LA VOCE DEL POPOLO ce vo /la .hr dit w.e ww il pentagramma De artistica veritate musica An no VII • n. 2 201 o z 57 • Mercoledì, 28 mar di Patrizia Venucci Merdžo Cari lettori, speravo di non doverlo scrivere, ma non posso farne a meno: andare al Teatro dell’opera di Fiume è sempre più frustrante e penoso. Purtroppo non posso osservare come il mio collega fiorentino in merito alla “Manon Lescaut” al Comunale di Firenze dell’anno scorso: “...l’Intermezzo, sublime nella sua verve drammatica che già preannuncia l’ultima tragica unione dei due amanti in articulo mortis, stupenda pagina strumentale accolta da calorose e scroscianti ovazioni, per infine raggiungere il suo punto apicale nell’aria di Manon Lescaut Sola perduta abbandonata...... un abile Geronte de Ravoir perfettamente caratterizzato, ora con punte comiche, ora superlativamente vendicativo..Classico e di successo l’allestimento della Lyric Opera Chicago del 2005...Un rientro che emoziona con un’opera dal fascino sublime, nel momento più critico per la storia del teatro”. Ma quale “verve”, ma quale passione né emozioni! per la recente première “Manon Lescaut” all’“Ivan Zajc”, annunciata come il culmine della stagione lirica! Nessuna autoflagellazione né digiuno quaresimali mi avrebbero procurato tanta sofferenza morale quanto l’allestimento del duetto Kica-Japelj, rispettivamente regista e scenografo, apostoli forsennati della scuola tedesca alla cui base sta la dogmatica formula del “trapianto automatico dell’azione” in tempi moderni, da leggere “stravolgimento totale”. In realtà tale modo di agire è una forma di vassallaggio mentale e culturale, non meno che un’incapacità di proporre un’altra via, che magari sintetizzi le intenzioni primigenie dell’autore e una rappresentazione non manierata e ripulita da inutili fronzoli. Ragionare in termini di etichette schematiche e riduttive come “allestimento tradizionalista” (pronunciato con disgusto) o “modernista“, visto come come incarnazione di tutto quello che sarebbe “progressista” (altra etichetta), è decisamente sorpassato. Il discorso è un tantino più sottile, ed a ogni modo il principio guida dovrebbe essere la ricerca della “verità artistica”; che se non emerge, se non riesce a far breccia, è grave. Purtroppo, dopo la disastrosa, funerea e fuligginosa Traviata di qualche anno fa, ci è ricapitato Marko Japelj, scenografo “di grido” (o meglio, da urlo isterico), con le sue eresie postmoderne che con Puccini c’entrano come i cavoli a merenda. Scriveva infatti il Maestro lucchese nel 1923, al grande Toscanini: “...tu mi hai dato la più grande soddisfazione della mia vita, la Manon nella tua interpretazione è al di sopra di quanto io pensai a quei tempi lontani. Tu hai reso questa mia musica con una poesia, con una “souplesse” e una passionalità irraggiungibili.Proprio ho sentito iersera tutta l’anima tua grande e l’amore per il tuo vecchio amico e compagno nelle prime armi. Io sono felice perché tu hai sopra tutti saputo comprendere tutto il mio spirito giovane e appassionato di trent’anni fa! Grazie dal profondo del mio cuore!” No, non si può “trapiantare” Puccini nella nostra epoca, perché il suo patrimonio di sentimenti non appartiene al nostro tempo banale, omologato e senza bellezza. Puccini è il grande pittore dei sentimenti e delle atmosfere. Se smorzi i primi e accoppi le seconde che ti resta? Ma a queste “quisquilie” i santoni “dell’arte moderna” non ci arrivano proprio. Nel primo atto della Manon fiumana, l’azione era costretta entro una mastodontica, tetra e incombente muraglia (parevano le mura di Gerico in una notte senza luna), che doveva stare per la taverna. Nell’atto secondo – bisogna rilevare che il Japelj ha il “complesso del cubo”; già in Traviata i convitati di Flora facevano baldoria (tutti in nero) “incubati” dentro un cubo nero come la pece – le prostitute stanno entro una gabbia a rotelle, manco a dirlo, cubica. Nell’atto quarto, (scena nel deserto), oltre alle citate “mura di Gerico”, i due amanti stavano incubati entro un cubo-rettangolo (al primo momento li avevo presi per Aida e Radames). Evidentemente il deserto come scena era troppo “barocca” per i gusti di Japelj e le sue letture “cubiste-astratto-metaforiche”. Come sostiene Zeffirelli, “si fanno troppi inutili sperimentalismi”. C’è qualche cosa di immorale in codesto atteggiamento di arroganza intellettuale di ‘sti “guru”, e nella precisa, lucida e sistematica volontà di imporre, al pubblico impotente, da posizioni di potere, queste letture false e al limite della crudeltà mentale. Lontanissime peraltro anche dalla sensibilità di un pubblico mediterraneo. Siamo in tempi di crisi e depressione materiale e morale. Uno a teatro ci va magari anche per dimenticare gli assilli del quotidiano. A che diavolo ci serve la visione di spettacoli piatti, angoscianti, affondati di regola nel nerume più avvolgente? Possiamo ben dirlo: siamo stati defraudati della gioia di andare a teatro. Dopo un’assenza di 79 anni di “Manon Lescaut” dalla scena di Fiume, ci meritavamo ben altro; e se gli amanti del “vero” Puccini avevano posto delle aspettative, sono rimasti profondamente delusi. Immancabilmente Vostra 2 musica Mercoledì, 28 marzo 2012 PEDAGOGIA MUSICALE L’associazione «Sretna misao» educa i bimbi alla musica e al Crescere e socializzare nel magico di Patrizia Chiepolo Mihočić ZAPREŠIĆ (ZAGABRIA) Prendi una chitarra, un paio di maracas, alcuni tamburelli e xilofoni, o “glockenspiel”, aggiungi un gruppetto di bambini dai due ai quattro anni, possibilmente con un bel ciuccio in bocca, e il gioco è fatto. In men che non si dica li vedrai suonare, ballare e muoversi al ritmo della musica. Tutto questo succede durante l’ora di lezione del programma “Kindermusik”, che si basa sul metodo pedagogico Montessori. più adatto. E poi era già strutturato, non avevo bisogno di eventuali verifiche da parte del Ministero dell’istruzione.” - I laboratori includono bambini da 0 a 8 anni. Com’è possibile far partecipare attivamente dei bambini così piccoli? “Il programma ‘Village’ comprende praticamente neonati dai 0 ai 18 mesi. Il nostro partecipante più giovane al momento ha 4 mesi. È rapito dalla musica! Ascolta a bocca aperta i suoni e si Con i più piccolini si fanno degli esercizi specifici, tipo massaggi, baby fitness e movimenti che sviluppano la vista ed i muscoli oculari; il tutto accompagnato da una musica dolce Tutti insieme allegramente «Il programma ‘Village’ coinvolge neonati e frugoli fino ai 18 mesi. Il nostro ‘partecipante’ più piccolo al momento ha 4 mesi. È rapito dalla musica! Ascolta a bocca aperta i suoni e si rilassa» Ho scoperto questi laboratori musicali per bambini dai 0 agli 8 anni per puro caso, navigando su Internet. Mi è sembrata da subito una cosa molto interessante. Perchè non visitarli di persona? Un viaggio fino a Zaprešić in un freddo pomeriggio di marzo, mi ha permesso di scoprire come dei bambini così piccoli riescano a seguire la musica e le note con un programma che tra l’altro si svolge in lingua inglese (seguita dalla traduzione momentanea in croato). Presso l’associazione “Sretna misao” (Pensiero