo Titolo V
abbia “costituzionalizzato” la riforma Visco, ma anche con l’esigenza,
non solo transitoria, di “concorso plurilivello” alla definizione del sistema tributario nazionale, cioè, sia di quello statale, che di quello locale.
Unità del sistema fiscale non vuol dire, però, rigorosa o tassativa
uniformità, ma predisposizione unitaria, con l’obiettivo minimo di conseguire i risultati di giustizia tributaria sostanziale indicati nella nostra
carta costituzionale: primo fra tutti, quello del “tributo preferito” e quello del “sistema tributario progressivo” (o preferito anch’esso).
Il sistema tributario – che, tra l’altro, si collocherebbe tra le garanzie e i contenuti della “unità economica e giuridica” del Paese –, allo stato, appare attraversato da una istintiva e non virtuosa conflittualità interlivello; e come tale è letto e concepito da alcuna parte della dottrina costituzionale e tributaria. L’istanza di autonomia e l’urgenza di risposte,
su questo delicatissimo terreno, probabilmente animano le tensioni, peraltro fisiologiche di questa fase di transizione.
Per offrire risposta coerente all’autonomia e al principio democratico – come alla equiordinazione dei soggetti sub-nazionali (Stato, Regioni, ecc.) –, basterebbe riconoscere il “potere di imporre o non imporre”,
senza che si possa in alcun modo sostenere indefettibile il potere di creare tributi in assoluta autonomia. La Consulta, specie nelle citate sentenze del 2004 (nn. 37 e 241) esclude l’attuale esistenza di “tributi propri”
(o istituiti autonomamente ed unilateralmente, secondo il senso di
quell’attributo, per lo più, sottinteso dal giudice costituzionale), ma non
la loro necessità e, comunque, la loro previsione a livello costituzionale
(art. 119, Cost.). Non può essere, dunque, escluso – e, piuttosto, dovrebbe essere senz’altro contemplato – un ambito di “autonomia istitutiva” e,
dunque, il decentramento di corrispondente potestà normativa tributaria
materiale: ma sempre nel quadro di una disciplina minimale, e di un sufficiente e (per quanto possibile) preventivo bilanciamento tra imposizione redistributiva e personale, da una parte, imposizione tariffaria o commutativa o para-commutativa, dall’altra.
Lo spazio, per l’unilaterale ed autonomo svolgimento di quella potestà normativa, però, è estremamente esiguo: non solo per gli effetti di
esternalità economica e giuridica extra-fiscale (81) che i tributi locali po———————
(81) Alludo, ancora una volta, ai vincoli o limiti “sostanziali e negativi”, indirettamente, posti alla potestà normativa tributaria in senso stretto, concernenti i profili propri
ed essenziali o tipici delle «regole di mercato», questa volta (cfr., retro) non solo comu-
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trebbero frequentemente comportare, ma anche per la difficoltà di realizzare “dinamicamente” un sistema tributario nazionale idoneo alla funzione costituzionale della redistribuzione progressiva delle risorse individuali, ancorata ai soggetti: all’individuo (non al territorio).
La dimensione nazionale e personale dell’ordinamento, del resto,
emerge chiaramente anche dall’enunciato testuale dell’art. 120, comma
2, Cost. (dai territori, si deve “prescindere”): cioè da quell’enunciato costituzionale che costituisce, non solo più generale criterio e “sistema” di
riparto dinamico-materiale della potestà normativa, ma anche luogo di
codificazione, al superiore livello, dell’unità “oggettiva”, economica e
giuridica (nazionale). Quel disposto ha, così, identificato un criterio limite o guida così ampio da poter assorbire l’intera materia tributaria, in
buona coerenza con il fondamento individuale e la dimensione nazionale della fiscalità nel nostro quadro costituzionale. Il comma 2 dell’art.
120, infine, atteggiandosi a complemento – su questo terreno – dell’art.
118, Cost., supera il riparto per materia contenuto negli artt. 117 e 119,
Cost., delineando un nuovo primato degli “interessi coinvolti” nell’esercizio di potestà normativa: nuovo, perché non più espressione di un ordinamento “Stato-centrico”, ma della prevalenza del criterio “materiale”
nella gerarchia orizzontale delle fonti. È il criterio della adeguatezza e
della approssimazione del livello normativo alla dimensione ottimale
dell’oggetto della disciplina.
Concludendo, il valore dell’autonomia locale, in relazione ad un singolo tributo, consente di concepire un effettivo e pieno decentramento
della potestà normativa tributaria; nel suo complesso, invece, l’oggetto
sostanziale della potestà normativa in esame (sistema tributario), sembra
imprimere al riparto orizzontale della potestà normativa un andamento
“circolare” (82): o un percorso così raffigurabile, poiché la potestà nor———————
nitari (fiscalità cd. negativa e libertà economiche), bensì pensando a quelli che comprimono e comprimeranno la potestà normativa tributaria infra-nazionale, per l’operare delle regole nazionali di fluidità, buon funzionamento ed indirizzo politico del mercato. Basterebbe interrogarsi, a questo proposito, sulle implicazioni del significato e ruolo, rinnovati ed estesi, assunti dalla tutela della concorrenza nell’ordinamento nazionale, proprio nell’economia del nuovo titolo V, anche in ragione del passaggio da una tutela essenzialmente “statica” ad una tutela “dinamica”, che – a dire della Consulta (sentenza n.
14/2004) – comporterebbe un rilevantissimo peso della “politica statale economica e della concorrenza”, rispetto ai già esigui margini di autonomia (nel senso di possibilità di
unilateralmente e del tutto autonomamente normare) degli enti sub-statali.
(82) Si tratta di un andamento circolare che evoca, in qualche misura, la “circolarità” fra gli strumenti positivi costitutivi dell’ordinamento di A. ROSS (Teorie der Rechstquellen, Leipzig-Wien, 1929), contrapposta alla visione semplificata e piramidale del
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mativa tributaria è, dapprima, decentrata (per effetto del nuovo “formale” riparto di cui agli artt. 117 e 119, Cost.), per poi essere inevitabilmente accentrata (per effetto dell’indefettibile coordinamento ex ante del
“sistema tributario”), ma in una nuova dimensione, quella della potestà
normativa “concertata”, per concorso degli elementi costitutivi della Repubblica equiordinati.
È, dunque, il “coordinamento” – e non il riparto formale orizzontale (quello per “materie”), né quello riferito al singolo mezzo di riparto
dei carichi pubblici o tributo che assume significato duplice: è criterio o
ragione materiale di una disciplina omogenea, nei suoi tratti essenziali e
macroeconomici, poiché è il predicato consustanziale del concetto stesso
di sistema tributario; è anche “premessa” o modalità di azione normativa, egualmente, indefettibile perché vi possa essere un “sistema” tributario e, soprattutto, perché questo corrisponda al modello costituzionale di
fondo, emergente da un art. 53, comma 2, Cost. cui venga attribuito un
contenuto effettivo e non di pura facciata. È il sistema tributario costituzionalmente preferito, quello che impone di concepire i tributi, nel loro
complesso, e di realizzare, per il loro tramite, un riparto redistributivo,
persino, progressivo.
Da queste premesse, sembrano emergere dalle nebbie del novellato
Titolo V, una impronta antica e uno scenario nuovo. Il coordinamento
non può essere inteso come altro dal riparto della potestà normativa tributaria e, comunque, non ne può essere scisso (almeno in prima battuta),
ipotizzandosene la sola natura e funzione di ““fase correttiva” successiva” (eventuale e distinta da quella dell’esercizio della potestà normativa
tributaria ai più livelli ordinamentali). È, piuttosto, la sintesi dei valori
costituzionali e dei criteri materiali di riparto della potestà normativa tributaria, la quale appare così trovare – anche nel sistema costituzionale
novellato – ragione, natura e struttura sostanziale e dinamica.
Concretizzando questo percorso, si può pensare di concertare un sistema redistributivo e prevedere, per esempio, per servizi pubblici “ulteriori e non essenziali” (o “aggiuntivi”), una limitata autonomia di creazione di tributi commutativi o formalmente tariffari; una ipotesi che potrebbe essere concertata sulla carta, ma che non mi convince su di un pia-
———————
sistema propria del gradualismo kelsensiano, che nel nostro caso opererebbe già ed essenzialmente nell’ambito della stessa Carta Costituzionale, in forza della rigidità relativa
ed estrinseca della riserva di legge, in materia tributaria, quindi, condizionata in modo
determinante dallo statuto costituzionale del tributo e del sistema fiscale preferito.
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no squisitamente pragmatico (83). Anche la via della identificazione già
nella legge fondamentale dello Stato-Nazione di tipologie di tributi applicabili o disapplicabili localmente potrebbe comportare una degenerazione di quella disciplina di principio in disciplina di dettaglio, sostanzialmente una esautorazione degli spazi di autonomia tributaria. Se l’autonomia fosse intesa, quindi, come indefettibile potere originario di “inventare” i tributi, ancora una volta, finirebbe con il ridursi a ben poca cosa, ad un obolo simbolico.
Direi, invece, che il risultato minimo e certo, ma non meno nuovo al
quale è più urgente pervenire, è la traduzione dell’autonomia fiscale e del
modello statico della equiordinazione, in modello dinamico, complesso e
nuovo di esercizio della potestà normativa: passare, cioè, da un sistema
tributario unilateralmente posto e conflittuale, al sistema del “regionalismo collaborativo” o dell’autonomia tributaria concertata, consci che, in
quello scenario, sarebbe tale (concertata) anche quella dello Stato. Tutti
concorrono nei luoghi – quelli non ancora prefigurati o sperimentati in
questa direzione – istituzionali e normativi della “nazione” o dell’ordinamento pluralista (a più livelli equiordinati). E ciò, a mio modo di vedere, comporterebbe emersione ed effettività dell’essenza vera dell’autonomia: la possibilità di concorrere a delineare un sistema comune, il superamento dell’attuale “primato statale” “inter pares” e la realizzazione
del “primato della Nazione” (della Repubblica), luogo di composizione e
di unità giuridica ed economica dei “pari” (84).
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8. Questa articolata concezione della riserva di legge e del coordinamento nel nuovo titolo V, Cost. (a prescindere da possibili futuri ripensamenti e in pendenza dell’auspicata pausa di riflessione) (85) merita ora di essere conclusivamente declinata in positivo per indicare le at———————
(83) Basta pensare ai tributi come vincoli comunitari per conseguire la consapevolezza di quanto siano angusti i margini per autonomamente disporre in materia, specie a
livello locale, in mancanza di strumenti adeguati, di ordine giuridico, informativo e tecnico-finanziario. Nel senso di valorizzare i tributi paracommutativi e di scopo, DEL FEDERICO, Orientamenti di politica legislativa regionale in materia di tributi locali, in Finanza locale, 2003, e Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 151
ss., 254 ss.
(84) Consapevoli del fatto che, una volta astrattamente fissata la linea di confine o
demarcazione tra le competenze di Stato, Regione ed Enti locali, si porrà e si rinnoverà
ogni giorno la questione di stabilire se essa è in concreto rispettata oppure valicata dai
singoli atti espressivi di potestà normativa (cfr., già in questo senso, A. RUGGERI, Fonti,
norme, cit., 95).
(85) Da S. CASSESE, in Il Corriere della sera, 17 agosto 2004.
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tribuzioni di poteri normativi in materia tributaria nel nuovo assetto plurilivello equiordinato.
Iniziando dalle regioni, per le quali non è ormai più in discussione
l’idoneità dei loro atti normativi a soddisfare la riserva di legge, è solo
da ribadirsi (86) la natura ora primaria (come quella dello Stato) e non
più secondaria della loro potestà normativa tributaria.
La delimitazione rispetto a quella dello Stato (-persona) avviene in
base ai criteri di competenza indicati nell’art. 117 Cost.
Se questa considerazione è sufficiente da sola a indicare il diverso e
maggiore grado di autonomia delle Regioni in campo tributario rispetto
agli altri enti sub-statali, restano da approfondire i caratteri di tale autonomia sia verso l’alto con riferimento a quella dello Stato che verso il
basso con riguardo a quella degli Enti locali.
Sotto il primo profilo, nulla da rilevare con riguardo alla riserva di
legge: alla legge dello Stato spetta in via esclusiva la disciplina del sistema tributario e contabile dello Stato nonché la determinazione dei
principi fondamentali in materia di legislazione concorrente; in via concorrente il coordinamento della finanza pubblica intesa in senso generale e del sistema tributario (dello Stato, delle Regioni e degli enti sub-statali). Alla legge regionale spetta in via concorrente con lo Stato il coordinamento ed in via esclusiva la disciplina dei tributi regionali e locali.
Posto che come è stato già rilevato (87) l’organizzazione duale della Repubblica ai fini del principio di legalità si regge sul contemperamento dei principi di sussidiarietà, di competenza, di equiordinazione e
di pariteticità, il criterio sostanziale di distinzione tra potestà normativa
tributaria dello Stato e delle Regioni è dato dal principio di continenza
espresso del presupposto del tributo rispetto alle materie di competenza
dei diversi soggetti istituzionali ex art. 117.
Per questa ragione, se spetta alla legge regionale in via esclusiva disciplinare i tributi propri della Regione nonché, come vedremo, la “base” dei tributi propri degli enti sub-statali, ritengo invece che il coordinamento sia materia di legislazione concorrente con lo Stato sia che riguardi tributi statali e regionali, sia che riguardi tributi regionali e locali: per le ragioni esposte sopra sulla unicità del sistema.
Da quanto detto sopra risulta che dalla stessa nozione di tributo e
dalla funzione sostanziale della riserva di legge si ricava la limitazione
———————
(86) Così già GALLO, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., in Rass. trib.,
2002, 588.
(87) GALLO, Prime osservazioni, cit., 588.
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di contenuto della potestà normativa della Regione rispetto a quella dello Stato: la legge emanata dalla collettività regionale potrà disciplinare
soltanto tributi che abbiano un collegamento diretto con il territorio regionale ovvero con le attività e funzioni esercitate dalla Regione (88).
In senso inverso analoga limitazione riguarda la potestà normativa
tributaria dello Stato-persona.
Posto che le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali sono
chiaramente disciplinate da legge dello Stato, non mi pare che la delimitazione del contenuto sostanziale della potestà normativa tributaria di
Stato e Regioni possa basarsi sulla nozione di tributi propri ovvero sulla
nuova terminologia “stabiliscono e applicano” in luogo della vecchia
“istituiscono”.
Per le ragioni già esposte, non ritengo che nonostante la maggiore
ampiezza semantica del termine “stabilire”, questo assuma un significato assai diverso dal precedente “istituisce” specie se a quest’ultimo si attribuisce, come aveva già fatto la giurisprudenza costituzionale, significato diverso dal mero “attivare”.
Dunque “stabilire” tributi propri (nel senso di caratterizzati dai sopra esposti requisiti di continenza rispetto alle istanze democratiche del
territorio) non significa necessariamente disciplinare in via esclusiva e
dunque solo con atto normativo proprio tributi regionali.
D’altro canto proprio perché la formula “stabilire tributi propri” è a
mio avviso compatibile con una parziale eterodisciplina in funzione di
coordinamento, la modifica lessicale non sembra avere introdotto una
potestà normativa tributaria regionale più ampia di quella che la dottrina
già nel vecchio testo del Titolo V assegnava alle Regioni (89).
Sotto questo profilo le recenti sentenze della Corte costituzionale, se
si giustificano sotto il profilo della “attuale” mancanza di tributi propri
———————
(88) FEDELE, Appunti, cit., 99, esclude un vero e proprio rapporto gerarchico tra legge regionale in campo fiscale e legge statale che stabilisce i principi di coordinamento:
il rapporto di subordinazione è piuttosto direttamente con la Costituzione secondo il criterio della “competenza” che risulterebbe violato dall’inosservanza dei “principi fondamentali”.
(89) Rileva FRANSONI, Osservazioni in merito alla potestà impositiva degli Enti locali alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione, Annuali della facoltà di giurisprudenza di Foggia, Milano, 2005, che maggiore portata argomentativa dovrebbe essere assegnata all’impiego del verbo nella forma attiva “stabiliscono e applicano”, piuttosto che in quella passiva “alle Regioni sono attribuite”: scelta che sembrerebbe attestare il carattere originario e non derivato del titolo in base al quale viene esercitato il potere.
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in senso stretto e soprattutto con l’esigenza di una previa legge statale di
coordinamento del sistema che individui i principi fondamentali, appaiono troppo rigide se proiettate verso un assetto a regime.
Individuare i tributi propri solo in quelli la cui disciplina sia contenuta esclusivamente in atti normativi dell’ente ai quali sono riferiti conduce, come è stato rilevato (90) ad una vera e propria antinomia.
Infatti le ragioni del coordinamento, da un lato, richiedono comunque una parziale disciplina statale; dall’altro, anche gli Enti locali sono
dotati di tributi propri che, per effetto della riserva di legge, dovranno essere in parte disciplinati da legge regionale: dunque una troppo rigorosa
definizione di tributi propri farebbe del tutto venire meno la categoria.
Come ho sopra diffusamente motivato, ritengo dunque che la riserva di legge regionale per i tributi di competenza delle Regioni sia per un
verso soggetta alla legge statale di coordinamento e per altro verso ai limiti di continenza rispetto alle materie indicate nell’art. 117 Cost., nonché di collegamento del tributo con il territorio dell’ente locale e con gli
interessi da esso rappresentati.
Per quanto riguarda i regolamenti regionali l’art. 117, comma 6 riconosce loro una competenza estesa a tutte le materie diverse da quelle
rimesse alla legislazione esclusiva dello Stato: quindi anche a quelle di
legislazione concorrente (coordinamento).
Quindi, fatta salva la riserva di legge, il regolamento regionale può
concorrere a disciplinare il sistema tributario salvo che per le materie attinenti al sistema tributario dello Stato dove può operare soltanto per delega dello Stato stesso.
Più complessa appare l’autonomia tributaria degli Enti locali sub-regionali che sono da un lato ex art. 114 equiordinati alle Regioni e dall’altro titolari ex art. 119 di identiche risorse autonome e del potere di stabilire e applicare tributi propri.
La riserva di legge dell’art. 23 consegna infatti alla legge regionale
il potere di determinare almeno la “base” dei tributi locali ed alla legislazione concorrente Stato-Regione il potere di dettare il coordinamento
del sistema anche con riguardo ai tributi locali.
Ciò comporta come conseguenza, da un lato, la compresenza nella
disciplina dei tributi locali di atti normativi dello Stato e della Regione
nonché di atti regolamentari dell’ente locale, con l’ulteriore conseguenza rilevata in dottrina (91) che se si accogliesse la rigida nozione di tri———————
(90) FRANSONI, cit.
(91) FRANSONI, cit.
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buti propri recentemente enunciata dalla Corte costituzionale questi ultimi sarebbero per definizione esclusi per gli enti sub-regionali.
Dall’altro lato che l’autonomia tributaria degli Enti locali dopo la
novella al Titolo V non appaia sostanzialmente più ampia di quanto non
fosse già in base all’art. 52 della legge n. 446/1997 confermandosi così
l’enunciata convinzione che la novella abbia sostanzialmente costituzionalizzato la precedente riforma Visco.
Il punto nodale della delimitazione sotto il profilo sostanziale della
potestà normativa tributaria degli Enti locali rispetto alle Regioni deriva
allora dalla accezione che si attribuisce alla riserva di legge.
Se quest’ultima, pur relativa, la si intende in senso rigido secondo la
giurisprudenza della Corte costituzionale, allora la potestà normativa di
determinare la base del tributo locale è riservata alla legge regionale e
all’ente locale è consentita soltanto la disciplina di dettaglio. In questa
prospettiva il nuovo Titolo V non si discosta dall’art. 52 legge n.
446/1997.
Se invece (92) si ritiene che la riserva dell’art. 23 non sia di stretto
dettaglio e consenta margini di discrezionalità all’ente locale in misura
maggiore rispetto al previgente testo costituzionale, allora si può affermare un più ampio margine di autonomia normativa dell’ente locale che
potrebbe “stabilire” tributi nel senso di determinare gli elementi essenziali del tributo sia pur estrapolandoli dalla disciplina legislativa posta
dalla Regione. In questa prospettazione l’esigenza di attribuire pienezza
di valore alle formule di equiparazione contenute negli articoli costituzionali indurrebbe a ritenere particolarmente flessibile la riserva di legge
in materia di tributi locali e dunque a consentire all’ente sub-regionale di
disciplinare autonomamente il tributo indicato nella legge regionale solo
per “tipo” (93).
In sostanza l’autonomia attribuita dall’art. 119 comma 2 agli enti
sub-regionali comporterebbe il riconoscimento ad essi di una potestà
normativa sia pur regolamentare estesa a tutta la disciplina dei tributi
propri salvi la “base” riservata alla legge regionale e i principi di coordinamento.
Se ne è dedotto (94) che un intervento della Regione in questo ambito di autonomia sia con legge che con regolamento violerebbe l’art.
119, comma 2 Cost.
———————
(92) Così GALLO, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., cit., 590-591.
(93) FRANSONI, cit.
(94) FEDELE, Appunti, cit., 102.
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La verità è che, nonostante una lettura il più possibile “autonomista”
degli articoli costituzionali, i punti nodali della ricostruzione sopra tentata restano: l’unitarietà del sistema tributario e l’attribuzione allo Stato
dei principi fondamentali di coordinamento; il principio di sussidiarietà
ed il valore dell’autonomia locale che inducono ad attribuire il potere al
soggetto istituzionale più vicino e direttamente collegato agli interessi
coinvolti; infine la portata sostanziale del principio democratico sotteso
alla riserva di legge per cui la disciplina materiale del tributo è demandata alla collettività locale alla ripartizione delle cui spese pubbliche il
tributo concorre. È dunque auspicabile, come del resto ha più volte fatto
la Corte costituzionale, che dalla normazione sui principi fondamentali e
sui principi di coordinamento venga delineato un sistema tributario armonico e solidale che ripartisca il potere tributario senza sovrapposizioni e senza vuoti d’imposta, nel rispetto dei vincoli comunitari e degli obblighi internazionali ma soprattutto rispettoso del principio di autoimposizione riferito ai vari livelli dei soggetti istituzionali della Repubblica.
Nel novellato sistema di fonti ordinato non più gerarchicamente bensì per competenza ed in presenza di una non chiarissima (e tuttora discussa) attribuzione delle competenze legislative esclusive e concorrenti,
il punto più delicato specie nella fase transitoria è costituito dalle norme
di coordinamento.
E queste attingono, come visto sopra, alla complessiva e fondamentale concezione del sistema tributario nel quadro costituzionale.
Se infatti dall’equiparazione, autonomia e separazione dei poteri
normativi di Stato e Regioni si ricava l’originalità della loro potestà legislativa e se ne deduce l’esistenza di due distinti sistemi tributari primari (95) si può allora sostenere (96) che il coordinamento del sistema
tributario dello Stato e delle Regioni ed Enti locali spetti ex art. 117
comma 3 ultima parte solo alle regioni salvo che per i principi fondamentali dell’ordinamento e per il coordinamento del sistema tributario
dello Stato, rimessi appunto allo Stato in via esclusiva.
In questa prospettiva più accentuatamente autonomista si potrebbe
quindi supporre che nell’attesa della normativa statale sui principi fondamentali le regioni abbiano già la potestà di legiferare autonomamente
in materia di coordinamento (anche con tributi statali) sia pure desumendo i principi fondamentali dall’ordinamento vigente.
———————
(95) Così GALLO, Prime osservazioni, cit., 588.
(96) Come fa, appunto, GALLO, op. cit., 593. Nello stesso senso DEL FEDERICO,
Orientamenti di politica legislativa regionale, cit.
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Questa conclusione sarebbe avvalorata oltre che da una rigorosa lettura
dell’art. 117 commi 3 e 4 Cost., dalla giurisprudenza della Corte (97) e dalla legge n. 131/2003 il cui art. 1 comma 3 prevede che “nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati
dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti” (98).
Lo stesso art. 1 prevede poi più decreti legislativi “meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti in
base ai principi di esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità e
omogeneità”, ed indica una serie di criteri direttivi.
Ove invece si accentuino, come sopra ho cercato di fare, l’unitarietà
del sistema fiscale nel suo complesso e le esigenze (accresciute) di sua
coerente e coordinata applicazione, allora non potrà che riservarsi alla legislazione concorrente Stato/Regioni il coordinamento del sistema con la
conseguenza che nell’attesa della legislazione statale sui principi fondamentali la legislazione regionale di coordinamento potrà solo riguardare
tributi regionali e locali.
Per l’efficace funzionamento del sistema unitario occorrerà dunque
attendere (anche in attuazione della legge n. 131) la fissazione da parte statale dei principi fondamentali di coordinamento: il che è quanto sostanzialmente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 37/2003.
Del resto la dottrina più attenta (99) si è resa conto della “zona gri-
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(97) Vedi la sentenza 26 giugno 2002, n. 282 peraltro contrastata dalle successive
sentenze nn. 37 e 241/2004.
(98) L’enunciato legislativo potrebbe consentire la ricognizione autonoma dei principi fondamentali impliciti o immanenti alla legislazione statale, ma considererei, da un
lato, che si tratta di una disciplina destinata a regolare la potestà concorrente nella vasta
e variegata congerie di ambiti materiali di disciplina elencati dal 117, comma 3, e che così operando, torneremmo ad una accezione superata, conflittuale e foriera di un vasto
contenzioso Stato-Regioni, sulla modalità e gli esiti di quell’operazione, soprattutto in
materia tributaria. Dall’altro lato pare curioso ipotizzare che ciascuna Regione possa cogliere da sè il principio fondamentale e presagire ciò che faranno le altre Regioni: il sistema, la sua unicità ed i suoi caratteri, ragionevolmente, sarebbero gravemente compromessi ed esposti ad un rischio, quand’anche transeunte (ove sappia rimediare di volta in volta la Consulta), che non mi pare costituzionalmente tollerabile e dovrebbe indurre, semmai, ad ipotizzare incostituzionale l’enunciato normativo “La Loggia”. Si tratta di una legge “nominata” nel senso di prevista specificamente dalla Costituzione, ed
“attuativa” del dettato costituzionale, per la quale, quindi, la verifica di corrispondenza e
compatibilità con la Costituzione – e soprattutto con l’enunciato che ne costituisce ragion
d’essere (art. 117, comma 3 – dovrebbe essere particolarmente rigorosa.
(99) PERRONE, La sovranità impositiva tra autonomia e federalismo, in questa Rivista, 2004, I, 1173 ss. in part. 1176, 1188.
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gia” che residua tra i principi fondamentali di coordinamento riservati
esclusivamente allo Stato e la potestà concorrente di coordinamento del
sistema tributario riservata altrimenti alle Regioni. E nonostante gli interventi legislativi e giurisprudenziali successivi resta oscura, a mio avviso, la distinzione tra principi “fondamentali” e principi “non fondamentali” di coordinamento rimessi i primi allo Stato e i secondi alla Regione.
La sopra esaminata esigenza di unitarietà, personalità e non scindibilità territoriale del sistema tributario (ad es. sotto il profilo della rilevanza del minimo vitale) raccomandano come ha ben messo in evidenza
la ricordata dottrina (100) la costruzione del nuovo ordinamento repubblicano basato su più livelli istituzionali equiordinati e fiscalmente autonomi intorno ai principi di ragionevolezza, capacità contributiva e progressività del sistema tributario nel suo complesso (inteso appunto come
sommatoria dei diversi ordinamenti facenti capo a Stato-persona, Regioni e Enti locali).
Dall’applicazione di questi principi e da quello di continenza, dovrebbero risultare riservati alle Regioni e agli Enti locali i tributi connotati da caratteristiche territoriali, anche di tipo commutativo, mentre dovrebbero essere riservati allo Stato i tributi sul reddito e quelli di origine
comunitaria.
Dovrebbe inoltre conseguirne la non condivisibilità dello stesso presupposto da parte di tributi erariali e locali nonché l’impossibilità che il
cumulo di tali tributi si risolva in misure confiscatorie o espropriative di
ricchezza individuale (101).
La conseguenza che ne traggo è quella della necessaria compresenza dei principi fondamentali di coordinamento (espressamente statuiti o
ricavati dalle leggi statali vigenti) accanto alla normativa regionale che
coordina i tributi dello Stato con quelli di Regioni e Enti locali: in definitiva nella legislazione concorrente in materia di coordinamento del sistema tributario la potestà legislativa delle Regioni non potrebbe mai
prescindere dai principi fondamentali contenuti nella legge statale (nuova o previgente).
È stato a tal proposito già rilevato (102) che nel disegno di legge costituzionale La Loggia-Bossi (peraltro smentito sul punto della cd. bozza di Lorenzago) si prevede oltre alla soppressione della legislazione
———————
(100) PERRONE, op. cit., 1184 ss.
(101) Così PERRONE, op. cit., 1186 ss.
(102) Da PERRONE, op. cit., 1188 ss.
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concorrente di cui all’art. 117, comma 3, l’attribuzione allo Stato della
legislazione esclusiva in materia di “norme generali concernenti l’armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario”.
Vi è probabilmente la consapevolezza che (le “norme generali” sono forse meno pesanti ma più ampie ed efficaci dei “principi fondamentali” e che occorra a questo punto rafforzare la funzione di guida della
legge statale nella costruzione di un sistema fiscale basato sì su più livelli equiordinati ma rispondenti tuttavia a principi di ragionevolezza, di
equità e di solidarietà/redistribuzione.
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AUGUSTO FANTOZZI
Riflettendo su un convengo leccese
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1. Il 25 giugno 2004, grazie all’iniziativa del prof. Franco Paparella,
si è svolto a Lecce un interessante convegno nel quale sono state esaminate e discusse le principali novità dell’Ires.
Il prof. Pietro Adonnino ha aperto l’incontro soffermandosi sui profili di compatibilità della riforma con il diritto comunitario; il prof. Andrea Fedele ha ripreso, sotto altra angolazione, il tema dei rapporti sociosocietà già oggetto di una relazione pubblicata su questa Rivista (1); il
prof. Augusto Fantozzi ha esaminato il nuovo regime della trasparenza
per le società di capitali.
L’intervento del prof. Salvatore La Rosa, con il quale si è aperta la
sessione pomeridiana del convegno, ha avuto ad oggetto la thin capitalization, mentre i temi del consolidato nazionale e delle operazioni straordinarie sono stati trattati rispettivamente dal prof. Giuseppe Tinelli e dallo stesso organizzatore.
In questa sede sarebbe impossibile riferire dei molteplici spunti di riflessione offerti dalle varie relazioni, cosicché ci limiteremo a segnalare
le opinioni espresse su un tema che, proprio per essere stato comune a
più interventi, sembra destinato ad assumere un posto di particolare importanza ai fini della comprensione della ratio della riforma.
Tre relazioni in particolare – quelle del prof. Fedele, del prof. Fantozzi e del prof. La Rosa – hanno, infatti, preso in esame da diversi punti di vista, quasi in forma contrappuntistica, il problema della nozione e
della disciplina dei redditi da partecipazione nei loro rapporti con la (per
alcuni versi complementare) nozione di interessi.
Ed è, appunto, su alcuni profili di tali relazioni che vorremmo richiamare l’attenzione anche per trarne qualche spunto di ulteriore riflessione.
———————
(1) Cfr. A. FEDELE, La nuova disciplina Ires: i rapporti fra soci e società, in questa Rivista, 2004, I, 465.
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Avvertiamo, tuttavia, sin d’ora che le osservazioni che seguono nascono come frutto di riflessioni “a caldo” e come tali sono presentate.
Non vi è, in altri termini, alcuna ambizione di presentare un elaborato ed
approfondito apparato argomentativo. Lo scopo è, piuttosto, quello di
proseguire le discussioni che si sono svolte a margine del convegno leccese e, magari, di sollecitare qualche “postilla” di commento (secondo lo
stile che sta diventando proprio di questa Rivista) con la speranza che ciò
possa servire da stimolo ad una più ampia discussione ed ad un più approfondito esame di temi che ci sembrano nodali.
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2. La tesi del prof. Fedele, già esposta nel precedente intervento cui
si accennava in apertura, parte dalla constatazione dell’esistenza di una
nuova nozione di reddito di partecipazione fondata sui modi di determinazione della remunerazione del capitale apportato.
In particolare, l’apporto di capitale in società non sarebbe distinto a
seconda che il rapporto esistente fra la società e l’apportante attribuisca
a quest’ultimo un insieme di diritti idonei ad indirizzare lo svolgimento
dell’attività sociale o meno. La distinzione è invece operata avendo riguardo alla circostanza che la remunerazione dell’apporto sia correlata al
risultato economico della società oppure sia determinata in misura fissa
ovvero anche variabile, purché con riferimento ad un parametro diverso
dal risultato economico.
Nel primo caso, la remunerazione dell’apporto dà luogo ad un reddito da partecipazione tassabile in capo al percettore e indeducibile per
la società; in tutti gli altri, la remunerazione è deducibile per la società
ed è tassata in capo al percettore come reddito di capitale.
Detto altrimenti, tutti gli apporti di capitale sono visti sotto il profilo dell’“investimento”, piuttosto che sotto quello del conferimento (relegando così nell’irrilevanza il fatto che tale apporto attribuisca all’apportante la qualifica di socio in senso tecnico) e sono distinti in ragione della caratteristica sopra menzionata la quale incide, per un verso, sui modi
di tassazione dei frutti dell’investimento per il percipiente e, per l’altro
verso, sulla deducibilità per la società.
Precisato, inoltre, che, per quanto riguarda il percipiente, il livello di
tassazione si presenta nei due casi sufficientemente omogeneo e, in specie,
che la parziale esenzione di cui godono i redditi di partecipazione per i soci persone fisiche non è intesa ad eliminare – proprio perché parziale – la
doppia tassazione economica (che, invece, costituirebbe la regola generale
del sistema), l’intervento del prof. Fedele si è concentrato sull’esame di un
problema non esaminato nel precedente intervento fiorentino.
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La questione è, in sintesi, questa: se tutti gli apporti sono considerati investimenti, qual è la ragione per cui, in alcuni casi, la relativa remunerazione è deducibile per la società (nel caso degli interessi) e, in altri,
è indeducibile (redditi da partecipazione)?
L’articolata risposta a tale quesito è stata fondata su una puntualizzazione di fondo, ossia che la deducibilità degli interessi – così come la
indeducibilità degli utili distribuiti – non costituisce il regime naturale e
immanente del reddito societario. In astratto, nulla vieterebbe che anche
gli interessi siano considerati indeducibili, così come potrebbe ammettersi la previsione della costante deducibilità degli utili distribuiti (d’altronde il regime del credito d’imposta realizzava, in termini pratici, un
effetto molto simile a questo).
In altri termini, la nozione del reddito d’impresa (e, quindi, delle
componenti positive e negative dalla cui somma algebrica esso risulta) è
l’effetto di una valutazione, anche di ordine politico. E la scelta operata
dal legislatore in tema di trattamento dei redditi di partecipazione rispetto agli interessi appare in qualche misura conforme alla logica di una tassazione di impronta tendenzialmente “reale”.
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3. Nell’affrontare il tema della tassazione per trasparenza nelle società di capitali, la relazione del prof. Fantozzi doveva necessariamente
risolvere i problemi della giustificazione e della coerenza sistematica di
tale disciplina rispetto all’impianto della riforma.
A questo proposito il relatore ha immediatamente avvertito che
l’unità e la coerenza sistematica possono essere ricercate a diversi livelli di astrazione del discorso cosicché, a livello metodologico, occorreva
individuare e definire sin da subito a quale livello si intendeva condurre
l’indagine. E, al riguardo, il prof. Fantozzi ha evidenziato come, a suo
giudizio, la scelta più corretta dovesse rifuggire da livelli di astrazione
eccessivamente elevati poiché, diversamente, si sarebbe corso il rischio
di pervenire a soluzioni intellettualmente appaganti, ma lontane dal sentire comune e non comunicabili al di fuori di una ristretta cerchia di cultori della materia dalla quale sarebbero, per di più, esclusi proprio i giuristi del resto dell’Unione Europea, portatori di quella cultura tributaria
con la quale la riforma si propone di essere in totale sintonia.
Adottando questa chiave di lettura, l’esame dell’insieme degli istituti che, in varia misura, disciplinano i rapporti socio-società sarebbe destinato, a giudizio del prof. Fantozzi, a condurre alla presa d’atto dell’irriducibilità degli stessi ad un disegno unitario.
Si dovrebbe, piuttosto, ritenere che essi siano ispirati a logiche dif-
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ferenziate avendo il legislatore, per un verso, optato (forse anche per motivi di gettito) per la distinzione del reddito della società rispetto a quello del socio e, quindi, per la parziale doppia imposizione economica di
essi e, per l’altro, introdotto una serie di rimedi agli effetti intrinsecamente irrazionali di tale doppia imposizione i quali, però, restano complessivamente eterogenei anche nei rapporti reciproci.
Così, ad esempio, la regola applicabile ai dividendi corrisposti ai soci persone fisiche viene contraddetta immediatamente là dove il socio è
un’altra società di capitali. E, ancora, alla tendenziale indeducibilità delle perdite su partecipazioni si contrappongono, poi, istituti quali la trasparenza ed il consolidato che eliminano tale conseguenza.
Proprio siffatta eterogeneità, allora, indurrebbe a concludere che si
tratta, in tutti questi casi, di misure di favore predisposte in funzione della soddisfazione di interessi di settore la cui rilevanza, nella prospettiva
di un giudizio di politica legislativa, ha fatto premio sull’aderenza
all’ispirazione di fondo della riforma.
Tale sostanziale incoerenza, poi, si traduce in una distribuzione del
carico fiscale non conforme al principio dell’eguaglianza nel concorso
alle pubbliche spese giacché il risultato dell’attività dell’impresa societaria subisce un prelievo fortemente differenziato a seconda del modulo
impositivo di volta in volta applicabile.
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4. Nell’ultimo dei tre interventi che qui si volevano segnalare, il
prof. La Rosa ha affrontato il tema della thin capitalization ritornando su
una questione di fondo già in parte adombrata dal prof. Fedele.
Escluso, infatti, che – alla luce della sua genesi normativa e del suo
assetto attuale – la disciplina della capitalizzazione sottile sia diretta a
impedire o scoraggiare forme di investimento diversificate sotto il profilo dei livelli di imposizione, la ratio dell’istituto può essere compresa solo nel contesto di un chiarimento del rapporto fra il reddito d’impresa e
la remunerazione dei capitali necessari al finanziamento dei costi (in termini di servizi, beni merci e beni strumentali) occorrenti per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale.
In questa prospettiva, il prof. La Rosa ha ricordato come, secondo
gli schemi classici, nelle imposte di tipo reale si tenda ad escludere o a
limitare fortemente la deducibilità degli interessi passivi, in quanto considerati erogazioni di reddito e non spese per la sua produzione (2). An———————
(2) I riferimenti di questa tesi tradizionale sono esposti con particolare approfondimento nel saggio dello stesso studioso di cui, nel testo, si riferisce il pensiero Interessi
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che nelle imposte personali, poi, la deduzione degli interessi passivi sarebbe ammessa, ma quale componente negativa del reddito complessivo,
piuttosto che come spesa dell’attività imprenditoriale.
Ove si tenga conto di queste possibili configurazioni del reddito
d’impresa, l’indeducibilità degli interessi passivi risponde a logiche diverse a seconda che, rispetto ad una determinata imposta, siano prevalenti i caratteri di realità o di personalità.
A seguito dell’introduzione dell’Ires, in particolare, la prevalenza
dei profili di realità sarebbe determinata essenzialmente dall’abolizione
del credito d’imposta. In altri termini – e qui, teniamo a precisarlo, stiamo interpretando, più che riferire testualmente, il pensiero del prof. La
Rosa – l’introduzione di una parziale doppia imposizione degli utili societari determinerebbe il venir meno della tassazione del reddito dell’impresa societaria come mero acconto rispetto alla tassazione di quel reddito in capo al socio, unica possibile giustificazione dell’imposizione
delle società nella prospettiva di un’imposta personale.
Se, dunque, l’imposizione del reddito ha, oggi, connotati di marcata
realità, la limitazione della deducibilità degli interessi passivi può ritenersi “strutturale”. Si potrebbe, cioè, ritenere che la regola della thin capitalization risponda alla medesima logica che aveva ispirato l’art. 31
della legge sull’imposta di ricchezza mobile del 1877, in quanto individuerebbe i soli interessi passivi che, risolvendosi in “aggravio” del reddito d’impresa, sarebbero in quanto tali deducibili.
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5. La sintetica esposizione delle problematiche affrontate nelle relazioni qui ricordate rende evidente come la disciplina dei rapporti soci-società – nella formulazione risultante a seguito nell’ultima riforma – riapre questioni e pone in discussione risultati che sembravano aver trovato sistemazioni definitive. E questo perché la novità di alcune discipline,
congiunta alla molteplicità dei regimi alternativi, non si presta ad essere
inquadrata facilmente in alcuno degli schemi già da tempo collaudati.
È certo, allora, che occorrerà ancora del tempo per metabolizzare tale
complesso di novità e pervenire a risultati maggiormente appaganti e più
diffusamente condivisi; e ciò anche grazie al contributo di riflessioni così
approfondite come quelle che abbiamo tentato più sopra di riassumere (3).
———————
passivi, interessi del debito pubblico e disciplina fiscale dei redditi d’impresa, in Rass.
trib., 1985, 1.
(3) Peraltro, la sintesi, come sempre, ma in questo caso in modo ancor più marcato, non rende giustizia alla complessità delle argomentazioni svolte da ciascun autore.
Talché non può che auspicarsi la pubblicazione delle relazioni stesse.
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Tuttavia, proprio perché tali interventi devono servire a porre le basi per la sistemazione futura dei diversi istituti, ci sembra possibile azzardare alcune riflessioni che pongano in evidenza le ragioni di fondo
dell’evidenziata divergenza di vedute e, forse, indichino ulteriori prospettive di ricostruzione della disciplina nel suo complesso.
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6. Innanzi tutto, ci sembra di dover individuare una prima cesura fra
le diverse impostazioni in una scelta – in larga parte, come noto, di natura ideologica – circa le ragioni che possono spiegare l’applicazione
dell’imposta sul reddito a soggetti diversi dalle persone fisiche.
Il prof. La Rosa ed il prof. Fantozzi, ad esempio ed in linea con la concezione forse oggi prevalente, assumono, in modo più o meno esplicito,
che gli enti, almeno quelli lucrativi a base associativa (in buona sostanza, le società), non siano altro se non strumenti per l’esercizio di un’attività d’impresa che resta sempre riferibile ai soci, talché il risultato di
tale attività è, almeno nella prospettiva di un’imposta personale, reddito
solo per i soci medesimi.
Tassare le società, allora, può avere solo due significati: o la tassazione è un acconto dell’imposta che, poi, verrà prelevata a livello dei soci; oppure si opera nell’ambito di un sistema di imposizione reale, per
cui la tassazione a livello della società può anche essere a “titolo definitivo”, ma solo perché è indifferente, nell’ottica di un’imposta reale, “dove” viene prelevata l’imposta.
La prima spiegazione non può essere certamente applicata al regime
attuale e resta quindi solo la seconda.
Sul punto, però, ci sembra che, sotto profili diversi, l’analisi del
prof. Fantozzi risulti divergente da quella del prof. La Rosa ed abbia
maggiori punti di contatto con quella del prof. Fedele: se è vero, infatti,
che il reddito è sempre il medesimo, pur essendo legittimo tassarlo a livello della società e non del socio, risulta invece irrazionale assoggettarlo a tassazione nuovamente in capo al percipiente. L’unica soluzione
coerente con tale impostazione è quella della totale esenzione dell’utile
distribuito dalla società, talché la previsione di un’esenzione parziale attenua, ma non elimina gli effetti di irrazionalità (e quindi la violazione
dell’art. 53 Cost.). Tanto più se, come evidenziato dal prof. Fantozzi,
l’entità di tale esenzione varia a seconda della qualifica soggettiva del
percipiente e, inoltre, esistono metodi di imposizione che, invece, consentono di eliminare totalmente la doppia imposizione (consolidato, trasparenza ecc.).
Tuttavia, quella appena prospettata, non è l’unica spiegazione
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dell’imposizione del reddito delle società. È, infatti, ormai risalente
un’altra giustificazione che vede le società come autonomi centri di riferimento della capacità contributiva (in modo distinto dai soci) e, quindi,
suscettibili di essere chiamati a concorre autonomamente alla pubbliche
spese.
È questa la diversa prospettiva in cui si colloca l’analisi del prof. Fedele la quale poggia, peraltro, su alcuni referenti normativi presenti anche in vigenza del credito d’imposta: si pensi, per fare qualche esempio,
alla possibilità che la tassazione in capo alla società divenisse definitiva
perché l’utile già tassato veniva poi assorbito dalle perdite; oppure alla
possibilità che quanto veniva distribuito dalla società al socio in sede di
liquidazione della quota, per effetto del confronto fra costo di acquisto
della quota e entità delle somme ricevute, dovesse qualificarsi come utile per il socio pur essendo restituzione di capitali per la società o viceversa.
Si pensi, ancora, al fatto che la doppia imposizione operava in pieno, anche in vigenza del credito d’imposta, per i soci residenti di società
estere (4). Tale regime non era però considerato discriminatorio (5) e siffatta circostanza attesta come la doppia imposizione non venisse considerata quale soluzione strutturalmente estranea al nostro sistema.
In ogni caso, non è certo questa la sede per affrontare la questione
di quale fra le diverse impostazioni di fondo sia maggiormente corretta.
Anche perché, in definitiva, il dissenso non sembra poter essere composto solo sulla base di argomenti “tecnici”, dipendendo, al fondo, da scelte di valore.
La differenza di impostazione meritava, però, di essere segnalata in
quanto, per un verso, essa deve essere tenuta presente nell’analisi delle
possibili interpretazioni del sistema le quali ne sono, inevitabilmente,
profondamente condizionate; per l’altro verso, perché prendere atto della sua esistenza consente di rendersi conto che l’approdo ad interpreta———————
(4) Si badi bene che tale doppia imposizione non era solo “internazionale” (nel senso che non era determinata esclusivamente dal prelievo di imposte di stati diversi sul
(l’asseritamente) medesimo reddito. In astratto, la società estera poteva avere una stabile
organizzazione in Italia, nel qual caso il doppio d’imposta sarebbe stato determinato dalla congiunta applicazione dell’Irpeg e dell’Irpef sul medesimo reddito. L’ipotesi è, ovviamente, di “scuola”, ma non è priva di significato perché indica come il regime delle
società estere non legittimava un particolare tipo di doppia imposizione, ma la doppia imposizione tout court.
(5) Se non nell’ottica dei principi comunitari. Ma ritratta di un profilo completamente diverso da quello che qui rileva.
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zioni più largamente condivise non potrà essere disgiunto dal generalizzarsi della preferenza per l’una o l’altra delle possibili soluzioni.
Al riguardo, sembra doversi solo rilevare come appaia certamente
esatta la tesi del prof. Fantozzi nella misura in cui nega la possibilità di
pervenire ad una razionalizzazione del sistema partendo dalla premessa
che nega l’autonoma soggettività (nel senso di cui sopra) delle società.
Tuttavia, la necessità diffusamente avvertita di ricondurre ad un sistema unitario le diverse discipline esistenti – anche per l’indubbio pregio che tale risultato presenta quale chiave interpretativa dei casi “dubbi” – induce – insieme con innegabili preferenze personali – ad adottare,
quantomeno come ipotesi di lavoro, l’altra impostazione. Ed in questa
prospettiva saranno svolte le considerazioni che seguono.
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7. Prima di esporre quella che potrebbe essere un’ipotesi ricostruttiva del sistema, sembra opportuno fare una precisazione.
Non pare, infatti, del tutto certo che i problemi dibattuti nel convegno leccese siano affatto estranei alla cultura ed alla sensibilità del resto
del mondo.
Per rendersene conto, basta ricordare che il tema del rapporto fra la
tassazione delle società e quella del socio ha costituito oggetto di almeno cinque convegni dell’International Fiscal Association (6).
A ciò deve aggiungersi che è proprio la dottrina anglosassone quella in cui si trovano gli approfondimenti e le discussioni più esaurienti in
tema di rapporti fra la tassazione delle società e quella del socio. Fra questi studi, rappresenta, anzi, un classico quello del Goode principalmente
per il tentativo ivi operato di classificare i diversi possibili sistemi (7).
Secondo tale classificazione, la prima distinzione deve essere operata fra i sistemi tributari in cui vi è separazione fra la tassazione dei soci
e quello della società (cd. sistema classico (8)) e quelli in cui l’esistenza
dell’imposizione a carico della società si riflette, in vario modo, sulla tassazione dei soci o viceversa (sistemi di “integrazione”). Là dove, poi, vi
———————
(6) Si veda R.J. VANN, Trends in company/shareholders taxation: single or double
taxation, General report al Congresso IFA di Sidney 2003, in Cahiers de droit fiscal international, 88a, 23, nt. 2 che cita i temi dei congressi IFA del 1954, 1955, 1964, 1970
(ai quali deve aggiungersi, appunto, quello di Sidney 2003).
(7) Cfr. R. GOODE, The corporation income tax, New York, 1951.
(8) È interessante notare che, secondo quanto riferisce S. CNOSSEN, What kind of
corporation tax?, in Int’l bull. fiscal doc., 1993, 1, 3, il nome “classico” non indica una
maggiore anzianità di questi sistemi, in quanto il metodo del credito d’imposta era già
applicato in Germania nel XIX secolo.
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Stato
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Tipo di relazione fra i due livelli
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è integrazione fra i due livelli, questa può avvenire o a livello della società – se è consentita la deduzione dei dividendi distribuiti (9) o l’applicazione di un’aliquota differenziata – ovvero a livello dei soci – con
l’attribuzione di un credito d’imposta (nelle sue diverse forme) o la previsione di aliquote differenziate o di un’esenzione parziale o totale.
Né è meno importante segnalare che tali diversi modelli non appartengono solo al mondo delle teorie, ognuno di essi trovando, anzi, concreta realizzazione storica come risulta dalla seguente tabella tratta
dall’ultimo studio conosciuto in materia (10).
Lussemburgo
Paesi Bassi
Svizzera
Stati Uniti
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I. Nessuna relazione
Sistema “classico” (i.e. doppia imposizione)
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II. Integrazione a livello della società
A) Deduzione dal reddito societario dei dividendi
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B) Applicazione di aliquota ridotta all’utile distribuito
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Islanda
Svezia
Nessuno
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III. Integrazione a livello del socio
A) Credito d’imposta
Pieno
Parziale
Austria
Finlandia
Germania
Nuova Zelanda
Norvegia - Francia
Irlanda
———————
(9) Si noti, incidentalmente, che la deduzione degli utili distribuiti fu suggerita quale soluzione ottimale nello studio condotto dall’American Law Institute (Income tax
project, Tentative draft n. 2, 1979).
(10) L’elenco, che per molti versi richiederebbe ulteriori aggiornamenti, è tratto da
S. CNOSSEN, What kind of corporation tax?, cit., 3.
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PARTE PRIMA
Regno Unito
Austria
Belgio
Danimarca
Giappone
Portogallo
Turchia
Canada
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B) Tassazione separata (con o senza esezione)
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Sembra quindi potersi escludere che, dal punto di vista teorico e anche rispetto alla prassi internazionale, il dibattito sul sistema d’imposizione possa essere considerato sterile o eccessivamente astratto, perché,
anzi, tutti i possibili sistemi sono ampiamente conosciuti e discussi e per
ciascuno di essi sono state elaborate adeguate giustificazioni teoriche.
Ciò nondimeno, è certamente vero che nella letteratura internazionale prevalgono – rispetto alle spiegazioni in chiave dogmatica – considerazioni pragmatiche ed economiche. Infatti, i diversi sistemi vengono
apprezzati più per la loro maggiore o minore neutralità o per l’incidenza
sugli investimenti, che per la loro conformità ai valori giuridici di un determinato ordinamento (11). Ma questo deve renderci avvertiti che i motivi per l’introduzione dell’uno o dell’altro sistema possono essere molteplici, ma non già dissuaderci dal valutarne la conformità o difformità
ai valori di vertice del sistema.
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8. Passando all’ipotesi ricostruttiva di cui si era detto in precedenza,
ci sembra che, partendo dall’idea secondo cui gli enti (anche quelli lucrativi a base associativa) hanno autonoma soggettività e capacità contributiva, possano trovare spiegazione i molteplici moduli impositivi sui
quali si appuntata la critica del prof. Fantozzi (la quale, non deve essere
———————
(11) Lo dimostra, ad esempio, il fatto che la deducibilità dei dividendi distribuiti ed
il credito d’imposta vengono rappresentati come distinte modalità di integrazione dei due
livelli di tassazione ancorché, probabilmente, essi corrispondano anche a visioni diverse
del rapporto socio-società. Il primo metodo, infatti, sembrerebbe conforme alla considerazione del socio come mero investitore (e, quindi, non contraddice l’idea che la società
abbia autonoma soggettività). Il secondo metodo, come si è già ricordato, sembrerebbe
piuttosto riconnettersi all’idea che la società sia solo uno strumento per lo svolgimento
di un’attività che resta comunque riferibile ai soggetti dalla cui associazione l’ente trae
origine.
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dimenticato, era fondata, però, su un’analisi che muoveva da presupposti affatto diversi).
Infatti, la nuova disciplina sembra dividere il mondo degli enti societari in due sotto-insiemi.
Da un lato, vi sono le “grandi” società di capitali rispetto alle quali
il socio non è visto come il soggetto al quale imputare vuoi l’attività in
sé, vuoi il suo risultato. Per questi enti sembra essere assolutamente prevalente la considerazione e la contrapposizione del socio come investitore alla società di capitali come titolare del reddito d’impresa e centro
d’imputazione dell’attività.
In questa prospettiva, risulta coerente la stessa definizione di utili da
partecipazione i quali sono così qualificati in ragione della considerazione di uno solo dei diritti che, tradizionalmente, si riconnettono all’investimento in società; ossia il diritto, cd. patrimoniale, alla remunerazione
in misura variabile (ossia in ragione di risultati dell’attività). Vengono
messi, invece, in ombra i diritti “amministrativi” che sono quelli il cui
esercizio maggiormente collega il socio allo svolgimento dell’attività.
Dall’altro lato, vi sono le società di persone e quelle di capitali (che
potremmo definire “piccole”) alle quali si applica il regime della trasparenza proprio perché, essendo più intensa la capacità del socio di influire effettivamente sulle scelte della società, viene correlativamente valorizzata la sua posizione come “partecipante” all’attività d’impresa, con
conseguente diretta imputazione allo stesso del risultato dell’attività medesima.
Si delinea, insomma, un doppio regime in dipendenza delle dimensioni della struttura organizzativa dell’impresa. Rispetto alla “piccola società”, il socio conserva il suo ruolo di centro di riferimento dell’attività
(o, almeno, del risultato); rispetto alla “grande società”, il socio risulta
qualificato come semplice investitore mentre attività e conseguenti risultati restano imputabili all’ente.
Sia consentito di notare, incidentalmente, che questa distinzione non
è in sé irrazionale, anzi appare coerente con la giustificazione tradizionalmente offerta dai sostenitori della riferibilità di autonoma capacità
contributiva alle società (ed agli enti lucrativi a base associativa in generale), ossia che essi (enti), pur essendo strumenti per lo svolgimento
dell’attività voluta dai soci, agiscono tramite organi la cui volontà non
può essere considerata la mera somma della volontà dei partecipanti. La
volontà di tali organi tende, bensì, ad autonomizzarsi cosicché la società
risulta operare (anche) per il soddisfacimento di interessi e bisogni che
solo in senso molto mediato possono essere identificati con quelli dei so-
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PARTE PRIMA
ci. I sostenitori del metodo “classico”, come è stato detto incisivamente,
“point out that ownership and control functions have been completely
divorced in large corporations” (12).
Ovviamente, questa argomentazione, se assume particolare forza,
sotto il profilo sociologico, per le public company, diventa molto meno
convincente in caso di società a ristretta base partecipativa. Ed è proprio
questa contrapposizione, rilevante sul piano della realtà sociale, che potrebbe dirsi tradotta nell’illustrato doppio regime impositivo.
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9. Dalla distinzione generale fra grandi e piccole società sembrerebbero discendere poi, per quanto riguarda le prime, alcune ulteriori conseguenze.
L’attenzione avuta dal legislatore all’apporto in società come “investimento” ha reso necessario affrontare il problema se tale natura (di investimento) permanesse anche nei successivi impieghi che dell’originario apporto facesse la società contribuendo al capitale di altre società; ovvero se essi non dovessero considerarsi nient’altro che mere articolazioni della primigenia forma di investimento ed essere, quindi, neutralizzati.
La scelta sembrerebbe caduta su questa seconda soluzione, secondo
la quale ciò che conta, altrimenti detto, è l’impiego iniziale da parte della persona fisica, mentre sono (e, forse, devono essere) irrilevanti i successivi impieghi che vengono effettuati dalla società in altre società.
Si spiegherebbe così, quindi, l’esistenza di un doppio regime degli
utili e delle plusvalenze su partecipazioni a seconda che essi siano realizzati da persona fisica o da società.
Nel primo caso, si tratta di proventi strutturalmente imponibili per i
quali è prevista una parziale esenzione conforme a quella stabilita per gli
utili da partecipazione (di modo che risulti tendenzialmente indifferente
realizzare l’utile cedendo la partecipazione o ottenendone la distribuzione da parte della società).
Nel secondo, si hanno “movimenti finanziari” tendenzialmente neutrali, cosicché l’esenzione (che, come noto, è quasi totale) ha un carattere “strutturale”.
Impostazione, questa, che sembrerebbe confermata da (e, al tempo
stesso, coordinabile con) la previsione di discipline particolari quali il
consolidato ed il cd. consortium relief.
———————
(12) Cfr. S. CNOSSEN, What kind of corporation tax?, cit., 8.
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In queste ipotesi, indubbiamente, la neutralità dei rapporti infra-societari viene ad essere particolarmente accentuata, ma esse sembrano
avere una ratio comune con la esenzione delle plusvalenze su partecipazioni e dei dividendi infra-societari e l’accentuazione troverebbe giustificazione nella maggiore intensità dei rapporti partecipativi che costituiscono il presupposto per beneficiare di tali regimi. Accanto all’esclusione della doppia tassazione degli utili societari (alla quale sono finalizzate la participation e la dividend exemption), la maggiore intensità dei
rapporti partecipativi giustificherebbe, cioè, la possibilità di attribuire alla società partecipante le perdite della partecipata.
Si tratta, con tutta evidenza, di uno schema molto astratto che andrebbe verificato avendo riguardo ai singoli e specifici profili disciplinari propri dei diversi regimi qui richiamati solo per cenni.
Pur con questa avvertenza, esso non ci sembra da scartare a priori
e, certo, consentirebbe di eliminare molte delle incongruenze perspicuamente evidenziate negli interventi alla cui illustrazione queste note sono
dedicate.
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10. La dottrina internazionale, nel richiamare l’argomento posto a
giustificazione dei metodi cosiddetti “classici”, sottolinea come “however this argument does not provide an explanation for the difference in
tax treatment of retained profit, dividend and interest” (13). Ed è appunto questo il problema esaminato, da punti di vista solo in parte divergenti, nelle relazioni del prof. La Rosa e del prof. Fedele.
Si tratta di una questione che rileva sotto un duplice profilo. Innanzi tutto, la circostanza che gli interessi, diversamente dai dividendi, siano deducibili potrebbe dirsi (irrazionale perché) confliggente con
quell’ipotetico principio di simmetria che vorrebbe deducibile per l’erogante tutto ciò che è tassabile per il percipiente, e viceversa.
Tuttavia, tanto la relazione del prof. Fedele, quanto quella del prof.
La Rosa sembrano concordi nel ritenere che tale principio di simmetria
non ha natura cogente e, quindi, non debba necessariamente dedursi il regime fiscale di quanto viene erogato dal trattamento che l’erogazione riceve in capo al relativo percipiente.
Peraltro, il prof. La Rosa, sulla base di indiscutibili premesse storiche, giunge a ritenere che, se di deroga rispetto ad un principio debba
parlarsi, essa deve essere ravvisata, nell’ambito di un’imposta reale, pro———————
(13) Cfr. S. CNOSSEN, What kind of corporation tax?, cit., 8.
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prio nel regime della generalizzata deducibilità degli interessi (parzialmente attenuato dalla regola della thin capitalization) il che renderebbe
superflua ogni spiegazione in ordine ai motivi che giustificano l’indeducibilità dell’utile da partecipazione.
L’argomento del prof. La Rosa presenta due profili diversi a seconda che lo si riguardi dal punto di vista di ciò che nega ovvero da quello,
per così dire, propositivo.
Il primo profilo consiste, in buona sostanza, nella negazione dell’esistenza di una nozione a priori di costo deducibile e, quindi, nell’affermazione della relatività del concetto stesso di reddito. Si tratta di una
puntualizzazione sicuramente da condividere e sulla quale avremo modo
di tornare fra breve.
Il secondo profilo si pone quasi in contrasto con l’approccio relativistico che caratterizza l’approccio al primo, in quanto sembra di cogliervi l’idea della necessarietà dell’esclusione (o della limitazione) della deducibilità degli interessi passivi nell’ambito di un’imposta reale.
Su questo punto, è forse possibile avanzare una riserva che dipende
da considerazioni sia di ordine generale, sia più specificamente riferibili
al regime della thin capitalization.
In particolare, dal punto di vista generale, ci sembra che la stessa
esperienza storica richiamata dal prof. La Rosa dimostri come anche
quella operata dal legislatore dell’imposta di ricchezza mobile fosse una
scelta politica. In effetti, anche interpretando (così come fa il prof. La
Rosa) il riconoscimento della deducibilità degli interessi passivi per i
soggetti tassati in base a bilancio quale contaminazione dell’idea “pura”
di imposta reale con un’apertura verso i criteri propri dell’imposta “personale”, non è totalmente da escludere la possibilità che quella apertura
fosse dettata da ragioni equitative, ossia da considerazioni tecnico-politiche inclini a recepire una diversa caratterizzazione dell’imposta reale. E,
in questo senso, non sembra superfluo ricordare che ancora nella prima
metà del secolo ventesimo (quindi immediatamente a ridosso dell’epoca
in cui le tesi riferite dal prof. La Rosa si erano diffuse) gli scienziati delle finanze erano propensi a ritenere che, proprio rispetto ad un’imposta
reale, l’indeducibilità degli interessi passivi costituisse un “paradosso” e
fosse, quindi, irrazionale (14).
Da un punto di vista più specifico, poi, sembra doversi osservare come tale tesi non appaia del tutto idonea a giustificare la disciplina della
———————
(14) Si veda, al riguardo, L. EINAUDI, Miti e paradossi della giustizia tributaria, in
Scritti economici, storici e civili, Milano, 1973, spec. 44 ss.
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thin capitalization, in quanto potrebbe prospettarsi il dubbio, non privo
di un certo fondamento, che il rapporto dei finanziamenti con il patrimonio netto – ossia il criterio in base al quale la vigente disciplina distingue fra interessi deducibili e interessi indeducili – non costituisca un
parametro idoneo per sceverare gli interessi in conto esercizio da quelli
in conto impianto (cosicché non vi sarebbe coincidenza fra i due binomi
interessi indeducibili-deducibili, da un lato, e interessi in conto impianto
o in contro esercizio, dall’altro).
Il dubbio, ovviamente, non riguarda l’idoneità del parametro ad
esprimere con assoluta precisione la distinzione fra le due tipologie di interessi, essendo evidentemente impossibile esigere univocità di significati da un criterio per sua natura forfetario.
Tuttavia, anche un indice indiretto dovrebbe esprimere una correlazione almeno tendenziale. Ed è proprio questo che appare dubbio nel caso della disciplina della capitalizzazione sottile.
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11. Tuttavia, come si diceva, l’idea per cui la nozione di reddito –
sia pure “netto” – può presentarsi variabile secondo le particolari nozioni d’imposta di volta in volta adottate merita attenta considerazione e, a
questo proposito, il riferimento storico è di grande interesse.
Ma non meno significativo è, poi, riflettere sulla circostanza che anche quando si cerca di individuare un criterio “oggettivo” fondato sulla
distinzione fra i costi funzionali all’attività d’impresa o meno, non si può
evitare comunque il riferimento a nozioni di “funzionalità” e di “impresa” necessariamente contingenti.
In realtà, ci sembra di dover sottolineare come le difficoltà che si incontrano a ricondurre la nuova disciplina a sistema, non derivano solo
dal fatto che essa è, appunto, “nuova”, ma esse sono da attribuirsi anche,
e forse specialmente, all’essere, tale disciplina, improntata agli schemi
propri dell’imposta reale, i quali sono molto distanti da quelli in base ai
quali siamo abituati a ragionare e questo ci sembra debba essere tenuto
presente nel valutare gli spunti che seguono.
Volendo solo abbozzare – coerentemente con lo spirito di queste riflessioni le quali sono rivolte più a sollecitare il dibattito che a offrire soluzioni – uno schema di riferimento, si potrebbe partire da una nozione
di costo come sacrificio patrimoniale collegato al (o determinato dal)
compimento di un atto funzionale o inerente all’attività d’impresa, per
esaminare, quindi, a quali logiche – cioè a quale nozione di (reddito di)
impresa – siano ispirate le diverse limitazioni introdotte alla deducibilità
di una determinata categoria di costi.
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In questa prospettiva, le discipline che escludono totalmente la deducibilità della remunerazione dei finanziamenti in qualsiasi forma concessi
all’impresa sembrerebbero risolversi nella negazione dell’inerenza all’impresa degli atti di acquisizione di capitali. Si tratta, evidentemente, di una
nozione che porta alle estreme conseguenze la “realità” dell’impresa per effetto della implicita equiparazione della stessa ad un vero e proprio “cespite” e del reddito da essa derivante ai frutti del cespite medesimo.
All’estremo opposto – in forma più coerente con un assetto personale dell’imposizione – si colloca l’idea della deducibilità di tutti i costi
diversi da quelli relativi all’acquisizione dei capitali propri dell’imprenditore. È chiaro che, in questo caso, si considerano inerenti all’impresa
anche gli atti di acquisizione e di coordinamento dei mezzi finanziari.
Ma è ancor più evidente che tale concezione trova il suo baricentro nella valorizzazione della figura dell’imprenditore in sé, poiché il risultato
dell’attività è individuato con riferimento a quanto residua all’imprenditore per la soddisfazione dei propri bisogni ed interessi.
Se questi sono i due estremi della nozione di risultato dell’impresa,
non sembrerebbe doversi escludere la legittimità di una nozione intermedia, la quale risulterebbe pur sempre improntata alla logica di un tributo reale – in quanto fondata su una nozione di risultato dell’attività oggettivamente considerata in cui si astrae dalla qualificazione soggettiva
(come titolari dell’impresa) di coloro che partecipano ai risultati medesimi – ma non esclude la deducibilità di alcune forme di remunerazione
del capitale investito.
Pur riconoscendosi, cioè, che nell’attività di impresa sono implicati
anche gli atti di acquisizione e coordinamento di finanziamenti, questi
verrebbero distinti in ragione della rispettiva forma di remunerazione,
cioè a seconda che essa abbia carattere incondizionato oppure sia solo
eventuale e correlata al risultato dell’attività medesima.
Ovvero, più precisamente e con maggiore coerenza rispetto alla nozione di “costo” prima prospettata, dai modi di remunerazione verrebbe
desunta la diretta implicazione dell’atto rispetto all’attività (se la remunerazione è incondizionata), oppure la sua estraneità all’attività in quanto tale (se la remunerazione è eventuale e correlata al risultato dell’attività stessa). Nel primo caso il sacrificio patrimoniale determinato dall’atto è “interno” all’attività; nel secondo, proprio perché eventuale, esso si
pone al di fuori della stessa presupponendola tanto nel momento dell’acquisizione dei mezzi finanziari, quanto in quello della loro remunerazione la quale si colloca in un momento logicamente successivo alla conclusione del relativo ciclo.
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Si tratta, peraltro, di una valutazione corrispondente anche a quella
degli interessi propri degli investitori. Tale interesse, in un caso, è definito facendo astrazione dallo svolgimento dell’attività, talché gli investitori si pongono in una posizione di indifferenza e, pertanto, si trovano
(specularmente) in una situazione di estraneità rispetto all’attività medesima. Nell’altro, invece, l’interesse è direttamente correlato all’attività
complessivamente considerata.
Questa prospettiva alquanto empirica potrebbe, poi, essere tradotta
in termini più strettamente giuridici traendo spunto dalle elaborazioni
dottrinali in merito, da un lato, ai negozi parziari e, dall’altro, ai contratti aleatori. Né tale accostamento deve sembrare arbitrario giacché, per un
verso, la comunanza di profili fra contratti aleatori e negozi parziari è
stata spesso sottolineata (e autorevole dottrina individua proprio
nell’aleatorietà della remunerazione il fondamento dei negozi parziari)
(15); per altro verso, i contratti di investimento la cui remunerazione è
indeducibile ai sensi dell’art. 109, comma 9, Tuir si riconducono al paradigma del contratto di associazione in partecipazione il quale, a sua
volta, presenta più di un elemento in comune con i negozi parziari ed è
ritenuto pacificamente un contratto aleatorio (16).
Prendendo le mosse dai negozi parziari, si deve sottolineare come
una diffusa ricostruzione della mezzadria e della soccida – secondo la disciplina del codice civile del 1865 – ha ritenuto che il diritto sul “prodotto” della “cosa” data in concessione al mezzadro ed al soccidario fosse oggetto di un acquisto a titolo originario da parte, certamente, del
mezzadro e del soccidario medesimo nonché, secondo alcuni autori, anche del concedente e del soccidante (17).
Non ha ovviamente senso qui interrogarsi sulla correttezza di tali tesi che interessano, invece, essenzialmente perché pongono nella massima
———————
(15) Si veda, per tutti, N. IRTI, Negozio parziario, in Noviss. dig. it., XI, Torino,
1965, 223 ss.
(16) Sull’aleatorietà del contratto di associazione in partecipazione si vedano, per
tutti, M. BREGLIA., Questioni controverse in tema di contratto parziario, in Riv. dir.
comm., 1922, I, 457 ss. e N. IRTI, Negozio parziario, cit., 230; G. DE FERRA, Della associazione in partecipazione, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G.
Branca, Bologna-Roma, 1973, 15. L’appartenenza del contratto di associazione in partecipazione alla categoria dei negozi parziari è affermata da M. BREGLIA, Questioni controverse in tema di contratto parziario, cit., 487 ed è, invece, negata da N. IRTI, Negozio
parziario, cit., 230 ma solo in ragione del fatto che l’alea, per l’associato, incide non solo sulla remunerazione, ma anche sulla restituzione del capitale.
(17) Per le diverse opinioni vigente il codice del 1865 si veda M. BREGLIA, Questioni controverse in tema di contratto parziario, cit., 461 ss.
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evidenza le conseguenze derivanti dallo spostamento della prospettiva
dalla “attività” produttiva (soggettivamente individuata) alla “cosa” produttiva. Nella seconda prospettiva, infatti, il “prodotto” della cosa è per
definizione estraneo alla cosa medesima e, quindi, si acquista indipendentemente da ogni relazione con il proprietario di essa. E questo colpisce ancora di più se si considera che, mentre nella mezzadria il “prodotto” (ossia i frutti) è pur sempre una res, nella soccida il prodotto (ovvero l’accrescimento del gregge o del bestiame) è un “valore” corrispondendo alla differenza fra la stima dell’universitas prima della concessione e quella finale.
La possibile configurazione del risultato come qualcosa di estraneo
all’attività sussiste, poi, anche nella prospettiva dei contratti aleatori.
Si deve ricordare, infatti, che – pur nelle diverse elaborazioni dogmatiche – la definizione concettuale dei contratti aleatori (18) muove
sempre dall’idea propria del Pothier – al quale è unanimente è attribuita
la sistemazione originaria di questo tipo di contratti in parte poi trasfusa
negli artt. 1104 e 1964 del Code civile (19) – secondo cui sarebbero aleatori i contratti il cui oggetto è costituito dal trasferimento del rischio (20).
Come noto, infatti, la distinzione elaborata dal Pothier fra contratti
commutativi e contratti aleatori (21) s’incentrava sul fatto che, nei primi,
la prestazione ricevuta da un contraente è “l’equivalente della cosa che
egli ha dato o si è obbligato a dare all’altro”, mentre, nei secondi, la pre-
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(18) Ovviamente, ciò vale in primo luogo per i contratti aleatori in cui tale carattere deriva dalla “natura stessa del contratto”, ma l’affermazione vale anche per quelli –
che qui interessano in modo specifico – per i quali l’aleatorietà costituisce conseguenza
della “volontà delle parti”. Sulla distinzione fra le due tipologie e, al tempo stesso,
sull’affievolirsi della stessa là dove l’alea, secondo la volontà delle parti, incida direttamente sull’an ed il quantum della prestazione, si veda R. NICOLÓ , Alea, in Enc. dir., I,
Milano, 1958, 1024 ss.
(19) Per un esame dei rapporti fra la concezione di Pothier e la sistemazione dei
contratti aleatori nel Code Napoleon (con la citazione di un ampio stralcio della relazione di Portalis) si veda G. RIDOLFI, Alea, Aleatorii (contratti), in Dig. it., II, 2, Torino,
1893, 266 ss.
(20) Nella dottrina più risalente, tale aspetto è indiscusso: cfr. G. RIDOLFI, Alea,
Aleatorii (contratti), cit., passim. Ma esso viene ripreso anche nella dottrina italiana più
recente, sia espressamente (cfr., p. es., A. BOSELLI, Alea, in Noviss. dig. it., I, Torino,
1957, 468 ss.), sia in termini più sfumati, da coloro che valorizzano l’aspetto funzionale
dei contratti aleatori (p. es. A. GAMBINO, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964).
(21) Secondo uno schema che, non accolto dalla pandettisca tedesca, venne comunque ripreso nel codice del 1942. Cfr., sul punto, E. GABRIELLI, Alea, in Enc. giur. it.,
I, Roma, 2000, 6.
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stazione ricevuta è l’equivalente “del rischio che egli si è addossato”
(22). Con la conseguenza che anche i contratti di finanziamento, quando
nel loro schema causale venga inserito il carattere dell’aleatorietà, assumono la funzione essenziale di trasferire il rischio: significativo, in tal
senso, è l’immediato accostamento operato già nell’art. 1964 Code Civile, fra “contrat de assurance” e “prêt à grosse aventure” (23) (24).
Partendo da questa premessa, sembra possibile ulteriormente argomentare che, laddove l’evento incerto sia costituito dal risultato complessivo dell’attività d’impresa, il rischio trasferito (in funzione del quale viene, quindi, sopportato il relativo sacrificio patrimoniale) non riguarderebbe un singolo atto, bensì l’attività nel suo complesso: cosicché, ad esempio, si è detto che nell’associazione in partecipazione, l’interesse dell’associante è quello della conservazione dell’efficienza e della funzionalità
(dell’impresa complessivamente considerata) e nella costituzione di riserve (25). Talché, proprio in questa prospettiva, il suddetto sacrificio economico – sempre riguardato nell’ottica di un’imposta reale – dovrebbe
considerarsi correlato ad un atto “esterno” rispetto all’attività produttiva
(26) e, quindi, non configurabile come un costo deducibile (27).
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(22) La citazione dell’espressione si trova in E. GABRIELLI, Alea, cit., 8.
(23) Analogo accostamento è mantenuto, poi, nell’art. 1102 del codice del 1865.
(24) Non è senza rilievo, ai nostri fini, ricordare gli stretti rapporti intercorrenti fra
il “prestito a tutto rischio” ovvero “a cambio marittimo” ed il contratto di associazione
in partecipazione. Si vedano, sul punto, V.E. PAOLI, Prestito a cambio marittimo (diritto
antico), in Nuovo dig. it., X, Torino, 1939, 317 ss. e G. CAMPANINO, Prestito a cambio
marittimo, in Nuovo dig. it., X, Torino, 1939, 319 ss.
(25) In questo senso, testualmente, G. DE FERRA, Della associazione in partecipazione, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1973, 10.
(26) Forse, uno spunto in tal senso, potrebbe essere implicito nell’affermazione di
N. IRTI, Negozio parziario, cit., 227 secondo cui “la clausola parziaria … compromette
la norma straneità del compenso alle sorti dell’impresa”. L’autore non sviluppa tale affermazione perché metodologicamente indifferente ai profili economico-sociali dei tipi
contrattuali (che, invece, caratterizzavano, come sottolinea criticamente lo stesso Irti,
l’analisi del Breglia). Ma non sembra fuori luogo rilevare che al venir meno della “straneità” dell'associato rispetto all'attività d'impresa, corrisponda, in modo speculare, la perdita del carattere puramente “interno” dell'atto di acquisizione di capitali operato dall'associante ed il suo collocarsi a monte e all'esterno dell'impresa complessivamente considerata.
(27) La non “inerenza” all’attività di atti dispositivi riguardanti l’azienda nel suo
complesso è stata da ultimo rilevata da A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in questa Rivista, 2003, 865 ss. e non sembra improprio estendere la medesima
qualificazione anche agli atti che riguardino l’attività complessivamente considerata.
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Se questo schema risultasse accettabile, se ne potrebbe trarre, al
tempo stesso una spiegazione dell’attuale regime e una conferma del carattere più spiccatamente reale dell’Ires, essendo evidente che è proprio
quella descritta la soluzione adottata dalla riforma appena realizzata.
Come si sarà notato, ci siamo limitati ad alcuni spunti essenziali che
mirano non a offrire una soluzione – per la quale occorrerebbe ben altra
dimostrazione – quanto a dimostrare la molteplicità delle prospettive di
analisi offerte dalla nuova disciplina sperando che ciò possa stimolare,
insieme alle critiche, anche gli ulteriori approfondimenti in vista di
un’adeguata sistemazione concettuale dei nuovi istituti.
Si deve, infine, precisare che, agli effetti della verifica dell’ipotesi
ricostruttiva appena prospettata, sembrerebbe comunque necessario tenere distinti due diversi profili della riforma.
Da un lato, infatti, vi è il problema della accettabilità di una nozione di utili da partecipazione – e della loro distinzione rispetto agli interessi – fondata sul solo criterio della forma di remunerazione (ovvero
astraendo completamente dalla titolarità dei diritti “amministrativi”).
Dall’altro lato, si deve considerare la logica sottesa alla generalizzata estensione di tale criterio distintivo a qualsiasi forma di finanziamento.
In questo secondo caso, infatti, potrebbe non essere estranea alla
scelta del legislatore la valorizzazione di esigenze di tipo antielusivo e,
quindi, sotto tale profilo, l’esistenza di alcune incongruenze con lo schema di riferimento non determinerebbe, necessariamente, la sua inapplicabilità poiché esso continuerebbe ad avere il suo centro di riferimento
nella omologazione di tutti gli apporti di capitale a forme tendenzialmente indifferenziate di investimento – con la conseguente equiparazione del livello di tassazione dell’investitore ossia con la eliminazione,
quale effetto della svalutazione del profilo partecipativo, di ogni considerazione della previa tassazione del reddito societario – e, al tempo stesso, nella differente disciplina della deducibilità della remunerazione medesima dal reddito d’impresa in dipendenza della accentuazione dei profili di realità del tributo e della nozione di attività di impresa accolta.
GUGLIELMO FRANSONI
Gli inusuali ambiti dell'autotutela in materia tributaria
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SOMMARIO: - 1. Nozione di autotutela. - 2. Esercizio del potere di autotutela nell’ambito di rapporti pendenti o esauriti. - 3. Eventuale presentazione dell’istanza da parte del contribuente e obbligo dell’amministrazione finanziaria di comunicare l’esito del procedimento di riesame. - 4. Considerazioni conclusive.
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1. Nozione di autotutela. - Licenziando la voce autotutela (1), fornii
una definizione dell’istituto perfettamente coerente con il disposto
dell’art. 68, comma 1, DPR 27 marzo 1992, n. 287, recante il regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze [a quel momento il referente normativo sicuramente più significativo per individuarne gli ambiti operativi, abrogato poi dall’art. 23 del DPR 26 marzo
2001, n. 107] in termini di “jus poenitendi dell’amministrazione finanziaria, cioè quale attività amministrativa di secondo grado in funzione
della sanatoria di provvedimenti per qualsiasi verso illegittimi e/o infondati”.
Trascorsi solo pochi anni, devo preliminarmente prendere atto del
netto straripamento dal delineato alveo per effetto dell’ingresso in scena
di ulteriori referenti normativi ed attuativi di natura regolamentare; e segnatamente:
a) il regolamento, recante “norme per l’individuazione degli organi
dell’amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di
autotutela e disciplina della relativa procedura” (decreto 11 febbraio
1997, n. 37 (2), emanato in esecuzione dell’art. 2-quater, comma 1, legge 30 novembre 1994, n. 656), include nella nozione di autotutela la (attività di) mera “rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento”
(art. 1, comma 1) affiancandola, per l’appunto, al generale potere di “an———————
(1) S. MUSCARÀ, Autotutela, V) Diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, IV, Roma,
1996.
(2) Il regolamento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 5 marzo 1997, n.
53; vd., anche, in questa Rivista, 1997, III, 342, e in Boll. trib., 1997, 386.
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nullamento e di revoca” di provvedimenti illegittimi e/o infondati (di già
contemplato dall’art. 68 con il solo limite che sull’atto non “sia intervenuto giudicato”) (3).
La fonte propositiva dell’estensione è istituzionalmente autorevole
siccome costituita dal parere consultivo fornito dall’adunanza generale
del Consiglio di Stato alla bozza del regolamento (parere 28 novembre
1996), laddove si osserva che “l’accertamento dell’obbligo tributario”
può anche prescindere “dall’adozione di atti specifici da parte dell’amministrazione (finanziaria)”, indicazione successivamente tradotta dal
Ministero delle finanze nella locuzione suindicata.
In realtà, gli effetti della disposizione attuativa risultano, sul piano
strettamente concettuale, parecchio insoddisfacenti.
Ciò non tanto, o non solo, perché viene riesumata (4) una nozione
(“autoaccertamento”) che suona una sorta di contraddizione in termini, in
quanto evoca l’essenza della funzione amministrativa di imposizione riferendola, impropriamente, all’attività (doverosa in quanto prescritta dalla legge) del contribuente di adempimento degli obblighi tributari, quanto perché, in tal modo, l’attività di autotutela viene forzatamente estesa
alla procedura di controllo amministrativo del corretto adempimento da
parte del contribuente degli obblighi fiscali (5).
Si travalica, in tal modo, il solco comunemente tracciato per l’auto-
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(3) Tra i numerosi commenti al contenuto (e alla filosofia) del regolamento, vd., tra
gli altri, V. FICARI, Pregi e difetti della disciplina regolamentare dell’autotutela dell’amministrazione finanziaria, in Rass. trib., 1997, 349 ss.; D. STEVANATO, Autotutela e mediazione di esigenze in conflitto: note a margine del regolamento ministeriale, in questa
Rivista, 1997, I, 139 ss.; in argomento, vd., anche Circ. Dir. delle Entrate per la Provincia autonoma di Trento - servizio I - Divisione I, n. 9282 del 12 marzo 1997, richiamata dalla Circ. Dip. Entrate - Ufficio del Direttore Generale, n. 195/E4762/UDC dell’8 luglio 1997, in Fisco, 1997, 8578 ss.
(4) A. BERLIRI, Corso istituzionale di diritto tributario, I, Milano, 1985, 261; G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto finanziario, Padova, 1937, 135-136; A.D. GIANNINI, Il rapporto giuridico di imposta, Milano, 1937, 230; Id., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 291; B. COCIVERA, Accertamento tributario, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 250; esprimono posizioni critiche, A.F. BASCIU - E. NUZZO, Autoliquidazione
del tributo, in Enc. giur. Treccani, IV, Roma, 1991, 2. Adotta tuttora, ma solo descrittivamente, tale espressione, G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale, IV
ed., Padova, 2003, 346;
(5) In tale (distorta) ottica, la Comm. centr., sez. XVI, 27 settembre 1999, n. 5500,
in Giur. imp., 2000, 36, ed ivi nota di G. CONTESTABILE, ha ritenuto che “la norma
dell’art. 36 bis del DPR n. 600/1972, consente all’ufficio, nell’esercizio del potere di autotutela, di porre rimedio all’errore, immediatamente percettibile in base alla dichiarazione e agli allegati, in cui sia incorso il contribuente”.
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tutela in termini di riesame critico da parte dell’amministrazione del proprio operato (quindi, attività di secondo grado); non più (o non solo) un
ripiegarsi su sé stessa della funzione impositiva onde correggerne gli esiti distorti (6), bensì una generica estensione all’attività (di primo grado)
di verifica della correttezza dell’operato del contribuente.
Peraltro, l’accostamento dei due concetti risulta alquanto singolare:
la locuzione “rinuncia all’imposizione” (con le inevitabili perplessità che
il concetto di rinuncia immediatamente solleva in riferimento a obbligazioni pubbliche (7)) è equivoca e, probabilmente, fuorviante, atteso che
la natura dell’attività alla quale si allude è volta, semmai, al “corretto”
esercizio del prelievo (e non certo alla “rinuncia”).
Nella fattispecie, in realtà, non ricorrono né la imposizione (che
l’amministrazione non ha ancora attuata) né, tantomeno, la rinuncia, sebbene segmenti di funzione amministrativa primaria esercitati in ossequio
a criteri di correttezza, buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.)
che devono imprescindibilmente connotare l’agire dell’amministrazione,
di per sé comunque fondamentalmente estranei alla nozione classica di
autotutela.
Il punto di riferimento essenziale della locuzione risulta l’istituto
della dichiarazione; e della stessa è opportuno, innanzitutto, focalizzarne
la portata operativa.
Si allude, sotto un primo profilo, all’idoneità dell’atto del contribuente a costituire il titolo sostanziale della riscossione (anche forzata, se
del caso) sicché le somme, in quanto scaturenti dalla dichiarazione, sono
per ciò stesso considerate “dovute”, anche se tali effettivamente non siano (sia che siano state versate, come per legge, dal contribuente all’atto
della presentazione della dichiarazione sia che si debbano ancora riscuotere dall’amministrazione mediante atto di iscrizione a ruolo).
———————
(6) A. QUARANTA, L’autotutela nell’attività dell’amministrazione finanziaria e i diritti del contribuente, in “Scritti in memoria di Aldo Piras”, Milano, 1996, 550 ss.; Id.,
L’autotutela amministrativa, in Riv. guardia finanza 1999, 1507 ss.; V. FICARI, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999, 30; A. DE FAZIO, La Commissione tributaria regionale eccepisce l’incostituzionalità della disciplina degli avvisi di
accertamento integrativi o modificativi, in questa Rivista, 2003, II, 901 ss.
(7) Cfr. V. FICARI, Pregi e difetti della disciplina regolamentare dell’autotutela
dell’amministrazione finanziaria, cit., 349. L’autore ritiene che la previsione metta “energicamente in crisi il principio dell’indisponibilità del credito”. Probabilmente il timore
appare eccessivo ove si consideri che la fattispecie riguarda semplicemente la fase del
controllo dell’operato del contribuente, allo scopo di adeguare perfettamente l’ammontare dell’imposta versata ai dati dichiarati.
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Muovendo da tale premessa, non a caso una serie di ipotesi (anzi la
maggior parte) all’interno della casistica contenuta nel comma 1 dell’art.
2 del regolamento [lett. b) evidente errore logico o di calcolo; lett. c) errore sul presupposto dell’imposta; lett. e) mancata considerazione di pagamenti di imposta, regolarmente eseguiti; lett. f) mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza;
lett. g) sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati; lett. h) errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile dall’amministrazione] richiamano (anche o principalmente) il procedimento di “correzione” della liquidazione
dell’imposta siccome erroneamente effettuata dal contribuente (sul versante, specificamente, dell’attività di controllo della liquidazione della
dichiarazione con esiti favorevoli al contribuente stesso).
Ma, a questo punto, non si può limitare il concetto esclusivamente all’intervento amministrativo d’ufficio, allorché l’errore del contribuente sia
“facilmente riconoscibile”, ma, inevitabilmente, deve essere generalizzato all’intera attività di rimborso (ancorché promossa a seguito di istanza
del contribuente in relazione, anche, ad elementi non compresi nella dichiarazione, secondo le condivisibili indicazioni da ultimo dettate dalle
sezioni unite della Cassazione (8)) istituendo, in tal modo, un discutibile
contrappunto tra attività di rimborso (del dichiarato) e rinuncia (all’imposizione).
Si sarebbe indotti a ritenere, in tal modo, che la funzione di liquidazione possieda una natura ambivalente a seconda degli esiti del procedimento: se sfavorevoli al contribuente, graviterebbe nell’orbita dell’imposizione (in senso lato) (9); di contro, se favorevoli, dovrebbe concettualmente ascriversi alla funzione di autotutela, istituendo una sorta di doppio binario di dubbia coerenza sistematica (o meglio: di indubbia incoerenza sistematica).
Per altro verso, in determinati casi, l’attività di autotutela investe la
funzione di liquidazione della dichiarazione anche con esiti sfavorevoli
al contribuente.
———————
(8) Cass., SS.UU., 25 ottobre 2002, n. 15063, in questa Rivista, 2003, II, 91, ed ivi
R. BAGGIO, La posizione delle Sezioni Unite sull’emendabilità della dichiarazione tributaria; anche in Dir. prat. trib., 2003, II, 1109, ed ivi R. SUCCIO, Le sezioni unite della
Cassazione si pronunciano a favore della emendabilità della dichiarazione da parte del
contribuente.
(9) Si devono pur sempre distinguere le funzioni di liquidazione e di imposizione
in quanto possiedono connotati giuridici diversi, sebbene la legge, piuttosto forzatamente, tenda ad accomunare gli effetti dello stato di inopponibilità dei relativi atti.
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A tal proposito, come è noto, al sistema è stata impressa una positiva evoluzione: il legislatore ha garantito l’attuazione del principio del
contraddittorio imponendo all’ufficio di comunicare gli esiti del controllo cd. formale allorché in contrasto con il contenuto della dichiarazione.
Nell’ipotesi che i “chiarimenti” forniti dal contribuente persuadano
l’ufficio a desistere (in tutto o in parte) dalla pretesa ancora solo abbozzata, si darebbe luogo ad un’attività (di rinuncia) in autotutela (10).
Tale impostazione, della quale l’interprete prende atto con non poco
disagio, risulta normativamente sancita dall’art. 2 DL 18 dicembre 1997,
n. 462 (11), come modificato dal comma 2 dell’art. 3 D.Lgs. 26 gennaio
2001, n. 32, che inscrive, per l’appunto, nell’attività di autotutela anche
l’ipotesi di “iscrizione a ruolo non eseguita in tutto o in parte” per effetto dei ripensamenti dell’amministrazione finanziaria “a seguito dei chiarimenti forniti dal contribuente o dal sostituto d’imposta” in base alla
normativa dettata dagli artt. 36 bis e 54 bis rispettivamente dei DPR n.
600/1973 e n. 633/1972 (12).
Inscrivere nella funzione di autotutela l’attività istruttoria relativa alla liquidazione dell’imposta scaturente dalla dichiarazione (prescindendo
dall’esito della stessa, pro o contra il contribuente) rappresenta operazione concettualmente non corretta ancorché operativamente poco significativa.
In definitiva, l’attività di autotutela che nella vigenza dell’art. 68 e
del comma 1 dell’art. 2-quater poteva essere definita nei termini illustrati in premessa, ha rotto decisamente gli argini andando discutibilmente
ad invadere le funzioni di liquidazione delle imposte dovute in base alla
dichiarazione e di rimborso delle somme indebitamente versate dal contribuente.
A stretto rigore rimane tuttora estranea alla sfera operativa dell’au———————
(10) In tale contesto, la Circ. Dir. Centr. Affari amministrativi, 11 luglio 2000, n.
143/E/II/2/152617/2000, in questa Rivista, 2000, II, 489, ritiene annullabili in via di autotutela le comunicazioni (cd. avvisi bonari) emesse ai sensi degli artt. 36 bis DPR n.
600/1973 e 56 n. 633/1972.
(11) Una disposizione analoga è quella prevista dal D.Lgs. n. 99/2000 che, con
l’art. 2, comma 1, lett. f), ha modificato l’art. 25 del D.Lgs. n. 472/1997. Tale disposizione prevede la possibilità di rideterminazione in sede di autotutela di somme iscritte in
ruoli resi esecutivi entro il 31 dicembre 2000 a seguito di controllo formale delle dichiarazioni presentate dal 1994 al 1998, e contempla, tuttavia, una fase in cui il procedimento di liquidazione si è di già esaurito con l’emissione dell’atto di iscrizione a ruolo.
(12) In argomento, M.V. SERRANÒ , In tema di ripercussione degli effetti dell’autotutela sugli atti-presupposto, in questa Rivista, 2000, II, 549.
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totutela (perché rientrante, a pieno titolo, nella funzione impositiva vera
e propria), l’attività di valutazione dei contributi istruttori di organi esterni all’amministrazione finanziaria, quali i PVC della Guardia di finanza
ovvero le stime dell’Agenzia del territorio (ex UTE), o degli uffici tecnici dei Comuni, siccome organi istituzionalmente estranei agli uffici
erariali, incaricati di fornire elementi di valutazione di per sé sottoposti
al vaglio critico dall’amministrazione finanziaria per essere eventualmente fatti propri (in tutto o in parte) e, quindi, trasfusi nei provvedimenti impositivi (13).
Nel lumeggiato contesto, quindi, rappresenta pur sempre un’imprecisione sostenere che le decisioni amministrative assunte sulla base degli
atti sopra indicati ovvero delle osservazioni e delle richieste del contribuente (ad es. quelle depositate entro 60 gg. dalla comunicazione di
chiusura del PVC ex art. 12 legge 27 luglio 2000, n. 212), formulate allo scopo di contribuire a formare una (diversa) valutazione degli uffici
(14), rientrino nella nozione di autotutela.
Nella fattispecie, infatti, non sono riscontrabili né un versamento del
contribuente (per effetto di autoaccertamento) al quale l’amministrazione finanziaria “rinuncia” (perché indebito), né una pretesa (ancora del
tutto in fieri) in quanto l’atto è formato da un organo esterno al fine
esclusivo di contribuire alla formazione del corretto convincimento
dell’amministrazione finanziaria.
D’altra parte se l’interprete procede ad indebite estensioni della nozione (già di per sé debordante dall’alveo comunemente segnato dal di-
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(13) Di contrario avviso, C. MONTUORI, Rinuncia all’imposizione in caso di rettifica derivante da processo verbale di constatazione affetto da vizio di legittimità. L’autotutela non è un optional, in Fisco, 1999, 792; G. MAINOLFI - M. PISANI, L’esercizio
dell’autotutela nei confronti degli atti della Polizia tributaria, in Corr. trib., 2000, 2184;
S. SEBASTIANI, Invalidità dell’atto di accertamento e jus poenitendi dell’amministrazione
finanziaria, in questa Rivista, 2002, I, 987, il quale inquadra la fattispecie in termini di
“realizzazione in via preventiva” del potere di autotutela. In argomento, vd., anche, D.
STEVANATO, Tutela dell’affidamento e limiti all’accertamento del tributo, in Rass. trib.,
2003, 815 ss.; M.V. SERRANÒ , In tema di ripercussione degli effetti dell’autotutela sugli
atti-presupposto, cit., 549; S. MORONI - T. MORINA, L’ufficio Iva ha applicato il decreto
37/97 non dando corso a una verifica infondata. Autotutela: archiviati a Siracusa verbali per un miliardo e mezzo, in Il Sole-24 Ore, Norme e tributi, 20 agosto 1997, 13, per
i quali “la rinuncia alla emissione di un atto impositivo... è una decisione di autotutela
dell’amministrazione finanziaria”.
(14) In argomento, vd., S. SAMMARTINO, I diritti del contribuente nella fase delle
verifiche fiscali, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Gianni Marongiu, Torino, 2004, 125 ss.
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ritto pubblico), l’autotutela si trasforma, addirittura, in un confuso sinonimo dello stesso esercizio dell’attività impositiva di primo grado, perdendo qualsiasi utile connotato di settore (15).
b) Un altro (duro) colpo alla nozione di autotutela è stato inferto
dall’art. 27 legge 18 febbraio 1999, n. 28, che ha introdotto il comma 1
bis all’art. 2-quater legge 30 settembre 1994, n. 564, secondo il quale
nella nozione di autotutela deve essere ricompreso anche “il potere di sospendere l’efficacia dell’atto”.
L’estensione è volta a colmare un vuoto di potere degli uffici venutosi a determinare nel momento stesso in cui veniva loro attribuito il potere di annullamento d’ufficio del provvedimento emanato (addirittura
anche di quello divenuto definitivo), mentre rimanevano sorprendentemente privi del potere di sospendere l’efficacia esecutoria dell’atto, ancorché si trattasse di una funzione di spessore meno intenso in relazione
agli interessi erariali (16).
Entrambe (funzione di autotutela e attività di sospensione) rappresentano espressioni dell’attività di riesame dei provvedimenti impositivi,
ma solo forzatamente, anche in tal caso, si può ritenere che quella volta
alla (momentanea) sospensione degli effetti del provvedimento costituisca attività di per sé “ricompresa” nell’autotutela, siccome poteri che
producono effetti diversi e non necessariamente collegati: l’uno mantiene in vita il provvedimento, neutralizzandone momentaneamente solo
l’efficacia esecutoria; l’altro, di converso, consegue definitivamente effetti ablatori (17).
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(15) A tale risultato perviene I. MANZONI, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’Iva, Milano, 1993, 4, per il quale l’atto di accertamento rappresenta una manifestazione di autotutela della pubblica amministrazione (in
attuazione di un generico e amorfo “farsi ragione da sé”), recependo de plano l’isolata
opinione svalutativa della nozione espressa da A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 174.
(16) S. MUSCARÀ, Art. 27 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, ovvero, dopo le cartelle pazze, le norme bizzarre, in Rass. trib., 2000, 28; contra, G. GAFFURI, Lezioni di Diritto Tributario, Parte generale e compendio della parte speciale, IV ed., Padova, 2002,
155, secondo il quale, invece, “l’art. 27 rende esplicito un principio già presente nel sistema” (il che è esatto per l’ordinamento amministrativo ma non lo era per quello tributario).
(17) Amplius, S. MUSCARÀ, Art. 27 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, cit., 27;
contra, A. BETTI, Autotutela e sospensione degli effetti dell’atto illegittimo o infondato,
in Azienditalia, finanza e tributi, 1999, 386; M.V. SERRANÒ , Considerazioni sull’autotutela tributaria alla luce della legge n. 28/1999 (cosiddetto omnibus fiscale), in Boll. trib.,
1999, 629.
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Una fattispecie applicativa del principio espresso nel comma 1 bis è
fornita, poi, dal comma 1 quinquies che disciplina “la sospensione degli
effetti dell’atto disposta anteriormente alla proposizione del ricorso giurisdizionale” prevedendo, inoltre, la (necessaria) emanazione “di un nuovo atto, modificativo o confermativo di quello sospeso”.
Attività, questa, quindi, di puro riesame atteso che può ordinariamente sfociare nell’emanazione di un atto sostitutivo pienamente confermativo del precedente e, come tale, rinnovativo della pretesa escludendosi, in tal modo, qualsiasi profilo di illegittimità (anche puramente formale) dell’atto sostituito (18).
L’autotutela, in questa specifica ipotesi, pertanto, equivale ad attività
di mero riesame prescindendo del tutto dai profili di sanatoria di vizi del
provvedimento.
In tal fatta la nozione di autotutela ha acquistato tratti peculiari di
settore nel contesto del diritto pubblico.
In definitiva, la nozione di autotutela nella materia tributaria annovera, attualmente, il potere di sospendere l’efficacia esecutoria del provvedimento impositivo, quello di revoca e di annullamento di provvedimenti illegittimi o infondati (attività di riesame che è volta alla sanatoria
di provvedimenti invalidi) e, puranco, la funzione di controllo della liquidazione della dichiarazione (sia con esiti favorevoli che sfavorevoli al
contribuente) e, infine, l’attività di rimborso di somme indebitamente riscosse (ancorché spontaneamente versate dal contribuente) in sede di dichiarazione.
Come è facile constatare, il legislatore ha tracciato un ambito operativo particolarmente confuso e affastellato, in seno al quale convivono
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(18) L’esegesi secondo cui “la norma... istituisce uno spatium deliberandi durante
il quale il termine (perentorio) è interrotto ed inizia a decorrere ex novo solo con la (necessitata) notifica del nuovo atto nei cui confronti il contribuente, se lo ritiene, potrà proporre ricorso” (S. MUSCARÀ, Art. 27 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, cit., 30 ss.) non
è condivisa da F. D’AYALA VALVA, L’attivazione delle “procedure” di autotutela tributaria, in questa Rivista, 2004, I, 174, secondo il quale, invece, “la norma non dice se la
sospensione dell’efficacia comporti anche la sospensione dei termini per l’impugnativa
giurisdizionale; in assenza si deve ritenere che, in ogni caso, l’atto debba essere impugnato nei termini”. In tal modo si vanifica, però, l’intento legislativo di consentire l’impugnazione dell’originario atto in occasione dell’impugnazione del (necessitato) provvedimento successivo (secondo i noti meccanismi della tutela differita). L’obiettivo primario della (singolare) normativa appare, infatti, quello di eliminare la necessità del contribuente di impugnare l’atto (ancorché sospeso) nel termine decadenziale concedendo, in
tal modo, all’amministrazione agio di provvedere “in autotutela” senza l’assillo di subire un’impugnativa (probabilmente) vincente.
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(infelicemente) vuoi poteri di riesame amministrativo di comportamenti
contra legem vuoi poteri decisori di primo grado; questi ultimi poco o
nulla hanno a che spartire, in realtà, con la istituzionale nozione di autotutela amministrativa.
Allo scopo di delineare, infine, la portata della nozione, anche sotto
un profilo storico, giova chiarire una sorta di equivoco: si legge spesso,
in argomento (in tal senso anche una miriade di articoli apparsi sul quotidiano Il Sole-24 Ore), che l’istituto dell’autotutela sia stato introdotto
nel sistema tributario per effetto dell’art. 68 del DPR n. 287/1992 (19) o,
anche, dell’art. 2-quater legge n. 656/1994 (20); si ritiene da altri, di converso, che il potere d’annullamento d’ufficio sia sempre immanente o
“organico” al potere di amministrazione attiva, ancorché scarsamente
utilizzato in passato dall’amministrazione finanziaria, del tutto restía a
riconoscere, per intuibili ragioni, i propri errori (21).
Tesi entrambe esatte – ancorché apparentemente in contraddizione –
a condizione di puntualizzarne portata e contesto.
Per un verso, infatti, non può essere revocata in dubbio, in generale,
l’immanenza del potere amministrativo di emanare un contrarius actus
(22), vale a dire la naturale attribuzione all’amministrazione di fare e di
disfare, quindi di agire e di rivedere criticamente, se del caso, il proprio
operato onde correggerlo (lo impongono, s’intende, gli istituzionali fini
di legalità e correttezza dell’agire amministrativo).
Ma tale prospettazione deve (rectius: doveva) essere riferita (e limitata), in diritto tributario, ai rapporti cd. pendenti.
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(19) E. DE MITA, Principi di diritto tributario, II ed., Milano, 2000, 39; U. PERRUCCI, L’autotutela tributaria e il suo diniego di fronte alla verifica giurisdizionale, in
Fisco, 2000, 4472; S. SEBASTIANI, Invalidità dell’atto di accertamento e jus poenitendi
dell’amministrazione finanziaria, cit., 987; M.V. SERRANÒ , L’autotutela in diritto tributario, in Lineamenti di Diritto Tributario, a cura di Luigi Ferlazzo Natoli, Milano, 2003,
94; G. DE LUCA, Diritto tributario, XIV ed., Napoli, 2000, 82; M. A. GALEOTTI FLORI,
L’autotutela, in I tributi in Italia, IV ed., Padova, 1999, 141.
(20) L. FERLAZZO NATOLI, Corso di diritto tributario, Parte generale, Milano, 1997,
156.
(21) In argomento, G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., 367; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, terza edizione, Torino, 2003, 494; E. ROSINI, L’autotutela tributaria: un ricorso in opposizione?, in Rass. trib., 2002, 845. Opportunamente L. DEL
FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo
studio della prospettiva italiana, ed. provv., Pescara, 2003, 80, rileva la “riscoperta
dell’autotutela” operata in questi ultimi anni.
(22) In argomento, S. LA ROSA, Autotutela e annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari, in questa Rivista, 1998, I, 1148; R. VILLATA, L’atto amministrativo, in
Diritto amm., a cura di L. Mazzarolli, Bologna, 1998, passim.
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È altrettanto scontato, per altro verso, che la normativa innanzi richiamata risulta assolutamente originale, se non addirittura rivoluzionaria, per ciò che attiene ai rapporti cd. esauriti: anteriormente all’introduzione dell’art. 68, infatti, fortemente influenzata (sia pure impropriamente) dal principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, la regola ordinaria era quella secondo la quale all’amministrazione finanziaria
era assolutamente inibito rinunziare agli effetti di un provvedimento
inoppugnabile siccome giuridicamente equiparabile agli effetti della sentenza passata in cosa giudicata (23); e tale conclusione era definitivamente avvalorata proprio dalla normativa – assolutamente eccezionale –
mediante la quale il legislatore attribuiva espressamente all’amministrazione il potere di annullamento d’ufficio a fronte di provvedimenti definitivi (24).
Pertanto la normativa commentata esprime, in un unico e amorfo
contesto, una singolare ambivalenza: meramente riproduttiva di principi
generali (per i rapporti pendenti) e, al contempo, assolutamente innovativa di poteri per l’innanzi disconosciuti (relativamente ai rapporti esauriti).
Sicché l’effetto profondamente originale (ancorché del tutto inaspettato (25)) è stato, in realtà, introdotto dall’art. 68, nel momento in cui ha
generalizzato il potere di intervento caducatorio anche ai provvedimenti
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(23) A. BERLIRI, Corso istituzionale di diritto tributario, cit., 322. Insiste, di recente, sull’equiparazione, S. SEBASTIANI, Invalidità dell’atto di accertamento e jus poenitendi dell’amministrazione finanziaria, cit., 990.
(24) Cfr. art. 34 RD 30 dicembre 1923, n. 3269, in materia di imposta di registro;
art. 37 RD 30 dicembre 1923, n. 3270, in materia di imposta di successioni e donazioni;
art. 11, D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, concernente il riordinamento degli istituti doganali e la revisione delle procedure di accertamento. In argomento, vd. A. UCKMAR, La
legge di registro, I, Padova, 1953, 440; D. REGAZZONI, La riduzione dei valori definitivamente accertati, in Dir. prat. trib., 1976, I, 511; BATTISTA - JAMMARINO, Commento alla legge sulle tasse di registro, I, Torino, 1935, 238; G. AMADIO, Se possa l’amministrazione notificare un nuovo accertamento di maggior valore, dopo che il valore accertato
sia divenuto definitivo per mancata opposizione, in Riv. leg. fisc., 1950, 1 ss.; G. PROVINI, Autotutela dei diritti della pubblica amministrazione e irrevocabilità dell’avviso di
accertamento, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1952, II, 225.
(25) Gli addetti ai lavori si attendevano, più semplicemente, un richiamo al potere
di autotutela (e una normativa regolamentare in ordine all’esercizio del potere da parte
dello stesso ufficio che ha emanato il provvedimento illegittimo), onde stimolarne la pratica da parte dell’amministrazione finanziaria, anche al fine di conseguire l’obiettivo di
deflazionare l’imponente contenzioso pendente; ha (positivamente) stupito l’estensione
del potere di annullamento anche agli atti divenuti definitivi, il che prospetta, però, problematiche interpretative estremamente delicate.
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inoppugnabili, sull’onda di un processo di democratizzazione del rapporto fisco-contribuente che ha finito per travolgere un argine fino ad allora considerato invalicabile.
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2. Esercizio del potere di autotutela nell’ambito di rapporti pendenti o esauriti. - In limine all’indagine giova porre una premessa sistematica che condiziona, inesorabilmente, lo sviluppo dimostrativo della ricerca.
L’interprete deve assumere, a monte, una nozione di teoria generale, qual è l’autotutela (sia pure fortemente arricchita in diritto pubblico
di contenuti di matrice giurisprudenziale), secondo i connotati che la caratterizzano ed indagarne, poi, le eventuali varianti normative introdotte
nella materia specialistica.
Si introduce in tal modo, un iniziale elemento di chiarezza in un argomento nel quale – proprio perché non sempre è convenientemente apprezzata la matrice di teoria generale – tutte le potenziali opzioni argomentative sono state tranquillamente coltivate, con un inevitabile senso
di disagio in chi si approssima al tema.
Il concetto di fondo è rappresentato dalla constatazione che l’autotutela costituisce un territorio esclusivo (rectius: una riserva) nel contesto dell’attività amministrativa, nel senso che rappresenta un segmento
del potere svolto nell’esclusivo interesse della stessa amministrazione la
quale corregge, se del caso, errori precedentemente commessi; il che
può, solo indirettamente e del tutto occasionalmente, procurare un vantaggio al privato.
Ciò comporta che tale specifica funzione amministrativa non deve
essere osservata dall’ottica dell’interesse del privato contribuente (26)
ma fondamentalmente da quello dell’interesse pubblico al corretto esercizio della funzione amministrativa (27); tale premessa comporta, a mo'
di corollari, tra l’altro, l’inquadramento dell’autotutela nell’area delle attività discrezionali (28), il fatto che l’amministrazione può attivarla in
———————
(26) Da tale angolo visuale si pongono pregiudizialmente numerosi autori, tra gli
altri, D. STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996, passim; M. STIPO, Osservazioni in tema
d’autotutela dell’Amministrazione finanziaria a favore del contribuente, in Rass. trib.,
1999, 705 ss.
(27) In argomento, vd. F. BENVENUTI, Autotutela (diritto amministrativo), in Enc.
dir., IV, Milano, 1959, 544.
(28) Giurisprudenza univoca: cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 22 settembre 1993,
n. 926, in Giur. it., 1994, III, 1, 170; Cons. St., sez. VI, 19 luglio 1994, n. 1241, in Rass.
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qualsiasi momento, che l’eventuale istanza prodotta dal privato non comporta l’obbligo di avviare il procedimento (e, quindi, di comunicare il
provvedimento negativo adottato in autotutela).
Questi ultimi concetti sono sintetizzati dalla osservazione che
all’esercizio dell’autotutela risultano inevitabilmente estranee, in via ordinaria, problematiche di tutela giurisdizionale (vale a dire che il privato
non vanta alcuna significativa posizione giuridica da far valere in giudizio: cd. interesse di mero fatto (29)).
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Cons. St., 1994, I, 1125; Cons. St., sez. I, 9 aprile 1997, n. 372; Cons. St., sez. IV, 27 luglio 1994, n. 634.
In materia tributaria, in tal senso, vd. Cass., SS.UU., 4 ottobre 1996, n. 8685, in
Rass. trib., 1997, 1589, ed ivi O. NOCERINO, Azione di responsabilità aquiliana per risarcimento del danno prodotto dall’amministrazione finanziaria, e in Boll. trib., 1997,
558, ed ivi F. BRIGHENTI, Autotutela: un wishful thinking?; Cass., sez. trib., 9 ottobre
2000, n. 13412, in questa Rivista, 2001, II, 464, ed ivi S. LA ROSA, Definitività degli avvisi di liquidazione, autotutela tributaria, e ripetibilità delle imposte “principali” nel sistema delle imposte sui trasferimenti; Cass., sez. trib., 7 dicembre 2001, n. 2002, in Fisco, 2002, 10694; Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in questa Rivista, 2002, II,
552 ed ivi R. BONAVITACOLA, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. Vd., anche,
G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., 367; R. LUPI, Diritto tributario, Parte generale, VI ed., Milano, 1999, 90; Id., La nuova normativa sull’annullamento d’ufficio degli atti impositivi illegittimi: spunti per una discussione, in Boll. trib., 1992, 1799; Id.,
Atti definitivi e decadenze, se l’autotutela non arriva cosa può fare il contribuente, in
Rass. trib., 1994, 755; Id., L’autotutela tra giurisdizione “ratione materiae” e “per situazione soggettiva”, in Dialoghi di Diritto tributario, 2004, 680; G. TINELLI, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’Irpef, Padova, 1993, 271, nota
21; M.A. GALEOTTI FLORI, Il principio della autotutela tributaria, in questa Rivista.,
1996, I, 662; A. GARCEA, La pretesa tributaria nella moderna dinamica impositiva, Padova, 2003, 190 ss.; A. BUSCEMA - E. DI GIACOMO, Il processo tributario. Aspetti problematici e strategie processuali, II ed., Milano, 2004, 280; D. STEVANATO, La giustiziabilità del rifiuto di autotutela avanti il giudice amministrativo: un’arma spuntata?, in
Dialoghi di diritto tributari, 2004, 678; G. PORCARO, Il diniego di autotutela è impugnabile davanti le Commissioni tributarie? Una tesi che non convince, in Dialoghi di diritto tributario, 2004, 667; L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 78; M. MILANESE, La natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti, in questa Rivista, 2004, I, 310.
(29) Anche in tal caso giurisprudenza del tutto pacifica: cfr., Cons. St., sez. IV, 30
novembre 1992, n. 995, in Rass. Cons. Stato, 1992, I, 2531; Cons. St., sez. VI, 1 aprile
1992, n. 201, in Rass. Cons. Stato, 1992, I, 573; C.G.A.R.S., 25 maggio 1998, n. 319, in
Rass. Cons. Stato, 1998, I, 1067. In materia tributaria la Corte Suprema si è limitata ad
escludere, in particolare, la giurisdizione delle Commissioni tributarie: Cass., sez. trib., 9
ottobre 2000, n. 13412, cit., 464; Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, cit., 552. Vd.,
in argomento, S. COMPAGNO, I limiti all’autotutela tributaria su atti non impugnabili, in
Diritto & diritti, settembre 2002.
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Per cogliere le distanze tra autotutela e tutela (che rappresentano, anche terminologicamente, una sorta di contraddizione in termini) bisogna
considerare che, inevitabilmente, delle due l’una:
a) o il privato può ancora esercitare o ha di già esercitato l’ordinaria
tutela giurisdizionale (ipotesi che, per comodità, abbiamo definito rapporto pendente), nel qual caso l’autotutela deve chiaramente essere esercitata nell’ottica dell’interesse esclusivo dell’amministrazione finanziaria
considerando, anche, le prospettive circa l’esito del procedimento contenzioso attivabile o di già attivato dal privato;
b) ovvero il privato ha bruciato la facoltà di impugnare il provvedimento (cd. rapporto esaurito), nel qual caso, a fortiori, l’amministrazione deve valutare l’opportunità di modificare, sempre nel proprio esclusivo interesse, gli effetti del provvedimento di già realizzatisi e giuridicamente cristallizzati.
In entrambi i casi l’istituto non interferisce con l’ordinaria esigenza
della tutela giurisdizionale del privato.
A tale premessa sistematica consegue una prospettiva ulteriore e di
maggior respiro: come, ordinariamente, si prescinde, affrontando il tema
dell’“autotutela”, dalla prospettiva della tutela del privato, bisogna, del
pari, considerare che molteplici profili della disciplina ordinaria non si
applicano, per ciò stesso, al rapporto scaturente dall’esercizio del potere
di autotutela; non si applicano, in generale, ad esempio, le disposizioni
della legge n. 241/1990, in materia di procedimento amministrativo e di
trasparenza degli atti amministrativi, in quanto normativa dedicata al rapporto ordinario tra amministrazione e privato (30).
L’approccio interpretativo, quindi, che appare metodologicamente
corretto è quello di ricavare chiaramente dalla normativa di settore disposizioni derogatorie al quadro di teoria generale sinteticamente illustrato.
Allo scopo di cogliere tali eventuali varianti, giova preliminarmente
sottolineare il fatto che la (sparuta) normativa in tema di autotutela è ammannita dal legislatore tributario in maniera amorfa e indifferenziata, di
talché l’interprete potrebbe ritenere, a prima vista, che i presupposti e le
condizioni dell’esercizio del potere siano sostanzialmente omogenei.
Si impone, in realtà, una preliminare distinzione a seconda che il
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(30) Contra, V. FICARI, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano,
1999, passim; Id., Istanza di annullamento d’ufficio e doveri dell’amministrazione finanziaria, in Boll. trib., 1998, 247; A. TURCHI, I poteri delle parti nel processo tributario,
Torino, 2003, 260.
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rapporto sia ancora pendente ovvero esaurito, atteso che i comportamenti amministrativi risultano inevitabilmente diversificati nelle due distinte
ipotesi.
A tal proposito si consideri:
1. allorché l’art. 2-quater, comma 1, subordina “l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio” (31) al riscontro dell’illegittimità o
dell’infondatezza dell’atto, va da sé che entrambi i tipi di vizio (l’illegittimità evoca i vizi cd. formali del provvedimento, mentre l’infondatezza
concerne, specificamente, “l’esistenza e/o l’ammontare del credito tributario” (32)) devono essere presi in considerazione dall’amministrazione
finanziaria allorché riesamini un atto che ne risulti affetto e il cui rapporto sia tuttora pendente. In tal caso sull’ufficio incombe il potere-dovere di annullare l’atto (infondato) ovvero di sostituire l’atto illegittimo
con uno legittimo allo scopo di non rischiare che la pretesa sia vanificata a causa del vizio che inficia il provvedimento costitutivo della pretesa
(con l’unico limite, s’intende, che l’amministrazione versi in costanza di
potere); il ripristino della legalità risulta, quindi, strettamente funzionale
alla salvaguardia sostanziale degli interessi erariali, ivi compresa l’immanente possibilità di subire la condanna alle spese in quanto potenziale parte soccombente in giudizio. Di contro, l’attività di autotutela a fronte di provvedimenti divenuti inoppugnabili (allorquando non sia stato
proposto ricorso, ovvero, per altro verso, lo stesso risulti tardivo o inammissibile) non può che trascurare l’esistenza di vizi di legittimità dell’atto per appuntarsi esclusivamente sulla infondatezza della pretesa (33).
In tale ipotesi, infatti, l’amministrazione vanta un titolo sostanziale
definitivo che non può mettere nel nulla invocando l’astratto interesse al
ripristino della legalità (formalmente) violata atteso che l’amministrazione deve dimostrare a sé stessa, mediante congrua motivazione (che in ta———————
(31) Per ciò che riguarda, specificamente, l’ambito del potere di “revoca” degli atti dell’amministrazione finanziaria, vd. S. MUSCARÀ, Autotutela, V) Diritto tributario,
cit., 1.
(32) Secondo la dizione adottata dall’abrogato art. 21 del DPR n. 636/1972, in tema di “rinnovazione dell’atto impugnato” iussu iudicis.
(33) Contra, E. DE MITA, Ma per gli atti illegittimi il rimedio è un dovere, in Il Sole-24 Ore, 4 dicembre 1996, 18. Secondo D. STEVANATO, Autotutela e mediazione di esigenze in conflitto, cit., 145, “in presenza di un vizio attinente a profili “formali” l’amministrazione ben difficilmente accorderebbe la rimozione dell’atto, specie se divenuto definitivo per mancata impugnazione”. Ad onor del vero, nell’ipotesi di atto impugnato affetto da vizi formali, l’amministrazione che non intervenisse in autotutela si comporterebbe, quantomeno, in maniera miope.
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le ipotesi non risulta tanto inserita a garanzia del contribuente quanto a
giustificazione dell’adozione del provvedimento in autotutela ai fini di
un controllo amministrativo interno), le ragioni della rinuncia alla pretesa (34).
Nella illustrata prospettiva, in realtà, non si deve trascurare il fatto
che, nonostante l’atto sia illegittimo, la giurisdizione di (puro) annullamento (35) attribuisce automaticamente all’amministrazione (non l’esaurimento del potere ma) l’effetto ripristinatorio (36), vale a dire il poteredovere di ribadire la pretesa (perché sostanzialmente fondata) mediante
l’emanazione di un atto legittimo (o, si potrebbe alternativamente affermare, mediante la convalida dell’atto illegittimo).
Coerentemente militano nella vigente normativa gli artt. 42 e 61
DPR n. 600/1973 in base ai quali i vizi di legittimità del provvedimento
(analogamente per i vizi del procedimento che provocano l’illegittimità
derivata del provvedimento) devono essere fatti valere nel corso del processo di primo grado (in base agli artt. 18 e 24 del DPR n. 546/1992, in
realtà, i motivi addotti nel ricorso introduttivo, possono essere integrati
solo se “resi necessari dal deposito di documenti non conosciuti”), altrimenti tamquam non essent (risultano cioè, automaticamente assorbiti e
non rilevabili d’ufficio dal giudice).