felice) abbiamo incontrato Maja Lončar, portatrice di questo progetto a Zagabria e dintorni. Giovane, simpatica e piena di verve, Maja ci ha raccontato come nasce questo tipo di laboratorio. “L’associazione ‘Sretna misao’ nasce nel 2009 con lo scopo di educare i bambini alla musica attraverso questo progetto, ovvero Kindermusik. Il mio sogno era quello di offrire a bambini così piccoli un’educazione musicale divertente che aiutasse loro un giorno a scegliere magari di entrare a far parte di una scuola di musica e di amare uno o più strumenti. Questo progetto, che nasce in America, mi sembrava il rilassa. Con questi piccolini si fanno degli esercizi specifici, come massaggi, baby fitness e movimenti che sviluppano la vista ed i muscoli oculari, il tutto accompagnato da una musica dolce che li introduce in questo mondo magico fatto di note.” - Il gruppo presente in questo momento nella stanza ha dai due ai quattro anni, e vedo che i pargoletti hanno molta dimestichezza con questi strumenti. “Al loro arrivo li lasciamo per lo più esplorare gli strumenti. Si può vedere come si divertono a fare baccano con essi. Poi si passa al programma vero e proprio.” Ci sono strumentini Orff, ma anche altri oggetti che portano la firma Kindermusik. “Sono strumenti che fanno parte di questo progetto come uova di plastica e palline morbide ripiene di sabbia che servono per suonare come delle maracas, ma che sono più interessanti ai bambini per forma e colore. Abbiamo una cesta piena di questi ‘strani’ oggetti che usiamo durante le lezioni.” I piccolini si stanno sistemando e noi ci mettiamo in un angolino per vedere cosa succede. Cling-clang...bum-bum. Toh, ma pensa tu che suoni... Un metodo valido per i bambini di tutto il mondo Cos’è Kindermusik? Kindermusik è il leader mondiale nel programma musicale per i bambini che ha lo scopo di portare la musica nella vita dei bambini di tutto il mondo tramite un efficace e divertente programma musicale composto da libri, CD audio e attività corporee sviluppate appositamente seguendo le tecniche psico-pedagogiche più adatte per il bambino. Si basa sulle opere di esperti mondiali come Piaget, Montessori e Greenspan. Con oltre 5,000 educatori attivi in più di 66 paesi al mondo Kindermusik è il più grande programma di musica in tour nel mondo (24 ore al giorno, 365 giorni all’anno!) Da oltre 30 anni, Kindermusik International sta contribuendo allo sviluppo psico-pedago- gico di centinaia di migliaia di bambini. Il programma Kindermusik, infatti, è nato agli inizi degli anni 60 come “Musikalische Fruherziehung” ovvero “musica per il bambino piccolo”, durante una permanenza di Daniel Pratt, docente di musica di Princeton, in Germania. Con il suo metodo, Daniel è riuscito a riunire il sapere popolare e l’intuito genitoriale alla ricerca scientifica, creando un metodo valido per i bambini di tutto il mondo. La ricerca scientifica conferma l’assoluta validità del metodo Kindermusik, l’impatto della musica sullo sviluppo psico-sociale e pedagogico del bambino, facilitando enormemente l’apprendimento della lingua. Per questo motivo da alcuni anni è stato introdotto il programma ABC Mu- sic & Me. La ricerca indica che i bambini possono ottenere un ricco vocabolario tramite canzoni, storie illustrate, e rime musicali. ABC Music & Me contiene tutto queste cose che impegnano i bambini a tutti i livelli dell’inglese parlato e affinano grandemente la loro capacità di ascolto. Durante le lezioni, i bambini avranno modo di esprimere fisicamente il significato del vocabolario che avranno in un primo tempo imparato tramite giochi manuali, movimenti delle mani e molte altre azioni corporee. Con ABC Music & Me i bambini cominciano ad imparare l’inglese già dai due anni, in un ambiente divertente e creativo, cantando, giocando e sviluppando in modo costruttivo la capacità di socializzare e relazionarsi. Il cestone delle meraviglie! musica 3 Mercoledì, 28 marzo 2012 movimento con il progetto «Kindermusik», basato sul metodo pedagogico Montessori mondo dei suoni e della musica I bambini del gruppo che va dai 4 agli 8 anni, hanno già una discreta conoscenza della musica e delle note. Suonano su spartiti scritti, improvvisano o portano delle canzoncine scritte da loro Dopo aver giocato per un po’ da soli, Maja prende una chitarra e si mette a cantare in inglese. Come per magia tutti i bambini, in compagnia delle loro mamme, seguono le richieste fatte dalla loro maestra. Questo programma porta il nome ABC Music & me (ABC la musica ed io), ed è questa la frase che si ripete durante le canzoncine, seguita da un “ordine” tipo wash our hands (laviamo le mani), let’s jump (saltiamo) che i presenti eseguono al suono della musica. Si divertono un mondo e si vede! Dopo aver giocato, segue la parte “seria”. Dal CD si sentono vari suoni e melodie, note alte e note basse. Il loro compito sarà quello di seguirle con le maracas, ovvero gli ovetti di plastica: i toni alti vengono mostrati alzando le manine, quelli bassi suonando, battendo con gli ovetti a terra. Oppure devono semplicemente ascoltare dei suoni ed indovinare di che cosa si tratta; tipo il fischio del treno, il cinguettio di un uccellino… E che sorrisi sodisfatti quando la maestra li loda. Un’ora in allegria passa velocemente, ed i piccolini danno spazio ai loro amichetti più grandi. È l’ora del Kindermusik for the young child (Kindermusik per bambini piccoli). “Questo gruppo comprende bambini dai 4 agli 8 anni che hanno già una discreta conoscenza della musica e delle note. Suonano su spartiti scritti, improvvisano o portano delle canzoncine scritte da loro. Questa è sicuramente una valida preparazione per coloro i quali desiderano frequentare un giorno la scuola di musica. Si acquisiscono varie tecniche musicali, si impara ad ascoltare e a suonare diversi strumenti. Tutti i nostri grup- pi comprendono un massimo di 8 bambini. Le lezioni si svolgono una volta alla settimana e la durata dipende dall’età: i più piccoli le frequentano per 8 settimane, quelli più grandi 16. Abbiamo i laboratori divisi in sei posti diversi nella zona di Zagabria e dintorni. Oltre alle lezioni svolte in sede, i genitori possono ricevere degli albi e libri con CD, in lingua inglese, da usare anche a casa”, conclude Maja. La passione pedagogica di Maja Lončar Maja Lončar è nata a Bjelovar nel 1981 dove ha frequentato la scuola elementare. Frequenta la scuola media superiore di musica “Vatroslav Lisinski” a Zagabria nella classe della prof. Elvira Happ. Nel 1999 si iscrive all’Accademia di musica (strumenti a percussione) nella classe del prof. Igor Lešnik. Sentendo il bisogno di educare anche i bambini alla musica, Maja termina il corso per educatori Kindermusik e fonda l’associazione “ Dječji glazbeni svijet“ con lo scopo di invogliare i bambini alla musica già dalla più tenera età. Su le braccia! Un, due, un, due... do-re-mi-fa-sol! (Ma si divertono di più le mamme o i bambini?!) “Bati, bati le manine...” Silenzio, prego! Il concerto è in corso 4 mus Mercoledì, 28 marzo 2012 IL NOVECENTO E LA MUSICA SACRA Il Maestro compose la Messa come reazione ad La Messa di Stravinski un unicum ne di Umberto Bombardelli P er secoli, musicare i testi canonici della messa è stato un compito svolto da compositori legati da un vincolo professionale pressoché esclusivo con la Chiesa (non importa se cattolica, come nel caso di Palestrina o Mozart, o luterana come per J.S. Bach). Musicisti che - per una parte rilevante della propria vita - si sono identificati con il servizio alla Parola divina. Musicisti che in alcuni casi (e pensiamo ancora una volta a Bach) hanno concepito - in una visione evidentemente ancora integrale della fede - il loro fare musicale come parte assolutamente integrante della propria vita cristiana. In alcuni casi - al contrario - il musicare i testi della messa ha costituito semplicemente la testimonianza di un fugace erompere del senso religioso in animi, fino a quel momento (e, a volte, dichiaratamente), lontani da una reale fede cristiana. Pensiamo alla Missa Solemnis di Beethoven o a Giuseppe Verdi che - profondamente, e personalmente, colpito dalla morte di Alessandro Manzoni - scrive la sua drammatica, e popolarissima, Messa da Requiem. Punto nodale tra due periodi creativi Accostandoci invece alla Messa per coro e doppio quintetto di fiati, scritta tra il 1944 il ‘47 da Igor Stravinskij, le cose cambiano. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un unicum sia per quanto riguarda la sua genesi sia per il ruolo che questo capolavoro ricopre nel panorama musicale del Novecento, così povero di opere sacre di significativo spessore artistico. avanti il ruolo che l’Autore attribuirà a questi ultimi, specifici elementi costruttivi. La genesi Sappiamo che l’idea di comporre la Messa venne a Stravinskij come reazione istintiva ad alcune messe di Mozart, scovate a Los Angeles nel ’42 in un negozio di libri di seconda mano. Lo stile mozartiano gli apparve “rococò e operistico”; le messe come “dei dolci peccatucci” musicali. Esattamente il contrario di ciò che, nella sua mente, avrebbe dovuto essere una vera messa. A questa istintiva repulsione, si univa l’impressione di completa decadenza che il compositore ricavava dalla musica sacra ascoltata nella chiesa ortodossa di Nizza, città nella quale soggiornò prima del trasferimento a Parigi (1920). A composizione della Messa per coro e doppio quintetto di fiati ultimata il compositore, da buon neoconvertito, si schermirà affermando di “non conoscere alcunché della musica liturgica ortodossa di quei tempi” e ciò gli sarà di occasione per chiarire che “probabilmente le parti della Messa fondono ricordi infantili della musica sacra a Kiev e Poltava, con lo scopo cosciente di aderire ad uno stile armonico semplice e severo”. Personale esigenza interiore La scelta di comporre - lui di fede ortodossa - una messa cattolica può apparire eccentrica (ed avvalorare, quindi, la patente di leggerezza e irresponsabilità di cui si è già detto), ma le motivazioni sono serie, tenendo an- Il Maestro intendeva comporre musica spirituale, e per riuscirci, sentiva di dover scrivere una musica «fredda, assolutamente fredda» Ci troviamo di fronte ad un evento singolare anche nello spazio - in verità, circoscritto - della produzione religiosa del compositore. La Messa, infatti, si colloca come punto nodale tra i primi lavori sacri, che ricalcano - anche stilisticamente - la secolare tradizione musicale ortodossa, e le composizioni religiose dell’ultimo decennio di vita, nelle quali l’elaborazione musicale (basata in prevalenza sulla tecnica dodecafonica “scoperta” da Stravinskij nei suoi anni americani) assume alti livelli di complessità e di astrazione simbolica. Vedremo più che conto del fatto che l’opera è una delle sue pochissime nate indipendentemente da commissioni esterne, ma solamente per una personale esigenza interiore. Innanzitutto, la Chiesa ortodossa non ammetteva - e non ammette l’uso degli strumenti musicali nella liturgia (fatta eccezione per le campane divenute, nei secoli, il simbolo sonoro della Russia cristiana stessa) e Stravinskij non poteva tollerare la musica sacra a cappella, senza accompagnamento strumentale, se non in uno stile - a suo dire - “armoniosamente primi- tivo” (riferendosi, probabilmente, al Canto Gregoriano e ai primi esempi di polifonia medioevale). Più interessante, e decisiva, è invece la seconda ragione: la sua dichiarata aspirazione a scrivere un brano non destinato al mondo concertistico, bensì ad un reale ed esteso impiego liturgico. Per questo, il compositore mette Terzo, la composizione della Messa non fu mai concepita come un solitario (seppur alto) atto di fede individuale, ma come servizio funzionale alla certezza della fede. Sono particolarmente illuminanti, a questo riguardo, le affermazioni di Stravinskij stesso: “Nel musicare il Credo volevo proteggere in modo particolare il Stravinski compose la Messa come reazione istintiva ad alcune messe di Mozart, che gli parvero «rococò e operistiche», o, come «dei dolci peccatucci» musicali testo. Come si compone una marcia per facilitare chi sta marciando, così io spero con il mio Credo di fornire un aiuto al testo. Il Credo è il tempiù esteso. C’è molto da credere”. Musica che si rivolge po Così, come nelle migliori intenzioni controriformistiche, il testo liturgico allo spirito è sempre integralmente rispettato e Eccoci, allora, finalmente di fron- reso facilmente comprensibile, anche te ad uno di quei punti emergenti del nei punti di maggior complessità delfiume sotterraneo che ribolle al di là la polifonia. - e al di sotto - della consapevolezza L’opera dell’Autore stesso. Alcuni passi erano Detto - come già sopra - che l’Auperò ben chiari alla sua coscienza. Innanzitutto, la sua Messa non tore mette in musica unicamente i teavrebbe dovuto rivolgersi al mondo sti dell’Ordinario, mille sarebbero i delle emozioni e dei sentimenti (pro- particolari da mettere in luce all’inprio questo egli rimproverava alle terno delle cinque parti che formano messe mozartiane!), bensì “diretta- l’opera completa; lavoro di una ricmente allo spirito” dell’ascoltatore (e chezza e di una sapienza costruttiva quindi, nelle sue intenzioni, del fede- che - ad un primo ascolto - possono le). Per riuscirci, il compositore senti- anche risultare non immediatamente va di dover scrivere una musica “fred- evidenti. Cercheremo quindi di evidenziada, assolutamente fredda”. L’idea che l’affettività, la carnali- re alcuni aspetti di carattere globale tà possano costituire un ostacolo ad che ci possano aiutare a percepire la un’autentica esperienza di fede ci la- Messa di Stravinskij nella sua assoscia probabilmente un po’ perples- luta originalità, e in tutto l’enorme si. Nei fatti, secondo il cristianesimo, valore artistico che le è proprio. Chi vorrà poi dedicare del tempo siamo stati redenti attraverso il dolore, il sudore e il sangue di Gesù Cristo ad un ripetuto ascolto - o chi vorrà nato dal ventre di Maria: se tutto ciò prendere in mano la partitura, facilsi può chiamare puramente spiritua- mente rinvenibile nei negozi musile… Ma, probabilmente, nell’animo cali - scoprirà più nel dettaglio tutdi Stravinskij prevalevano indirizzi ta l’enorme