Il fenomeno cd. dell’assorbimento del vizio di legittimità (non fatto
valere e, quindi, in assoluto, ininfluente ai fini dell’annullamento del
provvedimento impugnato), impedisce, a monte, all’amministrazione di
motivare congruamente l’atto in autotutela che, quindi, si ripete, potrà attingere solo a ragioni di merito (vale a dire relative all’infondatezza sostanziale del provvedimento divenuto definitivo).
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(34) Solo in tale ipotesi, infatti, opera il generale principio, derogato, nella fattispecie, dalla espressa disposizione normativa, di indisponibilità dei crediti erariali sancito
dalla legge di contabilità dello Stato (artt. 188 ss., artt. 219 ss. del RD 23 maggio 1924,
n. 827; in argomento, vd. A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 493).
(35) A partire dalla fondamentale sentenza n. 2085/1985, com’è noto, anche la Cassazione ha riconosciuto che il processo tributario possiede natura composita: al contempo di annullamento nell’ipotesi che il provvedimento impugnato sia affetto da vizi formali e di accertamento del rapporto ove il contribuente acceda al merito, vale a dire
all’an e/o al quantum debeatur (Cass., sez. I, 23 marzo 1985, n. 2085, in Rass. trib.,
1985, II, 780, ed ivi P. RUSSO, I dubbi infondati della Suprema Corte, e in Giur. it., 1986,
I, 1, 910, ed ivi G. PASSARO, Sulla natura impugnatoria del giudizio tributario).
(36) Cfr., Cass., sez. trib., 16 luglio 2003, n. 11114, in questa Rivista, 2003, II, 896,
ed ivi A. DE FAZIO, La Commissione tributaria regionale eccepisce l’incostituzionalità
della disciplina degli avvisi di accertamento integrativi o modificativi.
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2. Peraltro chiunque esamini il contenuto del regolamento attuativo
converrà che alcune norme sono pensate e scritte in relazione all’esercizio dell’autotutela per rapporti pendenti (e non hanno molta ragion d’essere per quelli esauriti) e viceversa.
Così “il potere... di rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento” secondo i tratti ricostruttivi in precedenza delineati, investe essenzialmente i rapporti pendenti nell’ipotesi di rimborso d’ufficio di
somme erroneamente versate dal contribuente.
3. Nella stesura dell’art. 3 del regolamento il Ministero delle finanze ha avuto particolare riguardo ai rapporti pendenti, specificamente laddove impone “priorità alle fattispecie per le quali sia in atto o (sussista)
rischio di un vasto contenzioso”.
4. Il regolamento dedica gli artt. 6 e 7 alla gestione del contenzioso
improntandola a criteri di economicità; ma anche l’art. 8 si rivolge esclusivamente ai rapporti pendenti atteso che la valutazione del rapporto costi-benefici che viene opportunamente posto, in tal caso, alla base dell’attività di autotutela, risulta nient’affatto significativa in ipotesi di provvedimenti definitivi per i quali sussiste solo una valutazione (necessariamente normativa) di costo della riscossione con eventuali risvolti di desistenza legati, comunque, alla legislazione in tema di procedura di riscossione forzata da parte del Concessionario (37).
5. Di contro, l’intero art. 2 del regolamento (dedicato, come si è avuto occasione di rilevare, alle fattispecie astrattamente più meritevoli
dell’intervento annullatorio), è fondamentalmente rivolto agli uffici allo
scopo di fornire loro una sorta di bussola (solo indicativa) rispetto alle
decisioni da assumere in tema di provvedimenti inoppugnabili (atteso, si
ripete, la diversa prospettiva che orienta le decisioni amministrative in
tema di rapporti pendenti).
Come si accennava in precedenza, il risultato è veramente singolare: in relazione ai rapporti pendenti l’amministrazione deve intervenire in
ogni caso nel proprio interesse allo scopo di sanare qualsiasi tipo di vizio (formale e/o sostanziale); nell’ipotesi di inoppugnabilità del provve———————
(37) Una eccezionale ipotesi di “transazione dei tributi iscritti a ruolo” tra l’Agenzia delle entrate e il contribuente è prevista “quando nel corso della procedura esecutiva
emerge l’insolvenza del debitore o questi è assoggettato a procedure concorsuali”, disciplinata dall’art. 3, comma 3, legge 8 agosto 2002, n. 178; in argomento, vd., E. BELLI
CONTARINI, La transazione con il fisco sui ruoli della riscossione, in Boll. trib., 2003,
1464; V. FUSCONI - G. ANTICO, Dalla compensazione alla transazione tributaria, in Boll.
trib., 2004, 415; A. MERCATALI, La transazione, in sede esecutiva, sulle somme iscritte a
ruolo per imposte statali, in Boll. trib., 2004, 1467.
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dimento, l’amministrazione non si può affidare ad alcun criterio certo e
predeterminato.
Per un verso, infatti, la norma le concede, anche in queste specifiche
ipotesi (38), semplicemente la “facoltà” di esercitare il potere di autotutela allorché reputi il provvedimento “infondato” (vale a dire che l’imposta risulti sostanzialmente non dovuta, considerata, nell’ipotesi di
inoppugnabilità, l’irrilevanza del vizio cd. formale).
Dall’altro, l’amministrazione non deve necessariamente procedere in
autotutela in qualsiasi ipotesi di infondatezza del provvedimento, ma
particolarmente nei casi estremi ed eclatanti (allorché l’immagine di imparzialità e correttezza dell’amministrazione uscirebbe appannata dalla
ingiustizia di riscuotere o trattenere somme palesemente non dovute)
(39).
Non a caso, infatti, la casistica proposta dall’art. 2, peraltro meramente esemplificativa, indica, per l’appunto, fattispecie scontate di ingiustizia sostanziale che, però, non attribuiscono al contribuente la certezza del riconoscimento amministrativo.
Sotto questo profilo, il legislatore ha certamente mancato di coraggio, essendo auspicabile che fattispecie determinate (quali potevano essere quelle elencate all’art. 2), attribuissero al contribuente il “diritto” alla riapertura dei termini per il ricorso alle Commissioni tributarie quale
giudice naturale del “merito” dell’imposta dovuta (anche perché, in tali
casi fondamentalmente si demanda al giudice tributario la conoscenza di
fatti ulteriori e/o sopravvenuti, autonomi, comunque, rispetto al contenuto dell’originario atto impositivo, quali la duplicazione o l’errore di persona, l’omonimia, il palese travisamento dei fatti a base dell’avviso di
accertamento, ecc. (40)).
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(38) Espressamente prospettato in termini di “facoltà”, il potere di autotutela può
quindi dispiegarsi relativamente a molteplici fattispecie discrezionalmente valutate (sul
punto, cfr. A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 495; R. LUPI, Diritto tributario, cit., 89).
(39) Tale criterio è decisamente respinto da P. RUSSO, Riflessioni in tema di autotutela nel diritto tributario, in Rass. trib., 1997, 552 ss.; Id., Manuale di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2002, 215 ss., in quanto non esprimerebbe un criterio giuridicamente
apprezzabile; bisogna, però, prendere atto che non è stato mai fornito (e il regolamento, in
questo senso, rappresenta un’occasione mancata) alcun criterio vincolante, sicché si innesca
un potere amministrativo di natura squisitamente discrezionale che, nei fatti, l’amministrazione finanziaria ha configurato quale momento di salvaguardia della propria immagine. In
altri termini, dal momento che l’amministrazione non “deve” necessariamente procedere
all’annullamento, può crearsi delle regole interne di comportamento (purché non discriminanti) quali sono state, in realtà, in parte espresse con il citato regolamento.
(40) Sul punto, amplius, S. MUSCARÀ, Autotutela, cit., 2; più di recente, anche
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Discorso diverso bisogna riservare a quelle specifiche ipotesi (quali
quella del giudicato penale favorevole al contribuente (41) ovvero del
giudicato tributario di merito favorevole ottenuto dall’obbligato solidale
(42) ovvero del sequestro o della confisca sopravvenuti rispetto all’imposizione di redditi derivanti da fatto illecito), nelle quali il comportamento amministrativo non appare discrezionale (com’è caratteristica
dell’autotutela) bensì doveroso (43) (quindi di per sé estraneo all’istituto
dell’autotutela, correttamente inteso quale cura di un interesse proprio
dell’amministrazione (44)), innescandosi in tali ipotesi, i consueti canali
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V. FICARI, Impugnazione del diniego espresso di autotutela e giurisdizione tributaria:
clomori di novità?, cit., 383, auspica l’individuazione di una espressa casistica sottoposta alla giurisdizione delle Commissioni tributarie. Spunti, più in generale, per attribuire
alle Commissioni “la tutela (risarcitoria) degli interessi legittimi lesi dall’esercizio illegittimo” del potere impositivo in A. FANTOZZI, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in questa Rivista, 2004, I,
38 ss.
(41) “In ottemperanza al principio di ordine generale desumibile dall’art. 4 della
legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo, in sede
di autotutela, di conformarsi al giudicato dei Tribunali (penali)” (Corte cost., 23 luglio
1997, n. 264, in questa Rivista, 1998, II, 101, ed ivi V. FICARI, Art. 12., comma 2, legge
n. 516/1982 e potere di autotutela negativa dell’amministrazione finanziaria); conformemente, Cass., sez. III, 27 gennaio 2003, n. 1191, in Boll. trib., 2003, 1097, ed ivi L.
ROSA, La risarcibilità del danno da parte dell’amministrazione finanziaria; pubblicata,
anche, in Giustizia amministrativa, 2003, 588, ed ivi L. VIOLA, Diritto tributario e tutela risarcitoria. In argomento, M. BASILAVECCHIA, Giurisdizione delle commissioni e diniego di autotutela, in Riv. giur. trib., 1998, 617; G. FRANSONI, Considerazioni “a caldo” a proposito dell’obbligatorietà della conformazione dell’amministrazione finanziaria al giudicato penale, in Rass. trib., 1998, 261 ss.; V. FICARI, Impugnazione del diniego espresso di autotutela e giurisdizione tributaria: clamori di novità?, cit., 380; G. RIPA, Rapporti tra giudicato penale e autotutela tributaria, in Boll. trib., 2004, 325 ss.
(42) P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, cit., 219, ritiene che nella fattispecie
l’amministrazione operi nell’esercizio del potere di autotutela.
(43) Contra, A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 496, nota 787, il quale, invece,
include nella sfera di operatività dell’autotutela l’ipotesi di “giudicato penale favorevole
ottenuto dall’imputato-contribuente solo successivamente al consolidarsi dell’atto impositivo” pur concependola attività (di conformazione) “doverosa” da parte dell’amministrazione finanziaria.
(44) Analogamente, del resto, si esclude l’esercizio del potere di autotutela in ipotesi di provvedimento adottato in contrasto con la normativa comunitaria, in quanto rimozione “obbligatoria” in ragione del primato del diritto comunitario, automaticamente
esercitata senza che possano in alcun modo rilevare ulteriori valutazioni richieste, invece, per il corretto esercizio del potere di autotutela (identificate da F. CARINGELLA, Corso di Diritto amministrativo, tomo II, seconda edizione, Milano, 2003, 1712; nella “illegittimità acclarata del provvedimento”, nella esistenza di “un interesse pubblico attuale e
concreto che non si esaurisca nell’interesse a ristabilire la legalità” e, infine, nel “bilan-
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di tutela (del diritto) del contribuente presso il giudice tributario ex art.
21, capoverso, del DPR n. 546/1992 (sotto il profilo di titoli sopravvenuti di riconoscimento del diritto del contribuente a non corrispondere
l’imposta ovvero a conseguirne il rimborso (45)).
Risulta, comunque, scarsamente problematico, in generale, il tema
dell’autotutela in ipotesi di rapporto pendente; propone notevoli insidie
interpretative, di contro, la ricostruzione dell’istituto dell’autotutela a
fronte di rapporti esauriti che abbisogna, pertanto, di specifico ed ulteriore approfondimento.
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3. Eventuale presentazione dell’istanza da parte del contribuente e
obbligo dell’amministrazione finanziaria di comunicare l’esito del procedimento di riesame. - Uno snodo topico della materia è rappresentato
dalla problematica concernente gli effetti della presentazione dell’istanza del contribuente volta ad ottenere un provvedimento favorevole nonostante la definitività del provvedimento impositivo.
La questione si semplifica drasticamente nel momento stesso che si
recepiscano, in materia, le linee guida dettate comunemente in diritto
amministrativo secondo le quali, per quel che ne occupa al momento,
non sussiste obbligo alcuno della pubblica amministrazione di prendere
in considerazione e, in ogni caso, di dare riscontro motivato all’istanza
del privato il quale non può far altro che sottoporla al suo benevolo vaglio (46).
Tale impostazione è stata peraltro fatta propria, in materia tributaria,
da autorevole dottrina (47) e rinveniva, in verità, una non trascurabile
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ciamento tra l’interesse dell’amministrazione alla rimozione dell’atto e l’interesse alla
conservazione dell’atto di cui sono titolari soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, generalmente privati”).
(45) Sul punto, vd., V. FICARI, Istanza di annullamento d’ufficio e «doveri»
dell’amministrazione finanziaria, in Boll. trib., 1998, 249, il quale, nonostante rintracci
un “dovere” di annullamento d’ufficio dell’avviso di accertamento, incanala purtuttavia
la tutela presso il giudice amministrativo (istituzionalmente giudice degli interessi legittimi a fronte di attività discrezionale della pubblica amministrazione).
(46) Cfr. E. CAPACCIOLI, Manuale di diritto amministrativo, Padova, 1980, 417 ss.;
G. PIFFERI, Sul carattere discrezionale dell’annullamento d’ufficio, in Nuova rass., 1976,
2009; in giurisprudenza, ex multis, Cons. St., sez. VI, 1 aprile 1992, n. 201, in Rass.
Cons. Stato, 1992, I, 573; Cons. St., sez. V, 28 aprile 1995, n. 622, in Rass. Cons. Stato,
2000, I, 689; Cons. St., sez. VI, 23 ottobre 2001, n. 5573, in Rass. Cons. Stato, 2001, I,
2346.
(47) D. BATTI, L’esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione finanziaria tra diritto amministrativo e diritto costituzionale, in Fisco, 1994, 9640; M.A.
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sponda argomentativa nel disposto dell’art. 68 DPR n. 287/1992 laddove si contemplava (e, quindi, si limitava) l’obbligo dell’amministrazione
di motivare solamente il provvedimento di “annullamento totale o parziale dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati”.
Vale a dire che andava comunicato al “destinatario dell’atto” (annullato in autotutela) soltanto l’atto di accoglimento totale o parziale (e
non anche l’atto di rigetto) congruamente motivato.
Dello stesso tenore, attualmente, il comma 2 dell’art. 4 del Regolamento laddove si prescrive che “dell’eventuale annullamento è data comunicazione al contribuente”, senza contemplare un obbligo generalizzato dell’ufficio di esternare anche gli esiti negativi del procedimento di
riesame.
Peraltro il quadro normativo si è arricchito, da ultimo, di significativi spunti volti in tutt’altra direzione:
a) la presentazione dell’istanza da parte del contribuente a organo
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GALEOTTI FLORI, Il principio della autotutela tributaria, cit., 658; P. RUSSO, Riflessioni e
spunti in tema di autotutela nel diritto tributario, in Rass. trib., 1997, 552 ss.; Id., Sulla
sindacabilità e sull’impugnabilità dell’atto di riesame, in questa Rivista, 2002, I, 700;
Id., Manuale di diritto tributario, Parte generale, cit., 217; S. LA ROSA, Autotutela e annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari, in questa Rivista, 1998, I, 1148; Id.,
Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 469; Id., Principi di Diritto tributario, Torino, 2004, 164; Id., Definitività degli avvisi di liquidazione, autotutela tributaria e ripetibilità delle imposte “principali” nel sistema delle imposte sui trasferimenti, in questa Rivista, 2001, II, 468; I. MANZONI, Potere di accertamento e tutela
del contribuente, cit., 5; O. NOCERINO, Riflessioni in merito alla possibile individuazione
di un concreto ed attuale interesse pubblico alla rimozione degli atti definitivi, in Rass.
trib., 1999, 1597; B. PATRIZI - G. MARINI - G. PATRIZI, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, Milano, 1999, 193; M.V. SERRANÒ , L’autotutela in diritto tributario, in Lineamenti di Diritto Tributario, a cura di Luigi Ferlazzo Natoli, Milano, 2003,
97; L. SALVINI, Il Garante del contribuente, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, cit.,
119; F. VARAZI, Definizione della lite pendente e legittimità dell’esercizio del potere di
autotutela, in Boll. trib., 2004, 1377; nella specifica ipotesi di silenzio-rigetto, U. PERRUCCI, L’autotutela tributaria e il suo diniego di fronte alla verifica giurisdizionale, in
Fisco, 2000, 4473; F. D’AYALA VALVA, L’attivazione delle “procedure” di autotutela
tributaria, cit., 176; G.S. TOTO, Giudicato tributario e autotutela, in Tributi, 2001, 658;
F. CASORIA, I limiti applicativi dell’autotutela e i rimedi giurisdizionali al silenzio-rifiuto e al diniego espresso, in Fisco, 2001, 10618; relativamente ai provvedimenti divenuti
inopponibili, E. GRASSI, Un percorso difficile alla ricerca dell’interesse pubblico (ulteriore, rispetto al ripristino della legalità), in Fisco, 1999, 6089; Id., L’autotutela tributaria e la posizione giuridica del soggetto interessato al suo esercizio, in Fisco, 2004,
472; A. TURCHI, I poteri delle parti nel processo tributario, cit., 261; A. GIOVANNINI, Il
ricorso e gli atti impugnabili, in Il processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 1998,
392.
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incompetente genera l’obbligo (48) dello stesso di trasmetterlo a quello
competente (e, dunque, radica nel contribuente il diritto di verificare – ed
eventualmente pretendere – il rispetto della disposizione non meramente
interna: art. 5, comma 1, del regolamento che onera, per l’appunto, l’ufficio incompetente di darne “comunicazione al contribuente”).
b) L’inerzia dell’ufficio adito legittima, addirittura, un intervento sostitutivo della Direzione Regionale delle Entrate (la grave inerzia che
funge da presupposto a tale intervento appare, più che altro, dipendente
dall’atteggiamento omissivo dell’ufficio, il quale non provveda nonostante che il contribuente lo solleciti reiteratamente, richieda il nominativo del responsabile del procedimento, inoltri diffida a provvedere, proponga, eventualmente, ulteriore istanza al Garante del contribuente, ecc.
(49)).
La competenza dell’organo al quale sono stati attribuiti in tal modo
poteri di controllo è volta a garantire il rispetto dell’obbligo dell’ufficio
di pronunziarsi (50) e di evitare inadempimenti giuridicamente rilevanti
(e, quindi, suscettibili di assurgere a motivi di ricorso da parte del contribuente interessato).
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(48) In argomento, P. AGOSTINELLI, Profili evolutivi e spunti critici in tema di annullamento d’ufficio di atti impositivi illegittimi alla luce della Circ. min. 5 agosto 1998,
n. 198/S., in questa Rivista, 1999, II, 696; Id., Controversie concernenti il riesame preordinato al (mero) ritiro dell’atto impositivo e giurisdizione del magistrato amministrativo: un connubio difficilmente configurabile, in questa Rivista, 2002, II, 71 ss.; C. TASSANI, L’annullamento d’ufficio dell’amministrazione finanziaria tra teoria ed applicazione pratica, in Rass. trib., 2000, 1193; P. ROSSI, Autotutela su atti definitivi: evoluzione
della giurisprudenza ed una ipotesi ricostruttiva, in questa Rivista, 2002, I, 473; contra,
P. SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001,
330.
(49) Dir. Reg. delle Entrate della Lombardia, Circ. 7 aprile 2000, n. 11/28093, in
Fisco, 2000, 10815, valuta “grave” il comportamento inerte dell’ufficio allorché: a) il riesame venga espressamente negato senza alcuna ragione; b) il lasso di tempo intercorso
tra la presentazione dell’istanza e la denunciata grave inerzia sia irragionevolmente lungo; c) l’ammontare delle imposte, interessi e sanzioni superi il miliardo; d) vi sia stato
un errore sulla persona e/o un errore sul presupposto e/o una duplicazione d’imposta (e
cioè quando l’atto risulti affetto da quei vizi rilevanti e sostanziali indicati in via esemplificativa nell’art. 2 comma 1, del DM n. 37/1997). L’atteggiamento omissivo del funzionario rileva inevitabilmente sul piano disciplinare (in tal senso vd., anche, Circ. 5 agosto 1998, n. 198/S/2822/98/GCF/as del Segretariato generale – Ufficio centrale per
l’Informazione del contribuente, in Fisco, 1998, 10381).
(50) È prospettato, infatti, quale potere sostitutivo solo in ipotesi di mancato riscontro dell’istanza del contribuente da parte dell’ufficio che ha emanato il provvedimento impositivo.
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c) Il Garante del contribuente, da parte sua, non è legittimato soltanto a “sollecitare” l’avvio del procedimento di riesame (51), nel qual
caso sussisterebbe pur sempre una scelta discrezionale dell’ufficio, ma,
all’opposto, ne “attiva” l’avvio (art. 13 legge n. 212/2000); risulta titolare, per tal fatta, di una sorta di potere dispositivo (non relativamente al
contenuto del provvedimento da emanare quanto, genericamente, all’obbligo di provvedere dell’amministrazione); tale disposizione impegna
l’ufficio a comunicare il provvedimento, adeguatamente motivato, allo
stesso Garante oltreché, s’intende, al contribuente che rimane pur sempre il diretto interessato.
In altri termini, vagliata l’istanza del contribuente, e giudicatala degna di considerazione (e, quindi, di avallo), il Garante esercita, autonomamente, una funzione istituzionale e si pone quale parte ulteriore e
cointeressata all’esito del procedimento di riesame (52).
In tal modo il legislatore tributario attribuisce all’istante una posizione giuridica rilevante quanto meno a livello di interesse (legittimo)
(53) a conoscere gli esiti motivati del procedimento di riesame formalmente attivato.
d) Da ultimo, a dimostrazione della sensibilità del legislatore rispetto alla materia dell’autotutela, si dispone che “Gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare:
• omissis;
• l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali è possibile pro-
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(51) In tal senso: F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino, 2003, 165; A. URICCHIO, voce Statuto del contribuente, in Dig. comm., Torino, 2003,
871; A. TURCHI, I poteri delle parti nel processo tributario, cit., 268; F. D’AYALA VALVA, Dall’Ombudsman al Garante del contribuente. Studio di un percorso normativo, in
questa Rivista, 2000, I, 1037, ma, successivamente, l’autore ha ritenuto che l’ufficio
avrebbe l’obbligo di dar seguito all’istanza solo se il procedimento di riesame sia attivato dal Garante del contribuente valorizzando eccessivamente i poteri di tale organo (F.
D’AYALA VALVA, L’attivazione delle “procedure” di autotutela tributaria, cit., 176; in
tal senso, anche, L. SALVINI, Il Garante del contribuente, cit., 120).
(52) Potrebbe addirittura integrare la stessa istanza del contribuente con propri rilievi ad adiuvandum che impegnerebbero, si ritiene, l’ufficio a tenerne obbligatoriamente conto in sede di motivazione dell’emanando provvedimento.
(53) In tal senso, M. STIPO, Osservazioni in tema di autotutela dell’amministrazione finanziaria, cit., 713 ss.; A. BUSCEMA, Autotutela amministrativa e autotutela tributaria: profili comparativi e risvolti processuali, in Finanza & fisco, 2001, 4991; G. FALCONE, La giurisdizione del Tar in materia tributaria, in Fisco, Attualità, fasc. n. 1, 2002,
3083.
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muovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela” (art.
7, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente).
Anche in tal caso risulta illuminante la terminologia adottata, la quale non allude ad una mera facoltà di proposizione dell’istanza da parte
del contribuente (discrezionalmente vagliata, ove lo reputi, dall’amministrazione competente), bensì gli attribuisce espressamente il potere di
“promuovere un riesame, anche nel merito, dell’atto in sede di autotutela”, fugando ogni residuo dubbio circa l’obbligo dell’ufficio di emanazione (e di notificazione) del provvedimento conclusivo dell’attività di
riesame (54).
In forza di tali referenti normativi (piuttosto che del richiamo alla
legge n. 241/1990 (55)) il convincimento che sull’organo adito incomba
l’obbligo di un riscontro motivato dell’istanza (ancorché genericamente
a fronte di istanza a sua volta priva di puntuali rilievi), oltreché dalla
maggioritaria dottrina (56), è ormai comunemente recepito vuoi dalla
prevalente giurisprudenza (57) vuoi dalla stessa amministrazione (58).
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(54) Di contrario avviso, F. D’AYALA VALVA, L’attivazione delle “procedure” di
autotutela tributaria, cit., 170; L. SALVINI, Il Garante del contribuente, cit., 120, secondo i quali l’ufficio avrebbe il dovere di rispondere alla richiesta del Garante ma non a
quella del contribuente.
(55) In tal senso, V. FICARI, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, cit.,
passim; Id., Istanza di annullamento d’ufficio e “doveri” dell’amministrazione finanziaria, in Boll. trib., 1998, 247; D. STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, cit., 83; M.V. SERRANÒ , In tema di ripercussione degli effetti dell’autotutela sugli atti-presupposto, in questa Rivista, 2000, II, 550.
(56) G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., 370; M. STIPO, Osservazioni in
tema d’autotutela, cit., 705; U. PERRUCCI, Il regolamento sull’autotutela, in Boll. trib.,
1997, 1765; Id., Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Boll. trib., 2000, 1060; Id., Autotutela, conciliazione, remissione di credito, in Boll. trib., 1999, 1333; L. BELLINI - M.
BELLINI, L’autotutela in diritto tributario con particolare riferimento agli enti locali, in
Fisco, 2001, 14699; D. STEVANATO, Autotutela (diritto tributario), in Enc. dir., Agg. III,
Milano, 1999, 285 ss.; C. TASSANI, L’annullamento d’ufficio dell’amministrazione finanziaria tra teoria ed applicazione pratica, in Rass. trib., 2000, 1189; T. MORINA, Dalla
Toscana il galateo dell’autotutela per gli uffici, in Il Sole-24 Ore, 17 ottobre 2000, 23.
(57) Tar Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767, in questa Rivista, 2002, II, 49; anche in Foro it., 2001, III, col. 27, ed ivi nota di M.F. CASCIA; Tar Veneto, sez. I, 2 novembre 2000, n. 1975, in questa Rivista, 2002, II, 69; Tar Lombardia, sez. I, 27, marzo
2001, n. 2681, in Boll. trib., 2001, 609; anche la giurisprudenza che, da ultimo, dichiara
il difetto di giurisdizione dei Tar a favore delle Commissioni tributarie, presuppone l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di dar seguito all’istanza: Tar Trentino Alto Adige, 14 luglio 2003, n. 273, in Dialoghi di Diritto tributario, 2004, 681; Tar Veneto, sez.
I, 27 maggio 2002, n. 2401, ibidem, 683.
(58) Inizialmente l’amministrazione era orientata nel senso che non avesse obbligo
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4. Considerazioni conclusive. - I temi trattati consentono di tracciare alcune significative conclusioni:
a) non pare dubbio che chiunque si ponga oggi l’interrogativo “se
l’autotutela possa esser ricondotta come species a genus nell’alveo
dell’istituto così come elaborato nel diritto amministrativo, o se, invece,
si atteggi in modo autonomo” (59), non possa fare a meno di constatare
l’evoluzione normativa dell’istituto in direzione di una marcata “specialità” (60), muovendo, peraltro, da premesse che non lasciavano certo presagire l’attuale quadro sistematico.
In base agli iniziali referenti normativi, infatti, quantunque sparuti,
la nozione di autotutela si poneva sicuramente in linea con quella tradizionalmente delineata in diritto pubblico, ossia in termini di riesame critico del proprio operato (in vista dell’effettivo perseguimento di obiettivi di sana e corretta amministrazione) con esiti di annullamento di provvedimenti ritenuti illegittimi e/o infondati (61).
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alcuno di provvedere in relazione all’istanza proposta dal contribuente (cfr. Ministero
delle finanze, Dip. Entrate-Segretario generale, nota 18 luglio 1994, n. 4079, in questa
Rivista, 1994, III, 389, ed ivi V. FICARI, Il potere di autotutela dell’amministrazione finanziaria nei recenti chiarimenti ministeriali); successivamente, però, ha riconosciuto
che tale obbligo sussiste: vd. Dir. Reg. delle Entrate della Lombardia, Circ. 16 novembre
1999, n. 3/82993, in Boll. trib., 2000, 205; Dir. Reg. delle Entrate della Lombardia, Circ.
6 aprile 2000, n. 11/28093, in Il fisco, 2000, 10814; Dir. Reg. delle Entrate della Toscana, 11 ottobre 2000, Dir. n. 72483/00/T1; Dir. Reg. delle Entrate della Calabria, nota 21
novembre 2001, n. 28951/VII; Circ. min. 5 agosto 1998, n. 198/S., in questa Rivista,
1999, II, 694. L’amministrazione, al contempo, però, ha recisamente escluso qualsiasi
possibilità di tutela giurisdizionale da parte del contribuente avverso il provvedimento di
diniego (espresso o tacito) preoccupata che si potesse concedere, in tal modo, una inammissibile forma di doppia tutela (vd., da ultimo, Annuario del contribuente 2004, a cura
dell’Agenzia delle entrate, Ufficio relazioni esterne, Napoli, 2004, 162, ove l’agenzia, nel
fac-simile di “richiesta di riesame in autotutela”, avverte di “tenere presente il rischio che
in attesa di un pronunciamento dell’amministrazione venga a scadere il termine per fare
ricorso alle Commissioni tributarie”).
(59) A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 497. Identico dubbio propongono B. PATRIZI - G. MARINI - G. PATRIZI, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela,
cit., 181.
(60) P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, cit., 217, ritiene, invece, che “il legislatore tributario ha dato per scontato che si trattasse del consueto potere di autotutela
spettante alla pubblica amministrazione”.
(61) “Potere in base al quale l’amministrazione interviene unilateralmente in modo
caducatorio su un assetto di interessi già valutato e definito con un proprio atto” (F. CARINGELLA, Corso di Diritto amministrativo, cit., 1711; vd., anche, P. VIRGA, Diritto amministrativo, II, Milano, 1987, 131 ss.; I. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 2000, 666 ss.; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1958, 319).
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Tale contesto normativo costringeva l’interprete a calare l’istituto,
ove non diversamente disciplinato, negli usuali stampi – per lo più di
matrice giurisprudenziale – coniati nell’ambito del diritto pubblico: potere di carattere squisitamente discrezionale esercitato nell’esclusivo interesse dell’amministrazione procedente; irrilevanza, pertanto, della presentazione di eventuali istanze da parte del contribuente volte a promuovere il procedimento di riesame, il cui avvio, se del caso, rientrava nella
assoluta disponibilità decisionale dell’amministrazione; inesistenza, da
ultimo, di concrete prospettive di tutela giurisdizionale a favore del contribuente in ipotesi di rigetto di tali istanze.
Se il quadro sistematico fosse rimasto nei termini sinteticamente illustrati, si poteva ben comprendere, sia pure risultando in assoluto discutibile, come l’amministrazione finanziaria concepisse l’istituto in termini di recupero d’immagine allorché il provvedimento impositivo fosse
divenuto inopponibile, epperò la pretesa risultasse palesemente destituita di fondamento sostanziale (come si evince, anche, dalla casistica suggerita dal regolamento n. 37/1997 che elenca, non a caso, le patologie
più vistose dell’atto impositivo). In tale contesto, in ogni caso, la decisione del caso concreto veniva rimessa alla mera discrezionalità dell’ufficio, di per sé soggetta, eventualmente, solo ad un controllo amministrativo interno.
Il quadro di riferimento, sia pure per effetto di pochi ritocchi normativi (e di natura regolamentare (62)), è mutato radicalmente in virtù
dei provvedimenti innanzi esaminati.
Per un verso, sotto il profilo dei confini sostanziali dell’istituto che,
inopinatamente, sono in atto estesi alla funzione di controllo della liquidazione dell’imposta scaturente dalla dichiarazione presentata dal contribuente nonché all’attività di rimborso dell’indebito da parte dell’amministrazione finanziaria, ambiti istituzionalmente da ascrivere all’esercizio
del potere primario di controllo dell’operato del contribuente e certamente non rientranti nel riesame critico dei propri provvedimenti.
Si muove dall’idea, in tal modo, che un qualsiasi intervento dell’amministrazione finanziaria atto ad incidere, comunque, sul riscosso o sul
riscuotibile rientri nella nozione di autotutela tributaria, provocando un
innaturale ampliamento del contenuto ordinario dell’istituto: non solo
———————
(62) Chiaramente censurabile l’espediente di integrare surrettiziamente i contenuti
della normativa utilizzando un regolamento di natura meramente attuativa (sul punto, vd.,
A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 493).
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riesame dell’operato amministrativo illegittimo e/o infondato ma anche
esame dell’operato del contribuente.
Si è venuta a formare, per l’effetto, una nozione slabbrata e confusa
di autotutela in materia tributaria, talché si è costretti a prendere atto, per
l’ennesima volta, di una accentuata atecnicità del legislatore tributario
(sia pure con contenute refluenze sul piano dei concreti poteri dell’amministrazione per effetto di tale singolare estensione qualificatoria), ìndice di pervicace approssimazione concettuale.
b) La seconda problematica affrontata concerne i limiti del potere di
autotutela (63) quali discendono dall’applicazione di principi generali
dell’ordinamento tributario piuttosto che dalla littera legis. È stato osservato, del tutto correttamente, invero, come la normativa in tema di autotutela non distingua, ai fini dell’annullamento del provvedimento impositivo da parte della stessa amministrazione finanziaria, tra i vari tipi
di vizi (formali o sostanziali) che inficiano l’atto (64), né faccia dipendere l’esercizio del potere dalla gravità del vizio stesso (65).
È parso rilevante, nondimeno, al di là del dato strettamente letterale, procedere, in materia tributaria, ad una preliminare distinzione, secondo che il potere di autotutela sia indirizzato a rapporti pendenti ovvero a rapporti esauriti, atteso che tali situazioni comportano restrizioni
diverse all’esercizio della funzione di autotutela.
In particolare:
1) in ipotesi di provvedimenti impositivi inopponibili, l’esercizio del
potere di autotutela è consentito esclusivamente a fronte di vizi sostanziali, risultando inconducente, per altro verso, a tal proposito, la sussi-
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(63) Quelli espressamente indicati dalla legge sono rappresentati, in positivo,
dall’esistenza di un provvedimento illegittimo e/o infondato e, in negativo, dall’inesistenza di un giudicato (“per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria”, ha inaspettatamente aggiunto il comma 2
dell’art. 2 del regolamento n. 37/1997, provocando una sorta di discutibile depotenziamento dell’efficacia della sentenza che copre, di regola, oltre che il dedotto, anche il deducibile; in argomento, vd. G. FRANSONI, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione, cit., 214 ss.).
Un ulteriore limite, dipendente dalla violazione da parte dell’amministrazione finanziaria del principio dell’affidamento legittimo, è individuato da Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17576, in Rass. trib., 2003, 795, ed ivi D. STEVANATO, Tutela dell’affidamento e limiti all’accertamento del tributo.
(64) In tal senso, A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 495; S. LA ROSA, A proposito della distinzione tra integrazione degli accertamenti e autotutela tributaria, in questa Rivista, 2003, II, 911.
(65) P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, cit., 220.
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stenza di vizi formali (per loro natura di già giuridicamente irrilevanti nel
momento stesso che il contribuente non li abbia ritualmente fatti valere
in giudizio). In tal caso è naturale che la stabilità degli effetti giuridici
prodotti dal provvedimento impositivo inopponibile rappresenti un valore ontologicamente prevalente – proprio perché l’atto è sostanzialmente
fondato – rispetto a meri errori comportamentali dell’ufficio non dedotti
in giudizio dal contribuente che ne abbia interesse. In altri termini, appare corretto che prevalga, in tale ipotesi, l’interesse pubblico (fondato
su un titolo sostanziale definitivo) piuttosto che il privato interesse (che
tragga indebito vantaggio da un mero errore di forma commesso dall’ufficio).
2) Relativamente ai rapporti pendenti, in generale, l’esercizio del potere di autotutela nei confronti di provvedimenti illegittimi e/o infondati
rientra, scontatamente, nell’interesse dell’amministrazione finanziaria,
non foss’altro per evitare l’alea di non riscuotere l’imposta ancorché effettivamente dovuta e subire, magari, per sovramercato, la condanna alla rifusione delle spese in quanto parte soccombente nel giudizio.
È il caso di registrare, semmai, a tal riguardo, una pressoché unanime presa di posizione della dottrina secondo la quale il potere di autotutela esercitato in funzione sostitutiva del provvedimento impositivo (66)
(e, dunque, al fine di ribadire la pretesa in forme valide), possa esplicarsi, in particolare, esclusivamente per sanarne vizi formali ma non possa
tendere alla sanatoria di vizi sostanziali (67) (dando luogo, in tal modo,
ad un curioso contraltare ai rimedi amministrativi esperibili nei confronti dei provvedimenti impositivi inopponibili).
In altri termini, sarebbe inibito all’ufficio riconsiderare la qualificazione della fattispecie imponibile rimediando, melius re perpensa,
all’iniziale errore di valutazione.
La prima è conclusione, oramai, comunemente acquisita, nonostan———————
(66) Autotutela “positiva”, secondo la terminologia adottata da S. LA ROSA, Principi di diritto tributario, cit., 163, “consistente nella possibilità che l’amministrazione
proceda all’annullamento dell’atto viziato ed all’emanazione di un nuovo atto in sostituzione del precedente”, contrapposta all’autotutela “negativa”, “che si ha quando l’amministrazione procede al mero annullamento d’ufficio, parziale o totale, dell’atto illegittimo”.
(67) Su tali profili, per tutti, vd. A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 492; S. LA
ROSA, Principi di diritto tributario, cit., 164; Id., A proposito della distinzione tra integrazione degli accertamenti e autotutela tributaria, cit., 910; M. MICCINESI, La “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”: presupposto per gli accertamenti integrativi e
modificativi, in Rass. trib., 1985, II, 450.
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te non indifferenti iniziali sbandamenti (68), vuoi in dottrina (69) che in
giurisprudenza (70) (con l’unica eccezione rappresentata dal vizio di difetto di motivazione (71)), e si realizza, come è noto, mediante l’emanazione di un nuovo provvedimento che soppianta quello precedente, anche durante la pendenza del giudizio di impugnazione (72) dell’atto (invalido), a patto, comunque, che l’amministrazione non sia decaduta
dall’esercizio del potere impositivo.
La seconda è problematica sulla quale non è ancora sceso il sigillo
della Corte Suprema, che ha affrontato, perlomeno a quel che consta, solo casi di provvedimenti impositivi affetti da vizi formali, evitando accuratamente di sbilanciarsi in impegnativi obiter dicta circa la sussistenza del potere amministrativo di sanare anche vizi sostanziali.
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(68) Un accurato excursus storico-giuridico è sviluppato da M. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’accertamento con
adesione e della conciliazione giudiziale, Milano, 2001, 238 ss.; vd., anche, S. MUSCARÀ,
Riesame e rinnovazione degli atti nel diritto tributario, cit., 119 ss.; Id., Contributo allo
studio della funzione di riesame sostanziale, in Rass. trib., 1996, 1322 ss.
(69) Cfr., per tutti, A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 492; C. CONSOLO, Limiti
alla rinnovazione della imposizione dopo e alla stregua del giudicato di annullamento
del primo avviso di accertamento, in questa Rivista, 1991, I, 741.
(70) Vd., ex multis, Cass., sez. trib., 16 luglio 2003, n. 11114, in Riv. giur. trib.,
2004, 41, ed ivi M. BASILAVECCHIA, I presupposti per la sostituzione dell’atto impositivo invalido; Cass., sez. I, 29 marzo 1990, n. 2576, in Rass. trib., 1990, II, 969, ed ivi M.
BASILAVECCHIA, Pluralità di accertamenti e cosa giudicata.
(71) Relativamente a quello che può essere definito un vizio di frontiera, sussiste ,
in realtà, una sensibile divergenza di vedute tra giurisprudenza di legittimità (cfr., ex multis, Cass., SS.UU., 16 maggio 1988, n. 1333, in Fisco, 1989, 3327; Cass., SS.UU., 3 agosto 1989 n. 3578, in Dir. prat. trib., 1990, II, 30, ed ivi nota di F. DAVINI; Cass., sez. trib.,
28 marzo 2002, n. 4534, in Corr. trib., 2002, 2988, ed ivi nota di M. LOGOZZO; Cass., sez.
trib., 22 febbraio 2002, n. 2531, in Corr. trib., 2002, 3457, ed ivi nota di F. GRAZIANO) e
la prevalente dottrina. Non ritengo che la problematica possa essere affrontata, come normalmente avviene, pervenendo a conclusioni univoche: non rinvengo ragioni ostative
all’esercizio del potere di autotutela allorché l’amministrazione finanziaria intenda illustrare più compiutamente (non nell’ambito del processo, s’intende; sul punto, vd. C.
CONSOLO, Della inammissibilità di un’integrazione o rettifica della motivazione dell’accertamento in sede giudiziale e dei correlati limiti ai poteri istruttori del giudice tributario, in Dal contenzioso al processo tributario, Milano, 1992, 314 ss.) le ragioni della
pretesa in un quadro di omogeneità con il contenuto della motivazione del provvedimento sostituito, mentre nell’ipotesi che modifichi gli stessi elementi costitutivi della pretesa, la problematica torna ad essere quella dell’esistenza del potere di mutare la valutazione giuridica della fattispecie impositiva.
(72) Il quale, dunque, si conclude inevitabilmente con la declaratoria di cessazione
della materia del contendere (su tale formula decisoria, vd. P. RUSSO, Cessazione della materia del contendere (Diritto tributario), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, agg., 1999, 3).
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E non è certamente questa l’occasione propizia per riprendere funditus il tema (73).
Era logico attendersi, semmai, che fosse proprio questa, perlomeno
inizialmente, la problematica sulla quale focalizzare i maggiori interessi
nel contesto di una normativa fondamentalmente volta alla tutela degli
interessi dell’amministrazione, così come avvenne, del resto, a suo tempo, per la problematica della sanatoria dei vizi formali per effetto dell’introduzione nell’ordinamento tributario dell’istituto della rinnovazione
dell’atto impugnato.
Così chiaramente non è stato; fondamentalmente per due ordini di
ragioni:
1) innanzitutto perché il tema è estremamente intrigante sotto il profilo scientifico (alla pari, ad esempio, della impervia analisi sistematica
imposta dall’istituto dell’accertamento integrativo o modificativo (74)),
ma, al contempo, carente di apprezzabile spessore pratico per effetto del
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(73) L’emenda di quelli che comunemente si definiscono (con espressione di comodo in quanto utilmente descrittiva) vizi sostanziali, sarebbe impedita dal principio di
unicità e globalità della pretesa impositiva, nonché dalla disciplina in tema di accertamenti integrativi o modificativi (art. 43, comma 3, DPR 29 settembre 1973, n. 600, e art.
57, comma 3, DPR 26 ottobre 1972, n. 633).
In realtà, sostenere del tutto correttamente, invero, che l’amministrazione finanziaria debba utilizzare, per motivi di economicità ed efficienza, tutti gli elementi a disposizione non comporta, automaticamente, che non possa modificare, ricorrendo ad un ulteriore provvedimento impositivo, la valutazione della fattispecie imponibile (ma solo che
non possa “centellinare” gli elementi fiscalmente rilevanti a disposizione avendo l’obbligo di riversarli in un unico contesto, vale a dire in un provvedimento impositivo unico).
Inconferente appare, poi, il richiamo all’istituto dell’accertamento integrativo o modificativo, introdotto nell’ordinamento tributario per disciplinare le modalità e i presupposti della rilevazione progressiva dell’imposta dovuta (sulla base degli elementi via via
acquisiti posti a fondamento di avvisi di accertamento autonomi vuoi sotto il profilo sostanziale che processuale) ma che non comporta, al contempo, che l’amministrazione finanziaria non possa rivedere il proprio operato carente sotto il profilo della valutazione
degli elementi componenti la fattispecie imponibile.
E giova ricordare, peraltro, che il principio che comunemente si desume da tale normativa, vale a dire che l’amministrazione finanziaria consumerebbe il potere nel momento stesso in cui lo esercita (imputet sibi l’errore di valutazione commesso), è stato ripetutamente disconosciuto dalla Corte Suprema sul presupposto che la potestà di autotutela investe l’intera area amministrativa del riesame (cfr., fra le tante, Cass., SS.UU., 16
maggio 1988, n. 1333, cit., 3327).
(74) In argomento vd. i classici contributi di G. TREMONTI, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977; M. BASILAVECCHIA, L’accertamento parziale.
Contributo allo studio della pluralità di atti di accertamento nelle imposte sui redditi,
Milano, 1988.
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raro ricorso a tale tipo di sanatoria da parte degli uffici (come è dimostrato dall’inesistenza di specifici contributi da parte della Corte Suprema).
L’amministrazione finanziaria, oltreché emanare gli accertamenti
(ordinari) puntualmente a ridosso del termine decadenziale (con la conseguenza che decade, automaticamente, dal potere di riesaminare criticamente la fattispecie), ha, per di più, la (miope) abitudine di non intervenire, “per coerenza”, sugli accertamenti emanati quand’anche si renda
conto della loro palese infondatezza, affrontando spesso, magari senza
prospettiva alcuna, il contenzioso pur di non riconoscere di aver commesso un errore (atteggiamento, per fortuna, fortemente contrastato proprio dai più recenti interventi ministeriali in tema di autotutela);
2) perché, da parte sua, la dottrina è solita analizzare gli istituti principalmente dall’angolo visuale dell’interesse del contribuente e molto
meno da quello delle altrettanto legittime esigenze dell’amministrazione
finanziaria.
Non a caso anche nell’originario contesto normativo la problematica più ricorrente risultava indubbiamente quella della tutela del contribuente a fronte dei provvedimenti di diniego (anche nelle forme del silenzio-rigetto) da parte dell’amministrazione, ancorché non sussistessero,
in allora, spunti normativi idonei a contraddire il consolidato quadro di
riferimento affermatosi in diritto pubblico (nel senso di escludere recisamente profili di tutela giurisdizionale nella vicenda dell’autotutela).
E non si può certo ritenere che i più recenti contributi normativi, che
hanno profondamente inciso sulla struttura dell’istituto dell’autotutela in
materia tributaria, siano valsi ad apportare salutari chiarimenti al tema
trattato.
c) L’ultima conclusione, conseguita in tema di obbligo dell’amministrazione finanziaria di dar corso al procedimento in ipotesi di presentazione di specifica istanza da parte del contribuente, rappresenta uno
strappo ulteriore – e di non poco momento – consumato nei confronti dei
principi oramai consolidatisi nel diritto amministrativo.
In tale materia, come è noto, l’irrilevanza della (eventuale) istanza
del privato volta a promuovere il riesame della fattispecie e l’inesistenza
dell’obbligo dell’amministrazione di comunicare il provvedimento adottato, si saldano indissolubilmente legittimando la configurazione
dell’istituto in termini di procedimento volto alla salvaguardia dell’interesse esclusivo della pubblica amministrazione (escludendo, in tal modo,
concrete prospettive di tutela giurisdizionale a favore del privato).
Il legislatore tributario, da parte sua, nel momento stesso in cui san-
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cisce l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di procedere al riesame
per effetto della proposizione dell’istanza del contribuente (75) nonché
di comunicare il relativo provvedimento adottato, ha spezzato irrimediabilmente quel paradigma concettuale proiettando automaticamente la vicenda sul piano del controllo dell’operato amministrativo in sede giurisdizionale (76); e tale originale impostazione ha un significato pregnante essenzialmente a fronte di provvedimenti impositivi inopponibili.
Si prospetta, a questo punto, uno scenario fortemente problematico,
atteso che si impianta nella materia tributaria un istituto snaturandone la
funzione tradizionale: non più (o non solo) volto all'annullamento o alla
sanatoria dei provvedimenti illegittimi o infondati e, dunque, alla salvaguardia degli interessi dell’erario, ma (anche) una forma alternativa di
tutela, surrogatoria di quella di merito (della quale il contribuente non si
è avvalso), i cui contenuti risultano nient’affatto semplici da ricostruire.
Tanto più in materia tributaria, ove il contribuente non può che dedurre, mediante l’istanza, rilievi di merito, vale a dire riguardanti l’an e/o
il quantum debeatur, contestando gli esiti dell’attività impositiva di natura essenzialmente vincolata, mentre l’attività di autotutela dell’amministrazione finanziaria esprime, notoriamente, una facoltà discrezionale,
con il risultato, piuttosto sconcertante, che al giudice (di legittimità) si
sottopongono rilievi di merito (di per sé rientranti nella giurisdizione di
un giudice diverso) (77).
Questa contraddizione di fondo rende incandescente la problematica
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(75) Nel contesto di una ulteriore apertura al contraddittorio nell’ambito del procedimento di accertamento che ha positivamente caratterizzato la più recente stagione normativa (erario che esprime meno autorità e richiede più partecipazione al contribuente),
ma che, però, nella fattispecie, ha condotto a risultati discutibili.
(76) L’amministrazione finanziaria assume, al riguardo, una posizione giuridicamente contraddittoria: sussisterebbe, da un lato, l’obbligo dell’ufficio di emettere e comunicare un provvedimento (motivato) a fronte dell’istanza del contribuente, senza che
tale obbligo possa far sorgere una posizione giuridica significativa dello stesso contribuente sul piano della tutela giurisdizionale. Inevitabilmente, invece, l’obbligo di notificare un provvedimento (ancorché negativo) sottopone la fattispecie al necessitato controllo del giudice, anche per scontate esigenze d’ordine costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), anche se non è certamente facile, nella fattispecie, prospettare i termini e i modi di
tale tutela.
(77) Con l’ulteriore conseguenza, a questo punto, che introducendo forzatamente
nell’autotutela la prospettiva della tutela giurisdizionale, non si comprende più la prospettazione dell’esercizio dell’autotutela solo nelle ipotesi più appariscenti di infondatezza del provvedimento impositivo, in quanto criterio di condotta valevole all’interno della stessa amministrazione ma certamente non significativo per il giudice.
102
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della tutela del contribuente a fronte dell’attività amministrativa di riesame di provvedimenti inopponibili.
Ma questo è un capitolo assolutamente originale e non poco impegnativo delle vicende dell’autotutela in materia tributaria.
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Giurisprudenza
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CASSAZIONE, SS.UU. civ., 3 giugno 2004 - 5 ottobre 2004, n. 19854; Pres.
Grieco, Rel. Altieri
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Accertamento - Avviso di accertamento - Natura - Atto amministrativo sostanziale e recettizio - Provocatio ad opponendum - Esclusione - Notificazione nel termine di decadenza - Necessità - Regime delle notificazioni processuali - Previsione espressa - Sanabilità del vizio - Conseguenza - Proposizione del ricorso giurisdizionale - Raggiungimento
dello scopo della notificazione - Equipollenza - Impugnazione successiva al termine di decadenza - Tardività della notifica e nullità dell’avviso di accertamento - Conseguenza - Eccezione specifica nei motivi di
ricorso - Necessità - Rilevabilità d’ufficio della tardiva sanatoria Esclusione
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L’applicazione del regime di sanatoria previsto dalla legge processuale civile non può essere mera conseguenza della supposta natura pre-processuale o
quasi-processuale dell’accertamento tributario, così come è da escludere, per
converso, che la natura sostanziale di quell’atto costituisca ostacolo insormontabile all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto
quando vi sia un espresso richiamo di essi nella disciplina tributaria; e, piuttosto, nonostante l’avviso di accertamento sia atto amministrativo autoritativo e
strumento attraverso il quale – in ossequio ai principi di tipicità e nominatività
– l’amministrazione enuncia nei confronti del destinatario ciò che deve essere
per lui di diritto nel caso concreto, il rinvio alle (e l'applicazione delle) forme
sulla notificazione processuale comporta, quale necessità logica, la soggezione
al regime della nullità della notificazione nel processo ed a quello – che costituisce una sorta di limite alla dichiarazione di nullità – delle relative sanatorie,
non essendovi alcun principio o ragione sistematica per ritenere che, in materia di notificazione di atti di accertamento (pur regolata dal codice di procedura civile) viga un regime diverso; con la conseguenza che la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento tributario può essere sanata per raggiungimento dello scopo e per effetto della proposizione della impugnativa – testimonianza, questa, del conseguimento della finalità dell’atto di portare a conoscenza del destinatario i termini della pretesa tributaria e consentirgli, così,
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PARTE SECONDA
un’adeguata difesa –, ma non mai nel senso di attribuire ex tunc validità ad un
intempestivo atto di esercizio del potere di accertamento, salvo che il conseguimento dello scopo avvenga entro il termine previsto dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio di tale potere; in caso contrario, infine, poiché la decadenza
dell’amministrazione finanziaria dal potere di accertamento non produce l’inesistenza degli atti impositivi successivamente emanati e non è rilevabile d'ufficio, il contribuente ha l’onere di dedurla come specifico motivo di ricorso, e,
quindi solo se quell’onere sia stato prudenzialmente assolto, l'impugnativa non
svolgerà effetto sanante nei confronti di detto peculiare vizio (1)*.
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CASSAZIONE, sez. civ. V trib., 2 luglio 2003 - 29 gennaio 2004, n. 1647; Pres.
Riggio, Rel. Del Core
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Accertamento - Avviso di accertamento - Notifica a mezzo posta - Tempestività - Riferimento alla data di spedizione del plico - Necessità - Giurisprudenza costituzionale additiva - Criterio dello sdoppiamento dei
termini - Fondamento
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La disposizione dell’art. 51, comma 3, D.Lgs. 15 novembre 1993 n. 507,
deve essere interpretata nel senso che, qualora il Comune notifichi l’avviso di
accertamento della Tosap a mezzo posta, il termine per verificare la tempestività della notifica coincide con la spedizione del piego raccomandato A.R. e non
con la ricezione del plico da parte del contribuente, anche in quanto contrasterebbe con i principi di eguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dagli artt. 3 e 97 della Carta fondamentale, oltre che con il
canone della ragionevolezza, ritenere che il principio secondo cui, in caso di
notificazione a mezzo del servizio postale, il notum facere si perfeziona per il
notificante al momento della spedizione dell’atto per raccomandata – e non della ricezione dell’atto notificando (purché questa avvenga) – riguardi solamente
le notificazioni eseguite nel quadro ed in funzione del processo, e non invece
quelle aventi ad oggetto gli avvisi di accertamento, costituenti atti (non processuali, né specificamente funzionali al processo, ma) amministrativi ed esplicativi della potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria (2)*.
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FATTO - Con avviso di liquidazione notificato ad E.D.V. il 10 giugno 1996,
l’ufficio del Registro di Formia rettificava, ai fini dell’Invim, il valore finale di
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(*) Segue nota firmata.
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un complesso immobiliare conferito in una costituenda società in nome collettivo, a seguito della contestuale trasformazione di una impresa familiare. Esso veniva notificato ad E.D.V.
Gli eredi del D.V. proponevano ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Latina, deducendo preliminarmente la nullità della notificazione, perché non effettuata agli eredi collettivamente ed impersonalmente. La Commissione respingeva il ricorso.
Proponevano appello gli eredi e la Commissione tributaria regionale del
Lazio accoglieva il gravame con sentenza 7 luglio 1998, ritenendo la nullità
dell’avviso di liquidazione, in quanto notificato nel domicilio del de cujus ad
uno solo degli eredi, e non, come stabilito dall’art. 65 del DPR 29 settembre
1973, n. 600, a tutti gli eredi, impersonalmente e collettivamente.
L’amministrazione finanziaria proponeva ricorso per Cassazione, sulla base di due motivi.
Col primo mezzo sosteneva la nullità della sentenza, in relazione agli artt.
111 Cost., 36, n. 4 D.Lgs. n. 546/1992 e 360 n. 4 c.p.c., in quanto la stessa
avrebbe acriticamente accolto la tesi dei contribuenti, omettendo l’esposizione
dei motivi in fatto e in diritto sui quali la decisione si è fondata.
Col secondo mezzo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt.
65 del DPR. n. 600/1973, 156 e 160 c.p.c., nonché omessa insufficiente, contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostiene che
il citato art. 65 dispone che gli eredi del contribuente devono comunicare all’ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e
il proprio domicilio fiscale e che la notifica degli atti concernenti il dante causa
può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo
domicilio del de cujus. In mancanza di tale comunicazione, l’ufficio aveva regolarmente notificato l’avviso di liquidazione mediante consegna ad una figlia.
In ogni caso, il tempestivo ricorso di tutti gli eredi alla Commissione tributaria
provinciale competente dimostrava che l’atto aveva raggiunto il suo scopo, rendendosi applicabile il principio sancito dall’art. 156, richiamato dall’art. 160,
c.p.c.
Stante il contrasto formatosi sulla applicabilità della sanatoria di cui agli
artt. 156 e 160 c.p.c. alla notificazione dell’accertamento tributario nella giurisprudenza della Sezione Tributaria, quest’ultima, con ordinanza del 12 marzo
2003, rimetteva la causa al Primo Presidente, il quale ne disponeva l’assegnazione alle Sezioni Unite.
2. Il contrasto di giurisprudenza.
Nella sentenza 12 settembre 2002 n. 17762, la sezione tributaria, uniformandosi alle precedenti pronunce della prima sezione 7 aprile 1994 n. 3294, e
9 giugno 1997 n. 5100, e a quella della stessa sezione tributaria 29 maggio n.
7284, affermava che la notificazione dell’avviso di accertamento affetta da nullità rimane sanata, con effetto ex tunc, dalla tempestiva proposizione del ricorso
del contribuente, atteso che, da un lato, l’avviso di accertamento ha natura di
provocatio ad opponendum, la cui notificazione è preordinata all’impugnazione
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e, dall’altro, l’art. 60, comma 1, del DPR 29 settembre 1973, n. 600 (dettato in
materia di accertamento delle imposte sui redditi, ma applicabile anche in tema
di imposta di registro ed Invim) richiama espressamente, per gli avvisi ed altri
atti che devono essere notificati al contribuente, “le norme stabilite dagli artt.
137 ss. c.p.c.”, così rendendo applicabile l’art. 160 del codice medesimo, il quale, attraverso il rinvio al precedente art. 156, prevede che la nullità non possa essere dichiarata quando l’atto ha raggiunto il suo scopo.
Tale sentenza si è posta in consapevole contrasto con le sentenze della sezione tributaria 5924/2001, e 3513/2002, nelle quali è stato affermato che l’avviso di accertamento non è un atto processuale, né è funzionale al processo – la
cui instaurazione si correla non già alla notificazione dell’avviso di accertamento o di qualsiasi atto impositivo impugnabile, che ne costituisce un semplice antecedente, ma alla proposizione del ricorso di cui agli artt. 15 ss del DPR n.
636/1972 e, successivamente, 18 e 20 del D.Lgs. n. 546/1992 – ma è atto amministrativo, esplicativo della potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria. Da ciò deriva l’inapplicabilità della disciplina della sanatoria delle nullità
delle notificazioni degli atti processuali all’avviso di accertamento e, quindi,
non può ritenersi, alla stregua di tale disciplina, che la proposizione del ricorso
da parte del contribuente avverso l’atto notificato possa produrre l’effetto di impedire, in ogni caso, la verificazione della decadenza di diritto sostanziale, correlata alla mancata tempestiva e valida notifica di detto avviso prevista dall’art.
43, comma 1, del DPR 29 settembre 1973, n. 600.
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DIRITTO - 3.1. Il primo motivo deve essere rigettato, in quanto la decisione
impugnata, contrariamente a quanto affermato dalla difesa dell’amministrazione, contiene sufficienti elementi per cogliere la ratio della decisione impugnata
ed una valutazione delle critiche ad essa rivolte, che non costituiscono un mero
rinvio al contenuto della pronuncia di primo grado.
3.2. Merita, invece, accoglimento il secondo motivo, dovendosi seguire la
tesi dell’applicabilità della sanatoria di cui agli artt. 156 e 160 c.p.c., anche se
per ragioni non del tutto coincidenti con quelle poste a base delle citate decisioni
della Corte.
Si deve rilevare, anzitutto, che il problema viene posto soprattutto in relazione ai termini di decadenza previsti dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio dei poteri di accertamento, di rettifica e di riscossione, essendo stato sostenuto, quale conseguenza dell’applicabilità del regime di sanatoria previsto per la
notifica degli atti processuali, che la sanatoria (costituita, nella specie, dalla tempestiva proposizione del ricorso da parte di tutti i legittimati) comporti un’attribuzione di validità ex tunc alla notificazione di atti di accertamento e, quindi,
impedisca il verificarsi della decadenza.
È da escludersi, peraltro, che l’applicazione del regime di sanatoria previsto dalla legge processuale civile sia una mera conseguenza della natura pre-processuale o quasi processuale dell’accertamento tributario, il quale, in tale ottica,
viene definito come una mera provocatio ad opponendum. L’atto in questione,
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costituisce, infatti, come tutti gli atti amministrativi autoritativi, lo strumento attraverso il quale – in ossequio ai principi di tipicità e nominatività – l’amministrazione enuncia nei confronti del destinatario ciò che deve essere per lui di diritto nel caso concreto; per quanto attiene all’imposizione fiscale, le ragioni e il
contenuto della pretesa tributaria. Il momento processuale, che è meramente
eventuale, laddove necessaria ed indefettibile è l’emanazione dell’atto di accertamento, quando non vi sia stato spontaneo ed esatto adempimento dell’obbligazione tributaria, si ricollega all’atto, sia perché la tutela giurisdizionale si esercita – secondo il sistema processuale vigente – attraverso un meccanismo d’impugnazione dello stesso, sia perché l’enunciazione della pretesa tributaria costituisce, al contempo, l’oggetto del processo. Tali elementi di collegamento non
possono, pertanto, qualificare l’accertamento come un atto di natura assimilata
a quella processuale, cosa che, d’altra parte, non sarebbe sostenibile per qualsiasi altro atto amministrativo nei cui confronti sia prevista una tutela giurisdizionale di tipo impugnatorio.
La natura sostanziale dell’atto in questione non costituisce, però, un ostacolo insormontabile all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando, come nella specie, vi sia un espresso richiamo nella disciplina tributaria. Per quanto concerne le notificazioni, l’impiego del procedimento di notificazione nel processo civile risponde ad evidenti necessità di garanzia del contribuente e non è nuovo nell’ordinamento: un esempio significativo – che, come si dirà in seguito, ha dato luogo a pronunce giurisprudenziali
nelle quali si è posto il problema della sanatoria per conseguimento dello scopo
– è costituito dal decreto di espropriazione secondo l’art. 51 della legge fondamentale n. 2359/1865, il quale stabilisce che il decreto di espropriazione “deve,
a cura dell’espropriante, essere notificato a forma delle citazioni ai proprietari
espropriati”.
Ciò posto, pur in difetto di un espresso richiamo, l’applicazione delle forme sulla notificazione comporta, quale necessità logica, quella del regime della
nullità (in particolare, quella di origine giurisprudenziale sulla differenza tra nullità e inesistenza) e quella sulle sanatorie, che costituisce una sorta di limite alla dichiarazione di nullità, non essendovi alcun principio o ragione sistematica
per ritenere che in materia di notificazione di atti di accertamento, pur regolata
dal cod. proc. civ., viga un regime diverso. La sanatoria del raggiungimento dello scopo per atti non processuali non è, del resto, estranea al sistema: appare significativo che per gli atti impugnabili dinanzi al giudice amministrativo la piena conoscenza dell’atto – secondo gli artt. 36 del RD n. 1054/1924 e 21 comma
1 della legge n. 1024/1971 – costituisce vicenda equipollente alla sua notificazione ed è perciò idonea a far decorrere il termine di decadenza per proporre il
ricorso al giudice amministrativo.
Tanto premesso, si deve affrontare il problema dell’operatività della sanatoria in relazione alla decadenza dall’esercizio del potere di accertamento.
Secondo le sezioni unite, l’applicazione della sanatoria del raggiungimento
dello scopo nel caso di impugnazione dell’atto la cui notificazione sia affetta da
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nullità significa che, se il contribuente mostra di aver avuto piena conoscenza
del contenuto dell’atto e ha potuto adeguatamente esercitare il proprio diritto di
difesa, lo stesso contribuente non potrà, in via di principio, dedurre i vizi relativi alla notificazione a sostegno di una domanda di annullamento. A diverse conclusioni deve, peraltro, pervenirsi se la sanatoria, costituita dalla proposizione
del ricorso alle commissioni, sia intervenuta quando il termine per l’esercizio
del potere di accertamento è scaduto. In tale ipotesi, infatti, il meccanismo della sanatoria deve essere combinato con quello, indefettibile, della decadenza
dell’esercizio del potere, per cui la sanatoria può verificarsi solo se avvenuta prima del decorso del termine di decadenza. Vi è da rilevare, infatti, che la notificazione costituisce un elemento essenziale della fattispecie necessaria per evitare la decadenza dell’amministrazione. In altri termini, dall’esercizio del diritto
di difesa mediante proposizione del ricorso non può mai derivare una convalida
ex tunc di un atto imperfetto, di per sé inidoneo ad evitare la decadenza.
Si tratta di una conseguenza dell’applicazione di principi generali, nei casi
in cui la legge pone limiti temporali all’esercizio di poteri amministrativi. Si
consideri, ad esempio, l’ipotesi del decreto di espropriazione emesso successivamente alla scadenza del termine indicato nella dichiarazione di pubblica utilità: in tale caso, secondo la giurisprudenza della Corte, l’atto si considera emesso in carenza di potere e nessun effetto sanante può derivare da una sua impugnazione dinanzi al giudice amministrativo.
Una consolidata giurisprudenza della Corte ha affermato che l’applicazione del regime processuale della notificazione al decreto di espropriazione – formalità che segna, secondo il comma 2 dell’art. 51 della legge n. 2359/1865,
l’inizio del termine di decadenza per proporre opposizione alla stima – non consente di ritenere che, attraverso la sanatoria per raggiungimento dello scopo,
l’espropriato che abbia proposto opposizione deducendo il vizio della notificazione possa considerarsi decaduto, in quanto la decadenza ha natura sostanziale. Nella sentenza n. 2318/1990 la Corte ha affermato che la nullità della notificazione del decreto di espropriazione ha carattere sostanziale, e non processuale, e, nell’ambito del procedimento espropriativo, impedisce il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima. Pertanto, anche se gli interessati possono proporre opposizione anche subito dopo l’emanazione del decreto
ablativo, non possono ritenersi soggetti al termine di decadenza, che per essi
mai aveva iniziato a decorrere. Quindi, non può trovare applicazione il principio della sanatoria della notificazione nulla per il raggiungimento dello scopo,
nell’ipotesi in cui l’atto sia comunque venuto a conoscenza dell’interessato.
Identico principio è stato affermato nella sentenza n. 319/1987, nella quale
la Corte ha ritenuto che, in caso di nullità della citazione contenente un atto di
riscatto di fondi agrari, la sanatoria (consistente nella costituzione del convenuto) non può evitare la decadenza dall’esercizio del diritto di riscatto.
In altri termini, per ritornare all’accertamento tributario, la nullità della sua
notificazione può essere sanata relativamente al conseguimento della finalità
dell’atto di portare a conoscenza del destinatario i termini della pretesa tributa-
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ria e consentirgli, così, un’adeguata difesa, ma non mai nel senso di attribuire ex
tunc validità a un intempestivo atto di esercizio del potere di accertamento, salvo che il conseguimento dello scopo avvenga entro il termine previsto dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio di tale potere.
Vi è da considerare, inoltre, che la sanatoria del raggiungimento dello scopo non può eliminare gli effetti della decadenza, neppure quando questa ha natura processuale. Nella sentenza n. 9342/1997 le sezioni unite hanno affermato
che la tardiva notificazione della citazione in riassunzione è un atto per sua natura ab origine inidoneo ad evitare la decadenza di cui all’art. 392 c.p.c., per cui
nessuna sanatoria può conseguire alla costituzione del convenuto, essendo l’atto ab origine inidoneo a produrre effetti.
Identica soluzione è stata adottata in tema di nullità della notificazione
dell’appello ad alcune parti, in relazione alla quale la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la sanatoria, costituita dalla costituzione degli appellati, non
può impedire la decadenza se la costituzione sia avvenuta successivamente alla
scadenza del termine per proporre l’impugnazione.
Poste queste premesse, necessarie per delimitare gli effetti dell’applicazione della sanatoria, che può evitare la decadenza dal potere di accertamento soltanto ove sia intervenuta prima della scadenza del termine (per riferirsi al caso
di specie, ove il ricorso alla commissione di primo grado sia proposto entro tale termine), vi è, comunque, da rilevare che la decadenza dell’amministrazione
finanziaria del potere di accertamento – secondo una consolidata giurisprudenza della Corte – non produce l’inesistenza degli atti impositivi successivamente
emanati, per cui anche in tal caso il contribuente ha l’onere di dedurre la decadenza come specifico vizio nel ricorso introduttivo dinanzi alle commissioni tributarie, escludendosi un potere di declaratoria ex officio del giudice. È evidente, altresì, che la proposizione di un ricorso introduttivo nel quale si faccia valere, da sola o con altri vizi, la decadenza dell’amministrazione finanziaria
dall’esercizio del potere di accertamento non svolgerà in nessun caso un indiscriminato effetto sanante nei confronti di tale vizio.
Applicando tali principi al caso di specie, il vizio dedotto deve essere indubbiamente ricondotto all’ipotesi di nullità, e non a quello dell’inesistenza, essendo stata la notifica effettuata a uno degli eredi, persona non priva di un collegamento col destinatario previsto, e cioè gli eredi collettivamente e impersonalmente. È del pari evidente che l’ufficio finanziario era a conoscenza del decesso di E.D.V., per cui non può essere addebitata agli eredi alcuna conseguenza per la mancata segnalazione all’ufficio del decesso e dei nominati degli eredi. Avendo tutti gli eredi proposto ricorso avverso l’avviso di liquidazione dinanzi alla commissione tributaria provinciale, svolgendo adeguate difese e così
dimostrando di avere una piena conoscenza del contenuto dell’atto impugnato,
il vizio della notificazione non poteva essere dichiarato dal giudice. Mentre, nella specie, nessuna questione era stata svolta dai ricorrenti sulla decadenza
dell’ufficio dal potere di accertamento.
L’accoglimento della censura comporta la cassazione della sentenza impu-
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PARTE SECONDA
gnata, con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio, la quale dovrà, pertanto, esaminare gli altri motivi dedotti dai contribuenti
a sostegno dell’appello e decidere anche sulle spese della presente fase.
P.Q.M. - La Corte di Cassazione a SS.UU. accoglie il secondo motivo e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra
sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.
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FATTO - P.A.C. impugnò l’avviso di accertamento con cui il Comune di
Roma gli aveva richiesto la somma di lire 13.126.669 a titolo di tassa per l’occupazione di suolo pubblico eccependo, tra l’altro, la decadenza dalla pretesa fiscale in quanto il termine triennale previsto dall’art. 51, comma 3, del D.Lgs. n.
507/1993 era scaduto al 31 dicembre 1997, mentre egli aveva ricevuto l’avviso
il 5 gennaio 1998.
L’adita Commissione provinciale di Roma rigettò il ricorso, disattendendo
l’eccepita decadenza del Comune dal potere di emanare l’accertamento in quanto, per la tempestività della relativa notifica, occorreva riferirsi alla data di spedizione avvenuta il 29 dicembre 1997 e non a quella di ricezione da parte del
contribuente.
L’appello successivamente proposto dall’A.C. fu respinto dalla Commissione tributaria regionale del Lazio sul rilievo che l’avviso di accertamento era
stato spedito in tempo utile laddove erano privi di autenticità i documenti che ne
comprovavano la data di consegna.
Per la cassazione della riassunta sentenza ha proposto ricorso P.A.C. sulla
base di un motivo.
Non resiste l’ente intimato.
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DIRITTO - Con l’unico motivo il ricorrente censura la sentenza per avere la
Commissione tributaria regionale, da un canto, valorizzato il momento della
spedizione dell’accertamento in violazione dell’art. 51, comma 3, del D.Lgs. n.
507/1993 che invece, richiedendo l’avviso di ricevimento per la notifica a mezzo posta del provvedimento, privilegia il principio della ricezione; dall’altro, negato efficacia probatoria, sol perché prodotto in fotocopia, al documento da cui
si evinceva l’intempestività della notifica (sull’assunto del suo perfezionarsi con
la consegna dell’atto) così violando l’art. 2719 c.c., il quale attribuisce alle copie fotostatiche lo stesso valore degli originali ove, come nella specie, non
espressamente disconosciute.
Il ricorso è infondato.
In tema di tassa per l’occupazione del suolo pubblico l’art. 51, comma 3,
D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 prevede che gli avvisi di accertamento, sia in
rettifica che d’ufficio, devono essere notificati al contribuente, a pena di decadenza, anche a mezzo posta, mediante raccomandata con avviso di ricevimento,
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entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui la denuncia è stata presentata o a quello in cui la denuncia avrebbe dovuto essere presentata.
Nella specie è pacifico che, per notificare l’avviso di accertamento impugnato, il Comune di Roma si è avvalso del servizio postale spedendo il plico
raccomandato il 29 dicembre 1997.
Ciò deve far ritenere notificato tempestivamente il discusso avviso e quindi infondata – come correttamente ritenuto da entrambi i giudici tributari – l’eccezione di decadenza del Comune dalla pretesa impositiva, scaturita – anche
questo è incontroverso – da una denuncia presentata dal contribuente nel 1994.
A tale conclusione si perviene rilevando anzitutto che in mancanza di una
particolare diversa normativa, le notificazioni degli avvisi di accertamento dei
tributi locali devono essere effettuate osservando le disposizioni contenute negli
artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile i quali hanno efficacia generale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 23 novembre 1976 n. 1146); ciò, del resto,
in linea con una tendenza già emersa a livello normativo (vedi art. 60 DPR 29
settembre 1973, n. 600 in tema di notifiche degli avvisi di accertamento delle
imposte sui redditi).
In una tale cornice, vanno necessariamente richiamati i principi affermati
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 477/2002 con la quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 del codice di
procedura civile e dell’art. 4, comma 3, della legge 20 novembre 1982, n. 890
(Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse
con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevedevano che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario o all’agente postale.
Di vero, ad avviso di questa Corte, dalla predetta decisione, benché emessa in tema di notifica di atti giudiziari e in affermata presenza di un vulnus ai
principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost., si deve trarre il principio generale che per le notifiche a mezzo posta anche di atti amministrativi, quali gli
avvisi di accertamento, la notificazione deve ritenersi perfezionata per l’amministrazione notificante al momento della spedizione dell’atto notificando e non
della ricezione dell’atto medesimo da parte del contribuente (per il quale resta
fermo, naturalmente, il principio del perfezionamento della notificazione solo
alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento). Diversamente opinando, si imputerebbero alla pubblica amministrazione le conseguenze dovute a negligenze o ritardi del servizio postale ovverosia al compimento di
attività riferibile non all’amministrazione notificante, ma a soggetti diversi e
quindi estranea alla sua sfera di disponibilità, impulso e controllo.
Al contrario, la grave sanzione della decadenza della pretesa fiscale deve
essere correlata all’intempestivo invio dell’atto impositivo.
Ne deriva che la disposizione dell’art. 51, comma 3, D.Lgs. 15 novembre
1993, n. 507 deve essere interpretata nel senso che, qualora il Comune notifichi
l’avviso di accertamento della Tosap a mezzo posta, il termine per verificare la
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tempestività della notifica coincide con la spedizione del piego raccomandato
A.R. e non con la ricezione del plico da parte del contribuente. Tale opzione interpretativa della norma de qua si presenta in ogni caso univocamente adeguatrice ai precetti costituzionali. Sarebbe invero contrario ai principi di eguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dagli artt. 3 e 97
della Carta fondamentale, oltre che al canone della ragionevolezza, ritenere che
il principio secondo cui in caso di notificazione a mezzo del servizio postale il
notum facere si perfeziona per il notificante al momento della spedizione
dell’atto per raccomandata e non della ricezione dell’atto notificando (purché
questa avvenga), anche in quanto affermato dal giudice delle leggi a seguito
dell’accertato contrasto con l’art. 24 Cost. dell’opposta regola enucleabile dalla
denunciata normativa, riguardi solamente le notificazioni eseguite nel quadro e
in funzione del processo e non invece quelle aventi a oggetto gli avvisi di accertamento costituenti atti (non processuali né specificamente funzionali al processo ma) amministrativi, esplicativi della potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria. Quindi, fra le due possibili letture dell’art. 51, comma 3,
D.Lgs. 15 novembre 1993 n. 507 dev’essere prescelta quella che elide in radice
il dubbio di illegittimità costituzionale di detta norma in relazione ai richiamati
principi della Costituzione.
È infatti principio incontestabile – già autorevolmente affermato (Cass. nn.
674/1971, resa a SS.UU., 4906/1995) e ora ribadito – che, se una norma di legge sia suscettibile di piú interpretazioni, di cui una darebbe alla norma un significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente e deve essere superato e risolto interpretando la norma in senso conforme alla Costituzione
e alle leggi costituzionali. Del resto, ciò risponde agli auspici della Corte Costituzionale, la quale ha spesso sollecitato i giudici a quibus a non trascurare le tecniche della interpretazione adeguatrice, che consentono di ottenere l’allineamento del dato normativo ai superiori precetti della Costituzione (ove possibile)
già sul piano ermeneutico, indipendentemente dal ricorso al giudizio incidentale di costituzionalità.
In definitiva il ricorso va rigettato, senz’uopo di provvedere sulle spese del
presente giudizio, non avendovi il Comune intimato svolto difese di sorta.
P.Q.M. - La Corte, rigetta il ricorso.
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GIURISPRUDENZA
(1-2) La notifica dell’atto tributario recettizio: un “Giano bifronte” tra sanatoria e decadenza.
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SOMMARIO: Premessa. - 1. Il cd. “sdoppiamento” dei termini della notifica processuale: limiti o “autolimiti” della giurisprudenza costituzionale. - 2. L’atto recettizio e
la decadenza tributaria, nella dogmatica e nello “storico” dibattito sulla coobbligazione solidale. - 3. Il “tempo poliedrico” della notificazione tributaria e la prioritaria certezza dell’imposizione. Decadenza e “buona amministrazione” nel pensiero
della sezione tributaria. - 4. Tra sanatoria e decadenza, l’atto recettizio tributario e
le paradossali implicazioni della pronuncia delle SS.UU.
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Premessa. - La sentenza delle SS.UU. della Cassazione sulla sanatoria dei vizi di notifica dell’atto tributario recettizio e la decadenza dalla possibilità di esercitare il potere amministrativo tributario, per effetto
di una tardiva notifica dell’atto che ne costituisca di volta in volta estrinsecazione, è l’occasione per tornare a ragionare (1) – ancora una volta –
della giurisprudenza costituzionale (additiva e interpretativa) che, dal
2002 ad oggi, ha profondamente mutato il regime delle notificazioni: più
in particolare, per verificare se vi fosse un “limite naturale” individuato
dalla stessa Consulta, se ciò possa rilevare di per sé, e, comunque – se
del caso –, valutare la portata del principio “additivo”; quindi, misurarne
possibilità di applicazione ed effetti, talvolta “paradossali”, in relazione
al novero degli atti tributari recettizi.
Spesse volte, nella giurisprudenza, è prevalsa l’idea che tra notificazione ed atto da notificare vi possa essere una sorta di “cesura” netta,
piuttosto che la relazione che corre tra “determinazione” (o “dichiarazione”) e sua “esternazione”. La sentenza della sezione tributaria n.
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(1) Ho già avuto occasione più volte di affrontare, sistematicamente, l’argomento
(cfr., C. SCALINCI, Modi e tempi ragionevoli nel processo tributario ed effettività del diritto di difesa: in attesa della svolta telematica, in questa Rivista, n. 2/2003, II, 148 ss.;
Id., Deposito di documenti e notifiche endo-processuali: l’essenza propria e complessa
della “regolazione della tutela giurisdizionale”, in questa Rivista, n. 5/2004, II, 287 ss.),
peraltro ampiamente dibattuto e trattato dalla migliore dottrina (si veda, tra gli altri, R.
LUPI, Sulla legittimità della costituzione in giudizio a mezzo posta, con spedizione degli
atti entro i termini per la costituzione, in questa Rivista, n. 2/2003, II, 143 ss.; C. GLENDI, Rimessa alle Sezioni Unite la questione sulla sanabilità dei vizi di notifica degli atti
impugnati, in Corr. trib., 2003, 2471; Id., Sulla sanabilità o meno dei vizi di notifica degli atti del prelievo per il solo fatto della loro impugnazione davanti alle commissioni tributarie, in Riv. giur. trib., 2003, 1076; Id., La sanatoria delle nullità di notifica degli atti impugnati nel processo tributario, in Riv. dir. fin., n. 1/1978, 45 ss.). Si veda, inoltre,
sul punto, A. VIGNOLI, Sulla sanatoria di atti impositivi irregolarmente notificati, in
Rass. trib., n. 3/2001, 929 ss.
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1647/2004 – qui congiuntamente annotata – ne costituisce ulteriore testimonianza, se solo si considera che, secondo quel Giudice di legittimità,
contrasterebbe con il principio di “eguaglianza” (e di buon andamento
della pubblica amministrazione), oltre che con il canone della ragionevolezza, ritenere che il meccanismo dello sdoppiamento dei termini di
notificazione riguardi solamente le notificazioni eseguite nel quadro e in
funzione del processo, e non invece quelle aventi ad oggetto “atti amministrativi”, quali gli avvisi di accertamento.
Secondo le SS.UU., poi, la notifica dell’atto tributario recettizio, in
particolare, sarebbe processuale o processualmente regolata, dunque sanabile, se solo nulla, purché, nel termine di decadenza dal potere amministrativo concretizzato nell’atto notificato, il contribuente quell’atto
l’abbia comunque ricevuto e, forse, necessariamente impugnato. Qualora, quindi, il fortunato destinatario sia stato tanto previdente, o preveggente, perspicace o solo prudente, da poter annoverare, tra i motivi di ricorso, anche l’eccezione di tardività della sanatoria, la notificazione risulterebbe perfetta ma inutiliter data, perché nel frattempo è spirato il
termine di legge sostanziale, ed il Giudice – il quale non può provvedere d’ufficio –, rileverebbe l’eccepita tardività.
Si profilano, dunque, un quadro ed un percorso tortuosi e complessi, nei quali la notifica dell’atto recettizio tributario, collocata – dalle
SS.UU. – nel mezzo del guado, tra sanatoria e decadenza, diritto sostanziale e processuale, regime e forma di “comunicazione”, conoscenza
aliunde e proposizione del ricorso, assume le sembianze del “Giano bifronte” (2): nel simbolismo di matrice mitologica, icona della doppiezza
e geometrica rappresentazione dell’eclettismo concettuale, più che
dell’ibridismo.
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1. Il cd. “sdoppiamento” dei termini della notifica processuale: limiti o “autolimiti” della giurisprudenza costituzionale. - La giurisprudenza costituzionale, maturata ed affinata nel corso dell’ultimo biennio,
in tema di termini di notificazione, lungi dall’aver delineato un modello
———————
(2) “Iane bifrons, qui iam transacta, futuraque calles, quique retro sannas (sicut et
ante) vides, Tot te cur oculis, tot fingunt vultibus? an quod circunspectum hominem forma fuisse docet?” (così, ANDREA ALCIATI, Giano bifronte, in Emblemata, Lugduni, 1543
– erudito, umanista e giureconsulto, probabilmente, il principale giurista italiano del XVI
secolo – il quale raffigura l’uomo prudente con il volto di Giano bifronte, simbolo di circospezione e dell’ambiguità dell’atteggiamento umano, … dei molteplici volti degli uomini, alcuni dei quali puntano decisamente alla finzione per finalità che possono essere
anche costruttive, ma anche dell’apertura al tempo nuovo degli eventi).
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strutturale ed operativo “necessario” per le notificazioni in quanto tali,
sembra avere una sua ben precisa ragion d’essere e, soprattutto, una chiara giustificazione, collocazione e connotazione processuale. È sembrata
(3) averla fin dall’origine (sentenza n. 477/2002); l’ha conservata, e resa
ancor più manifesta, nei primi mesi di quest’ultimo anno giudiziario (4).
Già nel mese di marzo 2004 (ord. n. 97), la stessa Consulta ha ribadito che l’ambito proprio della giurisprudenza sul cd. “sdoppiamento dei
termini di notifica” è l’area delle notificazioni di atti “processuali”; e, fin
dall’origine (sent. n. 477/2002), per il principio valso superamento del
“dogma” della responsabilità del notificante, quella Corte è sembrata segnare o volere quei confini. Proprio questi individuavano l’ambito in cui
è ragionevole, possibile e “sostenibile” un nuovo e diverso contemperamento tra le esigenze di tutela e gli interessi coinvolti dalla notificazione di un atto processuale: tra quelli dei legittimati, attivo e passivo, e la
funzione stessa di un limite di tempo per la notificazione nel processo.
Certo già solo per il “contingente oggetto” dei “giudizi a quo”, quella
giurisprudenza, inoltre, verte sulle notificazioni di atti o incombenti della fase iniziale o introduttiva di un giudizio; momento, questo, che potrebbe, a sua volta, identificare un ambito “naturale” ed ancora più circoscritto per il principio additivo, rispetto al più ampio “genere” delle
notificazioni processuali, rendendosi necessaria, invece, una verifica di
compatibilità con la funzione delle notifiche cd. endo-processuali, o almeno di quelle da eseguirsi in un termine “finale” e cd. libero.
Dopo i necessari interventi di tipo additivo, la Corte ha seguito la
“via interpretativa”, quando ciò è stato possibile, per la natura non recettizia – e notoriamente tale – dell’atto processuale e la omogeneità degli
interessi costituzionalmente rilevanti e concorrenti, nelle fattispecie di
notificazione considerate: ossia, quando queste rilevino ai fini meri della tutela giurisdizionale e della declinazione processuale e procedurale
del diritto di difesa, e fin tanto che non subentrino le ragioni “complesse” e “multilaterali” del processo, dell’ordinata e ritmata funzione giurisdizionale.
La giurisprudenza costituzionale in esame, “additiva” del cennato
———————
(3) Mi sia consentito rinviare al mio, Modi e tempi ragionevoli, cit.
(4) Sempre in relazione alla scissione ed alla dualità dei momenti perfezionativi
della fattispecie notificatoria, cfr., infatti, Corte cost., sentenza 23 gennaio 2004, n. 28,
ordinanza 12 marzo 2004, n. 97; sentenza 2 aprile 2004, n. 107, ordinanza 28 aprile 2004,
n. 132, ordinanza 25 maggio 2004, n. 153 (cfr., sul punto, C. GLENDI, La notificazione
degli atti dopo l’intervento della Corte Costituzionale, in Corr. Giur. n. 10/2004, 1315).
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principio, al tempo stesso – in qualche misura – autolimita (5) quella soluzione “di compromesso”, collocata, ormai, tra le norme generali sulle
notificazioni, ma “relativamente alla funzione che sul piano processuale,
cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a
svolgere per il notificante” (così, sentenza n. 28/2004), ovvero limitatamente al novero delle notificazioni di atti processuali (6): e nemmeno di
tutte (7).
Non sembrano sussistere, quindi, i presupposti stessi (8) di una interpretazione cd. adeguatrice, né di una applicazione cd. de plano di
quella giurisprudenza additiva, se non in relazione al genere delle notificazioni e degli atti giuridici qualificati, tutti, dalla natura e dall’attributo
“processuali”; del tutto disomogenei (o almeno, certo, da verificare) ap-
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(5) Non è questo il luogo per una riflessione critica sul recente pronunciato delle
SS.UU. civili, in materia tributaria (regolarizzazione dell’assistenza tecnica), 2 dicembre
2004, n. 22601 (inedita); e, tuttavia, seppure le basi teorico-concettuali dalle quali muove quell’Alto Consesso non appaiano condivisibili, deve far riflettere il loro svolgimento, ossia il principio del necessario spontaneo (o supino) adeguamento del Giudice comune, persino, alla giurisprudenza costituzionale interpretativa di rigetto (formalmente
non vincolante). Il ragionamento delle SS.UU. si risolve in una sorta di economia di attività istituzionali ed in una giurisprudenza sostitutiva del ruolo (peraltro discusso) della
giurisprudenza costituzionale additiva o manipolativa dei testi normativi (l’adeguamento
del testo normativo – nella parte in cui lo stesso è suscettibile di diverse letture – inteso,
da quella Corte, un’inevitabile conseguenza dell’impatto nell’ordinamento dei principi e
delle norme della Costituzione, senza che ciò comporti necessariamente una caducazione della norma di legge). Il “Giudice della interpretazione della legge”, seguendo questo
percorso, informa, quindi, il proprio pronunciato ad un canone inespresso o emerso in un
enunciato “interpretativo-manipolativo di rigetto”, non vincolante (almeno formalmente):
per quanto qui ci occupa, in ogni caso, pronunzia nel senso che, a priori, sembri scongiurare il formarsi di un diritto vivente già “preannunziato” (dal Giudice delle leggi) come non conforme a Costituzione.
(6) Corte cost., ordinanza 12 marzo 2004, n. 97.
(7) Sia consentito rinviare, ancora una volta, ai miei precedenti lavori in argomento, ed in questo senso specifico, identificati nella nota di apertura.
(8) Anche nella sentenza della sezione tributaria in commento si percepisce l’ordine di idee riemerso, più tardi, nella citata, recente sentenza a SS.UU. n. 22601 del mese
di dicembre 2004, al punto che il Giudice di legittimità è sembrato voler corrispondere
agli “auspici della Corte costituzionale, la quale ha (rectius, avrebbe) spesso sollecitato i
giudici a quibus a non trascurare le tecniche della interpretazione adeguatrice, che consentono di ottenere l’allineamento del dato normativo ai superiori precetti della Costituzione (ove possibile – testo della Corte) già sul piano ermeneutico, indipendentemente
dal ricorso al giudizio incidentale di costituzionalità”; ma in questo caso, non si tratta di
un testo normativo e quello enunciato dalla Consulta è un principio, anche esplicitamente, “limitato”, (da quell’insostituibile Giudice) al genere delle notificazioni processuali.
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paiono, invece, la struttura ed il fine della notificazione dell’atto sostanziale in genere – soprattutto, se di natura recettizia –, come gli interessi
coinvolti dalla (o sottesi alla) “esternazione” di quest’ultimo. Più in particolare, poi, natura, effetti e disciplina normativa dell’accertamento dei
tributi, come della notifica dell’avviso di accertamento e degli altri atti
tributari recettizi, appaiono ragioni ostative ad una “osmosi di principio”,
da escludere, se non altro, per la conformazione normativa e la polifunzionalità, proprie dei termini di decadenza “tributari” utili al compiuto
svolgimento della fattispecie dell’atto recettizio entro un inesorabile limite di tempo.
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2. L’atto recettizio e la decadenza tributaria, nella dogmatica e nello “storico” dibattito sulla coobbligazione solidale. - In materia di decadenza, costituisce ius receptum il principio secondo il quale quel peculiare effetto sostanziale irreversibile si produce allorché non si sia verificato quel particolare fatto, atto o evento giuridico che la norma di legge dispone debba avvenire entro un dato limite temporale (9). Tanto in
materia di imposte erariali (per tutti l'art. 43, DPR n. 600/1973) (10),
quanto in materia di tributi locali – e, per tutti, di Ici (art. 11, comma 2,
D.Lgs. n. 504/1992) –, con disposizione di stretta interpretazione, il legislatore fiscale prevede (11), appunto, che sia la “notificazione” (così
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(9) Si veda, in argomento e senza alcuna pretesa di completezza, per tutti, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, 114-115; C. GLENDI, voce Prescrizione e
decadenza (diritto tributario), in Novissimo dig., appendice V, Torino, 1984, 1160 ss.;
Id., voce Termine (diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1992, XLIV, 228 ss.; G. LANDI, voce Prescrizione (diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1986, XXXV, 77 ss.;
M.A., SANDULLI, voce Decadenza (diritto amministrativo), in Enc. giur., Roma, 1988, X,
ed ivi, M. COGLIATI DEZZA, voce Decadenza (diritto tributario) e A. VITALE, voce Decadenza (diritto processuale civile), nonché, ibidem, F. ROSELLI, voce Decadenza (diritto civile); G. PANZA, voce Decadenza nel diritto civile, in Dig. civ., Torino, 1989, V, 132
ss.; cfr., inoltre, SARACENO, Della decadenza, in Comm. cod. civile, diretto da M.
D’Amelio, VI, Firenze, 1943, 1027; S. ROMANO, Decadenza, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947; V. TEDESCHI, voce Decadenza (dir. e proc. civ.), in Enc.
dir., XI, Milano, 1962; A. ROMANO, Note in tema di decadenza, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 1964, I, 227 ss.
(10) Per quanto attiene, specificamente, alle imposte erariali indirette, sembra particolarmente significativo che l’imposta debba essere “richiesta” a pena di decadenza in
un dato termine (art. 76, comma 1, DPR n. 131/1986), e, subito a seguire (art. 76, comma 1-bis), sia previsto che l’avviso di accertamento e di liquidazione della maggiore imposta deve essere notificato entro un termine di decadenza.
(11) Si veda sul punto, per una ricognizione sistematica delle previsioni normative
dell’epoca, M.C. FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1996, 469 ss.;
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globalmente “nominata” nella norma) il procedimento che necessariamente va concluso entro un dato termine di natura decadenziale e, dunque, perentorio. L’ultima disposizione sopra richiamata (12), tra l’altro,
ha la particolarità di essere composta da due diverse ed autonome porzioni sintattiche: l’una, relativa all’emissione dell’avviso di accertamento, e l’altra, relativa alla decadenza dal potere accertativo. L’evento al
quale la decadenza è correlata è, comunque, sempre quello della notificazione entro un dato limite di tempo.
L’atto di accertamento può dirsi notificato, non già quando e al momento in cui ne venga richiesta la notificazione ma al momento temporale specifico e successivo in cui viene materialmente consegnato al destinatario contribuente, che costituisce – credo secondo unanime ricostruzione e giudizio – adempimento “essenziale” al perfezionamento (ed
“ultimo”) del procedimento di notificazione: momento, quindi, indefettibile e non collocabile al di fuori di un procedimento “nominato” dal legislatore “nel suo insieme” e “senza distinzione al suo interno”. Ferma
ed unanimemente condivisa l’idea che la ricezione sia essenziale al perfezionamento della notificazione, non appare condivisibile, quindi, la tesi secondo la quale il tempo di quest’ultima sia quello dell’inoltro per la
notifica, o che la ricezione – a taluni fini o effetti (per il notificante, essenzialmente) – abbia efficacia retroattiva o ex tunc.
Quale atto recettizio, l’avviso di accertamento produce effetto solo a
partire dall’istante in cui ne è perfezionata la notificazione (13): sia che
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cfr., inoltre, M. COGLIATI DEZZA, voce Decadenza (diritto tributario), in Enc. giur., Roma, 1988, X, 1 ss.
(12) Nel richiamato art. 11, prescelto proprio per la particolarità sintattica o morfologica della disposizione, al secondo comma il legislatore distingue, chiaramente, il momento della emissione dal momento della notificazione, e non indica, quale evento o atto di esercizio del potere soggetto a decadenza, l’accertamento in genere, bensì il momento conclusivo ed ultimo dell’attività amministrativa di esercizio del potere sostanziale: identificato questo – senza possibilità di equivoco – nella notificazione e non
nell’emissione dell’atto accertativo.
(13) Non è escluso (cfr., G. GIAMPICCOLO, voce Dichiarazione recettizia, in Enc.
dir., XII, 389, nt. 20) che, … per disposizione di legge, tutti gli effetti o alcuni degli effetti della dichiarazione possano anche retroagire ad un momento anteriore a quello della ricezione; ma neppure in tale ipotesi verrà meno il connotato proprio della recettizietà:
la circostanza che infatti gli effetti, ancorché così specialmente conformati (retroattività),
non si produrranno se non segue (e finché non segue) recezione, starà appunto a confermare che anche in tal caso l’atto è a rilevanza esterna differita e la dichiarazione è una
dichiarazione recettizia. Aggiungiamo, noi, che, in questa prospettiva ricostruttiva, nella
quale la regola è l’inefficacia prima della recezione e la irretroattività degli effetti prodotti solo dal momento in cui avvenga quest’ultima, la conformazione della fattispecie
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GIURISPRUDENZA
questo momento sia considerato elemento essenziale al perfezionamento
stesso dell’atto di accertamento (14); sia che questo sia invece qualificato “condizione necessaria” perché l’accertamento produca l’effetto sostanziale suo proprio, oltre a costituire dies a quo della decorrenza del
termine di impugnazione. Quindi, è in quel momento, in quell’istante
temporale, che deve necessariamente sussistere, in capo all’ufficio autore ed emittente quell’atto, la possibilità di “esercitare” (15) il potere sostanziale previsto dalla legge e limitato nel tempo.
La migliore Dottrina (16) e la giurisprudenza (17) sembrano sostan-
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normativa che disciplina la decadenza dal potere amministrativo tributario, quando non
distingua il momento dell’inoltro o della spedizione per la notifica, da quello della ricezione, nominando la notificazione tutta o in quanto tale quale procedimento da esperire
in un dato termine, dovrebbe essere intesa regolazione conforme al modello proprio
dell’atto recettizio: comportare, quindi, la decadenza in caso di recezione successiva allo spirare del termine perentorio di legge. Al contrario, una regolazione espressa quale
quella dell’art. 26, DPR n. 602/1973, dovrebbe valere disposto ricognitivo dell’effetto
proprio dell’atto contenente intimazione al pagamento di una obbligazione pecuniaria
(cartella di pagamento o avviso di intimazione ex art. 50, comma 2, stesso decreto).
(14) Cfr., per tutti, in questo senso, G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Milano, 1995, 390; P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1994, 254.
(15) Per l’opinione prevalente, nel senso che la scadenza del termine non estingue
il potere impositivo, bensì obbliga l’amministrazione “a non esercitarlo”, v., per tutti, G.
FALSITTA, Manuale, cit., 416-417; A. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1991, 343344, il quale annovera la “pendenza di (quel) termine” tra i presupposti dell’atto di accertamento; contra e nel senso che la scadenza del termine sia causa di estinzione della
pretesa tributaria (per chi, come l’autore stesso, aderisce alla tesi dichiarativa), ovvero,
della potestà di imposizione con riferimento al caso concreto (ove ci si muova nella diversa ottica della tesi costitutiva), P. RUSSO, Manuale di diritto tributario – Parte generale, Milano, 2002, 319; sul punto, si veda, inoltre, C. GLENDI, voce Termine (diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1992, XLIV, 229.
(16) Cfr., per tutti, A. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, 483 ed, ivi, ulteriori richiami bibliografici. Cfr., altresì, G. FALSITTA, Manuale, cit., 390 e 417; S. LA ROSA, voce Accertamento tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1987, I, 2 ss.;
P. RUSSO, Manuale di diritto tributario – Parte generale, Milano, 2002, 291; F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario – Parte generale, Torino, 1999, 186-187; si veda, infine, E. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1969, 89, secondo il quale l’imposizione (che pure l’Autore rappresentava costitutiva) si profilava come unitaria e come
“dichiarazione recettizia”; e per lo scopo cui deve rispondere, essa è rivolta a un destinatario - l’obbligato o il suo rappresentante – nel senso che l’imposizione esiste e opera
giuridicamente nella comunicazione che ne vien fatta al destinatario legale. La comunicazione dell’imposizione – concludeva l’Illustre dottrina – non va concepita come un elemento che s’aggiunga ex post a un atto d’imposizione già in sé perfetta; ma come un atteggiamento essenziale dell’imposizione stessa. Per la vasta letteratura in argomento, si
veda, tra gli altri, A. CICOGNANI, L’atto di accertamento tributario e la sua notificazione, in Riv. dir. fin., n. 2/1971, 266 ss.; E. MANZON, Avviso di accertamento (Iva) notifi-
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PARTE SECONDA
zialmente concordi su questa classificazione dell’avviso di accertamento
tra gli atti amministrativi tributari recettizi; quindi, sulla sua necessaria
“ricezione” nel termine ultimo decadenziale previsto dalla legge.
E sempre per quanto attiene alla dogmatica tributaria, merita di essere ricordato l’ormai storico dibattito dottrinale, svoltosi negli anni ’70,
in margine ad una giurisprudenza (18) che, nonostante il superamento
della cd. supersolidarietà tributaria, riconosceva alla “tempestiva” notifica dell’atto tributario recettizio ad uno solo dei coobbligati, efficacia
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cato oltre il termine di legge: inesistenza ovvero illegittimità dell’atto non rilevabile
d’ufficio da parte del giudice tributario? (nota a Cass., sez. I civ., n. 404/1999), in questa Rivista, n. 2/2000, II, 94 ss.; si veda, infine, A. VIRGILIO, La notificazione degli avvisi di accertamento, delle cartelle esattoriali e degli avvisi di mora, Roma, 1968, 21 ss.,
il quale ricorda l’antica massima, secondo la quale, sono atti tipicamente recettizi quelli
per i quali “esse et notificari paria sunt”.
(17) Non è frequente, nella giurisprudenza, l’esplicito accostamento tra l’uno e gli
altri, ma per tutte, si veda Cass., sez. civ. V trib., 30 marzo 2001, n. 4760 (in banca dati
fisconline), nella quale il modello recettizio è inteso come generalizzato dall’art. 6, comma 1, del cd. Statuto del contribuente; cfr., altresì, Cass. 29 luglio 1980, n. 4877 (ibidem),
secondo la quale, “lo scopo della notificazione dell’accertamento è estrinsecare la pretesa impositiva” e Cass., sez. I civ., 24 agosto 1994, n. 7494 (ibidem), la quale, in relazione alla notifica di un avviso di accertamento, osserva che “la notifica dell’atto recettizio
costituisce requisito di efficacia dell’atto e non elemento costitutivo”; v., inoltre, Cass.,
sez. III pen., 5 novembre 1999, n. 12564 (ibidem), secondo la quale, “l’avviso di accertamento ha per oggetto la quantificazione dell’imponibile e la liquidazione dell’imposta,
e come tale è “atto recettizio”, che si perfeziona solo nel momento in cui viene notificato al contribuente”; concetto, più in generale, implicito, per esempio, alla giurisprudenza
sulla decadenza dalla iscrizione a ruolo ex art. 36-bis, nella quale era escluso che fosse
necessaria, o prevista dal legislatore, anche la notificazione della cartella e, quindi, “un
ulteriore atto, di natura recettizia, col quale la pretesa tributaria sia portata a conoscenza
del contribuente” (cfr., in questo senso, Cass., sez. I civ., 19 luglio 1999, n. 7662, ibidem); nonché ora confermato, sulla base di una inversione di quel distinguo, dalle
SS.UU. della Suprema Corte, con la sentenza 12 novembre 2004, n. 21498, per la quale
la cartella va notificata, nel senso che deve essere ricevuta, nel termine decadenziale.
(18) La giurisprudenza, non senza qualche contraddizione (cfr., Comm. trib. centr.,
24 giugno 1972, n. 6942, in Comm. centr. imp., 1972, I, 699), anche esplicita (cfr.,
Comm. trib. centr., sez. XXII, 25 marzo 1987, n. 2567, in (La) Comm. trib. centr., 1987,
I, 155ss), si attestò, sostanzialmente, su quelle posizioni (cfr., Appello di Roma, 22 aprile 1969, in Giur. it., 1970, I, 2, 514 ss.; Cass., sez. I, 11 novembre 1970, n. 2345, in Riv.
leg. fisc., 1971, 1006 ss.; Comm. centr., 13 febbraio 1970, n. 2172, in Comm. centr. imp.,
1970, I, 179; Comm. centr., 19 ottobre 1971, n. 13031, in (La) Comm. trib. centr., 1973,
I, 149; Comm. centr., sez. VIII, 15 dicembre 1971, n. 15885, in Boll. trib., 1974, II, 1622
ss.; Comm. centr., 9 gennaio 1973, n. 195, in (La) Comm. trib. centr., 1973, I, 326; Cass.,
sez. I, 3 aprile 1978, n. 1503, in Giust. civ. Mass., 1978, I, 619; Cass., sez. I, 23 luglio
1987, n. 6426, in Fisco, 1987, 6274: cioè sulla tesi dell’estensione dell’effetto impeditivo ai coobbligati cd. “non notificati”.
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“impeditiva” della decadenza dal potere di accertamento (in senso lato)
nei confronti di tutti i condebitori solidali: dunque, anche di quelli cd.
“non notificati”, ferma (19), peraltro, l’illegittimità dell’atto “successivo”
che a questi fosse stato partecipato senza notificazione previa di quello
“presupposto” (evidentemente tardiva, ma nei limiti del più ampio termine prescrizionale). Ebbene, la migliore dottrina (20), oltre ad elaborare una critica strutturata ed estesa ai presupposti concettuali e normativi
di quella giurisprudenza (21), denunziava, in ogni caso, già all’epoca, gli
aberranti esiti ai quali avrebbe condotto la compiuta applicazione di
quella tesi (essenzialmente (22), “delle Corti”) e la sua inaccettabilità: in
definitiva, il contribuente avrebbe, così, finito per permanere in una situazione di assoluta “incertezza”, per un “tempo potenzialmente indefinito”.
Anche la Corte costituzionale (23) fu Giudice della questione, ma in
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(19) Appare perentorio, in questo senso, il pronunciato sopra richiamato della Corte costituzionale, sent. n. 214/1974: la Consulta fu, cioè, ferma nell’escludere la possibilità, paventata da alcune pronunce della giurisprudenza ordinaria, di merito (Cfr., Appello di Roma, 22 aprile 1969 cit., secondo la quale, “... la Finanza non è tenuta obbligatoriamente alla notifica ..., ma può far valere direttamente la sua pretesa …”) e di legittimità (Cass., sez. I, 11 novembre 1970, n. 2345 cit.), che l’amministrazione ometta la notifica, pur tardiva, dell’accertamento ai coobbligati cd. “non notificati” e proceda direttamente all’emanazione, nei loro confronti, degli ulteriori atti della procedura di attuazione del credito tributario.
(20) Cfr., per tutti, A. FANTOZZI, Reviviscenza della solidarietà tributaria?, in Giur.
it., 1970, I, 2, 515, secondo il quale, “la finanza ... potrà in pratica ... procedere sine die
contro gli altri coobbligati con le conseguenze che è facile immaginare”, al punto che
sembrò configurarsi (cfr., op. ult. cit., 515) “una nuova forma di super-solidarietà tributaria ... assai più pericolosa della prima”; A. FEDELE, Solidarietà tributaria e termini di
decadenza, in Giur. cost., 1974, II, 2746; P. RUSSO, Disciplina sostanziale e processuale delle obbligazioni solidali tributarie, in Riv. dir. proc., 1975, 338. Si veda, inoltre, F.
PICCIAREDDA, Osservazioni in tema di decadenza e di solidarietà tributaria, in Riv. dir.
fin., 1976, II, 14 ss.; G.A. MICHELI - G. TREMONTI, Obbligazioni (dir. trib.), in Enc. dir.,
XXIX, Milano, 1979, 455, nt. 256; L. CASTALDI, Solidarietà tributaria, in Enc. giur., Roma, 1993, 9 ss.
(21) Incentrata, tra l’altro, sulla tesi che la ratio dello ius singulare, codificato
all’art. 1310, comma 1, c.c., dovesse identificarsi nella peculiarità ontologica e funzionale dell’atto interruttivo, proprio della “prescrizione”, istituto del tutto distinto da quello della decadenza.
(22) Per la minoritaria posizione adesiva rispetto a quella giurisprudenza, si veda G.
CATURANI, Atto impeditivo della decadenza nelle obbligazioni solidali di diritto tributario, in Giust. civ., 1973, II, 4, 38 ss.
(23) Cfr., Corte cost., sent. 9 luglio 1974, n. 214, in Giur. cost., 1974, 1740; in Riv.
dir. proc., 1975, 336; in Riv. dir. fin., 1976, II, 14 ss., la quale giudicò infondata la questione di costituzionalità sollevata proprio con riferimento alla tesi della estensione
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relazione al solo parametro dell’art. 24, Cost.; la sentenza, fu, quindi, di
infondatezza, non sussistendo violazione di quel canone e principio superiore. Eppure, la motivazione di quel giudizio della Consulta appare,
oggi, straordinariamente attuale e significativa, poiché, in buona sostanza, secondo quella sentenza del 1974, il “termine ultimo” per l’accertamento non attiene (essenzialmente) al diritto di difesa, rispetto al quale,
invece, rileva solo che ciascun contribuente possa opporsi all’atto
dell’amministrazione, in un tempo sufficiente, per tutti eguale e decorrente dal momento in cui riceva proprio e solo l’atto a sé destinato, ed,
infine, con modalità non eccessivamente disagevoli o, addirittura, impossibili.
Concludendo questa breve retrospettiva, certo è che, per quanto ci
occupa, anche in quella fase storica, ciascuno degli attori di quella contrapposizione netta – e non ricomposta neanche nei decenni successivi
(24) – ivi compresi quelli giurisdizionali, presupponeva imprescindibile,
comunque, la notificazione individuale, ed a questa condizionava ogni
effetto proprio dell’atto di esercizio del potere accertativo. È vero pure che
la giurisprudenza faceva eccezione a quella regola, ritenendo che alla notifica nei confronti di uno o alcuni dei condebitori, potesse riconoscersi
una sorta di capacità di irraggiamento, proprio e soltanto, dell’effetto impeditivo della decadenza; tradendo una, non del tutto (o mai appieno) superata “riserva mentale” – assai simile, nella radice logica o di principio,
alla cd. super-solidarietà (25) –, si è ritenuto, infatti, che l’esigenza di certezza dei rapporti in un tempo ragionevole fosse, comunque, conseguibile
con la partecipazione tempestiva dell’accertamento almeno ad uno degli
“autonomi” legittimati passivi (condebitori), e di forzare il senso dell’art.
1310, comma 1, c.c., trascurandone l’oggetto proprio (prescrizione).
Venendo all’esame dello stato della dogmatica sull’atto recettizio
nella teoria generale del diritto, Illustre dottrina (26) registra un dato ine———————
dell’effetto impeditivo e secondo la quale “la giurisprudenza ordinaria (era) ormai orientata (in quel) senso” e “tale indirizzo interpretativo risulta(va) largamente condiviso anche in dottrina”; particolarmente critici, all’epoca ed in punto di esistenza di un vero e
proprio diritto vivente di quel segno e contenuto, A. FEDELE, Solidarietà tributaria, cit.,
2743 e P. RUSSO, Disciplina sostanziale, cit., 333.
(24) Cfr., Cass., sez. I civ., 14 gennaio 1993, n. 406, in banca dati fisconline, ed,
ibidem, Cass., sez. I civ., 14 giugno 1995, n. 6729.
(25) Già, in questo senso, A. FANTOZZI, Reviviscenza, cit., 515, il quale parlò, apertamente, appunto, di “una nuova forma di super-solidarietà tributaria ... assai più pericolosa della prima”.
(26) Cfr. F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Roma, 2003, 752-753.
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ludibile e comunque risolutivo della questione che ci occupa: “la recezione è ritenuta sicuramente essenziale, secondo taluni, per la stessa perfezione dell’atto o dichiarazione di cui costituirebbe così coelemento, secondo altri, invece, per la mera efficacia dell’atto … La recezione, dunque, si situa sul piano degli effetti costituendo condizione essenziale, cosicché, se si vuole attribuire ad essa un ruolo costitutivo, dovrà dirsi che
la costitutività è degli effetti e non della fattispecie (27)”. Più in particolare, la dottrina che ha elaborato ed analizzato funditus natura, struttura
ed effetti dell’atto recettizio – nell’opera sopra richiamata (28) – testualmente, precisa che “la dichiarazione, in quanto recettizia, è una dichiarazione che deve essere ricevuta e, come tale, non acquista rilevanza, e non
può produrre i suoi effetti, finché, in concreto, (la formula nella quale essa si esprime) non raggiunga il terzo”. L’Autore (29) esemplifica struttura, perfezionamento, fattispecie genetica ed effetto dell’atto recettizio,
laddove osserva che, nonostante l’atto sia già compiuto, non è perfetto il
nucleo propriamente operativo dell’effetto giuridico e, quindi, non rileva
di fronte al terzo “veruna” conseguenza giuridica, neppure prodromica o
provvisoria (cosiddetti effetti preliminari). Ciò sta a significare – sempre
secondo l’Autore che esprime la condivisa lettura dell’atto recettizio –
che l’evento della ricezione, quand’anche non fosse ritenuto un elemento costitutivo dell’atto, è, tuttavia, certamente un elemento “costitutivo
dell’effetto”: opera cioè, in seno alla fattispecie, non già come un semplice elemento periferico (requisito, condizione) di efficacia, ma come
un elemento dotato di pari potere determinante dello stesso atto recettizio; “esso si atteggia a coelemento di rilevanza giuridica” di quell’atto.
Altra Autorevole Dottrina (30) sosteneva, in ogni caso, che l’atto da
partecipare e la ricezione sono entrambi elementi costitutivi di una me-
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(27) Cfr., in questo senso, già G. GIAMPICCOLO, voce Dichiarazione recettizia, in
Enc. dir., XII, 388.
(28) G. GIAMPICCOLO, op. ult. cit., 385.
(29) G. GIAMPICCOLO, op. ult. cit., 389.
(30) U. FORTI, Diritto amministrativo, Napoli, 1934, II, 105, secondo il quale, la notificazione sta alla dichiarazione, come la volontà del dichiarante sta alla volontà dichiarata; e la conoscenza del terzo, dal momento che la dichiarazione è a lui rivolta, non è
più che l’evento della dichiarazione medesima. Si veda, altresì, sul punto ed in questo
senso, tra gli altri, BARASSI, La notificazione necessaria delle dichiarazioni stragiudiziali, Milano, 1906, 35 ss. e, segnatamente, 37; E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1950, 131, nt. 12; S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo, Padova,
1937, 248; A. QUARTULLI, L’atto amministrativo recettizio, in Rass. Avv., 1954, 85, il
quale finisce per condividere la tesi che la comunicazione dell’atto amministrativo recettizio sia elemento di perfezione di quest’ultimo.
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desima fattispecie, la quale può dirsi perfetta, solo quando essi si siano
concretati, e solo da questo momento può produrre qualsivoglia effetto
giuridico: la trasmissione nei casi di dichiarazione fra assenti costituisce
l’azione a mezzo della quale si svolge la dichiarazione e, quindi, fa parte dell’atto, mentre l’apprendimento non è che il momento finale di questo (31). Parte della dottrina (32), infine, riconosceva alla “ricezione” solo il valore di semplice requisito di efficacia della dichiarazione recettizia (33).
Ulteriore principio diffusamente condiviso nella dogmatica (34),
inoltre, è quello, secondo il quale, le conclusioni sulle notificazioni processuali non possono essere riferite alle comunicazioni degli atti amministrativi recettizi (35), nei confronti dei quali deve trovare piena appli-
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(31) Cfr., in termini, V. OTTAVIANO, La comunicazione degli atti amministrativi,
Milano, 1953, 23.
(32) Cfr., per tutti, RUBINO, La fattispecie e gli effetti preliminari, Milano, 1939,
187 ss.; A.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940, 249 ss.; P. BODDA, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 1954, 141 ss.; A. DE VALLES, La validità
degli atti amministrativi, Roma, 1917, 304 e 315 (nel senso che ne sospende tutti o taluni effetti).
(33) Una contrapposizione che risulta più apparente che reale, quest’ultima (cfr., in
termini, E. FERRERO, voce Dichiarazione recettizia, in Dig. Disc. priv., sez. civ., V, 356,
e già G. GIAMPICCOLO, La dichiarazione recettizia, Milano, 1953, 170 ss.). Si veda, più
recentemente, in argomento, C. DONISI, voce Atti unilaterali I) Diritto civile, in Enc.
giur., 6; E. FERRERO, voce Dichiarazione recettizia, cit., 353 ss. e, segnatamente, 356357; cfr., inoltre, CARRARO, voce Dichiarazione recettizia, in Noviss. dig. it., V, Torino,
1960, 597 ss.; G. GARDINI, L’atto amministrativo cd. “recettizio” e la sua comunicazione, in Riv. Trim. dir. pubbl., n. 2/1995, 371 ss.
(34) Cfr., per tutti, N. DANIELE, L’atto amministrativo recettizio, in Riv. trim. dir.
pubbl., 1953, 904.
(35) Cfr., invece, in senso apertamente contrario, C. GLENDI, La notificazione degli
atti, cit., 1325, il quale, sul presupposto che “la Corte costituzionale, con specifico riferimento alla protezione del notificante da ritardi pregiudizievoli ad esso non imputabili
e, se mai, addebitabili all’agente della notificazione, ha assunto, quanto meno a valore di
fondo del proprio intervento, l’ancora più generale principio dell’autoresponsabilità, e
perciò dell’inaddebitabilità in genere al soggetto incolpevole di eventi pregiudizievoli
estranei alla sua condotta”, ritiene “veramente arduo immaginare che per le notificazioni
di atti sostanziali, appartenenti alla sfera del diritto tributario (avvisi di accertamento, cartelle di pagamento, istanze di rimborso o di esenzione, ecc.), del diritto amministrativo
in genere (istanze, provvedimenti, ecc.) e del diritto privato (atti di messa in mora, disdette, opzioni o prelazioni, e così via), ove sussista un distacco temporale tra momento
iniziale e momento finale della notificazione, il notificante continui invece ad essere irrimediabilmente esposto al rischio del ritardo nel compimento dell’attività notificatoria
da parte del soggetto a ciò specificamente abilitato ancorché tempestivamente officiato
dal notificante”. “Tanto più” – soggiunge l’Autorevole dottrina – “che, in campo sostan-
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GIURISPRUDENZA
cazione il principio della ricezione, e per i quali gli effetti si producono
solo dal momento in cui quel procedimento termini con la consegna
dell’atto al destinatario (36).
L’atto, il provvedimento amministrativo, di regola, non è recettizio,
se non quando sia il legislatore a strutturarlo tale, ovvero, quando, in ragione della sua struttura e della sua funzione (37), non sia logicamente
concepibile che produca i suoi effetti naturali e tipici, se non allorché ed
in quanto portato a conoscenza di un determinato destinatario (38).
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3. Il “tempo poliedrico” della notificazione tributaria e la prioritaria certezza dell’imposizione. Decadenza e “buona amministrazione”
nel pensiero della sezione tributaria. - Ho già avuto modo di formulare
alcune prime, celeri considerazioni sulla sentenza n. 1647/2004 della sezione tributaria, nelle battute conclusive di un precedente elaborato (39),
accennando a quel pronunciato di legittimità come “esemplare” del rischio connaturato alle “osmosi di principio”.
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ziale, la protezione del notificante riesce realizzabile in termini solitamente più lineari
che in quello processuale, stante la meno frequentemente ravvisabile pluridirezionalità
effettuale che spesso la notificazione svolge nella complessa sequenzialità degli atti del
processo”. Considerazione, quest’ultima, che va condivisa e che dovrebbe condurre ad
una accezione relativa della giurisprudenza costituzionale additiva, nello stesso contesto
delle notifiche processuali, sotto la condizione della compatibilità con l’essenza complessa e plurisoggettiva del rito.
(36) N. DANIELE, op. ult. cit., 906.
(37) Nella giurisprudenza amministrativa è definito recettizio il provvedimento che
per produrre i propri effetti tipici deve essere comunicato all’interessato, divenendo a
questi conoscibile (v. Cons. giust. amm., sic. 25 marzo 1987, n. 78, Foro it., Rep. 1987,
voce Atto amministrativo, n. 37; Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 1992, n. 978, id.,
Rep. 1993, voce cit., n. 149). La fase di integrazione dell’efficacia del provvedimento
viene in tal modo a comprendere l’atto di partecipazione, elemento costitutivo dell’esecutività, prima del quale sussiste una vera e propria impossibilità giuridica alla produzione degli effetti (in questo senso, v., ex pluribus, Tar Puglia, sez. II, sent. 29 febbraio
1996, n. 64): questi non operano se non dal momento in cui il destinatario è posto nella
conoscenza legale dell’atto, restando esclusa qualsiasi ipotesi di retroattività al momento
dell’adozione del provvedimento, come avviene invece per le condizioni di efficacia (v.