sovrabbondanza della fantasia di questo campione del più astratti e “parigini”. In secondo luogo, la sua Mes- Novecento musicale. Iniziamo dalsa, per essere “realmente liturgica”, la formazione impiegata. Ci troviaavrebbe dovuto essere “quasi priva di mo di fronte ad un coro misto a quatornamenti”. Con questo, il composi- tro voci che in brevi tratti si divide tore sentiva di dover prendere le di- in cinque, o anche sei, parti. La racstanze dai grandi esempi monumen- comandazione dell’Autore è che la tali che incombevano dal passato (la parte più acuta - quella dei soprani Messa in Si minore di Bach, la Mis- - sia affidata a voci maschili di fansa Solemnis di Beethoven e - natural- ciulli (voci bianche). Questa scelta, mente! - la Grande Messa in Do mi- non sempre rispettata nelle esecuzionore di Mozart) a favore di qualcosa ni concertistiche, è il primo indizio del desiderio di freddezza di cui si è di più modesto e familiare. Il suo lavoro avrà così una “ragio- già detto. nevole” durata di soli 17 minuti circa. Le voci bianche hanno un timbro limpido e possiedono una ricca sonorità, ma sono prive del patetismo di cui le voci femminili sono naturalmente cariche. Il coro è accompagnato - ma meglio sarebbe dire, affiancato - da un doppio quintetto di fiati. Il primo quintetto è formato da due oboi, un corno inglese e due fagotti, tutti strumenti appartenenti alla classe dei cosiddetti legni. Il secondo da due trombe, due tromboni tenore e un trombone basso, tutti ottoni. in musica unicamente i testi delle preghiere comuni a tutto l’anno liturgico, il cosiddetto Ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Bando al colore sensuale Polivalenza nel “Kyrie” Chi conosce un poco gli strumenti musicali tradizionali, noterà che Stravinskij fa una scelta che già fu di Mozart (ancora lui!) nella Grande Messa già citata: quella di escludere il timbro sensuale dei clarinetti a favore di quello più nasale degli oboi, e di non utilizzare i corni - dal suono caldo e dall’enorme estensione - privilegiando i tromboni. Il risultato è estremamente significativo: un timbro arcaico e distante, che (negli oboi) ricorda il Barocco tedesco e (nei tromboni) si richiama alla grande tradizione veneziana - tardo rinascimentale e barocca - della Basilica di S. Marco dove, accanto agli organi, i tromboni univano la loro voce a quella dei cori battenti, cioè spazialmente contrapposti, in una sorta di stereofonia ante litteram dagli effetti stupefacenti e maestosi. Se consideriamo che spesso i due gruppi strumentali suonano separatamente, ci troviamo di fronte ad una sorta di triplo coro (anche questo di veneziana memoria) in parte umano, in parte artificiale: aria, voci, legno, metallo, uniti in una lode concorde. Il suono del mondo, insomma; un mondo con lo sguardo rivolto al suo Creatore. Stravinskij stesso ci informa che i dieci strumenti sono destinati ad accordare il coro; probabilmente non solo nel senso più banale di “suggerire l’intonazione ai coristi” (compito che indubbiamente svolge), ma in quello più sostanziale di colorire timbricamente - e quindi espressivamente - l’impasto vocale. Il suono privo di vibrato - e, quindi, di patetismo - le dinamiche (i livelli di intensità sonora) piatte e l’utilizzo di un legato e di uno staccato assoluti, senza sfumature, tendono a evocare il suono di un organo primitivo, “raffreddando” decisamente il clima espressivo. Il costrutto nell’idea di Stravinski e il tempo ontologico In questo senso, possiamo senz’altro dire che la doppia formazione strumentale rappresenta l’aspetto musicalmente più oggettivo (!) del complesso. Al coro sono invece affidati gli elementi di maggiore e più immediata espressività: le voci si dipanano in figurazioni piuttosto lineari, chiaramente ispirate alla polifonia dei grandi maestri rinascimentali (Palestrina, innanzitutto) e alle scarne e ossessive cellule ritmo-melodiche della polifonia tardo medioevale. Un ricercato ritorno all’antico, insomma; ad una semplicità (o “primitività”, secondo le parole dell’Autore) sentita come patria e salvaguardia dell’autentica fede, di fronte a ciò che veni- Le voci si dipanano piuttosto lineari, ch ispirate alla polifon maestri rinascimen innanzitutto) e alle cellule ritmo-melod polifonia tardo me va percepito come generalizzata decadenza della musica sacra. Non sarà inutile ricordare che il termine oggettività è uno di quelli più frequentemente utilizzati - al limite dell’abuso - nei confronti della produzione stravinskiana. Troppo spesso è stato inteso nel senso (improprio) di neutro, antisentimentale, ma è il compositore stesso a sgombrare il campo da ogni equivoco. Per Stravinskij, il carattere proprio della musica non è l’espressione, bensì la costruzione. Egli non nega certo il potere di evocare idee sica Mercoledì, 28 marzo 2012 5 d alcune messe di Mozart, che egli definì «dei dolci peccatucci» musicali el panorama musicale del Novecento Il compositore russo realizzò un timbro arcaico e distante, che ricorda il Barocco tedesco e la grande tradizione veneziana - tardo rinascimentale e barocca - della Basilica di S. Marco e sentimenti che ogni brano musicale degno di tale nome possiede, ma questo costituisce per lui un aspetto secondario (nel senso di non originario, derivato): in definitiva, di superficie. Questa “ovvia” implicazione espressiva è in relazione con la capacità della musica di modellare il tempo psicologico, soggettivo, o in figurazioni hiaramente nia dei grandi ntali (Palestrina, e scarne e ossessive diche della dioevale suscitando analogicamente in noi un vasto mondo di immagini e sensazioni. Ma è la costruzione (si potrebbe dire: la forma) che ci mette in contatto con un tempo più profondo e originario (più “Ur-” direbbero i tedeschi); con ciò che il compositore russo definisce tempo ontologico. Secondo l’Autore, il contatto con questo tempo profondo è in grado di generare in noi uno stato di euforia, o meglio di “calma dinamica”. Comprendiamo finalmente, così, che il suo obiettivo di freddezza non è nient’altro che l’espressione del desiderio di prendere per mano l’ascol- tatore e di condurlo al centro della musica, verso quel misterioso tempo ontologico. Per usare le parole di Stravinskij, “mettere l’ascoltatore in condizione di partecipare all’universale realtà dell’Essere assoluto”. Venendo ora alla concretezza della Messa, scorriamone rapidamente i cinque tempi evidenziandone gli elementi di una qualche importanza (senza alcuna pretesa di esaustività) per un’iniziale comprensione dell’opera. Un Kyrie anti-tonale Il Kyrie si apre con il doppio quintetto di fiati che, partendo in successione dagli oboi per arrivare al trombone basso, enunciano su più ottave un bicordo DO-MI bemolle, allusivo forse della tonalità di Do minore (il coro, pochi secondi dopo, intonerà quelle stesse note). A questo riguardo, Stravinskij stesso ebbe modo di precisare più volte che la sua musica, piuttosto che atonale, era anti-tonale. Tralasceremo quindi (anche per ragioni di brevità) ogni riferimento al piano armonico dell’opera, che pur costituirebbe un campo di indagine interessante e