Cons. Stato, sez. VI, 25 ottobre 1991, n. 728). Cfr., sul punto, altresì, Tar Umbria, 13 novembre 1997, n. 559, in Giust. civ., 1998, I, 2055; Tar Friuli-Venezia Giulia, 5 aprile
1993, n. 122, in Giur. it., 1994, III, 1, 270).
(38) Spesse volte, nel senso che, per la produzione dell’effetto essenziale dell’atto,
sia necessaria la collaborazione del destinatario (v. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 1994, n. 341).
(39) C. SCALINCI, Deposito di documenti, cit., 298-300.
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Quella sentenza della Cassazione, infatti, si inseriva dichiaratamente nel solco della recente giurisprudenza costituzionale in tema di identificazione dei tempi delle attività “processuali”, latu sensu, di comunicazione o notificazione, effettuate per il tramite di un soggetto terzo, realizzandone una prima, non condivisibile, applicazione in materia di notificazione di atti tributari recettizi. Forse ad una lettura di superficie, il
pensiero di quella Corte potrebbe apparire sviluppo coerente – per il più
agevole degli automatismi interpretativi – del criterio di riparto dei rischi
della notificazione (processuale), frutto della richiamata, additiva giurisprudenza costituzionale. Ma, almeno ad un esame più sereno e meditato della sentenza, non dovrebbe sfuggire un dato che appare obiettivo: la
Corte ha operato una estensione de plano del principio proprio delle notificazioni processuali, e non sembra aver considerato, affatto – o per lo
meno appieno –, né aver portato alle necessarie conseguenze, i profili
peculiari dell’atto amministrativo di accertamento del tributo, o in genere di quello tributario recettizio, e, quindi, della sua notificazione (tanto
quelli strutturali, quanto quelli teleologici).
Il pensiero della sezione tributaria non può che essere condiviso, invece, laddove conserva essenziale al perfezionamento della notificazione
l’effettiva ricezione dell’atto da parte del suo destinatario, cioè il suo effettivo recapito nel luogo individuato (dalla normativa) come spazio di
dominio diligente e responsabile del soggetto giuridico legittimato passivo (conoscenza legale).
La tempestività della notificazione dell’avviso di accertamento costituisce requisito essenziale di legittimità dell’atto impositivo, stante il
termine decadenziale posto all’Amministrazione o all’Ente locale impositore per l’esercizio del potere di accertamento dei tributi; ed appare almeno opinabile che possa considerarsi tempestivo un atto improduttivo
di effetto alcuno prima della sua consegna (ossia, un atto di natura recettizia). Il meccanismo ingegneristico ipotizzato quale soluzione di contemperamento e bilanciamento “sostenibile” di concorrenti interessi costituzionalmente rilevanti (certezza dei rapporti, pienezza del diritto di
difesa, celerità del processo) – meglio noto come sdoppiamento dei tempi di notificazione –, sembra, nella specie, non tanto o non solo inadeguato, quanto, prima di tutto, ingiustificato, impraticabile, contraddittorio del valore e senso (anche strutturale) del “tempo della consegna” o di
ricezione dell’atto impositivo da parte del suo destinatario. Secondo la
Corte, l’atto di accertamento sarebbe da intendere notificato in un tempo
(spedizione) antecedente al momento nel quale si perfeziona, non solo la
fattispecie di notificazione, ma, anche e prima di tutto, la stessa fattispe-
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cie dell’atto di esercizio del potere di accertamento, cui è essenziale il recapito o, comunque, il raggiungimento della sfera di dominio del destinatario o legittimato passivo (atto di rilevanza esterna recettizio).
Non pone, invece, particolari problemi, neanche concettuali, la rilevanza plurima del momento di notificazione, tanto quale “tempo dell’atto” da prendere a riferimento nella verifica delle decadenze sostanziali
concernenti l’esercizio “compiuto” del potere amministrativo, quanto
quale dies a quo per la tutela giurisdizionale ed, in mancanza di impugnazione, per determinare l’istante finale al quale è ancorato l’effetto del
consolidamento (40) dell’atto impositivo notificato. Semmai, invece,
quel “tempo poliedrico” testimonia della pluralità di funzioni alle quali
assolve la notificazione dell’atto tributario sostanziale, il quale: da un lato, realizza la “certezza” (41) dell’imposizione nel tempo massimo concesso (all’amministrazione) dalla normativa (42), valore ritenuto meritevole, in se stesso, fin dagli albori della legislazione dell’Italia unita-
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(40) Ricordando, sul punto, che, secondo P. RUSSO (Manuale di diritto tributario –
Parte generale, Milano, 2002, 337), l’inutile decorso di quel termine non è semplice strumento di consolidamento degli effetti che tale atto è destinato ex se a produrre, bensì rappresenta, insieme all’atto medesimo, l’ulteriore “elemento della fattispecie” alla quale la
legge direttamente collega gli effetti in questione (nel contesto della costruzione dell’avviso di accertamento, non come atto costitutivo di effetti, ma mero atto costitutivo di fattispecie).
(41) Cfr., sul punto, in generale e per tutti, A. FEDELE, Solidarietà, cit., 2752, nt. 37,
secondo il quale, la funzione della decadenza va individuata nell’esigenza di “certezza”
“incentrata sulla tutela dell’interesse del soggetto passivo”.
(42) Profilo teleologico che non può non essere tenuto in considerazione, ed emerso più o meno chiaramente anche in una recente giurisprudenza costituzionale (cfr., ord.
1° aprile 2003, n. 107, in Dir. prat. trib., 2003, II, 1208). Il termine perentorio posto dal
legislatore all’esercizio del potere amministrativo tributario è una esigenza, non una soluzione legislativa contingente ed eventuale o indifferente (pur quando, come precisava
la stessa Consulta nella precedente sentenza 11 giugno 1999, n. 229, non ogni attività –
intermedia, parrebbe – della pubblica amministrazione debba essere soggetta a termine
decadenziale; cfr., ora, sul punto, Corte Cass., SS.UU. civ., sent. 12 novembre 2004, n.
21498), in quanto il contribuente “non può essere indefinitamente esposto alla pretesa del
fisco”, né menomato, per la distanza tra fatto e contestazione, nel diritto di difesa. E, del
resto, come Autorevole dottrina ha sottolineato (cfr., sul punto E. DE MITA, La notifica
“certa” tutela i contribuenti, in Dir. prat. trib., n. 1/2004, 117ss. e già in Il Sole 24-ore
del 6 aprile 2003), il problema dei termini (anche a favore dell’amministrazione), in un
diritto tributario che voglia essere civile, svolge una funzione sulla quale la dottrina ha
richiamato l’attenzione: il rapporto tributario non può essere lasciato per molto tempo
nella sua incertezza; esigenza che nella sua ordinanza anche la Corte costituzionale lascia
trasparire chiaramente di avvertire.
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ria (43); e, dall’altro, costituisce momento decisivo per misurare il tempo
utile all’esercizio del fondamentale diritto alla tutela giurisdizionale. Il
terzo profilo teleologico sopra ricordato (cd. consolidamento – “definitività”), invece, sembra più sfumato nell’attuale fase di transizione verso
una più compiuta e centrale “giusta imposizione”, e nel quadro tendenziale della prevalenza della “sostanza”, sulla “forma”, se non altro, per la
possibilità dell’autotutela tributaria, con il solo limite del giudicato.
Nell’economia di quella molteplicità di effetti, funzioni e scopi della notificazione dell’atto tributario, costituisce, comunque, “esigenza”
primaria e “costituzionalmente inderogabile” la sua ricezione o legale
conoscenza nel tempo massimo previsto dalla legge, come l’esistenza
stessa di questi termini, prima di tutto, “finali” (44): ed, in questo senso,
“concessi”, quali periodi temporali nei quali è tollerabile che il rapporto
sia incerto ed occorre completare l’attività di controllo (e la fattispecie
amministrativa) portandone a conoscenza del contribuente gli esiti, pregiudizievoli almeno.
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(43) Cfr., sul punto, G. AZZARITI, I termini per l’accertamento e per la iscrizione a
ruolo delle imposte dirette, in G. Azzariti, Scritti giuridici, Padova, 1963, 467 ss. e, segnatamente, 470-471 (e già in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1961), il quale ricorda quanto
previsto per l’accertamento e l’iscrizione a ruolo dall’art. 59 del testo unico 24 agosto
1877, n. 4021 (e succ. modif.), delle leggi per l’imposta sui redditi di ricchezza mobile,
riproduttivo del precedente art. 8 della legge 14 giugno 1874 e preso a modello per il pedissequo art. 53 del regolamento per l’applicazione dell’imposta sui fabbricati (approvato con RD 24 agosto 1877, n. 4024). Dalla stessa fonte si evince che già nella relazione
sui lavori relativi alla legge del 1874, la Commissione parlamentare si trovò unanime nel
riconoscere la necessità di stabilire per legge che, oltre un certo tempo, il diritto dell’erario dovesse essere perento e che questo periodo dovesse essere relativamente breve, giacché il contribuente non doveva essere sempre e per lungo tempo turbato dalla minaccia
di una possibile pretesa per tributo inadempiuto, tanto più grave se, accumulandosi l’arretrato di parecchi anni, il peso fosse divenuto insopportabile e tale da costituire il supremum vitae exitum di un’azienda economica. Anche per questo riflesso – concludeva
la Commissione –, era urgente provvedere nel senso precisato e stabilire un termine breve nella facoltà degli agenti delle imposte. Altri tempi, altro contesto, altro rapporto tra i
soggetti del rapporto tributario, ma appare suggestiva e, comunque, significativa la circostanza che, fin da allora, un limite di tempo per l’azione o l’atto dell’ente impositore
fosse sentito come una esigenza, uno strumento di certezza.
(44) Cfr., in questo senso e per tutte, Corte cost., ord. 19 novembre 2004, n. 352 (in
www.giurcost.org – Consulta Online), secondo la quale, “l’impossibilità logica di includere, in un termine previsto esplicitamente per un’attività preliminare, anche ulteriori attività ad essa successive, non può essere superata (come recentissimamente si è tentato
di fare) neanche per soddisfare l’esigenza, costituzionalmente inderogabile, di prevedere
termini perentori entro i quali la pretesa del fisco deve essere portata a conoscenza del
contribuente”.
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La normativa sulla notificazione degli atti tributari, del resto, è costellata di disposizioni (non ultime, gli artt. 58 e 60, DPR n. 600/1973)
ispirate ad una particolare tutela dell’interesse generale all’agevole e
tempestivo perfezionamento di quegli atti, ovvero, alla loro necessaria ricezione in un tempo massimo, ivi comprese quelle sulla “conservazione”
della documentazione, fiscale (45) e non (46), “in possesso del contribuente” (47); seppure, poi, la durata di quest’obbligo fosse disancorata
dai termini decadenziali per l’accertamento tributario, o li dovesse superare per una concatenazione (anche di fatto) di più meccanismi normativi, costituisce principio generale, altrettanto, significativo, e limite
“estremo”, la previsione, di cui all’art. 8, comma 5, legge n. 212/2000
(cd. Statuto del contribuente), di un massimo di dieci anni, per i quali
può essere imposta, ai fini tributari, la conservazione di atti (e decorrente dalla loro emanazione o formazione).
Nello stesso, particolare contesto dello Statuto del contribuente, del
resto, non può essere ignorato che il legislatore abbia formulato, ed inteso o auspicato “principio generale”, il divieto di proroga dei termini per
gli accertamenti di imposta (art. 3, comma 3, legge n. 212 cit.), per la verità, oggetto di una prassi un po’ ipocrita, qual è quella dello “spontaneo”
(ma “sistematico”) ricorso alla norma di deroga “espressa”, per prolungare il tempo utile alle amministrazioni tributarie. Anche questa granitica consuetudine, comunque, rende ancor più incomprensibile l’idea stessa che sia “giusto”, o necessario, accedere ad una interpretazione o soluzione ricostruttiva della notifica di atti tributari soggetti a termine decadenziale, tale da salvaguardare l’amministrazione notificante, in nome
del principio dell’imputet sibi, dal rischio di una consegna tardiva
dell’atto (in questo senso, Cass., sent. n. 1647/2004); è, addirittura, paradossale, poi, che in quel contesto di fatto (e di diritto), e nell’occasione
giurisprudenziale (sentenza n. 1647/2004 cit.), questo “alto” scopo o
obiettivo sia, per giunta, in qualche modo accostato alla cd. “buona amministrazione” tributaria (art. 97, Cost.).
Anticipare l’effetto impeditivo della decadenza dal potere sostanzia———————
(45) Cfr., per tutte, gli artt. 3, comma 3, e 5, comma 4, DPR n. 600/1973.
(46) Cfr., per tutte, l’art. 22, DPR n. 600/1973 (fermo restando quanto stabilito dal
codice civile, per quanto non previsto, ossia salva diversa previsione speciale), cui rinvia, per esempio, l’art. 39, comma 3, DPR n. 633/1972, ai fini Iva.
(47) Cfr., art. 6, comma 4, legge n. 212/2000 – cd. Statuto del contribuente, secondo il quale, al contribuente, in ogni caso, non possono essere richiesti documenti ed
informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni
pubbliche.
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le di accertamento, rispetto al momento (tardivo) in cui l’atto recettizio
giunge a destinazione, sembra, comunque, in contraddizione con la natura stessa dell’avviso di accertamento e dell’atto tributario recettizio. La
“ricezione”, infatti, non dovrebbe essere “elemento essenziale” solo a
perfezionare il procedimento di notificazione, bensì tale – anche e prima
di tutto – perché l’atto amministrativo (cd. recettizio e “di rilevanza
esterna”) possa produrre un qualche effetto.
Qualora, comunque, la giurisprudenza costituzionale additiva ed il
criterio dello sdoppiamento dei termini dovessero trovare applicazione e
fortuna anche nel campo delle notifiche degli atti sostanziali, Autorevole dottrina (48) pone, condivisibilmente, in luce l’esigenza che “la protezione del notificante dal rischio di tardività, non sia” soddisfatta a discapito “del diritto del notificatario alla certezza del compimento dell’“atto
iniziale” (49) del procedimento di notifica entro il termine decadenziale
normativamente prescritto” (50).
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(48) Cfr., C. GLENDI, La notificazione degli atti, cit., 1325, nt. 58.
(49) Cfr., sul punto, la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza 23 gennaio 2004, n. 28 cit.) ed ordinaria (cfr., Cass., sez. siv. V - trib., 4 maggio 2004, n. 8447;
10 settembre 2003, n. 13241; 29 aprile 2003, n. 6632, tutte in www.dirittoitalia.it – Rivista Giuridica Telematica), anche amministrativa (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 5 novembre 2004, n. 7201, in www.dirittoitalia.it – Rivista Giuridica Telematica),
che, nella consegna al soggetto tramite della notificazione – sia esso l’agente postale o
l’ufficiale giudiziario, e pur quando quest’ultimo dovesse a sua volta provvedere alla notifica extra districtum a mezzo del servizio postale – ha individuato il momento “iniziale” esclusivamente rilevante per stabilire il tempo della notificazione stessa “per il notificante” (giova ribadire in ambito processuale). Si veda, inoltre, la recentissima sentenza
5 novembre 2004, n. 21206 della Cassazione, sez. trib. (in banca dati fisconline), secondo la quale, la prova della data di consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto da notificare può risultare – anche in caso di specifica contestazione della tempestività della notifica – “dal timbro apposto sull’originale” e comprovante, appunto, il giorno di quella consegna. Cfr., in senso contrario, Cass. sez. V civ., sent. 2 settembre 2004, n. 17714 (in
www.dirittoitalia.it - Rivista Giuridica Telematica) secondo la quale sarebbe comunque
necessaria la ricevuta, prevista dall'art. 109 DPR n. 1229/1959, o l'attestazione di consegna, rilasciata dall'ufficiale giudiziario, a nulla rilevando il timbro a datario o la dichiarazione di parte contenente specificazione dell'ultimo giorno utile alla notificazione.
(50) Con sensibilità ed acume, la citata dottrina (cfr., C. GLENDI, La notificazione
degli atti, cit., 1325, nt. 58) osserva, infatti, che “in tale ambito” – quello delle notifiche
di atti tributari sostanziali – “ricorre con una certa frequenza l’eventualità che la notificazione degli atti, anziché all’ufficiale giudiziario, sia affidata ad altri soggetti, come
messi comunali, messi nominati da altri organi dell’amministrazione, in specie finanziaria, e così via”. “In questi casi …” – conclude l’Autorevole dottrina – “occorrerà in ogni
caso che l’agente della notificazione sia realmente un soggetto terzo, non sia cioè legato
da un rapporto istituzionale con il soggetto notificante, e sia quindi in grado di garantire
e documentare la data dell’impulso iniziale della fattispecie notificatoria”.
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4. Tra sanatoria e decadenza, l’atto recettizio tributario e le paradossali implicazioni della pronuncia delle SS.UU. - La sentenza delle
SS.UU., che pure era attesa e prefigurata come pronunciato concernente
la natura dell’avviso di accertamento, la sua notificazione e l’eventuale
possibilità di sanatoria di quest’ultima, si apre con una inequivocabile
identificazione del thema decidendum nella più specifica, problematica
relazione tra la notificazione dell’avviso di accertamento e la decadenza
prevista dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio del potere di rettifica o di accertamento mero, o, in genere, per l’esercizio del potere che si
estrinsechi in un atto di rilevanza esterna e recettizio. La stessa Corte –
subito a seguire – precisa che il dubbio fondamentale al quale è, specificatamente, chiamata a dare soluzione è la possibilità o meno che la sanatoria della notificazione operi ex tunc e quindi impedisca il verificarsi
della decadenza. Più avanti, nel testo, esplicitamente afferma che in quella sede si deve affrontare il tema dell’operatività della sanatoria in relazione alla decadenza dall’esercizio del potere di accertamento.
Naturalmente, oggetto della questione rimessa alle SS.UU. era anche
l’interrogativo pregiudiziale e plurimo sopra, in sintesi, ricordato.
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4.1. La Corte, cioè, doveva prima di tutto prendere posizione sulla
possibilità stessa di sanatoria della nullità della notificazione e, quindi,
della nullità dell’avviso di accertamento. Su questa prima questione, il
Giudice di legittimità premette irrilevante la natura dell’atto di accertamento, delineando una “cesura” tra quest’ultima e la disciplina del procedimento di notificazione. Tra i due aspetti non c’è correlazione necessaria, né consequenzialità – sempre nel pensiero della Corte –, quindi,
ben può essere applicato il regime processuale della notifica al contempo rinnegando la ben nota tesi (51) ricostruttiva dell’avviso di accertamento come provocatio ad opponendum. Nelle parole della Corte sembra risuonare latente o presupposta la costruzione dell’avviso di accerta———————
(51) Cfr., per tutti, C. BAFILE, Recentissime di giurisprudenza sulla natura del processo tributario, in Rass. trib., 1987, I, 506 ss.; ed A. BERLIRI, Il DPR 3 novembre 1981,
n. 739 e la natura del processo tributario, in Giur. imp., 1981, 1194 ss. Nella giurisprudenza della stessa Suprema Corte, per la tesi secondo la quale l’avviso di accertamento
avrebbe natura di “provocatio ad opponendum”, la cui notificazione sarebbe, quindi,
preordinata all’impugnazione, si veda, recentemente, Cass., sez. civ. V-trib., 12 dicembre
2002, n. 17762; in senso conforme, si vedano, per tutte, le sentenze 7 aprile 1994, n.
3294, e 9 giugno 1997, n. 5100, della prima sezione civile, quindi, le sentenze 29 maggio 2001, n. 7284, e 9 dicembre 2002, n. 17501, della quinta sezione civile tributaria.
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mento come atto dichiarativo nei confronti del contribuente destinatario
di ciò che deve essere per lui di diritto nel caso concreto, cioè di ciò che
costituisce pretesa tributaria e delle relative ragioni giustificative. Incidentalmente, nel descrivere quale sia l’eventuale momento processuale,
la Corte precisa anche che oggetto del processo tributario è quella enunciazione della pretesa e, parrebbe, dunque (almeno in prima battuta) non
la pretesa in quanto tale, non quindi il rapporto tributario in quanto tale,
con una certa coerenza di fondo alla struttura impugnatoria di quel giudizio più volte evocata da quello stesso Collegio. Certo è che le SS.UU.
escludono ripetutamente che l’atto di accertamento abbia natura persino
“assimilabile” a quella degli atti processuali (52), ed anche sotto questo
profilo, seppure quel Giudice non lo soggiunga, troverebbe ulteriore riscontro la differente struttura propria dell’atto recettizio, e la dissimile
funzione della notificazione dell’atto del giudizio.
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4.2. La sentenza però, se è condivisibile nel suo epilogo, concernente la necessità che l’accertamento e la sua notifica raggiungano lo scopo
e, quindi, il destinatario di entrambi, entro il termine di decadenza dal
potere del quale quell’atto è (e deve essere) espressione (53), non lo è,
invece, nei frequenti passaggi nei quali la Corte àncora quella soluzione
alla conoscenza dell’atto, più che alla natura di questo, ed omette, per
questa via, di chiarire perché il regime processuale della notifica operi
nei limiti più ampi e di matrice “sostanziale”, segnati, per l’intera fattispecie, dal termine decadenziale previsto dalla legge. Solo in un passaggio la Corte dice chiaramente che la notificazione è “elemento essenziale” di quella “fattispecie” – quella utile a scongiurare la decadenza – e
che questa costruzione è conseguenza della applicazione dei generali
principi che governano “i casi in cui la legge pone limiti temporali
all’esercizio di poteri amministrativi”.
Singolare è il fatto che, nonostante l’affermata cesura tra sostanza
———————
(52) Sul punto, per tutti, si veda, già, C. GLENDI, Inaccettabile l’equiparazione agli
atti processuali, in Guida normativa, n. 82/2001, 39 ss.
(53) Nel qual senso si veda, da ultimo e per tutte, già Cass., sez. civ. V-trib., 11
agosto 2004, n. 15514, laddove osserva che “la validità di un atto dell’amministrazione
finanziaria dipende dall’esistenza dei requisiti stabiliti dalle singole leggi d’imposta e non
dalla ritualità della notificazione finalizzata alla sua conoscenza da parte del destinatario
e che, ove il raggiungimento dello scopo sia documentato dall’avvenuta impugnazione
dell’atto, può assumere rilievo tra le parti soltanto la questione relativa ai riflessi che si
riverberano sul rapporto tributario controverso in ragione dell’efficacia meramente ex
nunc della sanatoria intervenuta”.
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dell’atto e regime della sua notificazione, le SS.UU. trascurino del tutto
la giurisprudenza costituzionale additiva di un principio, diffusamente,
inteso (se non altro) proprio del regime processuale della notificazione,
qual è il criterio cd. dello sdoppiamento dei termini di notifica; come pure che non accennino neanche a quella recente giurisprudenza della sezione tributaria, che di quel compromesso costituzionale ha fatto applicazione per la verifica della tempestività dell’atto impositivo notificato
per posta, rispetto alla decadenza dal potere accertativo (54). Se, come
dice la Corte, il regime della notificazione fosse del tutto indifferente alla natura dell’atto, allora dovremmo porci quell’interrogativo e, probabilmente, concludere per identificare, nella richiesta di notificazione
(55), l’adempimento, necessario e sufficiente ad evitare la decadenza. Il
punto è, invece, da un lato, che la natura dell’atto non può essere irrilevante e determina, in quanto recettizia, la allocazione della fattispecie
della notificazione tutta nell’arco temporale segnato al suo estremo dal
termine decadenziale; e, dall’altro, che è insoddisfacente ragionare del
“regime” processuale della notifica, piuttosto che della “forma” processuale – nel senso di propria del (e mutuata, in parte, dal) processo ed i
suoi atti – della notificazione. Entrambe queste vie conducono ad analogo approdo. Il rinvio alla forma processuale dovrebbe comportare una
“valutazione di compatibilità” tra il regime di quella forma e la differente, presupposta sostanza dell’atto al quale essa è “prestata”; la natura, o
meglio la struttura recettizia dell’avviso di accertamento, comporta la
inefficacia (se non l’inesistenza) dell’atto sino al momento in cui questo
non pervenga nella sfera giuridica del suo destinatario, e, quindi, una situazione analoga alla mera emissione dell’atto, rispetto al termine decadenziale. È, dunque, la natura dell’atto di accertamento, la sua struttura
e la sua necessaria intima correlazione con il potere del quale è estrinse———————
(54) Cass., sez. civ. V-Trib., sentenza 29 gennaio 2004, n. 1647.
(55) Meccanismo che evocherebbe la cd. “mailbox rule”: regola – vigente nei sistemi di common law – elaborata per la prima volta nel caso Adams v. Lindsell del 1818
(Court of King’s Bench, 1818 - 106 Eng. Rep. 250), ed in base alla quale, il contratto è
concluso, non nel momento in cui l’accettazione giunge al proponente, bensì sin dal momento in cui l’accettazione viene “avviata” a destinazione (When the acceptance is deposited in the mail), ovvero, ad esempio, messa nella buca delle lettere o consegnata
all’ufficio postale. La ratio di tale norma, nei sistemi anglosassoni, è di privare al più
presto il proponente della facoltà di revoca; e, con le dovute distinzioni per la diversa natura dell’atto amministrativo, nonché tenuto conto dei principi e della disciplina dell’autotutela in materia tributaria, alla quale non osta la definitività dell’atto, questa funzione
certo non può essere neanche adombrata in relazione alla notifica di atti tributari.
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cazione a determinare l’esigenza che anche la ricezione dell’atto avvenga nell’arco temporale utile all’esercizio di quel potere di rilevanza esterna. Se così non fosse, laddove la Corte, con espressione che soddisfa
quel distinguo tra “forma” e “regime”, osserva che le “forme” sulla notificazione implicano quale necessità logica l’applicazione del relativo
regime della nullità e la possibilità di sanatoria che ne costituisce un limite, dovremmo, sulla base di una analoga, fragile, supposizione logica,
ritenere anche necessariamente esteso il regime dello sdoppiamento dei
termini.
Ma questo passaggio logico e decisivo non sembra del tutto chiaro
nelle parole della Corte, la quale pure è estremamente precisa e del tutto
esplicita nel rappresentare la notificazione come fattispecie unitaria ed
essenziale nella più ampia fattispecie dell’accertamento tributario. Le
SS.UU. sono inequivocabili e perentorie nell’indicare il raggiungimento
dello scopo, la conoscenza del destinatario, quale momento che deve precedere lo spirare del termine di decadenza. Appare evidente l’analogia
tra il momento della “conoscenza aliunde” “testimoniato” dalla proposizione del ricorso e, più in generale, la “ricezione” dell’avviso di accertamento pur quando notificato in perfetto ossequio della forma e del procedimento previsti e regolati dal codice di rito (e, per tutti, dall’art. 60,
DPR n. 600/1973).
Questo per dire che la sentenza delle SS.UU. non può non valere
una sorta di bocciatura della tesi applicata dalla sezione tributaria nella
sentenza n. 1647/2004 (qui congiuntamente annotata), poiché la ricezione, sia che consegua ad una notifica rituale, sia che consegua ad una notificazione nulla, deve collocarsi – secondo le SS.UU. – in un momento
antecedente allo spirare del termine di decadenza; sicché, la spedizione o
la richiesta di notifica dell’avviso di accertamento non sono ritenute
adempimenti sufficienti, né, quindi, corrispondenti all'attività che il legislatore prescrive sia compiuta in un inesorabile arco di tempo.
4.3.1. Quanto al raggiungimento dello scopo pare opportuno sottolineare che la Corte non sempre è chiara nell’identificare quello proprio di
un atto recettizio e, quindi, nel rendere evidente quale sia il ruolo, occasionalmente, giocato, ai fini della sanatoria, dalla proposizione del ricorso giurisdizionale.
La conoscenza da parte del suo destinatario è un effetto necessario
dell’atto tributario recettizio in quanto tale; solo in un secondo momento, e su di un piano distinto da quello del perfezionamento o della efficacia dell’atto di rilevanza esterna e recettizio, la ricezione o conoscen-
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za di questo è anche presupposto necessario e rilevante per l’esercizio
del fondamentale diritto di difesa e alla tutela giurisdizionale. Tra conoscenza sanante – ammesso che quest’effetto di emenda del vizio sia teoricamente accettabile – e impugnazione dell’atto non corre alcuna relazione di identità, o almeno essa dovrebbe essere esclusa. In questo senso, sopra, è intenzionale la rappresentazione del momento di impugnazione come “testimonianza” della conoscenza aliunde; e di ciò forse costituisce riprova – nell’economia della stessa sentenza a SS.UU. – quel
conclusivo argomentare sulla impugnazione di tutti gli eredi, “i quali così avrebbero dimostrato piena conoscenza dell’atto impugnato”.
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4.3.2. Appare, invece, meno soddisfacente quella parte della sentenza in cui le SS.UU. sembrano condizionare la sanatoria del vizio direttamente alla proposizione del ricorso giurisdizionale nel termine, poiché ne
resterebbe esclusa – in quell’ottica, immotivatamente – la rilevanza della conoscenza aliunde altrimenti testimoniata e che non sia seguita da un
atto di impugnazione giurisdizionale (56). Astrattamente, infatti, anche la
proposizione di un’istanza di autotutela dovrebbe valere atto, di data certa, comprovante la conseguita conoscenza aliunde dell’atto invalidamente notificato; e, quindi, ammesso che il raggiungimento dello scopo possa costituire evento sanante, quell’istanza (presa ad esempio) certificherebbe l’avvenuta sanatoria in un tempo che – come comunque hanno
condivisibilmente precisato le SS.UU. – dovrebbe essere antecedente allo spirare del termine decadenziale. In questa prospettiva – che ovvia-
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(56) Appare dato significativo che, nella recente giurisprudenza di legittimità
(Cass., sez. civ. V trib., 9 dicembre 2002, n. 17501), posta “la natura di provocatio ad
opponendum della notifica dell’avviso di rettifica”, si distingua tra conoscenza effettiva
aliunde conseguita e proposizione del ricorso giurisdizionale, nel senso di ritenere che “la
sola ipotesi di una conseguita effettiva conoscenza dell’atto, nonostante la nullità della
sua notificazione, non può rappresentare causa di sanatoria della stessa, neppure quando
sia fondata su una attendibile presunzione”; secondo la Corte, infatti, “il raggiungimento
dello scopo di un atto processuale invalido, quale condizione della sua sanatoria, si verifica quando nel procedimento si avvera l’evento successivo cui l’atto è preordinato, ossia quel comportamento della parte che rappresenta l’attuazione dell’obbligo ovvero
l’adempimento dell’onere o l’esercizio del potere, la cui concretizzazione era prevista
quale effetto dell’atto viziato”. Sulla base della natura sostanziale dell’atto, affermata dalle Sezioni Unite, quindi, quella distinzione ad escludendum non si giustificherebbe, proprio in quanto il fine della notificazione non è la tutela giurisdizionale, ma il completamento della fattispecie recettizia, ovvero, il conferimento ad essa di efficacia; mentre
l’idea che la possibilità di sanatoria sia solo correlabile al caso in cui l’atto sia stato impugnato sembra accettabile solo in quanto ad essa si presupponga la natura processuale
dell’atto stesso.
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mente si inserisce e va intesa nel quadro di principio e nella rappresentazione strutturale “dati” dalle SS.UU. –, persino il termine per l’impugnativa decorrerebbe dal momento della istanza di autotutela, in quanto
data certa della conoscenza dell’atto, prima della quale la notifica potrebbe essere stata già sanata, ed a partire dalla quale la notifica sarebbe
comunque perfezionata e produttiva anche di quel particolare effetto.
Ferma la necessità che una notificazione “esista”, è chiaro, quindi,
che o le SS.UU., immotivatamente, hanno inteso identificare un solo veicolo di sanatoria possibile e, cioè, quello processuale, oppure, quella conoscenza aliunde – quella che quegli stessi Giudici, in quella prima ipotesi contraddicendosi, indicano come raggiungimento dello scopo e,
quindi, momento ed evento sanante - deve poter essere testimoniata anche da un atto non processuale, e produrre effetto a prescindere dalla
stessa proposizione di impugnativa: in definitiva, quindi, poter trovare
collocazione ed ambito di applicazione anche al di fuori del processo, nei
vari capillari meandri del procedimento amministrativo tributario, verosimilmente, con ovvio privilegio per i momenti e gli istituti del contraddittorio nella fase amministrativa. Una soluzione, la seconda, che appare
più coerente con la premessa, data dalla Corte, che l’atto è sostanziale,
recettizio, sanabile per quanto attiene alla nullità della notificazione.
In fondo, per esemplificare estremamente, basterebbe considerare
che quella dell’avviso di accertamento non è una “notifica processuale”,
ma una “forma”, quella processuale, di notifica (ovvero, mutuata, tra
l’altro in parte, dal processo).
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4.3.3. È forse opinabile, comunque, l’idea di una equipollenza tra
notificazione dell’avviso di accertamento e conoscenza aliunde dell’atto
invalidamente destinato alla notificazione (57). Non consta, infatti, che
una norma tributaria la preveda, sempre a meno di ritenere che il rinvio
contenuto nell’art. 60 DPR n. 600/1973 – norma di riferimento per le imposte dirette e indirette, per l’Iva e molte altre fattispecie di notificazione tributaria che ad essa rinviano o che ne ricalcano il tenore –, non sia
———————
(57) Cfr., per tutti, in questo senso, C. PUNZI, Funzione, scopo e risultato della notificazione: incostituzionalità delle norme sulle notificazioni degli atti a mezzo del servizio postale, in Giur. cost., n. 5/1998, 2628 ss. e, segnatamente, 2630, secondo il quale,
testualmente: a ben guardare, la notificazione (quando è elemento costitutivo della fattispecie) porta a un risultato detto “conoscenza legale”, che non è fungibile con una conoscenza effettiva aliunde conseguita, in dipendenza del quale risultato la legge poi fa nascere gli effetti giuridici sperati.
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tale, “tecnicamente”, anche in relazione agli artt. 156, 157, 160 c.p.c.: i
quali sono collocati in un capo (del codice di rito) autonomo, rispetto a
quello che, alla sez. IV, reca la disciplina delle comunicazioni e notificazioni, pur se – come le SS.UU. implicitamente ci ricordano – logicamente correlato a quest’ultimo, per la parte concernente il regime delle
nullità dell’atto processuale in generale, esplicitamente, ivi, esteso (art.
160) alle “notificazioni” processuali. Solo per questa via, infatti, si può
sostenere che il raggiungimento dello scopo abbia rilevanza e sia equipollente alla valida notificazione, fermo il convincimento che una notificazione almeno “esistente” debba sussistere e che, quindi, per esempio,
non possa bastare una conoscenza dell’atto mai inoltrato per la notifica.
Non si può fare a meno di notare, tuttavia, che, nel contesto di una
disciplina generale o di principio (art. 6, legge n. 212/2000 – cd. Statuto
del contribuente), successiva alla redazione pressoché di tutte le disposizioni sulla notificazione di atti tributari, il legislatore mostra di profilare
la “conoscenza effettiva” dell’atto – e, quindi, quella conoscenza che dovrebbe trovare un riferimento di data certa e costituire raggiungimento
dello scopo – al più, come un risultato “ulteriore”, auspicato, tendenziale o dovuto che sia, rispetto alla notifica degli atti tributari, le cui disposizioni sono espressamente tenute per ferme da quello stesso legislatore
ed in quello stesso contesto normativo.
È chiaro, per altro verso, che la norma regola gli adempimenti necessari o auspicati da parte dell’ufficio redigente o emittente l’atto tributario, mentre nulla dice circa l’eventualità che quella conoscenza effettiva, anche nella totale inerzia del primo, sia stata (magari, fortuitamente)
conseguita dall’ignaro contribuente.
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4.4. La Corte, più in generale, sulle ragioni della possibilità stessa di
sanatoria, sembra vacillare e chiudersi in una iperbole squisitamente logica, debole nel suo punto di partenza, poiché il regime della nullità della notificazione dell’atto processuale è collocato nella disciplina della
nullità dell’atto processuale in generale e sembrerebbe, quindi, comunque da riferire all’atto di quella natura, pur quando la sua nullità sia riflesso ed effetto di un invalido procedimento di notificazione (divenuto,
sostanzialmente, comune ad alcuni atti sostanziali). Quindi, appare insufficiente quel passaggio del pronunciato che individua la ragione della
sanatoria (e, prima ancora, della sanabilità del vizio di nullità), nella “necessità logica» che l’applicazione di “forme” della notificazione processuale comporti anche applicazione del relativo regime e di quello, per
l’appunto, delle sanatorie. L’argomentare si fa “circolare” quando, di
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PARTE SECONDA
qui, la Corte conferisce rilievo al difetto di principio o ragione sistematica che giustifichino un regime diverso, nonché poco pertinente quando
la ricerca nel “sistema” di una sanatoria per raggiungimento dello scopo
di atti non processuali, si fa ricerca di questa regola, di questo regime –
ancora una volta –, nella fase e nel contesto “processuali” ed in relazione ad atti amministrativi in generale.
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4.5. Una ulteriore finale annotazione sembra meritare l’ambito di applicazione del principio che le SS.UU. affermano, apparentemente, proprio della sola notificazione dell’avviso di accertamento o degli atti accertativi in genere: tra questi essendo compreso l’avviso di liquidazione
in rettifica, oggetto del giudizio a quo ed originario della rimessione a
quel Consesso. La stessa Corte, infatti, evoca espressamente, più in generale, i casi in cui la legge pone limiti temporali all’esercizio di poteri
amministrativi; e, comunque, la categoria degli atti tributari recettizi non
coincide con quella degli atti accertativi (intesa questa, sia in senso formale, che in senso sostanziale).
Basta, del resto, scorrere le norme che ne disciplinano alcuni dei più
rilevanti per apprendere che, per essi – e diversamente da ciò che è previsto per l’avviso di accertamento –, è il legislatore stesso ad aver “scelto” (58) esplicitamente il modello recettizio: ad aver indicato che la notifica si intende avvenuta nella data di ricevimento dell’atto (“nominando” proprio questa fase terminale ed essenziale del procedimento di notificazione). Mi riferisco all’art. 26 DPR n. 602/1973, che regola le modalità di notificazione della cartella di pagamento (59) e, per l’espresso
rinvio operato dal successivo art. 50, comma 2, quelle dell’avviso di in-
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(58) Se la cartella è certamente un atto recettizio, persino per la sola natura propria,
avendo un contenuto ed un effetto negativo per il destinatario ed in quanto reca intimazione al pagamento di un aliquid, sì da necessitare anche della collaborazione di quello,
del quale tende ad indurre lo spontaneo adempimento, nella teoria generale dell’atto amministrativo – dove prevale la teoria della recettizietà per natura, piuttosto che per legge
– non mancano Autorevoli sostenitori (cfr., A. PIZZORUSSO, La pubblicazione degli atti
normativi, Milano, 1963, 15; si veda, inoltre, sul punto, P. STELLA RICHTER, voce Notificazione (dir. amm.), in Enc. dir., Milano, 1978, XXVIII) del criterio esclusivo della recettizietà per legge, sul presupposto che tale scelta spetterebbe soltanto al legislatore.
Soggiungerei, peraltro, che è “per legge”, almeno indirettamente, anche il criterio della
natura dell’atto, poiché questa andrebbe, comunque, desunta e verificata dalla sua conformazione legale, destinazione funzionale e collocazione sistematica.
(59) Per quanto attiene alla recettizietà della cartella di pagamento, implicita al pronunciato ed al suo epilogo dispositivo nel caso concreto definito, ed al termine decadenziale applicabile per la notifica della cartella scaturita dalla procedura ex art. 36-bis, DPR n. 600/1973,
si veda la recentissima Corte Cass., SS.UU. civ., sent. 12 novembre 2004, n. 21498.
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timazione; ma lo stesso epilogo interpretativo (diverso il solo percorso)
non potrebbe non valere per l’atto di contestazione delle sanzioni ex art.
16 D.Lgs. n. 472/1997, silente sul ricevimento, eppure, comunque, precettivo della notificazione, a pena di decadenza, entro un termine specifico, in combinato disposto con il successivo art. 20 (60).
Nella disciplina, per definizione, transeunte dei recenti condoni, merita, non ultima, di essere sottolineata la ben nota presenza di una ulteriore fattispecie di atto recettizio, “accertativo” di quel peculiare rapporto
obbligatorio di titolo premiale (o tributario per accidente); si tratta
dell’eventuale “diniego” di definizione della lite, che l’art. 16, comma 8,
penultimo periodo, legge n. 289/2002, prescrive debba avvenire, nei confronti “dell’interessato”, con le modalità dell’art. 60, DPR n. 600/1973 ed
in un termine puntualmente determinato. Anche in questo caso, infatti, è
agevole prevedere che si riproporranno, con rinnovata attualità e particolare diffusione, tanto la questione del momento di notificazione, quanto
quella degli effetti di essa, qualora eseguita solo nei confronti di uno o più
dei condebitori solidali (considerati, questi, nel successivo X alinea).
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4.6. Considererei, infine, il ruolo che potrebbe giocare oggi lo Statuto del contribuente, legge di portata generale e di principio, nel quale,
all’art. 6, è codificato quello che la stessa sezione tributaria (61) ha denominato “principio di ‘conoscenza degli atti’”: nel pensiero della Corte, regola utile a reinterpretare disposizioni di specie anche previgenti,
nel senso che gli atti tributari incidenti sulla posizione debitoria o creditoria del contribuente non possono produrre effetti prima che questi ne
abbia avuto conoscenza (legale conoscenza, preciserei). Ben più significativo appare, peraltro, quanto desumibile dal successivo art. 7 (e, non
solo) dello stesso Statuto, poiché la comunicazione amministrativa è elevata a momento centrale dell’agire pubblico e, sempre più, affrancata da
una accezione solo propedeutica alla tutela giurisdizionale (62).
COSTANTINO SCALINCI
———————
(60) Quello che ne regola tale profilo unitamente alla disciplina dell’atto di irrogazione immediata “in uno” con l’avviso di accertamento del tributo, previsto dall’art. 17
stesso decreto.
(61) Cfr., Cass., sez. civ. V-trib., 30 marzo 2001, n. 4760, in Foro it., 2001, I, 1853;
contra, più recentemente, sent. 2 marzo 2004, n. 4235, in Riv. giur. trib., n. 11/2004, 1056.
(62) Sono previste come generalmente essenziali all’atto tributario, tra l’altro, indicazioni indispensabili (o funzionali) al contraddittorio amministrativo “successivo” ed
all’autotutela.
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PARTE SECONDA
Rassegna della Cassazione tributaria
(II quadrimestre 2004)
a cura di Enrico Manzon ed Adriano Modolo
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ATTUATIVI DEI TRIBUTI
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I. PROCEDIMENTI
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SOMMARIO: I PROCEDIMENTI ATTUATIVI DEI TRIBUTI: a) Riscossione/Rimborsi. - II. IMPOSTE DIRETTE. - III IVA ED ALTRE IMPOSTE INDIRETTE. - IV. DIRITTO PROCESSUALE.
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a) Riscossione/Rimborsi. - Con la sentenza n. 8456 del 4 maggio
2004 (Pres. Riggio, Rel. Di Nubila) la Corte ha statuito che nei casi in
cui l’atto impositivo sia costituito dal ruolo, solo la tempestiva impugnazione della cartella di pagamento consente al contribuente di contestare
la debenza del tributo, risultando conseguentemente precluso il rimborso
ex art. 38 del DPR n. 602/1973 in difetto della stessa. In senso conforme
anche la sentenza n. 16485 del 20 agosto 2004 (Pres. Saccucci, Rel. Cicala) con la quale la sezione specializzata ha espressamente escluso il diritto del contribuente al rimborso dell’imposta indebitamente versata, anche nell’ipotesi in cui la non debenza discenda da una pronuncia della
Corte costituzionale, ove il pagamento sia avvenuto a seguito di iscrizione a ruolo non tempestivamente impugnata ovvero a seguito di autotassazione non seguita poi da istanza di rimborso nel termine previsto
dall’art. 38 del DPR n. 602/1973.
Con la sentenza n. 13222 del 16 luglio 2004 (Pres. Favara, Rel.
D’Alonzo) la Corte ha poi escluso l’applicabilità, al versamento di
un’imposta a saldo, del principio secondo cui il termine decadenziale
dell’art. 38 del DPR n. 602/1973 non decorre con riferimento al rimborso di versamenti connotati da un qualche carattere di provvisorietà ed ai
quali successivamente non corrisponda la determinazione del relativo obbligo, sul presupposto che esso abbia per l’appunto carattere provvisorio
per la possibilità dell’amministrazione finanziaria di modificare l’entità
del debito d’imposta con la notifica di un accertamento in rettifica.
Altresì si precisa che con la sentenza n. 16742 del 24 agosto 2004
(Pres. Riggio, Rel. Amari) la Corte ha confermato il principio secondo
cui la locuzione “inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento”, contenuta nell’art. 38 del DPR n. 602/1973, comprende anche la fattispecie del pagamento eseguito erroneamente in quanto non dovuto per
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GIURISPRUDENZA
carenza della relativa obbligazione tributaria (precedenti conformi Cass.,
nn. 7360/1998; 424/2003).
II. IMPOSTE
DIRETTE
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In tema di redditi fondiari e, più precisamente, di reddito di fabbricati, con la sentenza n. 15537 del 11 agosto 2004 (Pres. Papa, Rel. Cultrera) la sezione specializzata ha ribadito che l’art. 11 della legge 30 dicembre 1991 n. 413 deve essere inteso come norma contenente l’esclusiva ed esaustiva disciplina per la fissazione dell’imponibile rispetto agli
edifici di interesse storico ed artistico da effettuarsi sempre con riferimento alla più bassa delle tariffe d’estimo della zona, a prescindere dalla locazione del bene ad un canone superiore (precedente conforme Cass.
civ., sez. trib., n. 7685/2003).
In tema di redditi di lavoro dipendente si segnala che la Corte:
– con la sentenza n. 11178 dell'11 giugno 2004 (Pres. Cristarella
Orestano, Rel. Del Core) ha statuito che in applicazione del principio
contenuto nell’art. 6 del DPR n. 917/1986 gli interessi, sia moratori che
corrispettivi, maturati su somme liquidate per crediti di lavoro dipendente, quali il TFR, sono assoggettabili ad Irpef in quanto costituiscono redditi della stessa categoria di quello da cui derivano i crediti tardivamente adempiuti;
– con la sentenza n. 15660 del 12 agosto 2004 (Pres. Papa, Rel. Magno) ha precisato che le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente, non hanno natura di erogazione liberale eccezionale ma costituiscono reddito da lavoro dipendente essendo predeterminate al fine di sollecitare e remunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata del
rapporto (in senso conforme Cass. civ., sez. trib., n. 16125/2004);
– con la sentenza 16014 del 17 agosto 2004 (Pres. Papa, Rel.
D’Alonzo), nel riaffrontare il tema del trattamento dell’indennità supplementare corrisposta ai dirigenti d’azienda a seguito di ingiustificato licenziamento, ha statuito che al fine di negare l’imponibilità Irpef di un’erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro, è necessario accertare che l’erogazione stessa non trovi la sua causa nel rapporto di
lavoro e, qualora ciò non sia positivamente escluso, che l’erogazione stessa non trovi la fonte della sua obbligatorietà né in redditi sostituiti né nel
risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri.
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PARTE SECONDA
ED ALTRE IMPOSTE INDIRETTE
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In tema di redditi di capitale, con la sentenza n. 17046 del 26 agosto 2004 (Pres. Saccucci, Rel. Meloncelli) la Corte ha infine statuito che
la ritenuta subita dalle Regioni sugli interessi maturati sui conti correnti
bancari ha natura di ritenuta a titolo d’imposta, ancorché le stesse Regioni non siano soggetti passivi Irpeg; la sezione specializzata ha infatti
escluso la possibilità di invocare, per sostenere il contrario, la distinzione tra le nozioni di esclusione ed esenzione tributaria, atteso che, oltre alla difficoltà di operare coerentemente la relativa distinzione nella normativa fiscale per l’uso atecnico dei termini rilevabile in molte disposizioni, l’art. 26 del DPR n. 600/1973 regola un rapporto tributario autonomo dall’Irpeg e, al solo scopo di individuare il soggetto passivo, fa
rinvio a quelle disposizioni con l’intento di assoggettarvi anche coloro
che non siano soggetti passivi di detta imposta.
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In materia di Iva, si segnala che con la sentenza n. 9114 del 13 maggio 2004 (Pres. Riggio, Rel. Sotgiu) la Corte ha precisato che con riguardo all’imposta indebitamente corrisposta per la prestazione di un
servizio, la legittimazione all’azione di ripetizione nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta al solo prestatore del servizio, in qualità
di debitore dell’imposta, e non al destinatario della prestazione cui compete invece il diritto di richiedere al prestatore del servizio l’eventuale
restituzione dell’imposta indebitamente versata, nell’ambito di un rapporto regolato dal diritto privato.
Di interesse è poi la sentenza n. 12853 del 12 luglio 2004 (Pres.
Paolini, Rel. Meloncelli) con la quale la Corte ha statuito che la cessione di un immobile di proprietà di due coniugi in regime di comunione legale dei beni ed utilizzato per l’esercizio dell’impresa individuale di uno
di essi, è soggetta ad Iva e tale soggezione è assorbente rispetto all’imposta di registro in quanto la cessione, dal punto di vista tributario, non
è un atto plurimo avente ad oggetto singole quote di comune proprietà
valutabili separatamente in dipendenza della natura dei soggetti proprietari, ma un atto unitario oggettivamente rilevante come atto d’impresa.
In materia di imposta di registro si fa rilevare che con la sentenza n.
12448 del 7 luglio 2004 (Pres. Cristarella Orestano, Rel. Botta) la Corte
ha precisato che la norma di cui all’art. 52, comma 4, del DPR n.
131/1986 non ha inteso individuare per gli immobili una base imponibile diversa dal valore venale, ma ha solo introdotto una mera preclusione
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al potere di accertamento qualora nell’atto venga indicato un valore non
inferiore a quello ottenibile con il procedimento di valutazione automatica; sulla scorta di tale principio la Corte ha quindi escluso che nel caso in cui il contribuente abbia indicato in atto un valore superiore possa
poi richiedere che l’imposta sia invece commisurata al valore ottenibile
mediante il suddetto procedimento automatico.
In materia di Ici si segnala infine che la sezione specializzata:
– con la sentenza n. 11830 del 24 giugno 2004 (Pres. Favara, Rel.
Oddo) ha escluso che, al fine della determinazione della base imponibile per i fabbricati non iscritti in catasto, possa essere assunto come equipollente al criterio indicato nell’art. 5 del D.Lgs. 504/1992, il quale fa riferimento alla rendita di fabbricati similari già iscritti, il diverso criterio
fondato sulla rendita attribuita al fabbricato in questione in epoca successiva agli anni d’imposta oggetto di controversia;
– con la sentenza n. 12436 del 7 luglio 2004 (Pres. Raggio, Rel. Ebner) ha precisato che la norma di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 504/1992,
secondo cui per i fabbricati iscritti in catasto la base imponibile è costituita dal valore catastale che risulta dall’applicazione dei moltiplicatori
di cui al DPR n. 131/1986 all’ammontare delle rendite risultanti in catasto, si applica tutte le volte in cui l’immobile sia iscritto in catasto ed a
prescindere dalla circostanza che esso sia classificabile nel gruppo D e
sia integralmente posseduto da un’impresa e distintamente contabilizzato;
– con la sentenza n. 16751 del 24 agosto 2004 (Pres. Avara, Rel.
Sotgiu) ha statuito che l’edificabilità di un’area non discende necessariamente da piani regolatori già attuabili o particolareggiati, ma è sufficiente che tale carattere risulti da un piano regolatore generale, anche se l’assenza di un piano attuativo dello strumento generale attenua la potenzialità edificatoria e, quindi, la stessa base imponibile dell’immobile.
IV. DIRITTO
PROCESSUALE
In tema di giurisdizione le SS.UU. civili della Suprema Corte hanno
statuito:
– con la sentenza n. 10952 del 9 giugno 2004 (Pres. Ianniruberto,
Rel. Papa), che ai fini della sussistenza della giurisdizione delle Commissioni tributarie in materia di Ici è irrilevante che nell’ingiunzione di
pagamento opposta dal contribuente il Comune impositore, erroneamente, abbia indicato il giudice ordinario (nella specie, giudice di pace) qua-
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le AG competente alla cognizione dell’impugnativa, rilevando tale erronea indicazione al più in ordine ai termini per proporre l’impugnativa
medesima;
– con la sentenza n. 13793 del 22 luglio 2004 (Pres. Grieco, Rel. Altieri), che le controversie in materia di tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani (Tarsu), anche prima della novellazione dell’art. 2, D.Lgs.
n. 546/1992 da parte dell’art. 12, legge n. 448/2001, appartengono alla
giurisdizione delle Commissioni tributarie, trattandosi di tributi comunali (art. 2, comma 1, lett. h), D.Lgs. citato) ed anche se si tratti di azione
di mero accertamento negativo, poiché in tal caso, non essendo stato impugnato uno degli atti indicati nell’art. 19, D.Lgs. citato, non si pone una
questione di giurisdizione (essendo la stessa fissata dall’art. 2, citato),
bensì dovrà essere dichiarata l’improponibilità, assoluta, della domanda
da parte della Commissione tributaria adita.
Relativamente alla competenza territoriale delle Commissioni tributarie, la sezione specializzata, con la sentenza n. 14212 del 28 luglio
2004 (Pres. Cristarella Orestano, Rel. Oddo), ha affermato che tale competenza rimane radicata presso la Commissione nella cui circoscrizione
si situa l’ufficio che non ha risposto all’istanza di rimborso presentata dal
contribuente, ancorchè detto ufficio non sia quello territorialmente competente a pronunziarsi nel merito dell’istanza medesima.
La Suprema Corte inoltre, con la sentenza n. 12070 del 1° luglio
2004 (Pres. Favara, Rel. Falcone), ha sancito che l’omessa o incompleta
indicazione nell’atto impositivo della Commissione territorialmente
competente a giudicarne l’eventuale impugnativa, non inficia di nullità
l’atto medesimo, trattandosi di una mera irregolarità formale.
Vanno poi reportate alcune pronunzie della sezione tributaria in ordine agli aspetti strutturali generali del processo avanti alle Commissioni e specificamente:
– la sentenza n. 13056 del 14 luglio 2004 (Pres. Cristarella Orestano,
Rel. Sotgiu), con la quale si è statuito che nelle liti di rimborso (diversamente che in quelle di impugnativa) l’amministrazione finanziaria resistente può in sede processuale prospettare argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle poste alla base del rigetto dell’istanza di rimborso
del contribuente. Ciò in quanto in tali controversie il contribuente è l’ “attore sostanziale” (oltre che “formale”) e quindi, anche se nell’ambito
dell’oggetto del processo delineato dal ricorso, l’amministrazione finanziaria può difendersi con la prospettazione di eccezioni in senso stretto;
– la sentenza n. 13211 del 16 luglio 2004 (Pres. Favara, Rel. Meloncelli), con la quale si è sancito che, qualora non sia stato impugnato
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un atto impositivo, non è poi impugnabile il silenzio rifiuto formatosi su
di un’istanza di rimborso correlata alla pretesa impositiva consolidatasi
per la mancata impugnazione di detto atto impositivo;
– la sentenza n. 13672 del 22 luglio 2004 (Pres. Paolini, Rel. Meloncelli), con la quale si è affermato che il principio del legittimo affidamento del contribuente contenuto nell’art. 10, legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente), non è applicabile in materia processuale;
– la sentenza n. 13848 del 23 luglio 2004 (Pres. Saccucci, Rel. Amari), con la quale si è stabilito che il giudice tributario può avvalersi del
potere di disapplicazione degli atti amministrativi solo qualora essi siano
inficiati da specifici vizi di legittimità (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), non essendo invece sufficiente a tal fine la generica contestazione dei criteri guida della discrezionalità amministrativa
esercitata nell’adozione dell’atto.
In ordine alle parti processuali, la Suprema Corte ha poi puntualizzato:
– con la sentenza n. 12598 dell’8 luglio 2004 (Pres. Saccucci, Rel.
Cultrera), che non è ammissibile l’intervento nel processo tributario degli enti esponenziali di interessi diffusi dei contribuenti (in senso conforme, Cass. civ., sez. trib., nn. 139/2004, 181/2004);
– con la sentenza n. 15639 del 12 agosto 2004 (Pres. Cristarella
Orestano, Rel. D’Alonzo), che, ferma la rappresentanza del Comune
esclusivamente da parte del Sindaco pro tempore (art. 11, comma 3,
D.Lgs. n. 546/1992), tuttavia è rituale la costituzione dell’ente locale tramite un funzionario, ma non in virtù del ruolo da questi ricoperto
nell’amministrazione, bensì quale delegato del Sindaco (art. 15, comma
2 bis, del citato decreto).
In materia di diritto probatorio, risultano meritevoli di segnalazione:
– la sentenza n. 8439 del 4 maggio 2004 (Pres. Saccucci, Rel. Falcone), con la quale, ribadito che l’esercizio del poteri istruttori officiosi
di cui all’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992 è facoltà discrezionale del
giudice tributario (precedenti conformi, ex pluribus, Cass. civ., sez. trib.,
nn. 1701-8134/2001, 7678/2002, 7129/2003), si è poi specificato che tali poteri non possono essere utilizzati per sopperire al mancato assolvimento di oneri probatori di parte, in ossequio ai principi di cui al “novellato” art. 111, Cost.;
– la sentenza n. 11419 del 18 giugno 2004 (Pres. Saccucci, Rel. Meloncelli), con la quale si è ribadita la piena applicabilità al rito tributario
speciale degli artt. 214-215, c.p.c., in tema di disconoscimento della
conformità all’originale della copia fotostatica di scrittura privata, con la
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conseguente necessità, ad onere della parte interessata, di una contestazione tempestiva (prima udienza ovvero prima difesa successiva alla produzione del documento) e specifica (precedente conforme: Cass. civ.,
sez. trib., n. 10423/2000).
Come di consueto, meritano altresì segnalazione un buon numero di
decisioni della Suprema Corte in materia di impugnazioni.
In particolare, va anzitutto rilevato un contrasto giurisprudenziale in
ordine alla proposizione dell’appello da parte delle sezioni distaccate
delle Direzioni regionali delle entrate.
Infatti, con la sentenza n. 9716 del 21 maggio 2004 (Pres. Papa, Rel.
Merone), si è ribadito che le sezioni staccate della Direzione Regionale
delle entrate non abbisognano di autorizzazione a proporre appello (precedenti conformi: Cass. civ., sez. trib., nn. 10240 e 11456/2001).
Al contrario, la sentenza n. 12391 del 6 luglio 2004 (Pres. Riggio,
Rel. Monaci) ha affermato che tali organi periferici debbono invece essere autorizzati dal responsabile del servizio del contenzioso presso la
Direzione regionale delle entrate, a pena di inammissibilità del gravame.
La sezione specializzata, con la sentenza n. 12702 del 9 luglio 2004
(Pres. Saccucci, Rel. Meloncelli), ha peraltro ribadito che l’autorizzazione a proporre appello ex art. 52, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, può essere prodotta in giudizio fino all’udienza di discussione del ricorso avanti al giudice di secondo grado (precedente conforme: Cass. civ., sez. trib.,
n. 10242/2001).
Ancora in tema di appello, devono poi essere evidenziate le ulteriori seguenti pronunce della sezione tributaria:
– la sentenza n. 12147 del 2 luglio 2004 (Pres. Saccucci, Rel. Bielli), con la quale si è statuito che sono inammissibili le questioni, non rilevabili d’ufficio, non proposte dalle parti negli atti introduttivi del secondo grado del giudizio;
– la sentenza n. 12154 del 2 luglio 2004 (Pres. Riggio, Rel. Merone), con la quale si è affermato che qualora sia inammissibile l’appello
principale (nella specie, per omessa tempestiva costituzione dell’appellante) rimane il potere-dovere della Commissione tributaria regionale di
decidere l’appello incidentale ritualmente e tempestivamente proposto,
senza peraltro che assuma validità quale appello incidentale un secondo
appello principale proposto dal primo appellante;
– la sentenza n. 15646 del 12 agosto 2004 (Pres. Cristarella Orestano, Rel. Oddo), con la quale si è precisato che il divieto, posto dall’art.
57, D.Lgs. n. 546/1992, di proporre nuove eccezioni in grado d’appello
non implica che non si possano addurre nuovi argomenti a sostegno di
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GIURISPRUDENZA
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eccezioni già formulate ovvero che non si possano allegare nuove “mere” difese volte ad eccitare il potere del giudice di sollevare eccezioni rilevabili anche d’ufficio;
– la sentenza n. 17206 del 26 agosto 2004 (Pres. Cristarella Orestano, Rel. Ferrara), con la quale si è confermato che è inammissibile l’appello proposto soltanto per motivi di rito, qualora non si tratti di motivi
che inducono la regressione in primo grado ex art. 59, comma 1, D.Lgs.
n. 546/1992 (precedenti conformi: Cass. civ., sez. trib., n. 2455/2001;
SS.UU. n. 12541/1998).
In tema di ricorso per Cassazione, la Suprema Corte ha statuito:
– con la sentenza n. 12705 del 1° luglio 2004 (Pres. Saccucci, Rel.
Meloncelli), che ai fini della decorrenza del “termine breve” per l’impugnazione de qua la sentenza della Commissione tributaria regionale deve essere notificata all’ufficio che è stato parte nel giudizio di appello,
dovendosi ritenere implicitamente abrogata la diversa previsione di cui
all’art. 21 della legge n. 133/1999 (notifica presso l’Avvocatura dello
Stato territorialmente competente), posto che, con la riforma delle Agenzie fiscali, per tali enti il patrocinio dell’Avvocatura erariale avanti alla
Suprema Corte di Cassazione è divenuto meramente eventuale;
– con le sentenze nn. 11551 del 21 giugno 2004 (Pres. Paolini, Rel.
Del Core) e 15528 dell’11 agosto 2004 (Pres. Riggio, Rel. Cultrera) che
è, insanabilmente, inammissibile il ricorso notificato all’ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate, dovendo invece essere notificato al Direttore dell’Agenzia centrale, presso l’Avvocatura erariale;
– con la sentenza n. 15867 del 13 agosto 2004 (Pres. Riggio, Rel.
D’Alonzo), che per essere ammissibile il ricorso deve, tra l’altro, riportare testualmente gli aspetti della motivazione dell’atto impositivo impugnato che intende portare all’attenzione del giudice di legittimità.
In ordine al giudizio di ottemperanza, va ancora segnalato che:
– con la sentenza n. 15074 del 5 agosto 2004 (Pres. Paolini, Rel. Fico), si è sancito che la decisione emessa a conclusione di tale speciale
procedura di attuazione del giudicato tributario è ricorribile per Cassazione non solo per “inosservanza delle norme sul procedimento”, come
previsto dall’art. 70, comma 10, D.Lgs. n. 546/1992, ma, più in generale, per “violazione di legge” (anche sostanziale), come previsto dall’art.
111, Cost.;
– con la sentenza n. 15655 del 12 agosto 2004 (Pres. Favara, Rel.
Gianicola), si è affermato che la decisione d’inammissibilità resa in sede
di giudizio di ottemperanza è impugnabile oltre i limiti segnati dall’art.
70, comma 10, D.Lgs. n. 546/1992.
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PARTE SECONDA
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Infine, vanno segnalate due pronunzie della prima sezione civile della Suprema Corte (n. 11350 del 17 giugno 2004, Pres. Olla, Rel. Morelli; n. 17139 del 27 agosto 2004, Pres. Olla, Rel. Macioce), con le quali
si è esclusa l’applicabilità al giudizio tributario della legge n. 89/2001
sull’equa riparazione per mancato rispetto del ragionevole termine di durata del processo, affermandosi che, seguendo la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, tale giudizio non rientra nella previsione di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, non essendo le obbligazioni tributarie assimilabili a quelle di “carattere civile”.
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Rubrica di diritto comunitario
a cura di Piera Filippi
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CORTE DI GIUSTIZIA Ce, sez. II, 8 giugno 2004, causa C-268/03, De Baeck
./. Belgische Staat; Pres. e Rel. C.W.A. Timmermans
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Imposta sul reddito - Plusvalenze fuori dal regime d’impresa - Diritto di
stabilimento - Artt. 43 e 48 Trattato Ce - Libera circolazione dei capitali - Artt. 56 e 58 Trattato Ce - Discriminazione - Sussiste
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Gli artt. 43 e 48 Trattato Ce ostano a una disposizione legislativa nazionale che tassa le plusvalenze realizzate in occasione di cessione di partecipazioni sociali in favore di soggetti stabiliti in un altro Stato membro, prevedendo invece la non imponibilità di quelle realizzate in occasione di cessione di
partecipazioni in favore di soggetti stabiliti nello stesso Stato membro del cedente quando quest’ultimo sia in grado di esercitare una certa influenza sulle
decisioni del cessionario.
L’art. 56 Ce osta a una disposizione legislativa nazionale come quella citata, qualora la partecipazione ceduta non sia tale da conferire al suo titolare
una certa influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne le attività (1)*.
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1. Con ordinanza 13 giugno 2003, pervenuta in cancelleria il 19 giugno
successivo, il Rechtbank van eerste aanleg te Antwerpen ha sottoposto a questa
Corte, ai sensi dell’art. 234 Ce, una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione degli artt. 43 Ce, 46 Ce, 48 Ce, 56 Ce e 58 Ce.
2. La detta questione è stata sollevata nell’ambito di una controversia tra il
sig. De Baeck e il Belgische Staat (Stato belga) in merito all’imposizione della
plusvalenza realizzata in occasione della vendita da parte del sig. De Baeck di
azioni di società belghe a una società francese.
Normativa nazionale
3. Nella versione in vigore all’epoca dei fatti della controversia principale,
l’art. 67, n. 8, del codice belga delle imposte sui redditi 26 febbraio 1964 disponeva quanto segue:
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(*) Segue nota firmata.
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PARTE TERZA
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“Entrate diverse (…) sono (…) le plusvalenze realizzate in occasione della
cessione a titolo oneroso, al di fuori dell’esercizio di una delle attività professionali menzionate nell’art. 20, di azioni o di quote rappresentative di diritti societari in società, associazioni, istituzioni o enti di qualsiasi tipo che abbiano in
Belgio la loro sede sociale, il loro stabilimento principale o la loro sede di gestione o amministrativa qualora, in caso di acquisizione delle azioni o delle quote a titolo non oneroso, in un momento qualsiasi nel quinquennio che precede la
cessione, il cedente o il suo dante causa abbiano detenuto direttamente o indirettamente, da soli o assieme al coniuge, ai loro discendenti, ascendenti e affini
fino al secondo grado, inclusi quelli del coniuge, più del 25 per cento dei diritti nella società le cui azioni o quote sono state cedute”.
4. L’art. 67 ter dello stesso codice così dispone:
“Le plusvalenze menzionate all’art. 67, n. 8, non sono imponibili qualora
siano state realizzate in occasione della ripartizione del patrimonio sociale della
società di cui costituiscono diritti societari, ovvero dell’acquisto da parte di tale
società delle proprie azioni, ovvero della cessione delle azioni o quote a un residente nel Regno del Belgio assoggettato all’imposta sul reddito delle persone
fisiche o a un non residente soggetto passivo dell’imposta applicabile ai non residenti o a un contribuente come definito dagli artt. 94, n. 1, e 136”.
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Controversia principale e questione pregiudiziale
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5. Il giudice del rinvio afferma che, secondo l’amministrazione, nel 1989 il
sig. De Baeck, agendo in proprio nome e per conto terzi, ha venduto a una società francese azioni delle società belghe appartenenti al gruppo Antverpia per
un importo di BEF 1 705 000 000.
6. Poiché le azioni sono state vendute a una società straniera e la famiglia
del sig. De Baeck ha detenuto una considerevole partecipazione nelle società
belghe appartenenti al gruppo Antverpia, secondo l’amministrazione la plusvalenza realizzata era imponibile.
7. Secondo il giudice del rinvio, dalla normativa nazionale si evince che le
plusvalenze non sono imponibili qualora le azioni o le quote vengano cedute a
società, associazioni, istituzioni o enti belgi, mentre tali plusvalenze sono imponibili qualora le azioni o le quote vengano cedute a società, associazioni, istituzioni o enti esteri.
8. La detta normativa prevede pertanto un trattamento differenziato delle
plusvalenze su azioni o quote a seconda del luogo di stabilimento della società,
dell’associazione, dell’istituzione o dell’ente cessionario.
9. Poiché nutriva dubbi in merito alla conformità di una simile normativa
al diritto comunitario, il Rechtbank van eerste aanleg te Antwerpen ha deciso di
sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
“Se gli artt. 43 [Ce], 46 [Ce], 48 [Ce], 56 [Ce] e 58 Ce ostino a una disposizione legislativa nazionale belga, come quella prevista dagli artt. 67, n. 8, e 67
5
RUBRICA DI DIRITTO COMUNITARIO
ter del codice delle imposte sui redditi, nella sua versione del 1964, ai sensi della quale le plusvalenze realizzate in occasione della cessione a titolo oneroso, al
di fuori dell’esercizio di un’attività professionale, su azioni o quote rappresentative di diritti societari in società, associazioni, istituzioni o enti belgi, sono imponibili, qualora la cessione avvenga a favore di società, associazioni, istituzioni o enti stranieri, mentre, nella stessa situazione, tali plusvalenze non sono imponibili qualora la cessione avvenga a favore di società, associazioni, istituzioni o enti belgi»
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Sulla questione pregiudiziale
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Osservazioni presentate alla Corte
10. Il sig. De Baeck propone di risolvere la questione pregiudiziale in senso affermativo. Richiamandosi, in particolare, alla sentenza 21 novembre 2002,
causa C-436/00, X e Y (Racc. pag. I-10829), egli afferma che una norma come
quella di cui trattasi nella causa principale costituisce una restrizione sia alla libertà di stabilimento sia alla libera circolazione dei capitali.
11 Infatti, una simile norma sarebbe tale da ostacolare il contribuente
nell’esercizio del diritto conferitogli dall’art. 43 Ce di esercitare le proprie attività per mezzo di una società in un altro Stato membro o di cedere azioni o quote ad una tale società nonché da dissuadere i residenti in uno Stato membro dal
contrarre prestiti o dal fare investimenti in altri Stati membri. Il sig. De Baeck
rileva che non esiste alcuna ragione che giustifichi le dette restrizioni.
12. La Commissione delle Comunità europee sostiene inoltre che una normativa nazionale come quella di cui trattasi nella causa principale è incompatibile con il diritto comunitario. Facendo riferimento alle sentenze 13 aprile 2000,
causa C-251/98, Baars (Racc. pag. I-2787), e X e Y, cit., essa osserva che occorre operare una distinzione tra la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali.
13. Secondo la stessa, se la partecipazione del sig. De Baeck conferisce a
quest’ultimo una certa influenza sulle decisioni della società e gli consente di indirizzarne le attività, la questione pregiudiziale dev’essere analizzata dal punto
di vista della libertà di stabilimento. In caso contrario, essa dovrebbe essere analizzata dal punto di vista della libera circolazione dei capitali. Spetterebbe al
giudice del rinvio verificare quale delle due ipotesi corrisponda alla realtà.
14. Per quanto riguarda la libertà di stabilimento, la Commissione, riferendosi alla citata sentenza X e Y, fa valere che l’imposizione controversa nella causa principale rischia di avere un effetto deterrente sull’esercizio da parte di una
società stabilita in un altro Stato membro del diritto conferitole dall’art. 43 Ce
di svolgere la propria attività in Belgio attraverso una società. Sarebbe infatti più
interessante per il sig. De Baeck vendere la sua partecipazione ad un’impresa
belga, poiché, in tal caso, egli non sarebbe debitore dell’imposta. Una simile disparità di trattamento costituirebbe una restrizione alla libertà di stabilimento.
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PARTE TERZA
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15. Per quanto riguarda la libera circolazione dei capitali, la Commissione,
facendo ancora riferimento alla citata sentenza X e Y, osserva che la normativa
nazionale in questione nella causa principale è tale da dissuadere i soggetti passivi dell’imposta belga sui redditi dal cedere azioni a società cessionarie stabilite in altri Stati membri. D’altra parte, la detta normativa limiterebbe altresì la libertà dei residenti in altri Stati membri di investire il loro capitale in alcune imprese belghe, poiché i detti residenti dovrebbero convincere il venditore belga a
sceglierli come acquirenti, nonostante l’imposizione controversa. Essa costituirebbe, pertanto, una restrizione alla libera circolazione dei capitali ai sensi
dell’art. 56 Ce.
16. La Commissione osserva che il giudice del rinvio non menziona alcun
elemento idoneo a giustificare le restrizioni individuate dalla stessa. Essa ritiene inoltre che non sussistano elementi tali da giustificarle.
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Soluzione della Corte
17. Alla luce del fatto che la soluzione della questione sollevata può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza, la Corte, ai sensi dell’art. 104, n.
3, del suo regolamento di procedura, ha informato il giudice del rinvio che intendeva statuire con ordinanza motivata ed ha invitato gli interessati di cui
all’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia a presentare le loro eventuali osservazioni in merito.
18. Solo il sig. De Baeck ha risposto all’invito della Corte indicando che la
citata sentenza X e Y, a suo avviso, non era identica alla causa in esame, ma presentava analogie con la stessa. Egli si affida pertanto alla valutazione della Corte per determinare se, nel caso di specie, la soluzione possa essere desunta da
tale sentenza. Egli ritiene che possa esserlo.
19. È giurisprudenza costante che, se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitarla nel rispetto del diritto comunitario (v., in particolare, sentenza
11 dicembre 2003, causa C-364/01, Barbier, Racc., pag. I-0000, punto 56, e la
giurisprudenza ivi citata).
20. Al punto 36 della citata sentenza X e Y, la Corte ha dichiarato che la
privazione di un vantaggio fiscale che consiste nel rifiutare al cedente il beneficio di un differimento dell’imposta sulle plusvalenze realizzate sulle azioni cedute sottoprezzo, per il fatto che la società cessionaria nella quale il soggetto
passivo detiene una partecipazione ha sede in un altro Stato membro, può avere un effetto deterrente sull’esercizio da parte dello stesso del diritto conferitogli dall’art. 43 Ce di svolgere la propria attività in tale altro Stato membro attraverso una società.
21. La Corte ha rilevato che una simile disparità di trattamento costituisce
una restrizione alla libertà di stabilimento dei cittadini dello Stato membro interessato nonché, del resto, a quella dei cittadini di altri Stati membri che risiedono nel territorio del detto Stato membro, che detengono una partecipazione nel
capitale di una società con sede in un altro Stato membro, purché, tuttavia, tale
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RUBRICA DI DIRITTO COMUNITARIO
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partecipazione conferisca loro una sicura influenza sulle decisioni della società
e consenta loro di indirizzarne le attività. Essa ha affermato che spetta al giudice del rinvio verificare se tale condizione sia soddisfatta nella causa principale
(v. sentenza X e Y, cit., punto 37, e la giurisprudenza ivi citata).
22. Del resto, qualora, secondo le verifiche che devono essere svolte dal
giudice del rinvio, l’art. 43 Ce non si applichi alla luce del grado insufficiente
della partecipazione del cedente nella società cessionaria con sede in un altro
Stato membro, la privazione di un vantaggio fiscale è idonea a dissuadere i soggetti passivi dell’imposta sulle plusvalenze dal cedere sottoprezzo azioni a società cessionarie stabilite in altri Stati membri nelle quali essi detengono, direttamente o indirettamente, una partecipazione e, pertanto, costituisce per tali soggetti passivi una restrizione alla libera circolazione dei capitali, ai sensi dell’art.
56 Ce (v. sentenza X e Y, cit., punto 70, e la giurisprudenza ivi citata).
23. È pacifico che, nella causa principale, le plusvalenze non sono imponibili qualora le azioni o le quote vengano cedute a società, associazioni, istituzioni o enti belgi, mentre le stesse sono imponibili qualora le azioni o le quote
vengano cedute a società, associazioni, istituzioni o enti stabiliti in un altro Stato membro.
24. Orbene, la privazione del vantaggio fiscale, in tal caso, è ancora più
marcata che nella citata causa X e Y, in cui la detta privazione consisteva nel rifiutare al cedente il beneficio di un differimento dell’imposta, provocandogli
quindi uno svantaggio in termini di liquidità (v. sentenza X e Y, cit., punto 36).
La normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale, infatti, ha come
conseguenza che il cedente che cede le sue quote ad una società stabilita in un
altro Stato membro subisce un’imposizione sulle plusvalenze realizzate, imposizione che il cedente che cede le sue quote ad una società belga non subisce.
25. Si può quindi dedurre chiaramente dalla citata sentenza X e Y che la disparità di trattamento attuata dalla disposizione nazionale di cui trattasi nella
causa principale a scapito del contribuente che cede azioni o quote a società, associazioni, istituzioni o enti stabiliti in un altro Stato membro costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento. Infatti, rendendo la cessione delle azioni o
quote in questione a cessionari stabiliti in un altro Stato membro meno attraente, l’esercizio da parte di questi ultimi del loro diritto di stabilimento rischia di
essere limitato, purché la partecipazione ceduta conferisca al suo titolare una
certa influenza sulle decisioni della società e gli consenta di indirizzarne le attività. Spetta al giudice del rinvio verificare se tale condizione sia soddisfatta nella causa principale.
26. Qualora ciò non avvenga, si deve rilevare che la disparità di trattamento attuata dalla disposizione nazionale di cui trattasi nella causa principale costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 56
Ce, in quanto la cessione delle azioni o quote in questione ad un cessionario stabilito in un altro Stato membro è resa meno attraente.
27. Poiché nessun elemento idoneo a giustificare le restrizioni di cui sopra
è stato comunicato alla Corte, non occorre esaminare se queste ultime perse-
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PARTE TERZA
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guano un obiettivo legittimo compatibile con il Trattato Ce e se siano giustificate da ragioni imperative di interesse generale.
28. La questione sollevata dev’essere pertanto risolta come segue:
– gli artt. 43 Ce e 48 Ce ostano a una disposizione legislativa nazionale, come quella prevista dagli artt. 67, n. 8, e 67 ter del codice belga delle imposte sui
redditi, nella versione in vigore all’epoca dei fatti di cui alla causa principale, ai
sensi della quale le plusvalenze realizzate in occasione della cessione a titolo
oneroso, al di fuori dell’esercizio di un’attività professionale, su azioni o quote
rappresentative di diritti societari in società, associazioni, istituzioni o enti, sono imponibili, qualora la cessione avvenga a favore di società, associazioni, istituzioni o enti stabiliti in un altro Stato membro, mentre, nella stessa situazione,
tali plusvalenze non sono imponibili qualora la cessione avvenga a favore di società, associazioni, istituzioni o enti belgi, purché la partecipazione ceduta conferisca al suo titolare una certa influenza sulle decisioni della società e gli consenta di indirizzarne le attività.
– l’art. 56 Ce osta a una disposizione legislativa nazionale come quella succitata, qualora la partecipazione ceduta non sia tale da conferire al suo titolare
una certa influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne
le attività.
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Sulle spese
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29. Le spese sostenute dalla Commissione, che ha presentato osservazioni
alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi
al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese.
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P.Q.M. - La Corte (seconda sezione) pronunciandosi sulla questione sottopostale dal Rechtbank van eerste aanleg te Antwerpen, con sentenza 13 giugno
2003, dichiara:
1) Gli artt. 43 Ce e 48 Ce ostano a una disposizione legislativa nazionale,
come quella prevista dagli artt. 67, n. 8, e 67 ter del codice belga delle imposte
sui redditi, nella versione in vigore all’epoca dei fatti di cui alla causa principale, ai sensi della quale le plusvalenze realizzate in occasione della cessione a titolo oneroso, al di fuori dell’esercizio di un’attività professionale, su azioni o
quote rappresentative di diritti societari in società, associazioni, istituzioni o enti, sono imponibili, qualora la cessione avvenga a favore di società, associazioni, istituzioni o enti stabiliti in un altro Stato membro, mentre, nella stessa situazione, tali plusvalenze non sono imponibili qualora la cessione avvenga a favore di società, associazioni, istituzioni o enti belgi, purché la partecipazione ceduta conferisca al suo titolare una certa influenza sulle decisioni della società e
gli consenta di indirizzarne le attività.
L’art. 56 Ce osta a una disposizione legislativa nazionale come quella succitata, qualora la partecipazione ceduta non sia tale da conferire al suo titolare
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RUBRICA DI DIRITTO COMUNITARIO
una certa influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne
le attività.
(1) Tassazione dei capital gains: un’ordinanza lascia irrisolto il
rapporto tra la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali.
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SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Brevi considerazioni di diritto processuale comunitario.
- 3. (Continua): l’influenza del precedente X e Y. - 4. I capital gains e le libertà
fondamentali. - 5. La participation exemption in Italia. - 6. Conclusioni.
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1. Premessa. - Con ordinanza motivata depositata l’8 giugno 2004 la
Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha statuito che contrastano
con il principio della libertà di stabilimento, di cui agli artt. 43 e 48 del
Trattato Ce, alcune norme dell’ordinamento tributario belga in materia di
tassazione delle plusvalenze.
In particolare, le norme poste al vaglio di legittimità della Corte prevedevano l’imponibilità delle plusvalenze realizzate in occasione della
cessione a titolo oneroso, al di fuori dell’esercizio di un’attività professionale, su azioni o quote rappresentative di diritti societari in società, associazioni, istituzioni o enti, in ipotesi di cessione a favore di società, associazioni, istituzioni o enti stabiliti in altro Stato membro, mentre, nella stessa situazione, tali plusvalenze non erano imponibili qualora la cessione fosse avvenuta a favore di società, associazioni, istituzioni o enti
belgi, purché la partecipazione ceduta conferisse al suo titolare una certa influenza sulle decisioni della società e gli consentisse di indirizzarne
le attività.
La Corte ha, inoltre, statuito che nell’ipotesi in cui il soggetto cedente non abbia una partecipazione tale da conferire al titolare una certa
influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzare le
attività, le stesse norme già ritenute illegittime in base al precedente motivo lo sarebbero, comunque – e sulla base degli stessi presupposti, eccezion fatta, si ritiene, per l’entità della partecipazione in grado di conferire una certa influenza – per contrasto al principio di libera circolazione dei capitali di cui all’art. 56 del Trattato Ce.
La questione pregiudiziale sottoposta alla analisi della Corte riguarda la vicenda di un cittadino belga (il sig. De Baeck) che aveva realizzato una plusvalenza sulla cessione di un pacchetto azionario di una società belga ceduto a una società francese. All’epoca dei fatti la normati-
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PARTE TERZA
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va belga (1) prevedeva che le plusvalenze realizzate a fronte della cessione a titolo oneroso di partecipazioni non fossero imponibili se:
– realizzate da parte di soggetti cedenti che hanno direttamente o indirettamente detenuto, nel quinquennio precedente la cessione, più del 25
per cento dei diritti nella società le cui azioni o quote sono cedute;
– realizzate dalla cessione a soggetti residenti in Belgio o soggetti
passivi d’imposta in Belgio.
Considerato che le azioni cedute dal sig. De Baeck venivano cedute
ad una società straniera (rectius, non residente), l’amministrazione belga
riteneva la plusvalenza realizzata un componente di reddito imponibile.
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2. Brevi considerazioni di diritto processuale comunitario. - Nei
paesi in cui la tradizione della funzione giudicante affonda le sue radici
nel mondo del diritto romano, i regolamenti di procedura degli organi
giurisdizionali prevedono generalmente strumenti deflattivi dei carichi
pendenti al fine di razionalizzare l’attività giudiziale e di rendere più spedita la conclusione dei procedimenti (2). Il regolamento di procedura della Corte di Giustizia Europea in questo non rappresenta un’eccezione.
L’adozione di misure volte a ridurre la tempistica dei processi è necessaria tanto più se l’organo adito funge da catalizzatore delle istanze di
tutti i paesi membri dell’Unione Europea. È fuori dubbio, infatti, che un
eccessivo ricorso alle interpretazioni e pronunzie di detto organo comporterebbero un intasamento dell’attività dello stesso qualora non fossero disponibili strumenti – come nel caso dell’ordinanza – volti ad impedire il ricorso all’iter del procedimento ordinario almeno in quei casi in
cui la soluzione è sufficientemente chiara e consente di evitare la normale istruzione del giudizio che si conclude con sentenza.
Lo strumento dell’ordinanza in quest’ottica, sul presupposto della ricorrenza di determinati requisiti per la sua adozione, rappresenta un mezzo idoneo per l’esternazione di un convincimento della Corte in un breve lasso di tempo ed è il mezzo attraverso il quale la Corte ha espresso
il suo orientamento sul caso De Baeck così come in altre occasioni, in
precedenza, su questioni di legittimità in tema di imposte dirette (3). In
———————
(1) Gli artt. 67 (8) e 67 ter del “Code belge des impots sur les revenus” del 26 febbraio 1964 (Codice belga delle imposte sui redditi, in seguito CIR).
(2) L’esistenza di strumenti processuali alternativi al procedimento ordinario volti
ad una più celere definizione dei casi trova conferma, infatti, sin dal tempo del corpus
iuris di Giustiniano.
(3) A puro titolo esemplificativo in tema di imposte dirette cfr. le cause C-279/99,
C-293/99 e C-431/01.
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base all’art. 104 del regolamento di procedura, l’ordinanza viene adottata dalla Corte “qualora una questione pregiudiziale sia identica ad una
questione sulla quale la Corte ha già statuito, qualora la soluzione di tale questione possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o
qualora la soluzione della questione non dia adito a dubbi ragionevoli”.
Il caso De Baeck presenta evidenti tratti di comunanza con il precedente su cui la Corte di Giustizia si era espressa nel novembre 2002, il
caso X e Y (4). Malgrado le circostanze di fatto tra i due procedimenti
non siano identiche – come ha avuto modo di rilevare anche il Sig. De
Baeck nella sua risposta all’invito di presentare osservazioni (5) – la
Corte, in considerazione del fatto che la soluzione della questione sollevata, comunque, “potesse essere chiaramente desunta dalla precedente
giurisprudenza” (6), ha rinvenuto i presupposti necessari e sufficienti per
decidere il caso con ordinanza (7). Tale opinione motivata nell’ordinanza (8), suscita comunque alcuni dubbi interpretativi meritevoli di menzione nel commento che segue, con particolare riferimento alle due diverse libertà fondamentali oggetto di comune indagine nei due casi X e
Y e De Baeck: la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali.
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3. (Continua): l’influenza del precedente X e Y. - Il precedente X e
Y costituisce un punto di riferimento interessante nel panorama delle sentenze della Corte di Giustizia in tema di imposte dirette, non soltanto per
i suoi effetti su quello in commento, quanto piuttosto per il fatto di analizzare le problematiche fiscali relative al trattamento dei capital gains in
ipotesi di cessioni transfrontaliere o di cessioni nazionali che coinvolgevano anche soggetti non residenti.
Brevemente se ne riassumono gli aspetti salienti.
La normativa svedese sottoposta al vaglio di legittimità della Corte
nel caso X e Y riguardava la disciplina delle cessioni di partecipazioni. In
particolare, l’ipotesi prospettata dal giudice di rinvio si riferiva alla cessione di un pacchetto azionario in una società residente in Svezia detenuto da parte di due soci persone fisiche, anch’essi residenti in Svezia.
———————
(4) CGCE, sentenza 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y ./. Riksskatteverket.
(5) Cfr. par. 18 dell’ordinanza.
(6) Cfr. par. 17 dell’ordinanza.
(7) La lettura dell’art. 104 (3) del regolamento di procedura e il caso De Baeck lasciano presumere una certa discrezionalità della Corte nell’individuazione degli elementi che devono ricorrere affinché il caso possa essere deciso sulla base di un precedente.
(8) Cfr. par. 25.
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Tali soggetti non potevano beneficiare del differimento impositivo sulla
plusvalenza realizzata, in quanto la normativa svedese lo aveva esplicitamente escluso. Due delle tre fattispecie di esclusione previste dalla normativa svedese rilevano ai fini della presente analisi: i) la cessione in favore di persona giuridica straniera nella quale il cedente deteneva direttamente o indirettamente una partecipazione e ii) la cessione effettuata in
favore di una società per azioni svedese nella quale una persona giuridica straniera deteneva, direttamente o indirettamente, una partecipazione.
In entrambe le ipotesi, per la Corte di Giustizia si realizzava una fattispecie di discriminazione incompatibile con il Trattato Ce.
Per comprendere le ragioni per cui la Corte ha statuito sul caso De
Baeck con ordinanza occorre fare luce sui possibili punti di contatto con
il precedente X e Y.
La fattispecie in commento potrebbe in parte ritenersi simile alla prima ipotesi di esclusione prevista dalla normativa svedese ed analizzata
dalla Corte nel caso X e Y.
A ben guardare, una più attenta analisi dei casi permette di rilevare
tre significative divergenze.
In entrambi i casi i contribuenti reclamano la mancata applicazione
di un regime fiscale favorevole causato da un trattamento discriminatorio derivante dall’applicazione delle norme tributarie nazionali. Tuttavia,
mentre nel caso De Baeck la normativa belga dispone l’esenzione, in
quello X e Y quella svedese prevedeva un semplice differimento.
In secondo luogo, nel caso De Baeck la società cessionaria non residente (francese) non è direttamente posseduta dal cedente; diversamente
in X e Y, la società non residente che entra in gioco nella catena di partecipazioni del soggetto cessionario è posseduta dai cedenti.
Infine, mentre nel caso X e Y, il cessionario era residente nello stesso Paese dei cedenti, pur se controllato da questi ultimi per il tramite di
un soggetto non residente, in De Baeck la cessione è verso un non residente.
Le differenze fattuali appena descritte con riferimento alla residenza
dei soggetti cessionari e al complesso dei soggetti coinvolti insieme ai
contribuenti nel caso De Baeck e in quello X e Y richiedono, preliminarmente, un’indagine volta a comprendere le ragioni per cui la decisione di
quest’ultimo caso si riveli, comunque, sufficientemente chiara, al punto
da venire richiamata dalla Corte nell’ordinanza De Baeck.
La ragione di tale convincimento espresso dalla Corte nel caso De
Baeck va rinvenuta, a parere di chi scrive, nel fatto che nel caso X e Y,
malgrado le doglianze dei cedenti svedesi riguardassero un’ipotesi di di-
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sparità di trattamento derivante da un regime fiscale meno favorevole riservato ai casi di cessione a un soggetto residente (nel quale il cedente
stesso aveva una partecipazione per il tramite di un soggetto non residente), la Corte non mancava l’occasione di esprimersi, altresì, sull’illegittimità dell’altra ipotesi citata e ugualmente prevista dalla norma, quella relativa al trattamento fiscale differenziato in ragione di una cessione
di partecipazione a soggetto non residente. Orbene, tale regime di minor
favore nei casi di cessioni a soggetti non residenti, su cui già si appuntano gli strali della Corte di Giustizia in X e Y, è lo stesso, mutatis mutandis, che risulta applicabile anche nel caso De Baeck (9). La casistica a
cui è astrattamente estendibile la portata della decisione del caso X e Y è
di tale ampiezza da far ritenere i principi espressi nel caso stesso quale
vero e proprio orientamento di riferimento della Corte di Giustizia in tema di capital gains la cui incisività e i cui effetti sono già evidenti nel
caso De Baeck.
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4. I capital gains e le libertà fondamentali. - Un aspetto comune ad
entrambi i casi in commento è (cfr. supra par. 2) quello relativo all’analisi congiunta delle due libertà fondamentali che si assumono lese dalle
normative nazionali poste al vaglio di legittimità della Corte di Giustizia:
la libertà di stabilimento, disciplinata agli artt. 43, 46 e 48 del Trattato
Ce, e la libera circolazione di capitali, disciplinata agli articoli 56 e 58
del Trattato Ce.
Sia in De Baeck che in X e Y il giudice nazionale rimette la questione di compatibilità con entrambe le libertà fondamentali.
È opportuno però che tali sentenze siano analizzate nel contesto comunitario primario e secondario di riferimento alla luce dei precedenti
giurisprudenziali della Corte di Giustizia.
L’istituzione e il funzionamento di un mercato unico richiedono il
rispetto di alcune regole fondamentali tipizzate dalla normativa comunitaria primaria (il Trattato) e l’integrazione e armonizzazione delle diverse normative degli Stati membri attraverso la normativa comunitaria secondaria (le Direttive), che in tema di circolazione di capitali assume
particolare rilevanza (10).
———————
(9) Cfr. par. 24 dell’ordinanza.
(10) Cfr. Direttiva n. 88/361/Cee. Tale direttiva, secondo la giurisprudenza della
Corte di Giustizia (cfr. sentenza 16 giugno 1999, causa C-222/97, Trummer och Mayer)
costituisce un punto di riferimento determinante per dare una definizione del concetto di
“capitale” in assenza di una tale definizione nel Trattato.
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La rimozione degli ostacoli alla libertà di movimento di beni, persone, servizi e capitali (le quattro libertà fondamentali), sancita dagli artt.
2 e 3 Trattato Ce, introduce due diritti basilari dell’ordinamento comunitario: i) il diritto di libero accesso al mercato in termini di libera circolazione e ii) il diritto di uguaglianza di trattamento sul mercato in termini
di divieto di discriminazione sulla base della nazionalità (11).
Il secondo dei diritti citati introduce il cd. principio di non discriminazione, espressamente disciplinato nel Trattato Ce all’art. 12, ove si fa
riferimento ad un generalizzato divieto di discriminazione in base alla
nazionalità. Come più volte notato in dottrina (12), ed in base all’interpretazione letterale dello stesso art. 12, che fa salve le altre norme speciali del Trattato, sul principio generale di non discriminazione in base
alla nazionalità prevalgono le norme di carattere speciale (tra le quali includiamo quelle degli artt. 43-48 e 56-58) del Trattato. Nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia il principio di non discriminazione
ha trovato applicazione non soltanto in funzione della nazionalità, ma anche di altri elementi di paragone (si pensi alla residenza dei soggetti creditori o cessionari, come nel caso De Baeck), la cui finalità è pur sempre
di verifica della sussistenza di un trattamento di tipo discriminatorio. Si
è determinato così il verificarsi di forme di discriminazione indiretta
(13), in cui cioè il trattamento meno favorevole è riconducibile a elementi diversi dalla nazionalità, ma in grado di determinare effetti equipollenti (14).
In questa prospettiva la giurisprudenza comunitaria ha ben presto
esteso la portata del principio di non discriminazione fino a ricomprendere anche le fattispecie poste in essere dallo Stato di origine. Per quel
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(11) Per un approfondimento di questi temi v. B.J.M. TERRA, P.J. WETTEL, European Tax Law, Deventer, 2001, 30 ss.
(12) Cfr. L. HINNEKENS, The search for the framework conditions of the fundamental EC Treaty principles as applied by the European Court to Member States direct taxation, in EC Tax Review, 2002-3, 112 ss.
(13) Per il concetto di non discriminazione indiretta cfr. CGCE Causa C-152/73
Sotgiu v. Deutsche Bundespost [1974] ECR 153, par. 11. Si riporta nel seguito il contenuto rilevante della sentenza: “Il principio della parità di trattamento, … vieta non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento pervenga al medesimo risultato … criteri basati sul luogo d’origine o sulla residenza di un lavoratore possono, in determinate circostanze, avere gli stessi effetti pratici della discriminazione proibita dal trattato”.
(14) CGCE sentenza 8 maggio 1990, causa C-175/88, Klaus Biehl v. Administration des Contribution du Grand-Duché de Luxembourg, par. 12.
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che concerne la libera circolazione dei capitali tale ampliamento ha determinato la rilevanza non solo delle ipotesi di discriminazione nello Stato in cui l’attività o l’investimento veniva effettuato dal non residente
(cd. inbound perspective, che qui definiamo come “Stato dell’investimento”), ma anche di quelle emergenti nello Stato dal quale l’investimento del soggetto residente si sarebbe mosso (cd. outbound perspective, che qui definiamo come “Stato dell’origine”) (15). Alla luce di quest’evoluzione si è consolidato un approccio basato sul concetto del divieto di restrizione, limitato dal principio di proporzionalità (16).
La rilevanza degli ostacoli – di natura diretta od indiretta – nello
Stato di origine e l’applicazione del principio di non restrizione si sono
progressivamente mescolate, nella giurisprudenza comunitaria, con gli
approcci di non discriminazione relativi agli ostacoli nello Stato di investimento, come provato anche dalla formulazione dell’ordinanza De
Baeck e della sentenza X e Y. In entrambi i casi è possibile accertare una
forma di discriminazione indiretta – basata sulla diversità di trattamento
fiscale del soggetto cedente in relazione alla diversa natura del soggetto
cessionario (residente o non residente), che solo indirettamente potrebbe
incidere sull’elemento della nazionalità – ma anche un approccio focalizzato, almeno in parte (17), sullo Stato di origine e sulla prospettiva
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(15) CGCE sentenza 16 luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical Industries
plc (ICI) ./. Kenneth Hall Colmer; sentenza 12 aprile 2000, causa C-251/98, C. Baars v.
Inspecteur der Belastingdienst Particulieren/Ondernemingen Gorinchem; causa X e Y,
cit. supra nota 4; sentenza 14 dicembre 2000, causa C-141/99, AMID v Belgische Staat;
sentenza 18 settembre 2003, causa C- 168/01, Bosal Holding ./. Staatssecretaris van Financiën.
(16) L’applicazione di un approccio di non restrizione e del principio di proporzionalità hanno portato più volte la Corte a dichiarare illegittime le norme degli Stati membri, perché ostacolavano o rendevano meno favorevole la libera circolazione di persone
e capitali e perché le misure contestate non erano idonee o appropriate per il raggiungimento del loro scopo andando ben oltre i mezzi necessari per il suo raggiungimento. Sul
punto cfr. R. LYAL, Non-discrimination and direct tax in Community law, in EC Tax Review, 2003/2, 68 ss. e le sentenze 12 dicembre 2002, causa C-385/00, De Groot; 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner; 26 giugno 2003, causa C-422/01, Skandia; 6.6.2000,
causa C-35/98, Verkooijen; 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher.
(17) Entrambe i casi consentirebbero l’applicazione di tutte e due le prospettive outbound ed inbound. Seguendo gli orientamenti sin ora espressi dalla Corte, infatti, alla
“restrizione” operante nei confronti del soggetto cedente – qualora il cessionario sia non
residente o residente ma controllato da non residente – potrebbe aggiungersi la restrizione operante nei confronti delle società non residenti la cui raccolta di capitali nello stato
membro del soggetto cedente verrebbe di fatto ostacolata dal trattamento meno favorevole riservato alle cessioni a soggetti non residenti.
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outbound. La restrizione nello Stato di origine, infatti, si verificherebbe
nei confronti dei soggetti cedenti residenti, i quali, dopo aver esercitato
la loro libertà di stabilimento acquistando partecipazioni idonee a conferire una certa influenza (18) in soggetti non residenti, verrebbero poi tassati meno favorevolmente in caso di successiva cessione (non esenti in
De Baeck e senza differimento in X e Y), rispetto all’ipotesi di un investimento nel loro Stato di residenza e successiva cessione a soggetto residente. Infine, per comprendere le difficoltà di trovare una linea di demarcazione tra i diversi approcci ricordati o per prevedere ex ante quale
potrebbe essere il ragionamento adottato dalla Corte nel risolvere questa
tipologia di casi, basti pensare che il potere di “dissuadere” (19) dall’investimento all’estero, derivante dal trattamento sfavorevole riservato agli
investitori del Belgio dalla normativa contestata nell’ordinanza in commento, potrebbe consentire anche un diverso ragionamento secondo una
prospettiva inbound o dello Stato d’investimento, come altre volte la
Corte stessa ha evidenziato (20). Secondo tale prospettiva le disposizioni dell’ordinamento belga vagliate dalla Corte avrebbero anche un effetto restrittivo nei riguardi delle società stabilite in altri Stati membri, in
quanto costituirebbero nei loro confronti, un ostacolo alla raccolta di capitali in Belgio. Tale ostacolo deriverebbe dalle difficoltà di smobilizzo
dell’investimento legate al diverso regime dei capital gains per cessioni
a soggetti residenti e a non-residenti.
Fatte tali necessarie premesse, occorre adesso concentrarsi sulla relazione tra le due libertà fondamentali (di stabilimento e di circolazione
dei capitali) analizzate dalla Corte di Giustizia con riferimento ai casi di
plusvalenze derivanti da cessioni di partecipazioni sollevati dai giudici
del rinvio in cause precedenti.
In assenza di una definizione del concetto di capitale all’interno del
Trattato Ce, la nomenclatura contenuta nella Direttiva n. 88/361/Cee (21)
suggerisce una definizione di capitale sufficientemente ampia e tale da
potervi ricomprendere anche gli investimenti diretti all’acquisto di partecipazioni o allo svolgimento dell’attività economica mediante la forma di
una stabile organizzazione (22). È evidente allora che sussistono profili
———————
(18) Sul concetto di “certa influenza” v. infra.
(19) L’utilizzo di termini quali ad es. “ostacolare, dissuadere” è particolarmente ricorrente nelle decisioni della Corte di Giustizia legate alla approccio di non-restrizione.
(20) Cfr. Verkooijen par. 35
(21) Cfr. supra nota 10.
(22) In tal senso cfr. K. STAHL, Free movement of capital between Member States
and third countries, in EC Tax Review, 2004-2, 44 ss.
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di sovrapposizione tra l’ambito applicativo delle due libertà fondamentali di stabilimento e di circolazione dei capitali (23), dato che sia per la libertà di stabilimento agli artt. 43 e 48 e per la libera circolazione dei capitali agli artt. 56 e 58 si tutelerebbero gli investimenti in partecipazioni,
presupposto necessario per la realizzazione di un capital gain derivante
dalla loro circolazione. L’analisi congiunta dei due gruppi di norme disciplinanti le due libertà è peraltro suggerita dallo stesso rinvio incrociato che le norme stesse consentono reciprocamente. Infatti, l’art. 43, al secondo paragrafo, in tema di libertà di stabilimento prevede un diritto di
intraprendere e proseguire attività d’impresa in uno Stato membro alle
stesse condizioni dettate dalla legge di detto Stato per le proprie imprese e nel rispetto dei principi espressi nella sezione (capitolo IV del titolo 3) del trattato relativa alla “libera circolazione dei capitali”. Allo stesso modo, l’art. 58, al secondo paragrafo, prevede che i principi normativi espressi all’art. 56 in tema di libera circolazione dei capitali (24) non
possono essere di pregiudizio alle restrizioni ammesse dal trattato in tema di “libertà di stabilimento”. Sulla motivazione di questi richiami incrociati degli articoli citati si è più volte interrogata la dottrina adducendo diverse interpretazioni (25), ma ciò che più interessa notare ai fini
della presente analisi è che la Corte non si è mai pronunciata sul punto.
Sulla base della casistica giurisprudenziale è possibile affermare che
un’analisi di entrambe le libertà si è resa necessaria, innanzitutto, da una
richiesta formulata in tal senso (26) e poi ogni qualvolta il giudice del
rinvio abbia ravvisato gli estremi per ritenere ristretta o trattata in maniera discriminatoria la posizione di soggetti residenti che esercitando la
loro libertà di stabilimento si trovavano a subire un diverso trattamento
in ragione dei loro capitali investiti. Questi casi (27) hanno semplicemente dimostrato che la Corte – così come avvenuto in X e Y – più che
curarsi del rapporto tra le due libertà fondamentali, considera necessario
che non vi siano disparità di trattamento o restrizioni che possano pre———————
(23) Per approfondimenti sul rapporto tra le due libertà in analisi cfr. P. PISTONE,
The impact of Community Law on Tax Treaties, Londra-L’Aja-Boston, 2002, 27 ss.
(24) L’art. 56 proibisce espressamente ogni restrizione al movimento di capitali tra
Stati membri e tra Stati membri e paesi terzi.
(25) Cfr. supra nota 22 K. STAHL, cit. e ancora M. SEDLZCZECK, Capital and Payments: The prohibition of Discrimination and Restrictions, in European Taxation, 2000,
14 ss.
(26) La Corte non potrebbe infatti andare legittimamente oltre il “petitum” del giudizio.
(27) Cfr. C-251/98, Baars e C-35/98, Verkooijen.
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giudicare i diritti scaturenti da entrambe le libertà. L’esercizio del diritto
di stabilirsi in altro Stato membro richiede l’investimento di capitali; è
chiaro allora che entrambe le libertà vadano considerate. Inoltre,
dall’analisi della casistica considerata (28), la Corte sembra accettare la
distinzione tra le due libertà basandosi su una linea di demarcazione derivante dal concetto di “sicura o certa influenza” (29) esercitata dal soggetto che ha effettuato l’investimento e di fatto utilizzato il capitale. In
altri termini affinché venga in rilievo nell’analisi della Corte la libertà di
stabilimento (artt. 43 e 48) è necessario che l’investimento di capitale
fatto dal soggetto di uno Stato membro conferisca allo stesso il potere
decisionale o gestionale sulla società di cui risulti azionista. Qualora, invece, l’investimento non consenta il raggiungimento di una posizione di
“certa influenza” per l’investitore sembra che l’unica libertà fondamentale oggetto di tutela da parte della Corte potrebbe essere quella di libera circolazione dei capitali.
In merito al presupposto per l’esercizio di una “certa influenza”
(30), infine, occorre rilevare che dato il peso di tale elemento nell’esame
delle libertà fondamentali da investigare, la Corte avrebbe potuto dare
maggiori delucidazioni sia nell’ordinanza De Baeck, sia negli altri casi
analoghi su cui si era già pronunciata (31), sul significato esatto di tale
locuzione. Tale necessità deriva, altresì, dal fatto che le direttive che fanno riferimento a delle soglie di partecipazione per l’applicazione di regimi più favorevoli di trattamento fiscale (i.e., interessi e royalties e madre-figlia) (32), introducendo per questi flussi finanziari delle soglie in
grado di distinguere tra regimi diversi di favore (analogamente a quanto
avviene con riferimento al concetto di “certa influenza”), non includono
nell’ambito oggettivo di applicazione le ipotesi di cessione di partecipazione e realizzo di capital gains.
5. La participation exemption in Italia. - La riforma fiscale entrata
in vigore il 1° gennaio 2004 ha introdotto, tra le novità di rilievo, un regime di esenzione – ove ricorrano tutti i requisiti richiesti dalla nuova disciplina – per i capital gains derivanti da cessione di partecipazioni, la
cd. participation exemption. Trascurando in questa sede gli aspetti rela———————
(28) Cfr. Baars, par. da 21 a 30.
(29) Il cd. investimento diretto.
(30) Cfr. De Baeck, par. 13.
(31) Cfr. X e Y, Baars, Verkooijen.
(32) Direttive nn. 2003/49/Ce e 90/435/Cee.
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tivi alla participation exemption per le società di capitali (33), si analizzano gli aspetti di questo regime con riferimento ai capital gains generati da cessioni effettuate da persone fisiche, così come avvenuto nel caso De Baeck.
Il regime di esenzione, previsto per le plusvalenze realizzate da persone fisiche al di fuori dell’esercizio di attività di impresa, prevede uno
scostamento dal previgente regime di tassazione dei relativi capital
gains. Le plusvalenze realizzate, adesso, malgrado mantengano la natura
di reddito diverso data la cessione al di fuori del regime d’impresa, qualora siano derivanti da cessione di partecipazioni cd. qualificate (34),
concorrono alla determinazione del reddito nella misura del 40 per cento (35) e sono attratte nell’ambito dell’imposizione progressiva allo scaglione marginale del singolo soggetto cedente. Ove, invece, le plusvalenze realizzate al di fuori del regime di impresa siano il frutto della cessione di partecipazioni non qualificate, esse concorrono per intero a formare il reddito del soggetto cedente e sulle stesse si applica un’imposta
sostitutiva nella misura del 12,50 per cento (36).
Come di recente segnalato (37), è possibile identificare alcuni elementi di incompatibilità con il diritto comunitario per quanto concerne il
regime di participation exemption introdotto in Italia e derivante da cessione di partecipazioni effettuate da soggetti Ires. In particolare, le ces-
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(33) Per un’analisi dei profili di compatibilità con il diritto comunitario della normativa domestica in tema di plusvalenze realizzate da società cfr. G. PIZZITOLA, Plusvalenze esenti e società estere prive di stabile organizzazione in Italia – cenni sui profili di
illegittimità comunitaria e pattizia, in Dialoghi di diritto tributario 2004/2, 273 ss.
(34) L’art. 67 del nuovo Tuir (ex art. 81), definisce le cd. “partecipazioni qualificate”, ritenendo tali quelle “partecipazioni, diritti o titoli che rappresentino, complessivamente una percentuale di diritti di voto o di partecipazione esercitabile nell’assemblea
ordinaria superiore al 2 o 20 per cento, ovvero, una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 5 o 25 per cento secondo che si tratti di titoli negoziati nei mercati regolamentati o di altre partecipazioni”.
(35) L’art. 68 comma 4 del nuovo Tuir prevede che questo regime di esenzione con
imponibilità pari al 40 per cento non si applica nel caso di in cui le plusvalenze siano generate da partecipazioni in società residenti in Paesi o territori a regime fiscale privilegiato. In tal caso la plusvalenza partecipa per intero alla formazione del reddito del soggetto cedente.
(36) Con riferimento all’applicazione dell’imposta sostitutiva ex art. 5, comma 2,
del D.Lgs. n. 461/1997, il regime della participation exemption non ha introdotto modifiche allo stesso regime vigente ante riforma come confermato anche dall’art. 2 comma
2 del D.Lgs n. 344/2003.
(37) Cfr. supra nota 33.
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sioni effettuate da soggetti non-residenti godrebbero – in mancanza di
una stabile organizzazione in Italia – di un regime meno favorevole rispetto alla cessione effettuata da soggetti residenti alle stesse altre condizioni richieste per l’applicazione del regime di esenzione dall’art. 87
Tuir. Nel primo caso si potrebbe godere di una parziale esenzione al 60
per cento mentre nel secondo l’esenzione sarebbe totale.
Non pare vi siano elementi di contrasto per quel che riguarda, invece, i soggetti Ire ed in particolare, per le cessioni effettuate al di fuori del
regime d’impresa oggetto di analisi in questa nota. Un trattamento di tipo discriminatorio caratterizzato dall’applicazione di uno stesso regime
in ipotesi diverse o dall’applicazione di regimi diversi in ipotesi uguali
(38) è stato accuratamente evitato dal legislatore almeno per quanto concerne la disciplina della participation exemption nei confronti dei soggetti Ire. Non sussiste, infatti, una differenza di trattamento a seconda
che la partecipazione sia ceduta a soggetti residenti o non-residenti. La
disciplina relativa alla cessione da parte di un soggetto Ire residente e di
un non residente che ai sensi dell’art. 23 nuovo Tuir (ex art. 20) percepisca un reddito diverso in Italia a causa di una cessione avvenuta al di
fuori dell’attività d’impresa non stabilisce, poi, un regime più sfavorevole per il soggetto non residente. In questo caso, infatti, il soggetto nonresidente ricorrendo determinate condizioni beneficia semmai di un regime più favorevole a causa dell’esenzione da imposta sostitutiva. Se così
è, si potrebbe discutere di un’ipotesi di discriminazione a rovescio (39)
la cui analisi, tuttavia, trascende le finalità di questo commento.
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6. Conclusioni. - L’esigenza della “eliminazione di tutti gli ostacoli
alla circolazione interna per la realizzazione di un singolo mercato” (40)
costituisce uno dei principi che la Corte di Giustizia nel susseguirsi delle sue pronunzie ha più volte ribadito utilizzando le quattro libertà fon-
———————
(38) Cfr. a titolo esemplificativo la sentenza sulla causa C-279/93, Schumacker, par.
30; quella sulla causa C-80/94, Wielockx, par. 17; e quella sulla causa C-107/94, Asscher,
par. 40.
(39) In dottrina si fa riferimento al concetto di discriminazione a rovescio per identificare i casi in cui un soggetto residente dello “stato della fonte” o “origine” del componente di reddito è trattato in maniera meno favorevole rispetto al trattamento in condizioni analoghe di un soggetto non-residente. Per approfondimenti su questo tema cfr. P.
PISTONE, Uguaglianza, discriminazione a rovescio e normativa antiabuso in ambito comunitario, in Dir. prat. trib., 1998, II, 581 ss.
(40) Cfr. causa C-15/81, Gaston Schul.
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damentali quale scudo avverso le normative domestiche di volta in volta
ritenute illegittime e incompatibili con la normativa comunitaria.
In tale prospettiva, l’esistenza di norme interne degli Stati membri in
tema di capital gains che introducano regimi differenziati in situazioni
comparabili a causa di elementi di estraneità (ad es. non residenza del
cessionario o controllo sul cessionario da parte di soggetto non residente) che incidono sulle qualità del soggetto cessionario sono stati ritenuti
incompatibili con il Trattato Ce e con la realizzazione di un singolo mercato dalla Corte di Giustizia. La violazione della libertà di stabilimento
è stata in diverse occasioni affermata in ipotesi di cessione di partecipazioni rilevanti nel soggetto ceduto: sarebbe opportuno in tal senso un ulteriore chiarimento della Corte per la determinazione del perimetro del
concetto di partecipazione rilevante. La violazione della libera circolazione di capitali potrebbe essere affermata in maniera esplicita dalla Corte, probabilmente solo nell’ipotesi in cui le si presenti innanzi un caso di
cessione di partecipazioni di tipo discriminatorio o restrittivo ove il soggetto cedente detenga nel soggetto ceduto una partecipazione inferiore
alla cd. “soglia rilevante”.
In tale circostanza verrebbe auspicabilmente e definitivamente chiarito il ruolo della libertà prevista all’art. 56 del Trattato e il suo rapporto
con la libertà di stabilimento prevista all’art. 43.
MASSIMILIANO RUSSO
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Rubrica di diritto tributario
internazionale e comparato
a cura di Guglielmo Maisto
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La cosiddetta “tonnage tax”. La prospettiva italiana e le esperienze
europee a confronto.
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SOMMARIO: Premesse. - 1. La tonnage tax: aspetti introduttivi e questioni preliminari.
- 2. Orientamenti comunitari in materia di trasporto marittimo. - 3. Tonnage tax e
concorrenza tra gli Stati della Unione Europea. - 4. La tonnage tax: definizione e
tipologie. - 5. La tonnage tax nella riforma fiscale italiana. - 6. La disciplina italiana della tonnage tax. - 6.1. Ambito soggettivo di applicazione della tonnage tax. 6.2. L’ambito oggettivo di applicazione della tonnage tax. - 6.3. (Segue). Ambito
oggettivo di applicazione e le attività connesse strumentali e complementari. - 6.4.
Ulteriori requisiti e condizioni per l’accesso al regime della tonnage tax. - 6.5. Limiti all’esercizio dell’opzione per l’adesione al regime della tonnage tax e problemi applicativi. - 6.6. La determinazione del reddito imponibile nel sistema della
tonnage tax. - 6.7. Le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dalla cessione di navi nel regime della tonnage tax. - 6.8. La determinazione del reddito nel sistema
della tonnage tax in presenza di attività promiscue. - 6.9. La tonnage tax e il transfer pricing. - 7. Cenni alla tonnage tax in Grecia. - 8. La tonnage tax in Olanda. 9. La tonnage tax nel Regno Unito. - 10. La tonnage tax in Norvegia. - 11. La tonnage tax in Germania. - Conclusioni. - Bibliografia.
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Premesse. - Il presente lavoro si propone di approfondire la disciplina della nuova imposta sui redditi derivanti dall’esercizio di trasporti
internazionali da parte delle imprese marittime.
In particolare, gli approfondimenti che seguono si ripromettono di
delineare il nuovo regime tributario, introdotto ad opera della riforma del
sistema fiscale statale, a favore delle imprese di shipping. Tale disamina
verrà svolta in chiave comparatistica e, quindi, a stretto contatto con le
esperienze europee più significative nel campo della tonnage tax, ciò
consentirà di evidenziare ed apprezzare le luci e le ombre della tonnage
tax recentemente introdotta anche in Italia.
Si tratta, con ogni evidenza, di un tema di stringente attualità e portata pratica per le imprese armatoriali che da tempo auspicavano interventi di sostegno a favore del settore marittimo.
La trattazione dell’argomento sarà preceduta da una breve disamina
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PARTE QUARTA
del contesto comunitario di riferimento del settore dei trasporti marittimi, al fine di cogliere efficacemente la ratio sottesa all’introduzione di
tale tipologia di tassazione del reddito, e poi ci si soffermerà ad analizzare le disposizioni della nuova imposta sul reddito delle imprese marittime introdotta dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344 sull’istituzione
dell’Imposta sul reddito delle società (Ires) (1) in attuazione dell’art. 4,
comma 1, lett. da a) a o), della legge 7 aprile 2003, n. 80.
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1. La tonnage tax: aspetti introduttivi e questioni preliminari. L’Italia non si è mai potuta annoverare tra le nazioni fiscalmente convenienti per le imprese di shipping per una serie di ragioni. In particolare,
è circostanza inconfutabile che il settore marittimo sia gravato da un’elevata imposizione diretta, che il peso fiscale gravante sul costo del lavoro sia eccessivo e che, in ultima istanza, il settore in argomento accusi
pesantemente l’assenza di agevolazioni o sussidi alla costruzione o alla
gestione di natanti (2).
L’anzidetta scarsa competitività fiscale assume, con tutta evidenza,
un significato ancora maggiore se si considerano le peculiarità del settore in cui operano le compagnie di navigazione, in cui le specifiche caratteristiche tipologiche, economiche ed aziendali, pongono al massimo
livello i problemi e le scelte fiscali strategiche relative al luogo di costituzione e domiciliazione delle attività produttive (3).
L’impresa armatoriale è, infatti, salvo casi estremamente limitati e di
nicchia, un soggetto economico con vocazione fortemente transnazionale, con unità produttive, le navi, e con processi di creazione del valore
per loro natura non statici sul territorio, e, pertanto, aprioristicamente
compresi nella giurisdizione fiscale di una data nazione, bensì estremamente complessi e distribuiti in differenti località geografiche, mutevoli
a seconda dei principi e delle convenzioni semplificatrici accettate ed
adottate (4).
———————
(1) Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, Supplemento Ordinario n. 190 del n. 291
del 16 dicembre 2003.
(2) Cfr. S. RICCI, L’imposizione diretta sugli armatori di natanti iscritti nel registro
navale internazionale, in Fisco, n. 14/2003, 5346.
(3) Sul punto si veda S. RICCI, Fiscalità e shipping, in Trasporti, n. 76/1998; S. RICCI - P. SCIABÀ, Profili fiscali dell’impresa armatoriale, in Rassegna di fiscalità internazionale n. 4/2001 in allegato alla rivista Il fisco n. 31/2001 e degli stessi Autori, Strumenti di pianificazione fiscale delle imprese armatoriali, in Rassegna di fiscalità internazionale n. 6/2001 in allegato alla rivista Il fisco n. 47/2001.
(4) Sostanzialmente in tutti gli ordinamenti fiscali viene attratto a tassazione il red-
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In tale contesto non deve, pertanto, stupire come fenomeni di concorrenza fiscale (5) tra le varie nazioni abbiano trovato il giusto humus
per attecchire in un terreno fertile, tanto che sostanzialmente ogni nazione dell’Unione Europea ha introdotto modalità di tassazione agevolate
per questa tipologia di imprenditori, sia sotto forma di riduzione degli
imponibili che come forfetizzazione delle imposte.
Nei paragrafi seguenti approfondiremo tali aspetti connessi alla politica comunitaria in materia di trasporto marittimo e di concorrenza fiscale.
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dito d’impresa nello Stato in cui viene prodotto, a condizione che ciò avvenga in presenza di una stabile organizzazione (art. 7 del Modello di Convenzione Tipo Ocse, breviter Modello Ocse). Per quanto concerne le imprese armatoriali, si assiste ad una disciplina integrativa di tipo speciale, attese le caratteristiche tipologiche dell’attività economica da esse svolte. In particolare, poiché una nave, in caso di rotte internazionali, si troverebbe ad attraversare più confini geografici, sarebbe di indicibile difficoltà determinare in maniera puntuale ed incontrovertibile il luogo di produzione di detto reddito.