promettente. Ci interessa invece notare il modo in cui vengono suonate quelle prime note: ogni nota porta l’indicazione poco sfp (= poco sforzando, piano). L’effetto è quello di un’improvvisa percussione, seguita immediata- mente da una coda di suono tenuto, quasi un riverbero. Come non pensare a rintocchi di campana? Come non intravedere le pianure sterminate della Santa Madre Russia, e immaginare il nostro Igor con il naso all’insù sotto le navate delle chiese ortodosse della sua infanzia? Questo effetto musicale (o figura) si riproporrà più volte nel corso del Kyrie, anche nella variante di un arpeggio discendente distribuito tra tutti gli strumenti del doppio quintetto. Ma lo ritroveremo anche in significativi punti-chiave delle sezioni successive. Rintocchi di campane Nel Gloria, per esempio, dove il “rintocco” richiamerà inesorabilmente l’attenzione dell’ascoltatore introducendo, e separando tra loro, le parole “Quoniam Tu solus Sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus, Jesu Christe” (che costituiscono il vertice concettuale del testo sacro). E all’inizio del Sanctus, dove legni e ottoni si alternano nell’introdurre e nel concludere gli interventi di due tenori (e del coro) che enunciano selvaggiamente la Triplice Lode. E poi una ventina di secondi più avanti, quando i tromboni e le trombe scandiscono con profondi e inquietanti rintocchi (prevalentemente a distanza di quinta: uno degli intervalli acusticamente perfetti, che i pitagorici prima, e il Medioe- vo poi, mettevano in relazione con la perfezione dei rapporti numerici che reggono l’Universo) l’esposizione di fuga che in una figurata “ascesa al cielo” - dal MI di un basso solista, su fino al SOL estremo di un soprano - incarna il testo “Pleni sunt coeli et terra gloria tua”. O ancora quando un breve ma evidentissimo rintocco introduce all’imprevedibile tenerezza del “Benedictus”. La struttura del «Credo» Non possiamo certo tacere del Credo che costituisce - dal punto di vista materiale, come pure nelle intenzioni formali del compositore - il centro dell’intera Messa. Al punto di maggior densità teologica (ricordiamo: “…c’è molto da credere”) corrisponde, inaspettatamente, la maggior semplicità di scrittura. Le quattro voci enunciano tutte insieme il testo, senza ripetizioni, sullo sfondo di accordi tenuti dei fiati (veramente il suono di una sorta di organo arcaico) in un piano uniforme, senza alcuna enfasi. In questo contesto le tre brevi sottolineature sonore (unicamente poco più f) delle parole “Ecclesiam… peccatorum… mortuorum” balzano violentemente in primo piano, come scagliate interrogativamente contro l’inerzia della coscienza. Questa compatta uniformità di andamento delle voci ricorrerà in altre sezioni dell’opera, eloquente immagine so- nora di un’umanità implorante (come nel Kyrie iniziale, e nell’Agnus Dei conclusivo) o in preda all’esaltazione assoluta del giubilo (come nei due travolgenti “Hosanna in excelsis” del Sanctus). Canto a Cappella nell’«Agnus Dei» Impressionante, sia sul piano espressivo che su quello formale, risulta anche il brano finale della Messa, l’Agnus Dei. Per la prima e ultima volta, nel corso della composizione, le voci del coro sono lasciate a se stesse, senza accompagnamento strumentale (a cappella). Ecco, allora, che nella definitiva resa al Mistero fattasi richiesta di misericordia e di pace (“Agnus Dei… miserere nobis… dona nobis pacem”), il pathos delle voci umane nella loro nudità si fa finalmente, completamente evidente. I fiati introducono solennemente la preghiera, e si alternano alle voci con movenze e scelte sonore (tanti intervalli di quarta e quinta, dalle sonorità trecentesche) degne di una messa di Guillaume De Machaut. Le voci (prima femminili, poi maschili, poi unite) e il gruppo compatto degli strumenti si alternano in modo tranquillo e assolutamente privo di enfasi: un intimo dialogo tra umanità e materia, una commovente supplica alla quale il Creatore non potrà certo - allora, come ora - non prestare orecchio. 6 musica Mercoledì, 28 marzo 2012 LEGGENDE Eroine della musica. Nomi femminili che hanno fatto storia Pop-rock è donna! A cura di Ivana Precetti “D onna è il nome più nobile che si possa dare all’anima. Molto più nobile che vergine”. Così Maurizio Cucchi ha reso omaggio al gentil sesso in “La luce del distacco”. Lo scrittore tedesco Jean Paul aveva scritto: “Nelle donne tutto è cuore, persino la testa”. Guido Gozzano invece si è perso nell’arcano mondo femminile, in quella bellezza che nasconde sensazioni che a lui – e a tutti gli uomini – resteranno precluse: “Donna, mistero senza fine bello” è un verso quasi proverbiale della celebre “Signorina Felicità”. Vedeva maggiormente il lato sensuale Cesare Pavese, che in “Feria d’agosto” aveva rilevato: “Una donna, una che trasforma il remoto sapore del vento in sapore di carne”. Ma quello che più conta è che senza le donne non si può stare: “Un uomo suppone una donna, la donna” (ancora Cesare Pavese); “C’è il deserto se manca lei” (John Steinbeck, “La santa rossa”); “Le donne sono una vite su cui gira tutto” (Lev Tolstoj, “Anna Karenina”). Anche noi abbiamo voluto rendere un omaggio, in questo mese in cui viene festeggiata la Giornata internazionale delle donne, ma in maniera un po’ particolare, in maniera rock. Un genere musicale in cui il gentil sesso ha lasciato, nella storia, un segno profondo e indelebile, in epoche e con stili differenti. Ne abbiamo scelte quindici (senza nulla togliere alle altre), di donne particolari, donne che sono (e sono state) innanzitutto artiste, inimitabili icone dell’universo musicale. Le ricordiamo, sotto, in ordine sparso, in tutto il loro splendore. Aretha Franklin, «meraviglia naturale» La regina del Soul, basterebbe questo. Lo stato del Michigan ha dichiarato la sua voce ”meraviglia naturale”. Un monumento, un’icona assoluta e trasversale: per il popolo black una sorta di divinità pagana. Per gli altri, semplicemente Aretha. Voce e talento da predestinata, fisicità e personalità straripanti. Se esiste un madrina delle emozioni in libertà – partorite dalle radici del rock – questa è Miss Franklin. Idolo vivente. Patti Smith, «sacerdotessa del rock» L’unica Sacerdotessa del Rock, Patti Smith. La poesia che sovrasta e diventa tutt’uno con la musica: da Chicago e il suo blues a ogni angolo, esplosa direttamente nella New York proto-punk e uncool dei favolosi anni ‘70. Per rimanere presente sempre, sfidando tutto e tutti. Androgina, intelligente, discussa, amatissima, straziante e invidia- Courtney Love ta. Una rivoluzionaria, nel vero senso della parola. Come nessuno. Alanis Morissette, coraggio da vendere Dal Canada con furore. Almeno così si è presentata, all’improvviso, nel bel mezzo degli anni ‘90 che parlavano assolutamente al maschile fra Seattle grunge, punk californiano e brit-pop. Spunta Alanis dal nulla e regala uno degli album-debutto più ascoltati, venduti e ricordati di sempre. Grande voce, grande presenza, carica e coraggio da vendere. Una venatura selvaggia, scientificamente rock e lungimirante. Icona di un decennio. Aretha Franklin Patti Smith Alanis Morissette Siouxsie Sioux Janis Joplin Debbie Harry Amy Winehouse Joni Mitchell Joan Baez ticolare: probabilmente la voce più sexy, profonda e vissuta della storia. Un unicum imitato, dal finale tragico. Perla leggendaria. sentato un esempio di vitalità artistica fuori dall’ordinario, in anni aridi. Raccontando, con voce inimitabile, di sesso, vizi e delusioni. Senza curarsi del resto. Creando un look eccessivo ma pop. Punto di riferimento a seguire. politico. Baez è stata anche la prima artista femminile a imporsi con la propria personalità, e non soltanto con la voce. In pratica, Baez è la “madre” di tutte le cantautrici dei decenni successivi. Siouxsie Sioux, «eroina british» Susan Ballion: così non la conosce quasi nessuno. Ma come Siouxsie, la conoscono tutti quelli che hanno ascoltato, almeno una volta, l’idolatrato filone dark e postpunk a cavallo fra gli anni ‘70 e ‘80. Un’icona, un’eroina british. Uscita da un’infanzia disagiata nelle periferie di Londra, per influenzare mezzo mondo del rock: a colpi di voce potente, timbro inconfondibile e stile unico e imitatissimo (dalla moda al cinema) negli anni a seguire. Voce e look DOCG. Cyndi Lauper, voce e look inimitabili La ragazza doveva solo divertirsi, e il successo sarebbe venuto da sé. Avevano fiutato l’affare quelli della Epic Records mettendo sotto contratto la non più giovanissima Cyndi Lauper, disoccupata dopo lo scioglimento della sua scanzonata band rockabilly, i Blue Angel, apprezzati dalla critica ma snobbati dal grande pubblico. Non poteva passare inosservata, secondo loro, quella piccola donna così insolita e dalla goffa ma esuberante femminilità, con una fulva capigliatura punk e quel look che sembrava un incidente col baule dei costumi di Carnevale. E soprattutto non era il caso di lasciare senza microfono quella stridula voce da bambina impertinente, capace di raggiungere inaspettate ottave e tingersi improvvisamente di toni disperatamente drammatici. Semplicemente unica... Debbie Harry, malizia e talento Janis Joplin, «perla leggendaria» Bellissima, sensualissima, ricercatissima. La Marilyn Monroe del punk (in discoteca). Un’artista che ha spaziato sui generi – dal punk ‘77 al synth-pop, fino al reggae e alla dance – rielaborandoli in chiave personale. Regina di moda e interpretazione. Telegenica e immortalata fino all’ossessione (Warhol ne sa qualcosa), ha fatto ballare milioni di donne e uomini. La faccia glam della Grande Mela anni ‘80, con radici nel punk. Malizia e talento allo stato puro. Una certa Madonna ha poi preso appunti. Capostipite femminile del concetto moderno di rockstar. La prima e più autentica femminista nella storia del rock. Quello suonato e impegnato, negli anni del sogno a stelle e strisce: nella seconda metà dei ‘60. Con un occhio all’arte e l’altro alla libertà, all’emancipazione e all’impegno civile. In tutto ciò, un piccolo par- Certo, la prematura e violenta scomparsa ha influito. Inutile negarlo. Un’artista vera che come nessuno ha segnato gli stralunati annizero. Mischiado la parte black del rock: soul, jazz e R&B. Ha rappre- Annie Lennox Amy Winehouse, un’artista vera Cyndi Lauper Joni Mitchell, confessioni a cuore aperto La canadese Roberta Joan Anderson, alias Joni Mitchell, è la più forbita delle “signore del rock”. Poche altre cantautrici hanno saputo coniugare in modo così raffinato l’introspezione psicologica dei testi e un’austerità d’arrangiamenti degna della musica da camera. Le sue canzoni, infatti, non sono solo confessioni a cuore aperto, testimonianze degli ultimi sussulti della stagione hippie: sono piccole perle musicali, orchestrate con raro gusto e sobrietà. E il suo stesso atteggiamento signorile, in vistoso contrasto con le icone dell’epoca, le ha consentito di ritagliarsi un ruolo del tutto peculiare nell’arena del rock. Joan Baez, l’«usignolo di Woodstock» Detta “L’usignolo di Woodstock” dopo la sua celeberrima esibizione al festival nel 1969, Joan Baez è un’icona del pacifismo e della lotta per i diritti civili, in particolare per l’opposizione alla guerra del Vietnam. Joan Baez (pron: “baie’s”) non è tanto una musicista (benché sia di gran lunga la massima folksinger della sua generazione) quanto un’icona politica. L’estetica musicale è sempre stata in secondo piano rispetto all’impegno Annie Lennox, icona in tutti i sensi Una carriera vissuta intensamente, tra sperimentazioni musicali e ampi consensi da parte di pubblico e critica. Una personalità schiva e riservata, sempre pronta a proteggere la propria vita privata e far parlare di sé soltanto attraverso la musica, frutto di ricerche mai banali ed espressione di una voce calda e potente. Annie Lennox è una delle artiste più influenti al mondo, cavalca l’onda del successo da tre decenni e vive di musica da quando era bambina. Ex componente dei The Tourists, raggiunge la massima popolarità negli anni ‘80 quando insieme a David Allan Stewart fonda gli Eurythmics sfornando il suo più grande successo: “Sweet Dreams”. È una delle protagoniste dell’industria musicale degli ultimi trent’anni: rockeuse androgina negli ‘80, dal fascino punk-romantic, e poi interprete sofisticata il decennio successivo, complici hits che sono rimaste negli annali e cambi d’immagine che ne hanno svelato l’intensa femminilità. Un’icona. Courtney Love, una vita di eccessi Da sempre destinata a far parlare di sé, Courtney Love è tra le artiste più trasgressive del panorama Segue a pagina 8 musica 7 Mercoledì, 28 marzo 2012 POP- ROCK Zaz, la nuova stella internazionale a giugno si esibirà a Zagabria La gioia e la passione per la musica “Q Zaz durante una delle sue numerose esibizioni nelle stradine di Montmartre, suo ambiente naturale QUIZ comporre, a soli diciassette anni, 1. Per la profondità del senti- la famosa ouverture... mento e l’intima musicalità delle a) Romeo e Giulietta sue composizioni, questo comb) Il sogno di una notte di positore venne comparato spes- mezza estate so al grande Giovanni Pierluigi c) Guglielmo Tell da Palestrina (Palestrina, 1525 – Roma, 1594), che visse nella stessa epoca. Chi è l’”Orfeo belga” – come era chiamato dai suoi contemporanei? a) Praetorius b) Claude Goudimel c) Orlando di Lasso La copertina del suo primo disco, intitolato semplicemente “Zaz” Nel 2006, Zaz si trasferisce ancora, questa volta a Parigi. La sua carriera di cantante inizia nel 2001, nella blues band “Fifty Fingers”. Canterà in seguito in gruppi musicali ad Angoulême, soprattutto in un quintetto jazz. In un periodo è una della quattro cantanti di Izar-Adatz (basco per “stella cadente”), una band di varietà composta da sedici persone con le quali girerà in tournée per due anni. Ha lavorato in uno studio a Tolosa come corista e si è esibita con numerosi cantanti di rilievo. Nel corso degli anni ha suonato blues, folk basco, jazz, canzone francese e, con la band di successo “Don Diego”, rock latino. Si è esibita allo stadio Hendaye nel sudovest della Francia, davanti a 10.000 persone come pure nel cuore della Siberia con il reperto- rio di Edith Piaf; ha girato l’Egitto in tour e tenuto un concerto gratis in una miniera di sale in Colombia. Insomma, Zaz