Il Modello Ocse ha fornito una ulteriore e parzialmente diversa soluzione al problema delle imprese di trasporto marittimo ed aereo, assumendo il principio dell’effettività. Si sostiene, infatti, come i redditi derivanti dall’esercizio di trasporti internazionali,
aerei e marittimi, soggiacciano a tassazione esclusivamente nella nazione in cui risulti situata la sede effettiva dell’impresa (cosiddetto “place of effective management”). Solo
nel caso marginale e del tutto particolare, in cui la sede effettiva sia situata a bordo della stessa nave o natante, i redditi si considerano conseguiti, e, quindi, imponibili, nella
nazione nei cui registri risulti immatricolato. L’art. 8 del Modello Ocse, infatti, dispone
che:
“1. Profits from the operation of ships or aircraft in international traffic shall be
taxable only in the Contracting State in which the place of effective management of the
enterprise is situated.
2. Profits from the operation of boats engaged in inland waterways transport shall
be taxable only in the Contracting State in which the place of effective management of
the enterprise is situated.
3. If the place of effective management of a shipping enterprise or of an inland waterways transport enterprise is aboard a ship or boat, then it shall be deemed to be situated in the Contracting State in which the home harbour of the ship or boat is situated, or, if there is no such home harbour, in the Contracting State of which the operator
of the ship or boat is a resident”.
Per ulteriori approfondimenti sul punto cfr. K. VOGEL, On double taxation convention, Londra - L’Aja - Boston, 1997, 475-509; G. MAISTO, The shipping and air transport
provision (art. 8) in the Italy – USA double taxation agreement, in Essays on International Taxation, Londra - L’Aja - Boston, 1993, 287-292; G. MAISTO, The history of article
8 of the OECD model treaty on taxation of shipping and air transport, Londra - L’Aja Boston, 2002, 287-292.
(5) Intesa come strumento legittimo di attrazione di reddito imponibile sotto la sfera impositiva di uno Stato a detrimento di un altro.
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2. Orientamenti comunitari in materia di trasporto marittimo. - La
politica comunitaria in materia di trasporti si è posta come obiettivo principale la promozione dei trasporti marittimi comunitari, mirando, nel
tempo stesso, a garantire la libertà di accesso ai mercati dei trasporti marittimi comunitari in tutto il mondo ad un naviglio sicuro ed ecocompatibile, di preferenza immatricolato negli Stati membri della Comunità ed
avente equipaggi composti da cittadini comunitari (6).
Da un lato, mentre la Commissione europea sin dal 1989 aveva preso atto del problema inerente alla mancanza di competitività delle bandiere comunitarie, dall’altro, gli Stati membri, in assenza di incisivi interventi a livello comunitario che implicassero un certo grado di armonizzazione, avevano cominciato ad adottare autonome iniziative finalizzate a salvaguardare i propri interessi nel settore dello shipping. Da qui
l’introduzione di misure volte ad agevolare l’utilizzazione della bandiera
nazionale e contemporaneamente disincentivare l’utilizzazione di altre
bandiere extracomunitarie.
Tali misure, in particolare, sono state essenzialmente fondate sulla
creazione di un secondo Registro nazionale, nel quale iscrivere le navi
adibite in via prevalente o esclusiva ai traffici internazionali, collegando
alla iscrizione agevolazioni sia di carattere fiscale che previdenziale, e
sulla erogazione di contributi a favore della industria cantieristica o delle imprese armatoriali, qualificabili come aiuti di Stato (7).
Naturalmente, di fronte a siffatti aiuti a favore del settore marittimo
ci si chiede se il trattamento agevolato possa essere ammesso dall’Unione europea. La risposta a tale interrogativo sembra essere positiva (8) in
quanto tali misure erano auspicate dagli organi europei quale strumento
di riequilibrio di una situazione concorrenziale da tempo troppo favorevole alle navi iscritte in Paesi terzi (9).
———————
(6) Cfr. G. PUOTI, La fiscalità marittima nella Unione Europea: la prospettiva italiana anche alla luce della legge delega per la riforma del sistema tributario, atti del
Convegno di Studi su “La fiscalità marittima nell’Unione Europea”, organizzato
dall’Università di Roma La Sapienza (Corso di Perfezionamento in Diritto Tributario Internazionale e Scuola di specializzazione in Economia dei Trasporti) e tenutosi a Roma
il 2 aprile 2001, in Riv. dir. trib. internaz., parte III, 1/2001, 9.
(7) Per un’ampia disamina dell’argomento si veda Aiuti di stato nel diritto comunitario, Atti del convegno di studi tenutosi a Roma presso Aula Magna della Corte di Cassazione il 17 settembre 2003, in Rass. trib., n. 6-bis/2003.
(8) Cfr. M. BASILAVECCHIA, La “Tonnage Tax”, in Corr. trib., n. 44/2002, 4025.
(9) Rimane fondamentale, sul punto, il documento programmatico (del quale si dirà
più avanti) – linee guida – adottato dalla Commissione europea il 5 luglio 1997 (in Diritto marittimo, 1998, 253) sul quale cfr. ampliamente A.S. BERGANTINO, La Tonnage
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In particolare, nel 1989 la Commissione elaborò una serie di orientamenti che definirono le condizioni in presenza delle quali gli aiuti pubblici ai trasporti marittimi sarebbero stati compatibili con il mercato comune: ancora più in dettaglio, la Commissione riconobbe che le flotte
degli Stati membri erano in una situazione difficile sotto il profilo della
competitività a causa dei vantaggi disponibili per gli operatori battenti
bandiera di Paesi terzi e bandiere di “comodo”, il che comportava notevoli differenze nei costi di esercizio.
Il documento del 1989 delineava, infatti, i criteri per identificare le
condizioni in presenza delle quali i contributi pubblici al settore, pur
rientrando nella fattispecie aiuti di Stato, potevano definirsi ammissibili.
La Commissione fissava però anche un massimale agli aiuti (ceiling) basato sul differenziale di costo tra paesi membri e paesi terzi (10).
Nel marzo del 1996 il commissario europeo Kinnock (11), in una
comunicazione volta a fissare le linee guida della strategia marittima comunitaria (12), in estrema sintesi, rilevava che “il settore marittimo ha
subito negli ultimi anni profondi cambiamenti: internazionalizzazione
crescente, mondializzazione dei servizi, moltiplicazione dei registri di libera immatricolazione, accelerazione del processo di dismissione delle
bandiere, invecchiamento della flotta, mancanza di gente del mare. La
politica marittima svolta fino ad ora dalla Comunità europea non ha potuto impedire la tendenza alla dismissione delle bandiere e alla perdita
dei posti di lavoro. Si raccomanda quindi di rafforzare la competitività
del settore del trasporto marittimo comunitario” (13).
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Tax: il progetto italiano e le esperienze europee, atti del Convegno I cento giorni e oltre: verso una rifondazione del rapporto fisco-economia?, Bari, 15-17 gennaio 2002, in
Riv. dir. trib. internaz., parte III, 1/2001, 49.
(10) Tale massimale veniva calcolato sulla base della differenza tra il costo di gestione di un’ipotetica nave iscritta nel registro di un paese europee definito “a basso costo del lavoro” e la stessa battente “bandiera di convenienza” (rispettivamente Portogallo e Cipro). Cfr. sul punto, in generale, A.S. BERGANTINO, La Tonnage Tax: il progetto
italiano e le esperienze europee, cit., 51.
(11) Dal 1995 al 1999 è stato Member of the Commission, Transport (including
trans-European networks).
(12) Sul punto cfr. ampiamente A. GUINIER, A competitive environment for european shipping, atti del Convegno di Studi su “La fiscalità marittima nell’Unione Europea”, organizzato dall’Università di Roma La Sapienza (Corso di Perfezionamento in Diritto Tributario Internazionale e Scuola di specializzazione in Economia dei Trasporti) e
tenutosi a Roma il 2 aprile 2001, in Riv. dir. trib. internaz., parte III, n. 3/2001, 385.
(13) Cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni dal titolo Verso una nuova strategia
marittima (“Towards a new marittime strategy”), resa il 13 marzo 1996 (COM(96) 81),
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Nel 1997, la Commissione europea, in ossequio alle linee guida di
cui si è detto, constatando che le flotte degli Stati membri continuavano
ad essere penalizzate in termini di competitività rispetto agli operatori
battenti bandiera di paesi terzi, varava un nuovo documento, “Nuovi
orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato ai trasporti marittimi”, in cui si prevedeva che gli aiuti fossero strettamente collegati ad
azioni specifiche piuttosto che riflettere indirettamente ipotetiche differenze tra i costi di esercizio.
Le principali linee guida contenute nel documento citato del 1997
sono finalizzate a:
• neutralizzare i vantaggi competitivi di cui usufruiscono gli armatori che operano con standard inferiori;
• garantire che i trasporti all’interno della Comunità avvengano in un
mercato libero ed in condizioni concorrenziali, con attenzione alla sicurezza ed alla qualità;
• ridurre il differenziale di pressione che gli armatori comunitari devono sopportare in termini di tasse ed oneri sociali, in modo da contenere l’esodo verso le bandiere di convenienza ed incentivare l’occupazione
del settore.
Sono consentiti, pertanto, sia agevolazioni fiscali – e la tonnage tax
è esplicitamente prevista – sia aiuti diretti sia, infine, il concorso dei due
strumenti. Il limite al livello degli aiuti che ciascun Stato può concedere
al settore è costituito dalla riduzione a zero dell’imposta e dei contributi
su salari e stipendi dei marittimi e dell’imposta sulle società per le attività di trasporto marittimo (14).
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e reperibile in sintesi in Boll. Ue 3-1996, sub Politica industriale, punto 1.3.103, al seguente indirizzo internet: http://europa.eu.int/abc/doc/off/bull/it/9603/p000001.htm
(14) Cfr. par. 10 dell’adozione della Commissione del 24 giugno 1997: “Nuovi
orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato al trasporto marittimo”, Community guidelines on State aid to marine transport, COM(96)81, approvata dalla Commissione europea
in data 24 giugno 1997, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee C.
205 del 5 luglio 1997, in cui testualmente può leggersi quanto segue: “A reduction to zero of taxation and social charges for seafarers and of corporate taxation of shipping activities is the maximum level of aid which may be permitted. To avoid distortion of competition, other systems of aid may not provide greater benefit than this. Consequently,
although each aid scheme notified by a Member State will be examined on its own merits, it is considered that the total amount of aid in the form of direct payments in the framework of Chapters 3, 4, 5 and 64 should not exceed the total amount of taxes and social contributions collected from shipping activities and seafarers; to do so would, it is
considered, affect trading conditions to an extent contrary to the Treaty provisions, as
the aid would be disproportionate to the objective. This approach to limiting aid will re-
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La Commissione prevede anche che la principale condizione per
l’ammissibilità di tali misure – l’esistenza di un legame tra la nave e il
registro, oppure la bandiera nazionale – possa essere sostituita con quella che la flotta contribuisca “significativamente” all’attività economica e
all’occupazione all’interno dell’Unione. È sufficiente, in altri termini,
che le misure agevolative siano legate alla localizzazione della gestione
strategica e commerciale della flotta all’interno del paese membro (15).
Nello stesso documento, la Commissione, sottolinea anche che le
misure di agevolazione al settore marittimo non rientrano nella fattispecie di “concorrenza fiscale nociva” tra gli Stati membri. Le economie
realizzabili dalle imprese che immatricolano la nave in un paese terzo sono molto più rilevanti di quelle che si possono ottenere con il passaggio
della nave da un registro comunitario ad un altro, fenomeno, peraltro, di
dimensioni trascurabili (16). La Commissione riconosce, quindi, che la
concorrenza fiscale nel settore marittimo è soprattutto un problema tra
Stati membri da un lato e paesi terzi dall’altro. Sono questi ultimi, infatti, che, privi di una reale base di attività marittime in loco, istituiscono
registri “aperti” (17) con l’unico scopo di attrarre tonnellaggio da altri
paesi e divenire centri di attrazione di capitale straniero. L’elevata accessibilità di questi registri – i requisiti per l’iscrizione sono minimi –
unita alla particolare convenienza delle condizioni offerte agli armatori
in termini di costi operativi, di gestione e fiscali, hanno fatto sì che, dagli anni settanta in poi, gli armatori dei paesi tradizionalmente marittimi
– tra cui i paesi europei – abbiano, con sempre maggior frequenza, fatto
ricorso a questa opzione.
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3. Tonnage tax e concorrenza tra gli Stati della Unione Europea. ———————
place the previous system of an annual ceiling based on the calculated hypothetical cost gap between vessels under the cheapest Community flag and a flag of convenience”;
in short, in Boll. Ue 6-1997, punto 1.3.172, reperibile al seguente indirizzo internet:
http://europa.eu.int/abc/doc/off/bull/it/9706/p000001.htm
(15) Cfr. il punto 3.1. dell’adozione della Commissione del 24 giugno 1997 cit.
(16) Secondo la Commissione, il continuo declino delle flotte iscritte nei registri comunitari a fronte di una sostanziale stabilità della quota della flotta mondiale “controllata” da operatori comunitari conferma che il livello di tassazione effettivo nei diversi paesi membri non incide significativamente sulle decisioni di localizzazione dell’impresa e
che, comunque, esiste un crescente grado di convergenza negli approcci dei diversi paesi membri agli aiuti di Stato.
(17) Si definiscono “registri aperti” quei registri navali facilmente accessibili stanti i requisiti minimi richiesti per l’iscrizione del naviglio.
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Gli orientamenti comunitari del 1997, delineati al paragrafo precedente,
considerano, dunque, le riduzioni fiscali e i regimi agevolati, come la
tonnage tax quali aiuti compatibili con le leggi europee e con i principi
comunitari.
Il riconoscimento della compatibilità non elimina, tuttavia, di per se
stesso la configurabilità, nelle misure adottate, di un comportamento inquadrabile nella cosiddetta concorrenza fiscale dannosa: per tale aspetto
è necessario verificare quali siano gli orientamenti generali dell’Unione
Europea.
Occorre sottolineare al riguardo che gli orientamenti comunitari del
1997 ritengono che non sussistano elementi idonei a comprovare che taluni regimi, adottati dagli Stati membri per le società di navigazione, sono atti a provocare distorsioni della concorrenza negli scambi fra gli Stati membri in misura contraria agli interessi comuni.
La Commissione ha, infatti, riconosciuto, come si è già detto, che la
concorrenza fiscale nel settore non riguarda tanto i rapporti tra gli Stati
membri, ma si pone soprattutto nei rapporti tra gli Stati membri da un lato e Paesi extracomunitari dall’altro, poiché le economie realizzabili dalle imprese che scelgono l’immatricolazione della nave in un Paese extracomunitario sono considerevoli rispetto al livello dei costi esistente
all’interno della Comunità.
In effetti, il fenomeno della concorrenza fiscale non è considerato
dalla Comunità di per sé negativo; è visto, invece, come uno strumento
che agisce a vantaggio dei cittadini esercitando una pressione al ribasso
sulla spesa pubblica nazionale. “Il problema, quindi, si verifica quando
si produce una vera concorrenza spietata volta ad assicurarsi i fattori mobili della produzione, giacché in questo caso le strutture tributarie vengono pregiudicate, producendo grandi distorsioni a detrimento dell’occupazione (obiettivo principale dell’Unione Europea)” (18).
La concorrenza fiscale sleale è destinata, come è noto, a diventare
una vera fonte di conflitti fra gli Stati membri, se non vengono adottati
adeguati provvedimenti. Giova rammentare in proposito che una misura
di notevole rilievo è già stata, da tempo, realizzata da parte del Consiglio
Econfin dell’Unione Europea, il quale in data 1° dicembre 1998 ha approvato un Codice di Condotta in materia di imprese che “tende a disincentivare l’applicazione, da parte degli Stati membri dell’Unione, di mi———————
(18) Sic G. PUOTI, La fiscalità marittima nella Unione Europea: la prospettiva italiana anche alla luce della legge delega per la riforma del sistema tributario, cit., 11.
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sure che hanno o possono avere una sensibile incidenza sulla ubicazione
di attività imprenditoriali nel territorio dell’Unione” (19).
Gli obiettivi principali del Codice di Condotta possono essere così
riassunti (20):
• ridurre le distorsioni che ancora sussistono nell’ambito del Mercato Unico, attraverso la creazione di disposizioni che garantiscano la concorrenza leale e la competitività internazionale degli Stati appartenenti
all’Unione Europea;
• prevenire le consistenti perdite di gettito tributario;
• conferire alle strutture tributarie un indirizzo più favorevole all’occupazione.
Il Codice di Condotta trova applicazione principalmente con riferimento a quelle misure nazionali aventi una forte incidenza sull’ubicazione delle attività imprenditoriali, ed in particolare, con riferimento alle disposizioni legislative o regolamentari, nonché alle pratiche amministrative, che determinino l’esistenza di un livello impositivo nettamente inferiore rispetto ai livelli generalmente applicati nello Stato membro interessato. Il livello impositivo in questione potrebbe essere determinato facendo riferimento all’aliquota nominale dell’imposta, alla base imponibile o a qualsiasi altro elemento pertinente.
Nel valutare il carattere pregiudizievole di tali misure, si deve tener
conto, tra l’altro, delle seguenti caratteristiche:
i. se le agevolazioni sono riservate esclusivamente ai non residenti o
per le operazioni effettuate con non residenti;
ii. se le agevolazioni sono completamente isolate dall’economia nazionale, in modo da non incidere sulla base imponibile nazionale;
iii. se le agevolazioni sono accordate anche in mancanza di qualsiasi attività economica effettiva e di una presenza economica sostanziale
all’interno dello Stato membro che offre queste agevolazioni fiscali;
———————
(19) G. MARINO, La considerazione dei paradisi fiscali, in V. Uckmar (a cura di),
Corso di diritto tributario internaz., Padova, 2002, 747.
(20) Per un commento al Codice di Condotta, si veda G. ROLLE, Mercato interno e
fiscalità diretta nel Trattato di Roma e nelle recenti iniziative della Commissione europea, in Dir. prat. trib., 1999, III, 57 ss.; M. MONTI, The Climate is changing, in EC Tax
Review, 1/1998, 2 ss.; O. THOMMES, European Council Adopts Code of Conduct Presented bu the Commission to Take Harmful Tax Competition, in Intertax, 2/1998, 144 ss.;
F.J. VANISTENDAEL, European Taxation in the 21st Century: the Road Towards Integration, in European Taxation, 10/1998, 331 ss.; H.M. HOWARD - M. LIEBMAN - S. LEVENTHALL, Moving Towards Tax Coordination, in European Taxation, 3/1998, 96 ss.
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iv. se le norme di determinazione dei profitti derivanti dalle attività
interne svolte da un gruppo multinazionale si discostano dai principi generalmente riconosciuti a livello internazionale, in particolare le norme
concordate in sede Ocse;
v. se le misure fiscali difettano di trasparenza, compresi i casi in cui
le norme giuridiche sono applicate in maniera meno rigorosa e in modo
non trasparente a livello amministrativo (21).
Da quanto precede ne discende, quale logico e necessario corollario,
che nel momento in cui l’Italia decide d’introdurre la tonnage tax, dovrebbe soltanto limitarsi, come d’altronde ha già fatto il resto dei Paesi
europei, a non introdurre disposizioni fiscalmente dannose nonché a riesaminare la propria normativa interna allo scopo di eliminare qualsiasi
misura fiscale che possa rientrare nell’ambito di applicazione del Codice
di Condotta.
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4. La tonnage tax: definizione e tipologie. - La tonnage tax, forma di
tassazione forfetaria dei paesi che nel mondo mettono a disposizione degli armatori i registri aperti, è diventata anche in Europa (pioniere la Grecia) uno strumento fiscale “ambito” sia dagli operatori sia dai governi e
ha rappresentato per molti paesi una delle risposte alla crescente crisi del
settore.
La Grecia ha introdotto la tonnage tax nel 1938 e nel 1975 ne ha
riformato ampiamente il regime. Dopo la Grecia, il primo paese europeo
ad introdurre la tonnage tax sono stati i Paesi Bassi nel 1996. Successivamente hanno seguito l’esempio greco e olandese: Norvegia (1997),
Germania (1999), Regno Unito (2000), Irlanda (2001), Danimarca
(2001), Spagna (2001), Finlandia (2001), Svezia (2002) e Francia (2003)
più recentemente.
In termini sistematicamente più vigili la tonnage tax può essere definita come una forma di tassazione forfetaria del reddito derivante
dall’esercizio di attività marittime, che prescinde totalmente dai risultati
———————
(21) Per completezza giova osservare, tra l’altro, che il Codice di Condotta prevede che i principi diretti ad eliminare le misure fiscali dannose siano adottati nell’ambito
geografico più vasto possibile. A tal fine, gli Stati membri si impegnano a promuoverne
l’adozione nei Paesi terzi, inclusi i territori in cui non si applica il Trattato di Roma. In
particolare, gli Stati membri che hanno territori dipendenti o associati o che hanno particolari responsabilità o prerogative fiscali su altri territori si impegnano, nell’ambito delle rispettive norme costituzionali, a garantire l’applicazione di tali principi nei suddetti
territori.
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effettivi (22) conseguiti da detta attività d’impresa. Con questo sistema
l’impresa armatoriale determina e versa un’imposta calcolata in via presuntiva sulla base del tonnellaggio delle navi che compongono la sua
flotta (23).
In estrema sintesi, due sono gli esemplari ai quali si sono ispirate le
legislazioni degli Stati che l’hanno adottata:
a. la tonnage based corporation tax, che prevede la determinazione
forfetaria della base imponibile (modello olandese);
b. la tonnage tax in senso stretto, che prevede la determinazione forfetaria dell’imposta (modello greco).
L’adozione del modello greco postula l’applicazione di un meccanismo di determinazione dell’imposta basato esclusivamente sul tonnellaggio: il reddito prodotto dal naviglio non solo non rappresenta né configura il presupposto del prelievo, ma diventa addirittura irrilevante. L’imposta viene rapportata in misura forfetaria sul mero tonnellaggio ed
all’età del naviglio (24).
Il modello olandese recepisce il pragmatismo della tonnage tax pura, temperandolo con l’assoggettamento della base imponibile forfetizzata, all’aliquota della corporate tax (25) ordinaria.
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5. La tonnage tax nella riforma fiscale italiana. - In sintonia con il
panorama precedentemente descritto a livello di strategia politica comunitaria nel settore marittimo, l’intervento legislativo italiano volto ad introdurre nel Tuir (26) la tonnage tax, tassa sul tonnellaggio delle navi, si
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(22) E quindi dal reddito d’impresa determinato dalla concorrenza analitica di costi
e ricavi.
(23) Generalmente il calcolo avviene per scaglioni: alle tonnellate di stazza netta
(tsn) della nave che rientrano in ciascun scaglione (divise per 100 o per 1000) viene applicato il relativo coefficiente. La somma così ottenuta viene moltiplicata per i giorni di
operatività della nave (365 se la nave è stata operativa nell’arco dell’intero anno).
(24) Il modello greco nonostante l’apparenza prevede un meccanismo di computo
molto complesso. Inoltre la tassazione che ne risulta non è così vantaggiosa, motivo per
cui, nel corso del 2002, le aliquote sono state diminuite. Cfr. European shipping policy
2002, the implementation of state aid guidlines in different european countries, by The
Institute of shipping analysis, 1, 411, 04, Goteborg.
(25) Imposta sul reddito delle società (Ires).
(26) DPR 22 dicembre 1986, n. 917 così come modificato dal D.Lgs. 12 dicembre
2003, n. 344 sull’istituzione dell’Imposta sul reddito delle società (Ires), (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, Supplemento Ordinario n. 190 del n. 291 del 16 dicembre 2003).
Si precisa che la numerazione indicata nel testo si riferisce alla versione modificata del
Tuir, mentre la numerazione tra parentesi si riferisce alla numerazione originaria del
Tuir.
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inserisce, quindi, in un contesto europeo di indubbio favore, che guarda
ad essa come strumento fondamentale di sostegno dell’industria armatoriale, accanto ad altre misure di sostegno fiscale del settore.
La tonnage tax, lungi dal rappresentare uno strumento di “concorrenza fiscale sleale” (27) tra gli Stati membri, nasce invece dall’esigenza di arginare l’esodo degli armatori europei verso Paesi Terzi, che grazie all’istituzione di “registri aperti”, facilmente accessibili, stanti i requisiti minimi richiesti, ed aventi convenienti costi operativi-gestionali e
fiscali, attraggono capitali e tonnellaggio stranieri.
Rispetto a tale situazione, la Commissione europea riconosce l’incisività della nuova misura fiscale, ponendo, tuttavia, come condizione
fondamentale per il suo riconoscimento, la circostanza che la flotta contribuisca in maniera significativa all’attività economica e all’occupazione all’interno del paese membro. L’approccio europeo degli ultimi anni,
dunque, è stato, come si è detto, quello di favorire il ritorno delle flotte
verso le bandiere comunitarie, operando con varie misure atte a migliorarne la competitività (28).
Molti paesi europei nell’ambito di complesse politiche di incentivazione dei propri armamenti, hanno già provveduto, come si è visto al paragrafo precedente, all’introduzione di sistemi di tassazione forfetaria,
secondo una delle due forme previste, o di determinazione forfetaria
dell’imposta, secondo il modello greco (tonnage tax in senso stretto), o
di determinazione forfetaria della base imponibile, secondo il modello
olandese (tonnage based corporation tax).
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(27) Per le ragioni ampiamente esposte ai paragrafi precedenti.
(28) L’applicazione della nuova disciplina è comunque subordinata, in base alla
lett. e) dell’art. 4, D.Lgs. n. 344/2003, recante disposizioni transitorie, alla autorizzazione dell’Unione Europea. In altri termini, la tonnage tax essendo una agevolazione fiscale al trasporto marittimo, in quanto State aid, formano oggetto dell’obbligo di comunicazione previsto dal Trattato di Roma. In particolare, tale obbligo dovrà essere espletato
secondo il rito previsto dall’art. 88 (ex art. 93) del trattato firmato a Roma il 27 marzo
del 1957. Qui, la natura di aiuto di Stato delle agevolazioni al trasporto marittimo non è
in discussione, giacché è la stessa Commissione europea a chiarirne la qualificazione sin
dal titolo della propria adozione (Community guidelines on State aid..., citato in nota n.
15). È comunque utilie richiamare il passo della decisione della Commissione
93/496/Cee, resa il 9 giugno 1993, la quale fornisce i criteri di ermeneutica per procedere alla qualificazione dell’intervento pubblicistico in termini di State aid: “Quando uno
Stato membro, per mezzo di aiuti finanziari, rafforza la posizione delle imprese di un particolare settore coinvolto nel commercio intracomunitario, quest’ultimo va considerato
come condizionato a tale aiuto”. La prescritta autorizzazione è stata concessa dall’Unione Europea in data 20 ottobre 2004, cfr., tra l’altro, L. PATELI - F. PORPORA, Tonnage Tax
l’OK di Bruxelles, in Il Sole-24 Ore del 20 ottobre 2004, 25.
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Per quanto riguarda l’Italia, inizialmente il Governo, nel disegno di
legge sulla legge delega di riforma fiscale, aveva chiaramente optato per
l’adozione del modello greco; ivi, infatti, può leggersi “opzione e relativi termini e modalità d’esercizio per la determinazione forfetaria dell’imposta relativa al reddito derivante dall’utilizzazione di navi (…)” (29).
Successivamente, la legge delega per la riforma del sistema fiscale
ha in verità lasciato al legislatore delegato la libertà di scegliere fra il
modello di tonnage tax di matrice olandese e quello greco: ivi, infatti, si
legge: “opzione e relativi termini e modalità di esercizio per la determinazione forfetaria dell’imposta relativa al reddito ovvero del reddito
(…)” (30).
In ultimo, è al primo modello (quello olandese), ritenuto più innovativo, ove il reddito determinato in via presuntiva concorre alla formazione dell’imponibile complessivo con i redditi che rimangono determinati in via analitica, che si è ispirato il legislatore italiano con il D.Lgs.
12 dicembre 2003, n. 344 sull’istituzione dell’Imposta sul reddito delle
società (Ires).
Nella versione italiana la tonnage tax si presenta, dunque, come regime fiscale forfetario parametrato al tonnellaggio e all’anzianità delle
navi, alternativo al regime fiscale ordinario, con lo scopo di consentire la
riduzione delle asimmetrie fiscali esistenti tra la flotta italiana e quelle
europee.
Giova rilevare, in conclusione, che tra gli indubbi pregi della tonnage tax occorre annoverare (i) la maggiore certezza del livello impositivo,
(ii) la conseguente semplificazione degli adempimenti fiscali, e, in ultima
istanza, (iii) gli effetti positivi sull’occupazione e sugli obiettivi di tutela
ambientale (31) che dall’adozione della tonnage tax possono derivare.
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(29) Cfr. art. 4, lett. n) del disegno di legge n. AC2144/2001.
(30) Cfr. art. 4, lett. n), legge n. 80/2003.
(31) Tuttavia si tenga presente che i recenti sviluppi della legislazione nazionale, relativi al settore economico marittimo, soprattutto con la creazione del Registro navale internazionale (DL n. 457/1997 convertito in legge n. 30/1998) e con la disciplina delle
agevolazioni per gli operatori del trasporto di cabotaggio (legge n. 522/1999), hanno già
prodotto un incremento della flotta italiana.
Tra le norme vigenti non abrogate dal decreto delegato di riforma del sistema fiscale (D.Lgs. n. 344/2003), l’art. 4 del DL n. 457/1998 prevede che i soggetti esercenti attività produttiva di reddito mediante navi adibite ai traffici commerciali internazionali e, comunque iscritti al Registro internazionale, beneficino di un credito d’imposta in misura
corrispondente all’imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta sui redditi da lavoro dipendente e di lavoro autonomo, corrisposti al personale di bordo imbarcato sulle navi stesse, da valere ai fini del versamento delle ritenute alla fonte relative a tali redditi.
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PARTE QUARTA
6. La disciplina italiana della tonnage tax. - Delineato nei paragrafi
precedenti il contesto comunitario di riferimento del settore marittimo e
tratteggiato i contorni salienti della tonnage tax, recentemente introdotta
in Italia, i paragrafi che seguono si soffermeranno ad esaminare la disciplina della nuova imposta sul reddito delle imprese marittime.
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6.1. Ambito soggettivo di applicazione della tonnage tax. - La disamina della disciplina della tonnage tax deve inevitabilmente prendere avvio dall’individuazione e “perimetrazione” dell’ambito soggettivo di applicazione per poi addentrarsi nell’analisi del presupposto oggettivo.
La determinazione forfetaria della base imponibile secondo il meccanismo impositivo della tonnage tax è riservata ad alcuni soggetti Ires,
e più precisamente a quelli indicati nell’art. 73 (già 87), comma 1, lett.
a) del Tuir. Si tratta, in particolare, di società per azioni ed in accomandita per azioni, di società a responsabilità limitata, delle società cooperative e delle società di mutua assicurazione residenti nel territorio dello
Stato. In sintesi, soddisfano il requisito soggettivo le società di capitali
residenti nel territorio dello Stato (32).
Com’è stato acutamente rilevato in dottrina (33) “la tecnica dell’individuazione dei soggetti beneficiari per “rinvio” ha causato l’evidente
svista del Governo: non può altrimenti giustificarsi la palese violazione
del principio di non discriminazione secondo cui “l’imposizione di una
stabile organizzazione che un’impresa di uno Stato contraente ha nell’altro Stato contraente non può essere in questo altro Stato meno favorevo-
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Dal 1° gennaio 1998 è previsto altresì che il reddito derivante dall’utilizzazione delle navi iscritte al registro internazionale concorra alla determinazione del reddito complessivo assoggettabile ad Irpef ed Irpeg in misura pari al 20 per cento; tale norma è stata estesa anche ai redditi derivanti da attività commerciali complementari, accessorie o
comunque relative alla prestazione principale svolte a bordo di navi da crociera (art. 13
della legge n. 488/1999).
(32) È opportuno rilevare che in Francia, invece, l’art. 209-0 B del code general des
impots (c.g.i.), introdotto dalla Loi n. 2002-1576 du 30 décembre 2002 art. 19 finances
rectificative pour 2002, pubblicata sul Journal Officiel du 31 décembre 2002, ed in vigore dal 1° gennaio 2003, al comma 1, lett. d), include fra i soggetti elegibles a ce regime (della tonnage tax, n.d.r.), les navires armes au commerce dont la gestion stratégique
et commerciale est assurée à partir de la France. Del resto il criterio della “sede di direzione effettiva” è senz’altro in linea con i criteri di collegamento utilizzati dal diritto
tributario internazionale per stabilire il luogo di tassazione di un’impresa marittima (cfr.
art. 8 modello Ocse e più diffusamente nota 5).
(33) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, in Dir. prat. trib., 2003, I, 452.
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le dell’imposizione a carico delle imprese di detto altro Stato che svolgono la medesima attività” (34)”.
Tale censura, mossa già nei confronti della prima bozza di Tuir (35),
a quanto pare è rimasta inascoltata dal legislatore giacché nella versione
definitiva di decreto delegato modificativo del Tuir è stato tenuto fermo
il riferimento esclusivo alle società di capitali residenti nel territorio dello Stato. Da qui ne discende che l’anzidetta censura in tema di violazione del principio di non discriminazione può essere trasposta anche con
riferimento alla versione definitiva dell’anzidetto decreto delegato sulla
riforma fiscale.
Pertanto, a conclusione delle precedenti riflessioni si può osservare
che il legislatore avrebbe dovuto includere nel novero dei soggetti beneficiari della tonnage tax anche le società non residenti con stabile organizzazione in Italia (36), ciò al fine di porsi al riparo da qualsiasi censura in tema di violazione del principio di non discriminazione.
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6.2. L’ambito oggettivo di applicazione della tonnage tax. - Alla rigida delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione della nuova
Ires per le imprese marittime, funge da contraltare l’ampio riferimento
alle attività che consentono di accedere al regime impositivo de quo.
La legge delega (37) aveva previsto che l’ambito oggettivo di applicazione della tonnage tax dovesse tener conto dei seguenti principi e criteri direttivi:
i. determinazione forfetaria dell’imposta relativa al reddito derivante dalla utilizzazione delle navi ricomprese nell’elenco di cui all’art. 8bis, comma 1, lett. a) del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 nonché, eventualmente, dalle attività “commerciali” (38) ad esse “complementari od
accessorie” (39);
———————
(34) Cfr. art. 24, par. 3, Modello Ocse. Sul principio di non discriminazione, in dottrina cfr. per tutti F. AMATUCCI, La discriminazione di trattamento nel modello Ocse, in
V. Uckmar (a cura di), Corso di diritto tributario internazionale, cit., 599 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici.
(35) Si tratta del testo anticipato dal Ministro dell’Economia e diffuso sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate nel mese di maggio 2003.
(36) E quindi ivi sottoposte ad imposizione. Cfr. sul punto l’art. 162 Tuir.
(37) Cfr. art. 4, lett. n), legge n. 80/2003.
(38) Inciso scomparso nel decreto delegato di attuazione della riforma fiscale (cfr.
art. 155, comma 3, Tuir).
(39) Gli aggettivi in questione, nel decreto delegato, sono mutati in “connesse, strumentali e complementari” (cfr. art. 155, comma 3, Tuir).
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ii. identificazione delle attività ammesse al regime di determinazione forfetaria “con riferimento ai criteri di cui alla comunicazione recante “Nuovi orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato al trasporto marittimo” COM(96)81 approvata dalla Commissione europea in data 24 giugno 1997 (40)”.
Da qui ne discende che, sempre secondo i principi e criteri direttivi
scolpiti nella legge delega per la riforma del sistema fiscale statale, l’ambito oggettivo di applicazione del regime in commento, doveva essere individuato attraverso “l’indicazione delle navi ricomprese nell’elenco
dell’art. 8-bis comma 1, lett. a) del DPR 26 ottobre 1972, n. 633” (nonché, eventualmente, dalle attività “commerciali” ad esse “complementari od accessorie”), ma in ogni caso “l’identificazione delle attività ammesse al regime di determinazione forfetaria avverrà con riferimento ai
criteri di cui alla comunicazione recante “Nuovi orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato al trasporto marittimo” [cit. n.d.r.]” (41).
Come è stato rilevato in dottrina (42) “scorrendo le attività elencate
dall’art. 8-bis cit. (43), nonché quelle dichiarate “agevolabili” (tramite
regimi di fiscal alleviation) dalla Commissione europea, si registra, – già
a livello di legge delega – una evidente discrasia rispetto alle indicazioni della Commissione; ed invero le navi da pesca, ricomprese nell’elen-
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(40) Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee C. 205 del 5 luglio
1997.
(41) Nella comunicazione europea più volte citata, in merito alle attività “agevolabili”, al par. 2.1 si legge quanto segue: These guidelines do not cover aid to shipbuilding
(within the meaning of the Seventh Directive any subsequent instrument including Council Regulation (EC) No 3097/95 intended to give effect to the State aid provision of the
OECD agreement respecting normal competitive conditions in commercial shipbuilding
and shiprepair when it enters into force) or aid for fishing vessels. Investments in infrastructure are not normally considered to involve State aid within the meaning of Article
92 of the Treaty, if the State provides free and equal access to the infrastructure for the
benefit of all interested operators. However, the Commission may examine such investments if they could directly or indirectly benefit particular shipowners.
(42) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 454.
(43) Vale a dire “delle navi destinate all’esercizio: di attività commerciali o della
pesca o ad operazioni di salvataggio o di assistenza in mare, ovvero alla demolizione,
escluse le unità da diporto di cui alla legge 11 febbraio 1971, n. 50”. Sono unità da diporto, ai sensi dell’art. 1 della citata legge 11 febbraio 1971, n. 50, così come modificata dalla legge 8 luglio 2003, n. 72, “ogni costruzione di qualunque tipo e con qualunque
mezzo di propulsione destinata alla navigazione da diporto”, per navigazione da diporto
s’intende, sempre ai sensi della legge richiamata, “quella effettuata a scopi sportivi o ricreativi dai quali esuli il fine di lucro”.
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co di cui all’art. 8-bis cit. (al quale rinvia la legge delega per identificare le attività ammesse al regime forfetario), risultano invece, espressamente escluse dal documento comunitario (44)”.
L’innanzi riferita contraddizione interna alla stessa legge delega (45)
è stata mantenuta anche nella versione definitiva del decreto delegato,
dove, al fine di stabilire l’ambito oggettivo di applicazione del nuovo regime impositivo, da un lato, viene richiamato l’art. 8-bis DPR n.
633/1972, dall’altro, è individuato un successivo elenco nel quale sono
ricomprese le navi con un tonnellaggio superiore alle 100 tonnellate di
stazza netta (46) destinate all’attività di “trasporto di merci, trasporto
passeggeri, soccorso, rimorchio, realizzazione e posa in opera di impianti ed altre attività di assistenza marittima da svolgersi in alto mare” (47)
nonché “le attività direttamente connesse, strumentali e complementari a
quelle indicate nelle lettere precedenti e identificate dal decreto di cui
all’art. 161” (48).
Al fine di meglio cogliere le differenze sopra delineate, si è ritenuto
opportuno riportare di seguito due prospetti di raffronto tra legge delega
e decreto delegato (49) (tabella A), nonché fra art. 8-bis DPR n.
633/1972 e art. 155, comma 2 Tuir (tabella B).
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Tabella A
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Legge delega (legge n. 80/2003)
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L’utilizzo delle navi indicate nell’art. 8bis (…)
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l’identificazione delle attività ammesse
al regime di determinazione forfetaria
avverrà con riferimento ai criteri di cui
alla comunicazione recante “Nuovi
Decreto delegato (D.Lgs. n. 344/2003)
L’utilizzo delle navi indicate nell’art.
8-bis (…)
o direttamente connesse, strumentali e
complementari
Le attività ammesse sono:
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(44) Cfr. nota n. 42.
(45) Rilevata anche da M. BASILAVECCHIA, La “Tonnage Tax”, cit., 4026.
(46) Per “stazza netta” (net tonnage) si intende la capacità volumetrica dei soli spazi di bordo sfruttabili per fini commerciali (carico) o per l’esercizio del diporto nautico.
(47) Cfr. art. 155, comma 2, Tuir.
(48) Cfr. art. 155, comma 3, Tuir.
(49) I prospetti sono tratti, con modifiche, da A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 455.
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orientamenti comunitari sugli aiuti di
Stato
al
trasporto
marittimo”
COM(96)81 approvata dalla Commissione europea in data 24 giugno 1997
... vedere art. 155, comma 2, Tuir
(e quindi con l'esclusione delle navi da
pesca)
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Tabella B
Art. 155, comma 2, Tuir
Navi destinate all'esercizio:
Navi, con tonnellagio superiore alle 100
tonnellate di stazza netta, destinate all'attività di:
• di attività commerciali
• trasporto merci
• di operazioni di salvataggio o di assistenza in mare
• trasporto passeggeri
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Art. 8 bis, comma 1, lett. a)
DPR n. 633/1972
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• della pesca
• altre attività di assistenza marittima
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• alla demolizione
• soccorso, rimorchio, realizzazione e
posa in opera di impianti
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Allo stato attuale, pertanto, il nuovo Tuir prevede la possibilità di
accedere al regime della tonnage tax, a qualsiasi naviglio, (compresi i
pescherecci e le navi destinate alla demolizione), che svolga attività
d’impresa in forma societaria.
La singolare presenza di un vero e proprio “doppio elenco” (50), ha
indotto i primi commentatori (51) del provvedimento in parola a pervenire a due opzioni interpretative:
“L’una si risolve in una interpretazione “conservativa”, che coordina fra loro i due elenchi, con l’effetto che, le navi adibite all’attività della pesca risultano ammesse al regime della tonnage tax, solo nel caso in
———————
(50) Il primo è quello dell’art. 8-bis DPR n. 633/1972, l’altro è quello dell’art. 155,
comma 2 del nuovo Tuir.
(51) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 456.
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cui non siano utilizzate per tale attività (52), ma in operazioni di trasporto (di persone o merci), di per loro atipiche in detto settore. L’altra,
che riteniamo maggiormente aderente alle prescrizioni della Commissione, si risolve in una interpretazione abrogans del rinvio all’art. 8-bis cit.,
laddove sono richiamate le navi destinate all’esercizio della pesca e alla
demolizione”.
Appare senz’altro condivisibile l’ultima soluzione interpretativa prospettata dalla citata dottrina, in quanto più aderente allo spirito della legge delega per l’assorbente rilievo che lo stesso capo del Dipartimento
delle Politiche Fiscali, nella relazione tecnica alla prima bozza di decreto delegato di riforma dell’imposizione sul reddito delle società (Ires)
che ne ha preceduto la votazione definitiva, ha rilevato: “In genere, in
tutti i paesi europei nei quali è stato introdotto il regime di tassazione
forfetaria, le navi di misura inferiore alle 100 tsl (tonnellate di stazza lorda) e quelle adibite ad attività diverse dal trasporto passeggeri e merci e
attività strettamente correlate, sono state esplicitamente escluse dal regime di tonnage tax”.
È di tutta evidenza, infine, che se in luogo di redigere un elenco di
navigli tramite il rinvio (53) al contenuto di una norma (che nulla ha a
che vedere con il regime impositivo in commento), si fosse proceduto,
anche in sede di delega, a stilarlo dettagliatamente, si sarebbe evitato di
aggiungere alla lista delle disposizioni abnormi l’ennesimo esemplare
evitando, in ultima istanza, di incorrere nell’anzidetta discrasia.
Per quanto riguarda le navi destinate alla “demolizione” (pur previste dall’art. 8-bis DPR n. 633/1972, ma escluse dalle attività indicate
dall’art. 155, comma 2) non pare che esse possano rientrare tra quelle
ammesse al regime della tonnage tax. Induce a pervenire a tale convincimento la circostanza che una nave destinata (54) alla demolizione è na———————
(52) Si pensi, ad esempio, al trasporto di pesce congelato (non pescato durante la
navigazione).
(53) Si osserva, per inciso, che tale tecnica di legiferare collide apertamente con
l’art. 2, comma 3, legge n. 212/2000 (cd. Statuto del contribuente), ove è sancito che “I
richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti normativi in materia tributaria,
si fanno indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio”.
(54) Al riguardo A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 457, nota 38, osserva che “Ove il senso da attribuire,
in questa sede, all’inciso “destinata” fosse riferito ad uno status potenziale del naviglio
(che quindi continuerebbe ad essere in esercizio, pur se votato alla demolizione), una tale interpretazione porrebbe la norma dell’art. 129, bozza Tuid (ora 155, n.d.r.), in contrasto con la politica comunitaria espressa nella comunicazione della Commissione, indi-
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ve definitivamente ed irreversibilmente non più in esercizio (55) e, quindi, per definizione, inidonea a produrre reddito giornaliero di cui all’art.
156 del Tuir, che concorre alla formazione forfetaria della base imponibile (56).
Alla luce di tutto quanto detto si possono trarre le seguenti conclusive osservazioni:
• per quanto concerne i navigli destinati all’esercizio della pesca, si
ritiene altamente probabile che la Commissione europea, a cui dovrà essere sottoposto il testo della nuova imposta sul reddito delle società di
navigazione (57), possa negare l’autorizzazione all’estensione della tonnage tax;
• in relazione alle navi destinate alla demolizione, proprio grazie alla struttura della tonnage tax italiana, che non ammette neppure le navi
in disarmo, gli stessi armatori provvederanno a rottamarle il più velocemente possibile.
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6.3. (Segue). Ambito oggettivo di applicazione e le attività connesse, strumentali e complementari. - Sempre in merito all’individuazione
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cata dalla legge delega, e più volte citata, la quale, mira ad implementare la sicurezza dei
navigli e dei mari”. Cfr., inoltre, par. 2.2 dell’adozione della Commissione del 24 giugno
1997: Nuovi orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato al trasporto marittimo, Community guidelines on State aid to marine transport, cit., ove si legge: “The Commission has
stressed that increased transparency of State aid is necessary so that not only national
authorities in the broad sense but also companies and individuals are aware of their right and obligations. The guidelines are intended to contribute to this and to clarify what
State aid schemes may be introduced in order to support the Community maritime interest since this is considered to be enhancing the competitiveness of the Community fleets,
State aid may generally be granted only in respect of ships entered in Member States’
registers. This policy should: safeguard EC employment, (both on the board and on shore), preserve maritime knowhow in the Community and develop maritime skills, and improve safety”. Ed, infatti, come si vedrà ampiamente nel prosieguo del presente lavoro,
il regime della tonnage tax italiana, premia fondamentalmente le compagnie con naviglio
giovane. D’altro canto, per il settore marittimo a più elevato rischio ambientale, vale a
dire quello dei trasporti di petrolio greggio, e di prodotti petroliferi e chimici, vi è già una
normativa ad hoc che garantisce agli armatori contributi per la demolizioni dei navigli in
esercizio da oltre un ventennio (cfr. legge n. 51 del 14 marzo 2001).
(55) Cosa diversa è il disarmo temporaneo di cui all’art. 156, comma 2, ultimo periodo, Tuir, secondo cui “sono altresì esclusi dal computo dei giorni di operatività quelli nei quali la nave è in disarmo temporaneo”.
(56) In senso conforme A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 457.
(57) Cfr. nota 29.
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dell’ambito oggettivo di applicazione della tonnage tax, di non minore
rilevanza risulta essere il disposto contenuto nel comma 3 dell’art. 155
del nuovo Tuir dove vengono inserite le attività “direttamente connesse,
strumentali e complementari a quelle indicate nelle lettere precedenti
(58) svolte dal medesimo soggetto e identificate dal decreto di cui all’art.
161” (59) il cui svolgimento assicura l’accesso al regime forfetario in
commento.
Giova rammentare che la Commissione europea ha in verità autorizzato gli sgravi e gli aiuti a favore del settore del trasporto marittimo in
generale, senza operare suddivisioni e classificazioni fra i comparti principali ed accessori, rilevando, nel contempo, che il fenomeno del flagging out (60), determina inevitabilmente la riallocazione delle attività ausiliarie allo shipping (61).
Riflettendo sulle “attività direttamente connesse, strumentali e complementari a quelle indicate nelle lettere precedenti» non si può eludere
di affrontare la questione dal punto di vista pratico ed operativo. Il nodo
critico da sciogliere, in altri termini, è rappresentato dall’esatta individuazione delle anzidette attività connesse, strumentali e complementari.
Orbene, in assenza di ulteriori precisazioni legislative sul punto,
possiamo ipotizzare di ricomprendere tra le attività in argomento le classiche attività accessorie quali quelle dello ship management, del brokerage, dell’insurance e del finance (62). Non v’è dubbio, inoltre, che il regolamento, cui resta demandata l’individuazione delle attività ancillari,
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(58) Di cui si è già detto.
(59) Cfr. art. 155, comma 3, Tuir.
(60) Inteso, in questo contesto, come il passaggio dalla bandiera nazionale ad una
di “convenienza”.
(61) La Commissione Europea ha, infatti, osservato che “Flagging out of vessels is,
however, not the end of the problem. Where flag State outside the Community offers an
attractive international services infrastructure, flagging out has tended in recent years to
be followed by relocation of ancillary activities (such as ship management) to countries
outsides the Community, leading to an even greater loss of employment, both on board
ship and on shore. A further consequence has been a loss of maritime know-how. A perception that there are a limited number of positions available at sea, a difficult working
environment and few opportunities to develop a career has led to a decrease in the number of students at maritime training institutes and in the recruitment of young seafarers,
which has compounded the negative effects on board and on shore”. Cfr. par. 1.2
dell’adozione della Commissione del 24 giugno 1997: Nuovi orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato al trasporto marittimo, Community guidelines on State aid to marine
transport, COM(96)81, approvata dalla Commissione europea in data 24 giugno 1997,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee C. 205 del 5 luglio 1997.
(62) Cfr. par. 3.1. dell’adozione della Commissione del 24 giugno 1997, cit.
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indicherà fra quelle le prestazioni tipiche dei raccomandatari (63) marittimi ove svolte direttamente dagli armatori (64). Può infine pensarsi ai
proventi derivanti dalla concessione di spazi a bordo delle navi, per il loro sfruttamento economico o di servizi ivi esercitati quali, ad esempio,
rivendita di giornali e sigarette, negozi fotografici per lo sviluppo e stampa di foto, casinò, bar ecc.
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6.4. Ulteriori requisiti e condizioni per l’accesso al regime della
tonnage tax. - Al fine di beneficiare del regime forfetario della tonnage
tax non è sufficiente il soddisfacimento dei requisiti indicati nei paragrafi precedenti in punto di definizione dell’ambito soggettivo ed oggettivo
di applicazione: la nuova imposta sulle attività marittime prevede ulteriori condizioni e requisiti.
Innanzitutto, l’opzione a favore del nuovo regime, rispetto a quello
ordinario, deve essere effettuata entro tre mesi dall’inizio del periodo
d’imposta a partire dal quale il soggetto interessato intende fruirne (65)
e l’opzione resta irrevocabile per 10 esercizi sociali. La legge delega sulla riforma del sistema fiscale statale prevedeva l’irrevocabilità dell’opzione per un periodo “almeno quinquennale” (66). Il legislatore delegato, che ha giustamente rapportato la durata a quella dell’esercizio sociale, piuttosto che a quella solare, ha raddoppiato il tempo minimo di adesione al regime della tonnage tax, in ciò allineandosi alle ultime tendenze legislative in atto negli Stati membri dell’Unione Europea (67).
In secondo luogo, la società di navigazione può accedere al regime
della tonnage tax al verificarsi della duplice condizione che:
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(63) A mente dell’art. 2, comma 1, legge n. 135/1977, “È raccomandatario marittimo chi svolge attività di raccomandazione di navi, quali assistenza al comandante nei
confronti delle autorità locali o dei terzi, ricezione o consegna delle merci, operazioni di
imbarco e sbarco dei passeggeri, acquisizione di noli, conclusione di contratti di trasporto per merci e passeggeri con rilascio dei relativi documenti, nonché qualsiasi altra analoga attività per la tutela degli interessi a lui affidati”.
(64) Ad esempio attività di carico e scarico di merci e passeggeri. Rimarrebbe però
il problema di rispettare il criterio della regressività che, come vedremo nel prosieguo,
prevede una minore tassazione, sull’attività di ciascun singolo naviglio, su tonnellaggi
più alti.
(65) Le modalità di adesione verranno stabilite con apposito decreto attuativo (cfr.
art. 155, comma 1, Tuir).
(66) Cfr. art. 4, lett. n), legge n. 80/2003.
(67) Nel Regno Unito, in Spagna e Danimarca, e da ultimo in Francia, l’opzione ha
durata decennale.
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1. la società di navigazione produca un reddito derivante dall’utilizzo di navi in “traffico internazionale” (68);
2. le navi di cui al punto precedente siano iscritte nel registro internazionale di cui al DL 30 dicembre 1997, n. 457, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1998, n. 30 (69).
Com’è stato acutamente osservato in dottrina (70) le condizioni sopra elencate non erano previste né dal disegno di legge delega né dalla
legge delega (71). Orbene, se è vero che la necessità del rispetto del requisito dell’esercizio del naviglio in “traffico internazionale” discende
dalla obbligatorietà dell’iscrizione del naviglio nel registro internazionale, è altrettanto vero che la subordinazione dell’ammissione al regime
forfetario in commento, è peculiarità esclusiva del decreto delegato.
Da quanto testé osservato ne discenderebbe, sempre ad avviso della
dottrina in parola, che “è probabile che il Governo subisca sul punto la
possibile eccezione di violazione della legge n. 80/2003 per aver ecceduto nella delega (della funzione legislativa) conferitagli”.
La legge istitutiva del registro internazionale (72) (definito anche
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(68) Cfr. art. 155, comma 1, Tuir.
(69) Cfr. ancora art. 155, comma 1, Tuir.
(70) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 460.
(71) Cfr. art. 4, lett. n), DDL n. AC2144 del 2001 nonché art. 4, lett. n), legge n.
80/2003. Le condizioni in argomento non risultano imposte nemmeno nelle indicazioni
della Commissione europea, la quale, nell’adozione della Commissione del 24 giugno
1997, più volte citata, si premura solamente di stabilire che: “The objective of State aid
within the common maritime transport policy is to promote the competitiveness of the EC
fleets in the global shipping market. Consequently, fiscal alleviation schemes should, as
a rule, require a link with a Community flag”.
(72) Trattasi del DL 30 dicembre 1997, n. 457, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1998, n. 30, nelle cui premesse si legge quanto segue: “Ritenuta la
straordinaria necessità ed urgenza di pervenire all’istituzione del registro internazionale
di immatricolazione delle navi, al fine di fornire agli operatori nazionali parità di condizioni sui mercati internazionali, nonché di emanare disposizioni finalizzate alla ristrutturazione delle autorità portuali, allo sviluppo dei trasporti ed all’incremento dell’occupazione”. L’art. 1 della legge citata dispone che:
“1. È istituito il registro delle navi adibite alla navigazione internazionale, di seguito denominato “Registro internazionale”, nel quale sono iscritte, a seguito di specifica autorizzazione del Ministero dei Trasporti e della navigazione, le navi adibite esclusivamente a traffici commerciali internazionali.
2. Il Registro internazionale di cui al comma 1 è diviso in tre sezioni nelle quali sono iscritte rispettivamente:
a) le navi che appartengono a soggetti italiani o di altri Paesi dell’Unione europea
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“doppio registro” (73)), all’art. 1, statuisce, infatti, “È istituito il registro
delle navi adibite alla navigazione internazionale, di seguito denominato
«Registro internazionale», nel quale sono iscritte, a seguito di specifica
autorizzazione del Ministero dei trasporti e della navigazione, le navi
adibite esclusivamente a traffici commerciali internazionali”.
La nozione di “traffico internazionale” non risulta essere definita né
dal rinnovato Tuir né dalla legislazione speciale (74) ma è ricavabile dai
principi sui quali riposano le convenzioni internazionali contro le doppie
imposizioni, dove l’espressione de qua designa “qualsiasi attività di trasporto effettuato per mezzo di una nave o di un aeromobile da parte di
un’impresa la cui sede di direzione effettiva è situata in uno (solo) Stato, ad eccezione del caso in cui tale trasporto si effettui esclusivamente
tra località situate nell’altro Stato contraente” (75).
Al riguardo giova precisare che, la nozione di “traffico internazionale” appena delineata, subisce, per effetto di una precisa scelta del legislatore italiano, in ambito comunitario e nazionale, una importante deroga. Infatti, le navi registrate nel registro internazionale italiano non possono, salvo le eccezioni di cui si dirà, effettuare servizi di cabotaggio
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ai sensi del comma 1, lett. a), dell’art. 143 del codice della navigazione, come sostituito
dall’art. 7;
b) le navi che appartengono a soggetti non comunitari ai sensi del comma 1, lett.
b), dell’art. 143 del codice della navigazione;
c) le navi che appartengono a soggetti non comunitari, in regime di sospensione da
un registro straniero non comunitario, ai sensi del comma 2 dell’art. 145 del codice della navigazione, a seguito di locazione a scafo nudo a soggetti giuridici italiani o di altri
Paesi dell’Unione europea”. Sull’argomento si veda U. MARCHESE, Funzione economica
e politica fiscale del registro internazionale italiano di immatricolazione navale, in Trasporti, 1999, n. 77-78, 65 ss.
(73) Il “primo” registro è quello previsto dall’art. 137 del codice della navigazione,
ai sensi del quale:
“1. Sono ammesse alla navigazione le navi iscritte nelle matricole o nei registri tenuti dagli uffici competenti, ed abilitate nelle forme previste dal presente codice.
2. Sono iscritte nelle matricole e nei registri predetti le navi che rispondono ai prescritti requisiti di individuazione e di nazionalità.
Agli effetti dell’iscrizione e a tutti gli altri effetti di leggi le navi e i galleggianti sono individuati dalla stazza, dal nome o dal numero, e dal luogo ove ha sede l’ufficio
d’iscrizione”. Registro tenuto a cura del Registro Navale Italiano (oggi Rina s.p.a.) a ciò
delegato dal Ministero dei trasporti (art. 138 codice della navigazione).
(74) DL 30 dicembre 1997, n. 457, conv. in legge 27 febbraio 1998, n. 30.
(75) Cfr. art. 3, par. 1, lett. d), Modello Ocse. Per approfondimenti sulla nozione di
“traffico internazionale” in tema di tonnage tax sia consentito rinviare a F. PORPORA – in
F. PORPORA - R. LUPI, Tonnage Tax: un criterio forfetario difficile da conciliare con una
tassazione analitica, in Dialoghi di Diritto tributario, n. 9/2004, 1209 ss.
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marittimo, né tra porti della Repubblica né tra porti degli altri Stati membri.
In altri termini, possiamo affermare che l’aver collegato l’ammissione al regime della tonnage tax al requisito dell’iscrizione del naviglio nel
registro internazionale italiano, da un lato, e l’aver delimitato l’area delle attività tassabile secondo i canoni della tonnage tax in base alla loro
esclusiva vocazione internazionale, dall’altro, sortisce l’effetto di escludere, dall’ambito applicativo del nuovo regime impositivo una considerevole parte delle attività d’impresa dedicate al cabotaggio tra i porti italiani e quelli comunitari.
In proposito, è interessante far notare che l’Italia non è il solo paese
ad aver previsto l’esclusione delle navi registrate nel registro internazionale dall’attività di cabotaggio: così hanno fatto anche Francia, Germania, Belgio, Olanda, Inghilterra e Norvegia (76). Peraltro, l’aver stabilito, al fine di beneficiare del regime della tonnage tax, la necessaria iscrizione del naviglio al registro internazionale italiano quale conditio sine
qua non della compagnia di navigazione che lo possiede, pare peculiarità
tutta italiana. Infatti, tale condizione, non ricorre, ad esempio né nel regime della tonnage tax in Francia (77) né in quello adottato nel Regno
Unito (78).
Giova rammentare, per completezza di trattazione, che l’iscrizione
al registro internazionale italiano attualmente garantisce una serie di agevolazioni che, in via di estrema sintesi, sono riassumibili in quattro punti fondamentali:
1) attribuzione di un credito di imposta figurativo di importo pari alle imposte sul reddito delle persone fisiche (Irpef) dovute sulle retribuzioni corrisposte al personale di bordo da far valere limitatamente al versamento delle ritenute alla fonte (79);
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(76) Cfr. sul punto, G. LOFFREDA, Dir. trasp., 1999, 55.