non si è fatta mancare nulla e quando nel 2009 ha vinto a sorpresa il concorso Génération Réservoir/Blue incantando la folla dell’Olympia di Parigi, è arrivato subito il contratto discografico. Zaz sforna il suo primo album, intitolato semplicemente “Zaz”, il 10 maggio 2010. Il disco contiene brani d’autore e canzoni che ha composto assieme ad altri autori. Si tratta di un album squisito, pieno di atmosfere un po’ retrò e caratteristico per le influenze più disparate, dal jazz fino alla tradizionale chanson francese, sostenute da influssi pop, quello di qualità. Nella sua interpretazione, la giovane cantante si serve ad arte di tutte le possibilità della sua particolare voce, leggermente roca e “spezzata” – una qualità che la rende particolarmente accattivante - e al contempo estremamente versatile. Il disco viene accolto con critiche positive e ben presto il suo singolo “Je Veux” diviene un tormentone del 2010. Nonostante il grande successo e l’istantanea notorietà, Zaz non si lascia travolgere dalla popolarità e nel 2011 di unisce all’ensemble “Les Enfoirés”, un coro che si esibisce a fini umanitari devolvendo tutti i mezzi ai “Restaurants du Cœur” (i Ristoranti del Cuore, un’organizzazione umanitaria francese che distribuisce cibo e pasti caldi ai bisognosi, nda). In poche parole, dimostra palesemente di cantare per diletto, non per il guadagno. Nel corso di quest’anno, invece, la giovane cantante girerà il mondo in un tour che abbraccerà il Giappone, il Canada, la Germania, la Svizzera, la Macedonia, la Serbia (dove si è esibita già l’anno scorso) e, come già annunciato sopra, la Croazia. (hlb) 2. I due geni musicali dell’epoca barocca, i compositori tedeschi J.S.Bach e G.F.Händel, nacquero in terre assai vicine, ma ebbero percorsi di vita assai differenti. Non venne mai appurato se si incontrarono nel corso della loro vita. Verso il termine della loro esistenza, furono affetti da cecità. Un altro fatto che accomuna questi due grandi è che nacquero nello stesso anno, ovvero nel... a) 1585 b) 1685 c) 1785 7. Il compositore americano Samuel Barber (1910-1981) è autore del famoso Adagio per archi, reso celebre dai film... a) “The Elephant Man” di David Lynch e “Platoon” di Oliver Stone b) “Blow up” di Michelangelo Antonioni e “Topkapi” di Jules Dassin c) “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e “Bar3. Il brano “Ne me quitte barella” di di Roger Vadim pas”, una canzone d’amore che ebbe una fortuna internazionale 8. La “Sagra della primavee venne reinterpretata in ben 21 ra”, il celebre balletto di Igor lingue, tra cui pure in italiano e Stravinski - che alla prima rapcroato, venne scritta nel 1959 dal presentazione nel 1913, dimofamoso “chansonnier” belga... stratasi un completo fiasco, proa) Jacques Brel vocò addirittura una rissa e pareri b) Charles Aznavour contrastanti, anche se in seguito c) Yves Montand venne riconosciuta la sua importanza rivoluzionaria – annovera 4. “Manon Lescaut” è un’ope- una serie di novità, sia per quanra in quattro atti, la cui prima to riguarda l’insolito utilizzo derappresentazione ebbe luogo il gli strumenti, sia per quanto ri1.mo febbraio 1893 al Teatro guarda le tecniche compositive. Regio di Torino, dove ottenne un Il celebre solo iniziale è suonato successo clamoroso. Chi la com- in un registro acuto da... pose? a) un contrabbasso a) Gioacchino Rossini b) un fagotto b) Giuseppe Verdi c) un corno c) Giacomo Puccini 9. Quale compositore scrisse 5. Lucio Dalla, celebre can- la prima opera nazionale croata, tautore italiano scomparso da intitolata “Ljubav i zloba”? poco, fu pure un promettente ata) Ivan de Zajc tore che ottenne una candidatub) Blagoje Bersa ra nella categoria di miglior attoc) Vatroslav Lisinski re (anche se non vinse il premio) alla Mostra di Venezia nel 1967 10. Quale strumento suona, con il film dei fratelli Taviani... nelle ore di riposo e meditazioa) I sovversivi ne, Sherlock Holmes, il più celeb) Sotto il segno dello scor- bre investigatore del crimine di pione tutti i tempi? c) Un uomo da bruciare a) Il violino b) Il clarinetto 6. Il compositore tedesco c) La chitarra Felix Mendelssohn Bartholdy (1809-1847) dimostrò molto presto nella vita un grande talento per la musica che lo portò a Soluzioni: 1. c), 2. b), 3. a), 4. c), 5. a), 6. b), 7. a), 8. b), 9. c), 10. a) uando lavoravo nel cabaret o facevo piano bar guadagnavo bene, ma non ero felice, non avevo stimoli, non imparavo più nulla e avevo perso l’equilibrio interiore. Allora ho deciso di andarmene cercando di affidarmi al mio istinto senza sapere cosa mi sarebbe capitato, dando ascolto solo alla mia anima. I soldi devono restare un mezzo e non un fine, ciò che conta è fare ciò che ti appassiona. Nei miei rapporti umani ho bisogno di autenticità, di guardare la gente negli occhi e sentire che si comunica veramente, senza pregiudizio e paura”. Sono le parole della giovane cantante francese Isabelle Geffroy, chiamata semplicemente Zaz, che nell’ambito di una grande tournée mondiale si esibirà anche a Zagabria, il 3 giugno prossimo. La giovane cantante è venuta alla ribalta nel 2010 con il grande successo internazionale “Je veux” (Io voglio). Il bellissimo singolo, con il quale Zaz esprime il suo totale rifiuto del materialismo, ha attirato l’attenzione di un vasto pubblico, rimasto affascinato dalla magnifica voce della giovane cantante, molto simile a quella della grande Edith Piaf, e dall’autentica gioia di vivere che trapela dalla sua sentita interpretazione. Isabelle Geffroy nasce il 1.mo maggio 1980 a Tours in Francia. Nel 1985, la iscrissero al “Conservatoire à rayonnement régional de Tours” assieme alla sorella e al fratello, che frequenterà fino agli undici anni d’età. Studiò teoria della musica, come pure il violino, il pianoforte, la chitarra e il canto corale. Nel 1994 si trasferisce a Bordeaux, dove nel 1995 frequenta le lezioni di canto e si occupa di sport per un anno, allenandosi in kung fu con un allenatore professionale. Nel 2000 vince una borsa di studio regionale che le permette di iscriversi a una scuola di musica moderna, il “Centro per attività musicali e l’informazione”di Bordeaux. Le sue influenze musicali spaziano dalle “Quattro stagioni” di Vivaldi, ai cantanti jazz come Ella Fitzgerald, e altri interpreti, tra cui Enrico Macias, Bobby McFerrin e Richard Bona, fino ai ritmi africani, latino e cubani. 