(77) Cfr. art. 209-0 B c.i.g. code general des impots.
(78) Cfr. schedule 22 allegata al Finance act 2000.
(79) Cfr. l’art. 4, comma 1, del DL 30 dicembre 1997, n. 457 che recita: “Ai soggetti che esercitano l’attività produttiva di reddito di cui al comma 2 (cioè di reddito derivante dall’utilizzazione di navi iscritte nel Registro internazionale, n.d.r.) è attribuito un
credito d’imposta in misura corrispondente all’imposta sul reddito delle persone fisiche
dovuta sui redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo corrisposti al personale di
bordo imbarcato sulle navi iscritte nel Registro internazionale, da valere ai fini del versamento delle ritenute alla fonte relative a tali redditi. Detto credito non concorre alla formazione del reddito imponibile. Il relativo onere è posto a carico della gestione commissariale del Fondo di cui all’art. 6, comma 1”.
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2) il reddito derivante dall’utilizzazione delle navi concorre a formare il reddito imponibile della società armatoriale solo in misura pari al
20 per cento (80);
3) è previsto che per il personale imbarcato non sia dovuto dall’armatore alcun contributo previdenziale, risultando direttamente a carico
dell’autorità pubblica (81);
4) è concessa infine una riduzione dell’aliquota dell’imposta sull’assicurazione per le navi mercantili (82).
Sempre riflettendo sulle agevolazioni concesse al settore marittimo,
non ci si può esimere dall’affrontare un’altra questione rilevante. Il nodo
critico da sciogliere è se i vantaggi fiscali accordati alle imprese marittime iscritte nel registro internazionale potranno cumularsi con quelli della tonnage tax.
Assumendo le conclusioni, pienamente condivisibili, di autorevole
dottrina (83) possiamo affermare che gli sgravi contributivi ed i crediti
d’imposta sulle retribuzioni corrisposte al personale di cui si è appena
detto permangono. Difficilmente compatibili con il regime della tonnage
tax sembra essere, invece, l’esenzione dell’80 per cento del reddito imponibile ai fini Ires per le società di navigazione che opteranno per il regime della tonnage tax.
Infine, una novità rilevante rispetto alla prima bozza di nuovo Tuir
è rappresentata dall’ultimo requisito previsto dall’art. 155, comma 1, della versione definitiva di Tuir, ove si prevede che l’opzione per il regime
della tonnage tax “deve essere esercitata relativamente a tutte le navi
aventi i requisiti indicati nel medesimo comma 1, gestite dallo stesso
gruppo di imprese alla cui composizione concorrono la società controllante e le controllate ai sensi dell’art. 2359 c.c.”.
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(80) L’art. 4, comma 2, DL n. 457/1997, cit., dispone che: “A partire dal periodo
d’imposta in corso al 1° gennaio 1998, il reddito derivante dall’utilizzazione di navi
iscritte nel Registro internazionale concorre in misura pari al 20 per cento a formare il
reddito complessivo assoggettabile all’imposta sul reddito delle persone fisiche e all’imposta sul reddito delle persone giuridiche, disciplinate dal testo unico delle imposte sui
redditi, approvato con DPR 22 dicembre 1986, n. 917. Il relativo onere è posto a carico
della gestione commissariale del Fondo di cui all’art. 6 del presente decreto”. Tale norma è stata estesa anche ai redditi derivanti da attività commerciali complementari, accessorie o comunque relative alla prestazione principale svolte a bordo di navi da crociera (art. 13 della legge n. 488/1999).
(81) Cfr. art. 6, comma 1, del DL n. 457/1997.
(82) Cfr. art. 9-quater, comma 1, del DL n. 457/1997.
(83) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 464.
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Tale ultima condizione pare essere stata introdotta con il duplice
obiettivo di istituire un più stringente ring fencing della misura e di attrarre un maggior numero di navigli: tutte le imprese dello stesso gruppo
societario sono vincolate, pertanto, ad optare per il regime, all in all out.
La previsione all in all out sembra esercitare una attrattiva anche in altri
paesi che hanno introdotto la tonnage tax di recente: essa è prevista nel
Regno Unito (84) e in Spagna.
Vale la pena rilevare, in conclusione, che né nel disegno di legge delega né nella legge delega (85) è presente l’indicazione della condizione
de qua, pertanto, le censure di eccesso di delega precedentemente mosse
al decreto delegato (86) sono estensibili mutatis mutandis anche in questo caso per violazione dell’art. 76 Cost. (87).
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6.5. Limiti all’esercizio dell’opzione per l’adesione al regime della
tonnage tax e problemi applicativi. - La validità e l’efficacia dell’opzione a favore del regime della tonnage tax, è subordinata al rispetto di una
determinata proporzione tra l’attività armatoriale “tipica”, cioè quella
prevista dal codice della navigazione, e la stipula di contratti di locazione di naviglio “a scafo nudo”.
In particolare in forza dell’art. 157, comma 1, Tuir, “L’opzione di
cui all’art. 155 non può essere esercitata e se esercitata viene meno con
effetto dal periodo d’imposta in corso nel caso in cui oltre la metà delle
navi complessivamente utilizzate viene locato dal contribuente a scafo
nudo per un periodo di tempo superiore, per ciascuna unità, al 50 per
cento dei giorni di effettiva navigazione per ciascun esercizio sociale”.
Al fine di cogliere efficacemente la portata della disposizione innanzi riportata, occorre definire preliminarmente il significato della
espressione “locazione di nave a scafo nudo” (88). Orbene, ai sensi
———————
(84) Si tratta tuttavia dell’aspetto più controverso dell’esperienza britannica e del
principale ostacolo ad un più ampio successo della misura: esso è stato, in particolare,
fortemente osteggiato dagli operatori che lo considerano un vincolo eccessivo e penalizzante.
(85) Cfr. art. 4, lett. n), DDL n. AC2144/2001 nonché art. 4, lett. n), legge n.
80/2003.
(86) Vedi infra questo stesso paragrafo.
(87) L’art. 76 della Costituzione recita quanto segue: “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo, se non con determinazione di principi e criteri direttivi, e soltanto per tempo limitato e per oggetto definiti”.
(88) Sia consentito rinviare per maggiori ragguagli alla dottrina che si è occupata
ex professo dell’argomento: S. FERRARINI - G. RIGETTI, Appunti di diritto della navigazione, Parte speciale, I contratti di utilizzazione della nave, 1991, parr. 10 ss.
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dell’art. 376 del codice della navigazione “Si ha locazione di nave quando una delle parti (locatore, n.d.r.) si obbliga a far godere all’altra (conduttore, n.d.r.) per un dato tempo la nave verso un determinato corrispettivo” (89).
L’espressione a “scafo nudo” designa che la locazione della nave è
“equipaggiata”, ancorché non completamente rifornita, solamente sotto il
profilo materiale. In altri termini, la “nudità” dello scafo attiene esclusivamente al mancato equipaggiamento umano. Infatti, diversamente da
quanto accade nel contratto di noleggio di nave, il contratto di locazione
(a scafo nudo) esime il proprietario (90) dall’armamento ed equipaggiamento della nave (obbligazioni tipiche del noleggiante previste dall’art.
386 del codice della navigazione) (91).
Per quanto attiene alla ratio della disposizione in argomento, essa è
ravvisabile nell’intento di evitare che lo «spirito degli aiuti alle imprese
amatoriali venga stravolto: il divario di competitività che essi vengono a
colmare è, infatti, dato dai costi fiscali sostenuti proprio per armare ed
equipaggiare la nave” (92).
Tale ricostruzione dottrinaria riposa sulla constatazione che l’art.
131, comma 2, bozza del Tuir (ora art. 157, comma 2, Tuir) dispone che
“In ogni caso l’opzione (…) non rileva per la determinazione del reddito delle navi relativamente ai giorni in cui le stesse sono locate a scafo
nudo (…)”. In sostanza, è tollerato che un armatore, il quale opti per il
regime della tonnage tax, svolga anche attività di locazione di navigli a
scafo nudo, purché quest’ultima non costituisca la sua attività prevalente (core business), per tale intendendosi quella che impegna oltre la metà
delle navi complessivamente utilizzate, e per un periodo superiore al 50
per certo dei giorni di effettiva navigazione per ciascun esercizio sociale.
L’art. 157, comma 3, prevede, inoltre, l’obbligo di formazione dei
———————
(89) In questo caso, il conduttore mettendo in esercizio il naviglio (armandolo ed
equipaggiandolo) ne diviene armatore ai sensi dell’art. 265, comma 1, del codice della
navigazione ove si dispone che “chi assume l’esercizio di una nave deve preventivamente fare dichiarazione di armatore all’ufficio di iscrizione della nave o del galleggiante”.
(90) Ossia il locatore.
(91) L’art. 386, comma 1, del codice della navigazione dispone, infatti, che “Il noleggiante è obbligato, prima della partenza, a mettere la nave in stato di navigabilità per
il compimento del viaggio, ad armarla ed equipaggiarla convenientemente, e a provvederla dei prescritti documenti”.
(92) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 466.
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cadetti ufficiali (secondo le modalità da stabilirsi con apposito decreto attuativo, previsto dall’art. 161, Tuir), e questo allo scopo di consolidare
maggiormente il know-how nazionale. Il mancato rispetto di tale obbligo
di formazione dei cadetti comporta l’uscita dal regime della tonnage tax.
Giova osservare, inoltre, che “qualora per i motivi sopra esplicitati
o per qualsiasi altro venga meno l’efficacia dell’opzione esercitata, il
nuovo esercizio della stessa non può avvenire prima del decorso del decennio originariamente previsto” (93). Al riguardo, si rileva che più che
una limitazione alla facoltà di scelta del regime della tonnage tax, si tratta di una sanzione impropria (94).
La possibilità di effettuare l’opzione per il regime forfetario della
tonnage tax, inoltre, è alternativa rispetto all’opzione per la tassazione di
gruppo (consolidato nazionale o mondiale). In particolare, l’art. 160,
comma 1, Tuir, esclude la possibilità di effettuare l’opzione per il regime della tonnage tax ove la società di navigazione, in quanto controllante (o controllata) all’interno di un gruppo di imprese residenti (o non
residenti), abbia già optato per la tassazione secondo le regole del consolidato nazionale (o mondiale) di cui alle sezz. II e III del titolo II del
nuovo Tuir. Vale anche il viceversa: i soggetti che esercitano l’opzione
per il regime della tonnage tax:
1) non possono esercitare l’opzione di cui alle sez. II del Tuir (consolidato nazionale);
2) non possono esercitare l’opzione per di cui alla sez. III del Tuir
(consolidato mondiale).
Accenniamo per completezza, infine, alla problematica attinente alla determinazione del reddito d’impresa in caso di fuoriuscita dal regime
della tonnage tax, ad esempio, per uno dei motivi sopra esposti. Si pensi, ad esempio, al problema degli ammortamenti. Che cosa accadrebbe ad
un bene ammortizzabile una volta usciti dal sistema forfetario ed entrati
in quello ordinario? Nei periodi in cui si determina forfetariamente il
reddito gli ammortamenti non assumo rilievo giacché, come si è detto, la
tonnage tax prescinde dai costi e ricavi effettivi imputabili al naviglio.
Ma quando si esce dal regime forfetario e si entra in quello ordinario
sembrerebbe logico e coerente con i principi informatori del sistema di
———————
(93) Art. 157, comma 5, Tuir.
(94) Carattere sanzionatorio sembra rivestire anche la decadenza dall’opzione per la
tonnage tax per aver inosservato l’obbligo di formazione dei cadetti; misura quest’ultima
evidentemente legata a scopi preventivi ed extra-fiscali. La formazione dei cadetti ha lo
scopo di aumentare la loro professionalità e diminuire così i possibili incidenti.
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tassazione del reddito d’impresa considerare come già calcolati (virtualmente) gli ammortamenti nel periodo in cui si è applicato il regime forfetario (95). Tale ultima considerazione, ammesso che sia valida, genera
ulteriori questioni: con quali modalità si considererà effettuato l’ammortamento (virtuale) durante il periodo di applicazione della tonnage tax?
(96) Si potrà riprendere sic et sempliciter il coefficiente tabellare senza
alcuna conseguenza? Quale sarà il costo fiscalmente riconosciuto rilevante ai fini della determinazione di plus(minus)valenze?
Questi, in estrema sintesi, sono i problemi (97) che si pongono e
che, a quanto pare, non trovano una adeguata soluzione legislativa. Occorrerà comunque evitare che la nuova disciplina faccia sorgere fenomeni di mancata tassazione o di doppia tassazione dei proventi oppure di
doppia deduzione o di indeducibilità dei costi. Sul punto si auspicano,
quindi, interventi chiarificatori integrativi e/o interpretativi da parte del
Ministero dell’economia e delle finanze.
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6.6. La determinazione del reddito imponibile nel sistema della tonnage tax. - Al fine di comprendere meglio il meccanismo di determinazione del reddito forfetario secondo il sistema della tonnage tax, appare
utile richiamare i precetti contenuti nella legge delega, nella parte in cui
dispongono che “(…) il reddito sarà commisurato in cifra fissa per ogni
tonnellata di stazza netta con l’individuazione di diverse fasce di tonnellaggio di modo che l’importo unitario per tonnellata diminuisca con l’aumentare del tonnellaggio della nave con riferimento a quanto previsto negli altri Stati membri dell’Unione europea”.
Il decreto delegato ha trasfuso tale precetto nel comma 1 dell’art.
156 del nuovo Tuir nel modo seguente:
“1. Il reddito imponibile è determinato in via forfetaria ed unitaria
sulla base del reddito giornaliero di ciascuna nave con i requisiti predetti:
———————
(95) In senso conforma all’impostazione seguita nel testo M. LEO, La cosiddetta
“tonnage tax” - Ipotesi di introduzione in Italia, atti del Convegno di Studi su “La fiscalità marittima nell’Unione Europea”, organizzato dall’Università di Roma La Sapienza
(Corso di Perfezionamento in Diritto Tributario Internazionale e Scuola di specializzazione in Economia dei Trasporti) e tenutosi a Roma il 2 aprile 2001, in Riv. dir. trib. internaz., parte III, 1/2001, 33.
(96) Ancora, saranno calcolabili gli ammortamenti anticipati ai sensi dell’art. 102
(già 67) del Tuir?
(97) Tali quesiti sono affrontati in maniera sistematica in F. PORPORA, in F. PORPORA – R. LUPI, op. cit., 1220-1222.
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a) calcolato sulla base degli importi in cifra fissa previsti per i seguenti scaglioni di tonnellaggio netto:
1) da 0 a 1.000 tonnellate di stazza netta: 0,0090 euro per tonnellata;
2) da 1.001 a 10.000 tonnellate di stazza netta: 0,0070 euro per tonnellata;
3) da 10.001 a 25.000 tonnellate di stazza netta: 0,0040 euro per tonnellata;
4) da 25.001 tonnellate di stazza netta: 0,0020 euro per tonnellata
(98);
b) e successivamente moltiplicato per i coefficienti di seguito previsti in relazione all’età del naviglio:
1) da 0 a 5 anni: 0,90;
2) da 6 anni a 10 anni: 0,95;
3) da 11 a 25 anni: 1,05;
4) oltre 25 anni: 1,10”.
È opportuno osservare preliminarmente, che la base del calcolo del
reddito imponibile ai fini della tonnage tax è costituita dal numero dei
giorni computabili ai fini della determinazione del “reddito giornaliero”.
A questo punto, occorre chiarire il significato della locuzione “red-
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(98) In Olanda (aliquota corporate tax 35 per cento) gli scaglioni di tonnellaggio
sono i seguenti: “
• 0.91 Euro up to 1,000 N(et)T(onnage);
• 0.68 Euro over 1,000 NT up to 10,000 NT;
• 0.45 Euro over 10,000 NT up to 25,000 NT;
• 0.23 Euro over 25,000 NT”.
Poco più cara risulta la Francia (aliquota corporate tax 37,77 per cento), ove gli
scaglioni di tonnellaggio sono i seguenti (cfr. art. 209-0 B c.i.g.): “
• jusqu’a’ 1000 Montant: 0,93 Euro;
• de 1.000 a 10.000 Montant: 0,71 Euro;
• de 10.000 a 25.000 Montant: 0,47.
Ancora più regressiva (e quindi più vantaggiosa per le navi di maggior tonnellaggio) risulta la tonnage tax inglese (cfr. schedule 22 allegata al Finance act 2002) (aliquota corporation tax 30 per cento):
• for each 100 tons up to 1,000 tons: 0.60 Pounds;
• for each 100 tons between 1,000 and 10,000 tons: 0.45 Pounds;
• for each 100 tons between 10,000 and 25,000: 0.15 Pounds.
Per una rassegna sulle aliquote di corporation tax applicate negli Stati membri, sia
consentito rinviare alla relazione commissionata dalla Confitarma alla Ernest & Young
nel 2001, e consultabile al seguente indirizzo internet: http://www.confitarma.it/Assobusiness/AB_WEB.nsf/6266f0b0db84ccc5c12568f9000569777/c738b4f691d7981fc1256b8
1006528b4/$FILE/NAPOLI+Ernest+&Young+CABOTAGGIO.ppt
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dito giornaliero” usato dal legislatore delegato. Anzitutto dal reddito
giornaliero devono escludersi le componenti positive di reddito registrate nel corso dell’utilizzo delle navi con contratto di locazione “a scafo
nudo”. Precedentemente si è visto che il contratto di locazione definito
“a scafo nudo” esime il proprietario concedente dall’armamento ed equipaggiamento della nave (99). Non sono parimenti considerati giorni produttivi di reddito quelli “di mancata utilizzazione a causa di operazioni
di manutenzione, riparazione ordinaria o straordinaria, ammodernamento e trasformazione della nave; sono altresì esclusi dal computo dei giorni di operatività quelli nei quali la nave è in disarmo temporaneo” (100).
Chiarito il significato dell’espressione “reddito giornaliero”, il citato art. 156 dispone che la determinazione forfetaria ed unitaria del reddito imponibile avvenga sulla base del reddito giornaliero di ciascuna nave, applicando i coefficienti (all’uopo vengono, infatti, come si è visto,
determinati quattro scaglioni da 0 a 1.000; da 1001 a 10.000; da 10.001
a 25.000; da 25.001 di tonnellate di stazza nette), ed il fattore di correzione, in funzione dell’età del naviglio.
Al riguardo è utile precisare che il reddito giornaliero così determinato andrà, a sua volta, moltiplicato per il numero dei giorni produttivi
del “reddito giornaliero”, così come precedentemente definito. Il risultato di tale computo costituirà, in ultima istanza, la base imponibile forfetizzata sulla quale dovrà applicarsi l’aliquota Ires ordinaria (101).
Sempre in tema di determinazione del reddito imponibile ai fini della tonnage tax, giova rammentare che le anzidette operazioni di computo andranno effettuate con riferimento ad ogni singola nave. È, pertanto,
vietata la determinazione cumulativa della base imponibile ai fini della
tassazione forfetaria (102).
Dall’analisi degli scaglioni di tonnellaggi con le relative fasce di
reddito, possiamo affermare che la tonnage tax italiana si ispira quindi al
modello “regressivo” olandese, vale a dire che a tonnellaggi più alti corrispondono redditi più bassi. La ratio di tale disposizione ad avviso della dottrina risiede nella considerazione che le navi di dimensioni più modeste hanno una più alta capacità di produrre profitti, attesi i minori
———————
(99) Cfr. par. 6.5.
(100) Cfr. art. 156, comma 2, Tuir.
(101) Dal 1° gennaio 2004 pari al 33 per cento [cfr. art. 77 (ex art. 91) Tuir].
(102) La motivazione di tale divieto, a nostro avviso, riposa nell’esigenza di evitare un calcolo cumulativo che consentirebbe di ottenere maggiori vantaggi attesa la regressività della tonnage tax, la quale a scaglioni più elevati attribuisce redditi più bassi.
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costi di manutenzione e la possibilità di utilizzi maggiori e diversificati (103).
Orbene, dinanzi a tale regime di determinazione forfetario del reddito
non si può ignorare un problema di ordine costituzionale derivante dal rispetto del principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.). In particolare,
posto che, come è stato rilevato in dottrina il trattamento agevolato della tonnage tax sia nella sua interezza costituzionalmente compatibile in quanto
“può ritenersi del tutto giustificata, per un settore in forte crisi e oggettivamente meritevole di sostegno anche per tutelare interessi generali, la previsione di una forma parallela – più lieve – di tassazione” (104), il meccanismo
di computo appena illustrato lascia, tuttavia, irrisolto il problema di valutare
le differenze, in termini di capacità contributiva, fra le imprese che, a parità
di stazza della nave, destinano le loro flotte al più redditizio trasporto di merci di maggior valore (es. auto, materiale tecnologico, greggio) e gli armatori
che utilizzano le loro imbarcazioni per il trasporto di merci di valore modesto o nullo (es. scarti di lavorazione, merci alla rinfusa etc.) (105).
Il meccanismo di calcolo del reddito imponibile, come si è detto, è
parametrato in funzione all’età del naviglio. La ratio del correttivo in parola, risiede nello spirito di premiare gli operatori con tonnellaggio di più
recente costruzione, incentivandoli al contempo al rinnovo della flotta,
con conseguente raggiungimento di più alti livelli di sicurezza e di standard tecnologici (106). Viene così data attuazione anche alla necessità di
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(103) In tal senso M. LORENZETTI, La riforma fiscale prevede un forfait per il settore marittimo, in Corr. trib., 2002, 1425.
(104) Sic M. BASILAVECCHIA, La “Tonnage Tax”, cit., 4025. Altra dottrina - G. PUOTI, La fiscalità marittima nella Unione Europea: la prospettiva italiana anche alla luce
della legge delega per la riforma del sistema tributario, cit., 18, partendo da una prospettiva diversa giunge alla medesima conclusione. In particolare, secondo tale ultimo
Autore l’agevolazione fiscale connessa all’introduzione della tonnage tax non dovrebbe
essere verificata con riferimento al principio della capacità contributiva, ma invece alla
luce del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nel senso che sarebbe necessario
individuare il fondamento della differenza di trattamento accordata al reddito derivante
dalla utilizzazione della nave rispetto ad altri tipi di reddito. In questa prospettiva, peraltro, l’Autore citato riconosce che il percorso sarebbe piuttosto agevole dal momento che
tutti gli elementi che hanno spinto la Commissione europea a consentire gli aiuti di Stato nel settore marittimo potrebbero essere utilizzati per supportare la compatibilità
dell’adozione della misura agevolativi anche dinanzi alla nostra Carta costituzionale.
(105) Tale problematica è stata sollevata da A. LOVISOLO, Profili impositivi delle
imprese di trasporto marittimo e aereo, in Dir. prat. trib., 2003, I, parte I, 47 ss.
(106) Cfr. Relazione al D.Lgs. n. 344/2003 recante riforma dell’imposizione sul
reddito delle società in attuazione dell’art. 4, comma 1, lett. da a) a o), della legge 7 aprile 2003, n. 80.
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assicurare un livello elevato di sicurezza marittima di cui al più volte citato documento della Commissione europea sulla strategia marittima comunitaria (107).
Al riguardo, in dottrina (108) è stato precisato che “trattasi di ragioni extra-fiscali (tutela dell’ambiente, della sicurezza delle navi e del lavoro ivi svolto) che limitano l’ambito di applicazione del principio di capacità contributiva (di regola, a parità di altre condizioni, un naviglio più
vecchio produce meno reddito!). La giustificazione di tale limitazione
deve, quindi, essere rinvenuta in principi extrafiscali, di eguale rango costituzionale, rispetto al principio di capacità contributiva, a tutela della
sicurezza del lavoro e dell’ambiente e a stimolo della riorganizzazione
delle imprese (artt. 4, 35, 9, 41 Cost.)”.
La giustificazione di tale previsione va dunque ricercata, ad avviso
della dottrina citata, nella scelta del legislatore di privilegiare principi costituzionali di equivalente rilevanza costituzionale, quali la tutela e la sicurezza dell’ambiente.
Ritornando all’esegesi dell’art. 156, il comma 3 prevede, oltre a sancire l’irrilevanza di ogni deduzione dal reddito imponibile determinato
secondo gli anzidetti criteri, la possibilità di dedurre le perdite pregresse
secondo il regime ordinario di cui all’art. 84 (ex 102) del Tuir anche dal
reddito calcolato forfetariamente.
In ultimo, è interessante fornire le stime del Ministero dell’economia
e delle finanze (109) sulle variazioni di gettito dovute all’introduzione
della tonnage tax. In particolare, il Ministero ha stimato che la perdita di
gettito nel campo di applicazione del nuovo regime risulta essere complessivamente pari a circa 16 milioni di euro, di cui circa 15,6 milioni di
euro dovuti all’introduzione della tonnage tax e la restante parte, circa
320 mila euro, alla variazione dell’aliquota dal 34 per cento al 33 per
cento (110).
———————
(107) Cfr. par. 2.2. dell’adozione della Commissione del 24 giugno 1997: “Nuovi
orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato al trasporto marittimo”, Community guidelines on State aid to marine transport, COM(96)81, approvata dalla Commissione europea
in data 24 giugno 1997, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee C.
205 del 5 luglio 1997
(108) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di
decreto delegato, cit., 469.
(109) Relazione tecnica (4 dicembre 2003) al D.Lgs. n. 344/2003 recante riforma
dell’imposizione sul reddito delle società in attuazione dell’art. 4, comma 1, lett. da a) a
o), della legge 7 aprile 2003, n. 80.
(110) Dal 1° gennaio 2003 pari al 34 per cento (cfr. art. 91 vecchio Tuir), dal 1°
gennaio 2004 pari al 33 per cento (cfr. art. 77 nuovo Tuir).
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6.7. Le plusvalenze e le minusvalenze derivanti dalla cessione di navi nel regime della tonnage tax. - L’art. 158 del nuovo Tuir contiene una
disposizione di vantaggio per l’impresa armatoriale. Infatti, il citato articolo dispone che “Nel caso di cessione a titolo oneroso di una o più navi relativamente alle quali è efficace l’opzione di cui all’art. 155, l’imponibile determinato ai sensi dell’art. 156 comprende anche la plusvalenza o minusvalenza realizzata”.
La riportata disposizione agevolativa appare simile a quella prevista
una tantum dall’art. 145, comma 66, della legge n. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001), la quale prevedeva che “nel reddito derivante
dall’utilizzazione di navi iscritte nel registro internazionale (111) è compresa la plusvalenza realizzata mediante cessione della nave”.
Il legislatore della riforma fiscale, pertanto, ha “radicalizzato l’agevolazione, sancendo l’irrilevanza fiscale delle oscillazioni positive e negative che, in regime ordinario, provocherebbe la cessione di un naviglio” (112).
Va peraltro osservato che, il comma 2 dell’art. 158 citato statuisce
che “qualora la cessione abbia ad oggetto un’unità già in proprietà
dell’utilizzatore in un periodo d’imposta precedente a quello di prima applicazione del presente regime, all’imponibile determinato ai sensi
dell’art. 156 dovrà aggiungersi la differenza tra il corrispettivo conseguito, al netto degli oneri di diretta imputazione, ed il costo non ammortizzato dell’ultimo esercizio antecedente a quello di prima applicazione
del regime di determinazione dell’imponibile previsto dalla presente sezione” (113). Tale previsione trova giustificazione nello scopo evidente
di evitare una sostanziale applicazione retroattiva della norma afferente
plusvalenze (minusvalenze) già latenti e, quindi, solo in relazione a tale
situazione transitoria i risultati positivi o negativi della cessione, potranno influire sulla determinazione del reddito.
Di estrema importanza si manifesta, inoltre, l’ultimo comma del ci———————
(111) Concorrente in misura pari al 20 per cento a formare il reddito complessivo
dell’utilizzatore. Cfr. art. 4, comma 2, DL n. 457/1997 e par. 6.4 del presente lavoro.
(112) Cfr. A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 471.
(113) Al riguardo, il comma 3 dell’art. 158, precisa che “Nel caso in cui nel periodo d’imposta precedente quello di prima applicazione del regime di determinazione
dell’imponibile previsto dalla presente sezione, al reddito prodotto dalla nave ceduta si
rendeva applicabile l’agevolazione di cui all’art. 145, comma 66, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, la differenza di cui al comma precedente è aggiunta all’imponibile limitatamente al 20 per cento del suo ammontare”.
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PARTE QUARTA
tato art. 158 ove si dispone che “Nel caso in cui le navi cedute costituiscano un complesso aziendale, per l’applicazione del comma 1 è necessario che tali navi rappresentino l’80 per cento del valore dell’azienda al
lordo dei debiti finanziari”.
Assumendo le conclusioni di risalente giurisprudenza coagulatasi in
materia di Ige (114), secondo cui la cessione di nave, allorché si tratti di
nave “armata”, equivale a cessione d’azienda (115), si può far discendere “la voluntas legis di impedire che la riforma sia utilizzata per fini spe-
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(114) Doverosamente si avverte che la configurazione della cessione quale cessione d’azienda non incide sul regime Iva a cui è attualmente sottoposta la cessione di nave (art. 8-bis, comma 1, lett. a, DPR n. 633/1972), che è (e rimane) operazione non imponibile e, quindi, rientrante nel campo di applicazione Iva.
Per quanto concerne la risalente giurisprudenza richiamata nel testo, si veda per tutte Cass., SS.UU., 27 giugno 1969, n. 2303. L’amministrazione finanziaria si era conformata all’indirizzo giurisprudenziale definitivamente consoloditatosi nella pronuncia indicata, con la Circolare 14 aprile 1962, n. 2303. Sul punto si veda A. PIZZINI, Regime Iva
e cessione di navi destinate ad attività commerciali, in Rass. trib., 1983, II, 37 ss. In proposito, giova rammentare che l’atto di compravendita di nave, nel vigore della legge
dell’imposta di registro n. 3269/1923, veniva assoggettato, in quanto trasferimento a titolo oneroso, ad imposizione in misura proporzionale (lire 0,50 ogni 100 lire di valore,
cfr. artt. 1, 2 e 4, nonché art. 3 tariffa, parte I, legge citata). Ne consegue che, nel regime allora vigente, la cessione di nave anche armata (i.e. azienda), soggiaceva unicamente all’imposta di registro in misura proporzionale.
Attualmente, secondo quando previsto dal testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro (DPR n. 131/1986), la cessione di nave (senza ulteriori specificazioni) soggiace al tributo di registro in misura fissa (Euro 3.873,42, cfr. art. 7, comma 3,
tariffa, parte I, atti soggetti a registrazione in termine fisso, DPR n. 131/1986). È altresì
noto che, sempre ai fini Iva, la cessione d’azienda non costituisce cessione di beni ai sensi dell’art. 2, comma 2, DPR n. 633/1972. Ne discende che il trasferimento di nave a titolo oneroso soggiace unicamente a tassa di registro, applicata, come si è visto, in misura fissa.
Per quanto riguarda la cessione di nave “armate”, la giurisprudenza ha chiarito che,
la cessione di nave, anche nei casi in cui essa è fondamentale per l’esercizio dell’impresa e, quindi, nei casi in cui questa costituisca “azienda”, ai fini Iva è sempre considerata
cessione di bene (e non di azienda). Da qui ne consegue che l’atto traslativo è unicamente
assoggetta ad imposta di registro in misura fissa (cfr. Comm. centr., 18 marzo 1982, n.
1413, in Rass. trib., 1983, parte seconda, 37 ss.).
(115) Nel regime Iva attualmente in vigore la cessione di nave (armata o non armata) è assimilata ad una cessione all’esportazione (e non cessione d’azienda), e, pertanto, considerata non imponibile ai fini del tributo in argomento (art. 8-bis, comma 1,
lett. a), DPR n. 633/1972). Tale operazione rientra dunque in campo Iva, gode della non
imponibilità, e consente a chi la pone in essere di esercitare il diritto alla detrazione
dell’Iva sugli acquisti o comunque, come prevede l’art. 8, lett. c), DPR n. 633/1972, di
effettuare l’acquisto senza pagamento dell’Iva.
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culativi (ultronei a quelli propri del settore marittimo)” (116). In altri termini, il regime della tonnage tax, inclusa la disciplina sulla generale irrilevanza delle plusvalenze/minusvalenze, rappresenta una misura che ha
ad oggetto il trasporto marittimo, e comunque le indicate forme di utilizzazione della nave (117), unico e solo business da agevolare. Come è
stato efficacemente osservato dalla dottrina in parola la norma in questione, «mira a contenere la dispersione del valore aziendale delle compagnie di navigazione, difendendolo dagli armatori che avessero pensato
di servirsi del regime della tonnage tax quale “volano” per gioiose free
tax sales” (118).
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6.8. La determinazione del reddito nel sistema della tonnage tax in
presenza di attività promiscue. - L’art. 159 del nuovo Tuir si occupa della determinazione del reddito delle imprese marittime che svolgono attività promiscue, vale a dire attività non assoggettate esclusivamente ed
interamente al regime della tonnage tax.
In particolare, il comma 1 dell’articolo citato dispone che “Il reddito derivante dal contemporaneo svolgimento di attività imprenditoriali
diverse da quelle indicate nell’art. 155 non è ricompreso nell’imponibile
determinato ai sensi dell’art. 156 e deve essere determinato secondo le
disposizioni contenute nella sez. I del capo II”. A tal fine, il comma successivo dell’articolo citato, impone la tenuta di una apposita “contabilità
separata”, con modalità che saranno definite con successivo decreto di
cui all’art. 161, Tuir.
Per quanto concerne “Le spese e gli altri componenti negativi che si
riferiscono indistintamente a componenti positivi di reddito ricompresi e
non ricompresi nell’imponibile determinato ai sensi dell’art. 156 sono
deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare complessivo dei ricavi ed altri proventi non ricompresi nell’imponibile determinato ai sensi dell’art. 156 e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi” (119).
La dottrina (120) non ha mancato di rilevare che la disposizione so———————
(116) Cfr. A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 473.
(117) Cfr. art. 155, Tuir.
(118) Cfr. A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di decreto delegato, cit., 473.
(119) Cfr. art. 159, comma 3, Tuir.
(120) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di
decreto delegato, cit., 473-474.
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pra riportata “costituisce corollario del fondamentale principio di inerenza (121) di generale applicazione, escludendo, quindi, la rilevanza impositiva dei costi afferenti i ricavi che concorrono alla formazione della base imponibile calcolata ai sensi degli artt. 129 ss., bozza Tuid, (ora leggasi 155 ss., Tuir, n.d.r.) in relazione alla cui determinazione opera il ricordato principio della indetraibilità dei costi al fine della determinazione dell’imponibile forfetariamente calcolato”. Trattasi, pertanto, di una
disposizione ricettiva di una regola juris già nota, ma che, di fronte ad
un regime speciale e derogatorio, il legislatore ha ritenuto comunque opportuno ribadire e dichiarare expressis verbis applicabile.
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6.9. La tonnage tax e il transfer pricing. - Per completezza, accenniamo, infine, alla problematica concernente l’applicazione delle regole
del transfer pricing alle imprese marittime che operano in regime di tonnage tax.
L’art. 160, comma 2, prevede, ove ne ricorrano le condizioni previste dall’art. 110, comma 7 (122), l’applicazione delle regole e dei principi del transfer pricing in relazione alle “cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi fra le società il cui reddito è determinato anche parzialmente ai sensi dell’art. 156 e le altre imprese (…)”.
Al riguardo, appare senz’altro condivisibile l’interpretazione prospettata in dottrina (123), secondo la quale “nonostante la portata della
disposizione sopra riportata sembri letteralmente riferirsi anche alle imprese marittime con reddito assoggettabile integralmente al regime della
tonnage tax, (…) la predetta previsione normativa può trovare applicazione solo in relazione alle società di navigazione con attività promiscua
e comunque in riferimento alla attività non soggetta alla tonnage tax. La
regola della rilevanza del sindacato di congruità dei prezzi di trasferimento, appare incompatibile con i criteri di forfetizzazione propri della
determinazione della base imponibile della tonnage tax”.
In realtà, vi è sarebbe altresì da chiedersi se la norma in questione
legittimi oppure no l’operatività in ambito domestico della normativa in
tema di prezzi di trasferimento: l’introduzione nel nostro ordinamento
———————
(121) Sul principio di inerenza si veda l’art. 109 (ex 75), comma 5, Tuir.
(122) Deve trattarsi di transazioni fra l’impresa soggetta alla tonnage tax e società
non residenti nel territorio dello Stato, che “(…) direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla
l’impresa (…)” (cfr. art. 110, comma 7, Tuir).
(123) A. LOVISOLO, Tonnage tax all’italiana: prime considerazioni sulla bozza di
decreto delegato, cit., 475.
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giuridico della tonnage tax sembrerebbe riproporre, a mio avviso, la
vexata quaestio in merito al tema del transfer pricing interno (124).
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7. Cenni alla tonnage tax in Grecia. - Come si è gia avuto modo di
osservare, la Grecia è stato il primo Paese ad adottare la tonnage tax. Introdotta nel 1938, la tonnage tax in Grecia è stata oggetto di profonda revisione nel 1975.
La tonnage tax greca prevede la determinazione forfetaria dell’imposta ed il tributo, da pagarsi in un’unica soluzione, è indipendentemente dal risultato dell’attività derivante dall’utilizzazione della nave.
Conditio sine qua non per l’applicazione del tributo è che la nave
batta bandiera greca: pertanto, l’armatore che operi in Grecia utilizzando
navi battenti bandiera estera soggiace all’ordinaria imposizione sulle società.
Per quanto concerne le modalità di computo, il calcolo della tassa
viene operato distinguendo le navi in classi, in base all’età ed a ciascheduna classe di età corrisponde un diverso coefficiente moltiplicativo. La
somma ottenuta dall’applicazione di tale coefficiente alle tonnellate di
stazza lorda complessive della nave è successivamente “pesata” per un
secondo coefficiente individuato sulla base della classe dimensionale
della nave (125).
In particolare, per quanto concerne la classe dimensionale di navi si
distinguono due categorie (126). La prima annovera i seguenti navigli:
1. navi da carico e cisterna con tonnellaggio superiore a 3.000 tonnellate;
2. navi tra 500 e 3.000 tonnellate che trasportino merci verso porti
esteri;
3. navi passeggeri se fanno scalo in porti esteri;
4. piattaforme petrolifere e di perforazione ubicate in alto mare.
La seconda categoria è una categoria residuale, che comprende tutti
gli altri tipi di navigli.
Il regime della tonnage tax in Grecia, infine, non è facoltativo, ma
obbligatorio.
———————
(124) Su tale problematica si rinvia a F. PORPORA - R. LUPI, op. cit., 1222-1225.
(125) A.S. BERGANTINO, La Tonnage Tax: il progetto italiano e le esperienze europee, atti del Convegno I cento giorni e oltre: verso una rifondazione del rapporto fiscoeconomia?, cit., 58.
(126) G. PUOTI, La fiscalità marittima nella Unione Europea: la prospettiva italiana anche alla luce della legge delega per la riforma del sistema tributario, cit., 13.
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8. La tonnage tax in Olanda. - L’Olanda è stato il secondo Paese in Europa ad adottare il regime della tonnage tax. Tale regime è stato introdotto
(127) nell’ambito di una serie di misure volte ad incentivare il settore delle società marittime (128) ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1996.
Il nuovo regime di tassazione forfetario ha consentito alle imprese armatoriali, previa opzione, di essere assoggettate a tassazione non in base ai
proventi effettivamente conseguiti attraverso la flotta, bensì in base a quelli che ogni singola nave era idonea a produrre. La valutazione di questa idoneità viene effettuata in base al tonnellaggio netto, attraverso l’attribuzione
di un reddito fisso per ogni 100 tonnellate di stazza netta della nave.
In particolare, l’art. 8, c), del Dutch Income Tax (come modificato
dalla riforma del 21 dicembre 1995) individua, quali profitti agevolabili,
quelli delle navi, di almeno 100 tonnellate di stazza che svolgono le seguenti attività:
1. trasporto marittimo di passeggeri o merci in tratte internazionali;
2. trasporto marittimo di passeggeri o merci per la ricerca o lo sfruttamento di risorse del fondo marino o del relativo sottosuolo;
3. rimorchio e/o assistenza di navi in mare;
4. attività direttamente collegate a quelle citate (non solo la mediazione, il carico e lo scarico delle navi, ma anche la cessione dei beni strumentali utilizzati per le operazioni predette).
In caso di dubbi in merito alla concreta attività esercitata dalla nave
ed alla sua sussimibilità al regime in parola, è prevista la possibilità per
l’impresa armatoriale di presentare apposito ruling per chiedere alle autorità competenti quale sia l’interpretazione della amministrazione finanziaria olandese.
L’opzione per il regime della tonnage tax è subordinata, inoltre, alla sussistenza di altri requisiti. Più in particolare, deve trattarsi di una società che “effettivamente esercisca una nave”, ovvero che sia responsabile, nello Stato, della gestione e del controllo delle di navi di cui sia proprietaria in via esclusiva o con altri. Sono considerati esercenti la nave
anche i non proprietari che, tuttavia, ne abbiano la disponibilità in forza
di un contratto di locazione a scafo nudo (129).
———————
(127) Legge 21 dicembre 1995, ed. Staatsblad, 1995.
(128) Per un’analisi dettagliata delle agevolazioni olandesi al settore marittimo si
veda P. KAGER - D. PRINSEN, Tax incentives for Netherlands-based maritime shipping enterprises reviewed in an international context, in Intertax, n. 4/1996, 118 ss.
(129) Cfr. M. LORENZETTI, La riforma fiscale prevede un forfait per il settore marittimo, cit., 1427.
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Quanto precede evidenzia che nel regime della tonnage tax olandese non rileva tanto la proprietà della nave quanto il suo effettivo esercizio. Ciò è coerente con i principi del diritto della navigazione in cui, nel
caso di locazione della nave, armatore è solo il locatario.
La legislazione olandese prevede dei momenti precisi in cui è possibile effettuare l’opzione: quello di entrata in vigore della legge in cui sono contenute le disposizioni sulla tonnage tax, quello del primo anno in
cui l’impresa produce redditi da attività di navigazione in Olanda (per
quelle nuove o per quelle straniere che si siano trasferite).
Il regime olandese prevede la determinazione forfetaria del reddito
imponibile, cui applicare l’ordinaria corporation tax, secondo un sistema
di fasce di tonnellaggio di ordine regressivo, in modo che a tonnellaggi
più alti corrispondano redditi più bassi.
Il profitto fisso giornaliero, viene, poi moltiplicato per il numero dei
giorni dell’esercizio, oppure per i giorni di effettiva gestione della nave.
In questo modo si ottiene il reddito imponibile per ogni singola nave.
Questa operazione va ripetuta per ogni singola nave della flotta. Soltanto alla fine i singoli profitti verranno sommati ed andranno, così determinati, a costituire la base imponibile insieme agli altri redditi.
Il regime optato vincola l’impresa marittima per 10 anni, al fine di
evitare che il contribuente compensi le perdite sotto il regime ordinario
per poi passare, a seconda delle convenienza, al regime della tonnage tax
quando tutte le perdite siano state dedotte e si presume che i redditi futuri imponibili saranno alti.
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9. La tonnage tax nel Regno Unito. - Il regime della tonnage tax nel
Regno Unito è stato introdotto con la Finanziaria del 28 luglio 2000 (Finance Act 2000) (130).
Tale regime ha consentito la rinascita nel Regno Unito di un settore
in crisi quale, appunto, quello dello shipping ed ha consentito allo stesso
di competere con i principali concorrenti stranieri i quali fossero già dotati di un simile regime. Esso è basato approssimativamente sul modello
olandese.
Si tratta di un regime facoltativo ossia le società armatoriali possono scegliere se mantenere il sistema vigente o se optare per il regime di
tonnellaggio, nel qual caso l’impegno di tassare le attività marittime in
———————
(130) La clause 81 (tonnage tax) del provvedimento citato recita che “schedale 22
to this Act has effect”. La disciplina compiuta dell’istituto si trova, pertanto, nell’allegato 22.
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base a tale regime è per un minimo di 10 anni e può essere rinnovato in
qualsiasi momento.
Anche nel Regno Unito i requisiti per accedere al regime della tonnage tax sono legati alle caratteristiche del soggetto e dell’attività che
questi svolge.
Deve trattarsi di una società o di un gruppo di società che abbiano
certe caratteristiche: si tratta, in particolare, delle qualifying companies
di cui al par. 8 dell’allegato 22 del Finance Act 2000. Innanzitutto, occorre che:
1. le imprese amatoriali siano soggette alla ordinaria tassazione sulle imprese;
2. il posizionamento delle navi e della sede sociale sia localizzato
nel Paese. Non è, tuttavia, richiesto che una società localizzi tutte le sue
attività nel Regno Unito, o registri le sue navi sotto bandiera inglese, o
operi nelle acque territoriali inglesi;
3. le navi gestite abbiano, a loro volta, determinate caratteristiche.
Così come la normativa olandese, anche quella inglese dà rilevanza
alla gestione ed al controllo della nave piuttosto che alla proprietà. In caso di noleggio, sono, tuttavia, previste delle limitazioni. Il regime della
tonnage tax è, infatti, accessibile a condizione che le navi noleggiate non
superino il 75 per cento della flotta.
Non tutte le navi o tutte le attività marittime consentono ai soggetti
suindicati l’accesso al regime della tonnage tax. Secondo il Finance Act
2000, infatti, devono ricorrere alcune condizioni di carattere oggettivo:
1. la nave non deve rientrare in alcune tipologie, tassativamente
elencate nel Finance Act (131) (ad esempio, pescherecci e navi per la lavorazione del pesce, imbarcazioni il cui uso primario è quello sportivo o
ricreativo, traghetti utilizzati nelle tratte fluviali, alcuni tipi di petroliere
(132), draghe). Trattasi, in sostanza, di navi il cui uso non è strettamente connesso al trasporto marittimo in senso stretto;
2. la stazza della nave deve essere pari o superiore alle 100 tonnellate (133);
3. le attività marittime devono avere per oggetto il trasporto di passeggeri o merci, il rimorchio o il soccorso in mare, nonché il trasporto
collegato ad attività che devono essere svolte necessariamente in mare (si
———————
(131) Cfr. par. 20 del provvedimento citato.
(132) Per l’individuazione delle quali sia consentito rinviare alla section 2 dell’Oil
Taxation Act del 1983.
(133) Cfr. par. 19 del provvedimento citato.
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pensi, ad esempio, al caso delle navi posacavi, utilizzate per la posa e la
riparazione dei cavi telegrafici e telefonici sottomarini) (134). Sono
escluse la cessione di beni e la prestazione di servizi, che potrebbero essere effettuati nella terraferma (135) (ad esempio i supermercati o casinò
galleggianti, i cui proventi sono esclusi dal regime in commento).
Il regime della tonnage tax inglese attrae a tassazione non solo gli
utili derivanti dalle attività sopra elencate, ma anche le plusvalenze derivanti dalla cessione di beni (navigli) che sono utilizzati per lo svolgimento delle attività tonnage.
Rientrano altresì nella determinazione forfetaria del reddito imponibile anche i dividendi percepiti da società di navigazione straniere, purché maturino nel periodo in cui la società inglese è soggetta al regime
della tonnage tax. A tal fine è richiesto che le controllate estere abbiano
le seguenti caratteristiche:
1. devono gestire “navi tonnage” (136);
2. devono essere controllate da una o più società residenti nell’Unione europea;
3. devono rispettare il test del 75 per cento (137);
4. devono produrre profitti che rientrerebbero del regime tonnage se
le società avessero sede nel Regno Unito.
Tutte le società ammesse al regime della tonnage tax devono accettare un impegno di addestramento minimo che prevede ogni anno il reclutamento di un nuovo ufficiale tirocinante per ogni quindici ufficiali da
questi impiegati (di qualsiasi nazionalità ).
L’applicazione della tonnage tax nel Regno Unito prevede, infine,
come nel regime olandese, la determinazione forfetaria del reddito imponibile, cui applicare l’ordinaria corporation tax, secondo un sistema di
fasce di tonnellaggio di ordine regressivo, in modo che a tonnellaggi più
alti corrispondano redditi più bassi.
Il profitto fisso giornaliero, viene, poi moltiplicato per il numero dei
giorni dell’esercizio, oppure per i giorni di effettiva gestione della nave.
In questo modo si ottiene il reddito imponibile per ogni singola nave.
Questa operazione va ripetuta per ogni singola nave della flotta. Soltan-
———————
(134) Nonostante queste navi siano considerate qualifying, soltanto i proventi strettamente connessi alla navigazione rientrano nel regime della tonnage tax.
(135) Cfr. par. 19 del provvedimento citato.
(136) Cioè quelle di cui al par. 19.
(137) Vedi supra.
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to alla fine i singoli profitti verranno sommati ed andranno, così determinati, a costituire la base imponibile insieme agli altri redditi.
L’esercizio dell’opzione è consentito solo entro un anno dall’entrata
in vigore della legge. Scaduto tale termine, l’opzione è ancora possibile,
ma solo per le società che non avevano i requisiti e che li hanno acquistati per la prima volta dopo tale data.
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10. La tonnage tax in Norvegia. - La Norvegia ha introdotto la tonnage tax a partire dal 1° gennaio 1996 come sistema di determinazione
forfetaria dell’imposta.
I soggetti che possono accedere al regime in parola sono soltanto le
società di capitali norvegesi, mentre le società straniere operanti in Norvegia hanno potuto usufruire della tonnage tax solo per un triennio.
Trattandosi di una applicazione soggettiva, sono rigorosamente indicate le attività il cui reddito è determinato in via forfetaria: vengono, ad
esempio, escluse le attività ausiliarie, le attività di ricerca ed estrazione
del petrolio. Le plusvalenze derivanti dalla cessione del naviglio sono attratte dal sistema di determinazione forfetario del reddito.
Sono escluse, sotto un profilo oggettivo, le navi di stazza inferiore a
100 tonnellate nonché le navi adibite esclusivamente al traffico interno,
mentre non è rilevante il requisito della bandiera né del Paese di registrazione.
Il regime norvegese prevede la determinazione forfetaria dell’imposta (modello greco). Il calcolo dell’imposta viene effettuato con un importo giornaliero applicato al tonnellaggio della nave. Il regime della
tonnage tax oltre ad essere opzionale non prevede una durata: infatti, si
può uscire dal regime in qualunque momento.
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11. La tonnage tax in Germania. - La Germania è stato il quarto paese europeo ad introdurre la tonnage tax e lo ha fatto nell’ambito della
legge regolatrice le imposte sui redditi. L’imposta viene applicata sia alle persone fisiche che alle società e rispetto a tutti i redditi prodotti da
navi possedute o noleggiate.
L’opzione ha durata decennale e la nave deve essere iscritta nel registro tedesco e deve essere gestita attraverso una sede tedesca. Le attività i cui redditi rientrano nel campo applicativo della tonnage tax sono
quelle collegate al trasporto di merci e di passeggeri, restando esclusi solo i redditi derivanti dal noleggio a scafo nudo. Le plusvalenze derivanti dalla cessione della nave sono incluse nella determinazione forfetaria
del reddito.
RUBRICA DI DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE E COMPARATO
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L’applicazione della tonnage tax in Germania prevede, infine, come
nel regime olandese, la determinazione forfetaria del reddito imponibile,
cui applicare l’ordinaria corporation tax, secondo un sistema di fasce di
tonnellaggio di ordine regressivo, in modo che a tonnellaggi più alti corrispondano redditi più bassi.
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Conclusioni. - Alla luce di tutto quanto detto si possono trarre le seguenti conclusive osservazioni. La normativa italiana in tema di tonnage
tax, per quanto attesa ed invocata dagli operatori del settore dello shipping, persegue il dichiarato obiettivo di impedire che gli imprenditori
marittimi di ciascuno Stato membro dell’Unione europea possano ricorrere a bandiere di convenienza, diversificando le proprie attività, a seconda che, il luogo di svolgimento dell’attività sia l’Europa od un paese
terzo.
Sarebbe comunque auspicabile a livello europeo l’elaborazione di
una strategia e di un progetto comuni ed unitari volti ad aumentare la
competitività di tutti gli armatori europei anziché demandare ad ogni singolo Stato il compito di arginare il fenomeno della migrazione verso
bandiere di convenienza.
Per quanto concerne il regime della tonnage tax delineato dal legislatore italiano, non v’è dubbio che quest’ultimo si sia ispirato ed uniformato agli standard europei. Peraltro, l’aver previsto la necessaria iscrizione del naviglio nel registro internazionale italiano quale conditio sine
qua non di ammissione al regime della tonnage tax della compagnia di
navigazione che lo possiede, pare essere una peculiarità italiana, la quale implica, in violazione della legge delega, l’esclusione dall’ambito applicativo del sistema impositivo forfetario, di una considerevole parte
delle imprese marittime nazionali e comunque esclude dal medesimo le
attività di gestione delle navi fra porti comunitari e/o italiani.
Il modello di tonnage tax adottato dall’Italia è riferibile a quello
olandese, che prevede la determinazione forfetaria della base imponibile. In verità, la differenza con la tonnage based corporation tax (modello greco) è, tuttavia, più formale che sostanziale. Infatti, il reddito resta
rigidamente parametrato al tonnellaggio e nessuna rilevanza assumono le
altre componenti positivi e negative che, di regola, intervengono a determinarlo.
Al di là della forma, non propriamente “sostitutiva”, la tonnage tax
italiana (come quella olandese), risulta essere nella sostanza, giacché deroga integralmente ai criteri utilizzati per l’imposizione sulle società
tranne per quanto riguarda l’applicazione finale dell’aliquota.
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Dalla breve analisi delle esperienze europee nel campo della tonnage tax può agevolmente osservarsi che il meccanismo di tassazione introdotto da alcuni Paesi europei presenta aspetti di identità ma anche profili differenziali.
Così la tonnage tax si presenta il più delle volte come una tassazione opzionale (per un periodo normalmente decennale), ma anche come
unica ipotesi di tassazione senza alternative (Grecia).
Quanto ai soggetti, in alcune ipotesi dal meccanismo impositivo sono escluse le società non residenti, in altri casi si guarda alla circostanza
che il soggetto abbia una attività di gestione e amministrazione principale nel territorio dello Stato.
In alcuni Paesi è necessario che la nave sia iscritta al registro nazionale o batta bandiera nazionale (Grecia), in altri si richiede la sola iscrizione al registro nazionale (Germania), mentre in Olanda ed Inghilterra
non si tiene conto della bandiera né del registro.
Le attività i cui redditi sono ricompresi nel regime della tonnage tax
sono sostanzialmente identiche, anche se talvolta si esclude la navigazione interna. Regola costante è rappresentata dalla attrazione da parte
del regime forfetario delle plusvalenze/minusvalenze derivanti dalla cessione del naviglio.
I paesi che recentemente hanno introdotto la tonnage tax hanno preferito il sistema olandese perché in apparenza presenta una formula nominalmente non sostitutiva e consente di evitare complessi calcoli cui
soggiace il modello greco.
Per il caso italiano, solo il tempo, il mercato e le reazioni dei diretti interessati (imprese armatoriali), potranno esprimere il loro giudizio su
quale sia il sistema migliore di tassazione forfetaria.
FRANCESCO PORPORA
Bibliografia
AA.VV., Aiuti di stato nel diritto comunitario, Atti del convegno di studi tenutosi a Roma il 17 settembre 2003 presso Aula Magna della Corte di Cassazione, in Rass.
trib., n. 6-bis/2003.
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RUBRICA DI DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE E COMPARATO
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50
PARTE QUARTA
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52
PARTE QUARTA
TAVOLA RIASSUNTIVA DELLE TONNAGE TAX
NEI PRINCIPALI PAESI EUROPEI
1. Paesi che applicano la Tonnage based coporation tax
Olanda
Tutti i soggetti che
hanno una presenza
qualificante
(qualifying
presence) in Gran
Bretagna e che
svolgono attività di
gestione su navi
proprie, noleggiate a
scafo nudo o in
leasing: su navi a
noleggio
temporaneo o a
viaggio ovvero su
navi di altre
compagnie di
navigazione (limite
del 75 per cento se
non appartengono
allo stesso gruppo).
Solo società di
capitale.
Tutti i soggetti
residenti in
Germania che
svolgono attività di
gestione su navi
proprie o noleggiate.
Tutti i soggetti che
svolgono in Olanda
un livello
significativo
(substantial degree)
di attività di
gestione su navi
proprie (> 5 per
cento) o noleggiate
a scafo nudo, su
navi in noleggio
temporaneo o a
viaggio (vincolo del
3:1) ovvero su navi
di altre compagnie
di navigazione
(complessivamente
70 per cento: 3:1
non cumulato).
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Società ammesse
Opzionale.
10 anni.
Entro un anno.
• Redditi derivanti
dall'utilizzazione
della nave e redditi
ad essa strettamente
correlati (shipping
relates activities
rivendute a costo);
• Restano esclusi
quelli derivanti
dall'attività portuale
conto terzi
(carico/scarico,
pilotaggio,
rimorchio).
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Regime
Tempi
Fa
Redditi inclusi
A
Germania
op
Requisisti per
l'applicabilità
Gran Bretagna
Anche società di
persone e persone
fisiche
Opzionale.
10 anni.
Entro un anno.
• Tutti i redditi
derivanti da attività
collegate al
trasporto di merci e
di passeggeri
• Plusvalenze
• Non sono inclusi i
redditi derivanti dal
noleggio a scafo
nudo.
Solo società di
capitale.
Opzionale.
10 anni.
Entro un anno.
• Tutti i redditi
derivanti
dall'utilizzazione
della nave.
• Tutti i redditi
derivanti da
operazioni di
carico/scarico e da
brokeraggio
marittimo (3:1)
• Per le navi da
crociera/passeggeri
rientrano anche i
redditi derivanti
RUBRICA DI DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE E COMPARATO
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Traffici
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A
dall'attività di
ristorazione,
alberghiera, di
vendita, etc.
• Tutti i redditi
derivanti da attività
di gestione (navi
proprie o di terzi) se
questa è svolta
prevalentemente nel
territorio dello Stato.
• Interessi sul
working capital.
• Dividendi esteri.
• Plusvalenze.
• Non sono inclusi
gli slot/space
charter e i redditi
derivanti dal
noleggio a scafo
nudo.
Nessuna esplicita
distinzione.
di
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• Dividendi esteri
(se la compagnia
che li rimette è
posseduta almeno al
50 per cento nella
EU (50 per cento
voting power) se i
redditi rientrassero
nella TT e se
rispettato il vincolo
del 75 per cento).
• Interessi sul
trading and working
capital
• Plusvalenze.
• Non sono inclusi
gli slot/space
charter e i redditi
derivanti dal
noleggio a scafo
nudo.
Nessuna esplicita
Nessuna esplicita
distinzione.
distinzione.
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54
PARTE QUARTA
2. Paesi che applicano la tonnage tax in senso stretto
Tutte le navi che rientrano
nelle seguenti categorie:
categoria I:
• Navi da carico e cisterne
di dimensione superiore
alle 3.000 tsl.
• Navi tra 500-3.000 tsl se
fanno scalo in porti esteri
• Navi passeggeri se fanno
scalo in porti esteri;
• Altre imbarcazioni
particolari (piattaforme di
perforazione, etc.)
categoria II:
tutte le altre navi.
Anche a società non
residenti.
Navi di proprietà, in leasing
o noleggiate.
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Bandiera/Registro
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Regime
Tempi
Fa
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fre
Solo società di capitali
norvegesi; le società
straniere hanno potuto
usufruire del regime solo
per tre anni (fino al 1999)
Bandiera/registro non
Applicabilità legata alla
rilevante.
bandiera.
Opzionale
Obbligatorio.
Si può uscire dal regime in
qualunque momento.
Internazionali e domestici Internazionali e domestici
• Plusvalenze derivanti dalla
Tutti.
cessione della nave
Esistono particolari
• Working capital (liquido)
agevolazioni:
• Navi costruite ed iscritte Non sono inclusi:
al registro greco per i primi 1. redditi da attività
ausiliarie;
sei anni di vita.
2. attività di ricerca ed
• Navi che svolgono
servizio di linea passeggeri estrazione del petrolio;
3. redditi derivanti da
(meno 50 per cento).
attività di gestione.
• Navi da carico che
svolgono servizio regolare
tra la Grecia e porti esteri o
tra porti esteri.
G
Società ammesse
Traffici
Redditi inclusi
A
Novergia
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Requisisti per
l'applicabilità
Grecia