8 musica Mercoledì, 28 marzo 2012 LE GRANDI VOCI Brillante soprano, attrice, giornalista e critico musicale La bellissima e versatile Margherita Carosio Donizetti, che eseguirà poi anche alla Scala e inciderà per la EMI. Nel 1949, sempre alla Scala, fu protagonista della Bohème pucciniana con la direzione di Victor De Sabata (di cui esiste una ristretta selezione dal vivo) e nel 1954 interpretò la parte principale in Amelia al ballo di Giancarlo Menotti, che registrò poi su disco. Il suo nome è rimasto anche in qualche modo legato a quello di Maria Callas, che nel gennaio 1949, al Teatro la Fenice di Venezia, la sostituì a causa di una indisposizione e che dovette apprendere in cinque giorni la parte di Elvira de I puritani, cantando contemporaneamente la parte di Brunilde ne La Valchiria. Questo episodio viene considerato l’inizio della leggenda della “Divi- na”. Fin dagli anni 30’ iniziò anche una piccola carriera cinematografica, in film musicali o dove la musica era una componente principale. Tra questi Regina della scala (1936) di Camillo Mastrocinque, Angeli sulla terra (1942), dove interpreta la parte del soprano Adelina Patti, L’elisir d’amore (1947) di Mario Costa. Lavorò inoltre come musicista nel film drammatico di Giorgio Walter Chili Ripudiata (1954). Si ritirò dai palcoscenici nel 1959 e nei successivi quarant’anni seguì quel mondo a lei tanto caro come giornalista e critico musicale. Si spense nella sua Genova alla veneranda età di 96 anni. La sua voce ci è stata tramandata in numerose registrazioni realizzate prima e dopo l’avvento del microsolco. Pop-rock è donna! Splendida Traviata M argherita Carosio (Genova, 7 giugno 1908 – Genova, 8 gennaio 2005) è stata una delle protagoniste della lirica italiana tra le due Guerre, con qualità canore (da soprano leggero), interpretative, di fascino personale e musicali tali da porla tra le più poliedriche e interessanti personalità della scena lirica della prima metà del Novecento. Figlia del compositore e maestro di canto Natale, che considerava il suo mentore e che la guidò negli studi musicali e la lanciò nella carriera concertistica, apparve in pubblico alla precoce età di 14 anni, conseguendo due anni più tardi il diploma di magistero con abilitazione all’insegnamento del canto. Nel 1924, all’età di 16 anni, debuttò nell’opera interpretando il ruolo della protagonista nella Lucia di Lammermoor al Teatro Cavour di Novi Ligure. Nel 1928, a 19 anni, grazie anche alla raccomandazione del soprano irlandese Margharet Sheridan, cantò nel ruolo di Musetta ne La bohème e di Feodor nel Boris Godunov alla Royal Opera House di Londra, dove ritornò poi solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Particolare curioso, nel “Boris” cantò, come il resto degli interpreti italiani, nella propria lingua, mentre il coro si espresse in francese e Feodor Šaljapin, naturalmente, in lingua originale. Divenne rapidamente famosa in Italia, esibendosi in tutti i principali teatri in ruoli di soprano di coloratura: Amina ne La sonnambula di Bellini, Norina nel Don Pasquale di Donizetti, Konstanze ne Il ratto dal serraglio di Mozart, Oscar in Un ballo in maschera di Verdi, ruolo con cui esordì al Teatro alla Scala nel 1929, seguito da Philine nella Mignon di Ambroise Thomas. Alla Scala si esibì con successo anche in diversi altri ruoli, ma il suo cavallo di battaglia fu il personaggio di Rosina ne Il barbiere di Siviglia di Rossini. Interpretò inoltre parti più desuete, come Zerlina in Fra Diavolo di Daniel Auber, la regina di Shemakhan in Il gallo d’oro di Nikolaj Rimskij-Korsakov, Volkhova in Sadko, la protagonista in The Nightingale di Igor Stravinskij, Aminta nella prima esecuzione italiana di La donna silenziosa di Richard Strauss, Egloge nel Nerone di Pietro Mascagni. Più avanti nella carriera si cimentò in ruoli lirici più spinti, fra i quali Mimì e Violetta. Nel 1946 ritornò a Londra interpretando appunto Violetta in una tournée del Teatro San Carlo di Napoli, suscitando ammirazione per l’epressività vocale racchiusa in una figura minuta e dai lineamenti delicati. Apparve successivamente nel ruolo di Adina ne L’elisir d’amore di Da pagina 7 rock internazionale. La sua è sempre stata una vita di eccessi, votata a infrangere le regole e alla continua e costante ricerca del successo. C’è da dire, però, che lo stile musicale della Love è autenticamente di nicchia, e ciò ha comunque contribuito a creare la carriera e definire la personalità della rocker: se a Courtney Love non possiamo riconoscere di aver lasciato un brano nella memoria storica della musica, di certo non possiamo non affermare che con gli Hole è pioniera di uno stile rock (il grunge unito al riot grrrl) del tutto innovativo, e di certo non le si può non riconoscere una leadership e una padronanza scenica che negli anni le hanno costruito lo status di artista rock. Kate Bush, talento a... quattro ottave Compositrice, ballerina, coreografa, musicista. Kate Bush è un’artista a 360 gradi. Ma è soprattutto la sua incredibile voce, capace di quattro ottave di estensione, ad aver lasciato un solco profondo nella storia del rock. Ex ragazzina prodigio che stregò David Gilmour. Un simile talento, nel rock al femminile, non si ricordava dai tempi di Janis Joplin. Con il canto straziante della grande blues-singer americana, Kate Bush aveva però poco a che vedere. La sua voce evocava negli anni ‘80 le fiabe gotiche e il folk celtico, il misticismo medievale e gli incantesimi delle streghe, i riti tribali e il pop più etereo. Uno stile che di lì a poco avrebbe contagiato intere generazioni di cantanti. E finiamo con due appartenenti al panorama musicale italiano e croato, Gianna Nannini e Josipa Lisac, imprescindibili signore del pop-rock di casa nostra. Gianna Nannini, sensualità... graffiante Fin dai suoi esordi Gianna Nannini ha preferito il genere pop rock, un genere se vogliamo, non proprio rilassante, ma che lei sa rendere gradevole e sensuale con la sua straordinaria voce dai toni rochi, graffianti, una voce che si estende a sonorità molto alte e levigate, quasi fosse addirittura una seconda voce. Gianna scrive poesie rock e le interpreta magistralmente, non solo con la voce, ma con tutto il suo corpo sfogando la carica interiore che le deriva dalla sua musica grintosa e travolgente. Un personaggio sopra le righe, una donna non proprio bellissima, schiva di ogni eleganza, restia al trucco, ma ricca di carisma e di una profonda interiorità che lei esprime a modo suo e che la tiene sulla breccia da un bel po’ di anni. Kate Bush Josipa Lisac, che grinta! Una delle cantanti più interessanti del panorama musicale dell’ex Jugoslavia, un’artista fuori dall’ordinario, particolarissima. La sua musica si è sempre distinta dalle altre proprio grazie a questo suo modo di essere, lontano da tutti i canoni. Coraggiosa e grintosa, Josipa Lisac non ha mai avuto paura di sorprendere, di combinare stili musicali differenti ed emergere tra gli altri performer. Oltre che con la sua musica, ha saputo (e lo fa tutt’ora) stupirci con il suo look eccentrico, fuori dalle norme. E che dire della sua voce? Unica, magica, irripetibile. Tutto il suo percorso, sia di vita che musicale, è stato segnato da un grande amore, quello con il compositore Karlo Metikoša, morto nel 1991, con il quale ha pubblicato tredici album. Il loro è stato un amore di quelli che succedono una volta sola nella vita e che ancora oggi è fonte di ispirazione di questa artista poliedrica che ha segnato profondamente l’universo musicale. Di Josipa Lisac ce n’è una sola. Gianna Nannini Josipa Lisac Anno VII / n. 57 del 28 marzo 2012 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: MUSICA [email protected] Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Annamaria Picco Collaboratori: Patrizia Chiepolo Mihočić, Ivana Precetti, Helena Labus Bačić Foto: Goran Žiković