Sonorità
(Mornington peninsula,
dicembre 2011.
Foto di Mariano Beltrame).
Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
2
In copertina:
Bozzetti dell’Otello di Verdi
e del Tristano e Isotta di Wagner,
allestiti rispettivamente
da Francesco Micheli
e Paul Curran alla Fenice.
VeneziaMusica e dintorni
Anno x – n. 49 – novembre /dicembre 2012
Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004
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ISSN 1971-8241
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Questo numero è stato realizzato
grazie alla collaborazione di
Giorgio Brunetti, Maria Ida Biggi,
Margherita Gianola, Cristina Palumbo,
Monica Giacchetto, Silvia Carrer,
Stefania Stara, Francesca Gennari,
Emanuela Caldirola, Maria Stefanoni,
Elena Casadoro, Adriana Vianello,
Andrea De Marchi, Livia Sartori,
Barbara Montagner, Silvia Cacco,
Andrea Benesso, Cristina Gatti, Bianca Simone
Stampa: Tipografia Crivellari 1918
Via Trieste 1, Silea (Tv)
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Uscita bimestrale
Editoriale
T
di Leonardo Mello
ra le tante proposte dell’autunno, un particolare risalto assume la riapertura della stagione
lirica della Fenice, riportata, come da tradizione,
a novembre, nonostante i tagli dei contributi pubblici e i generalizzati venti di crisi. Ma al di là di quest’importante anticipazione, il vero fatto rilevante è che si tratta di una «doppia» apertura, con due nuovi allestimenti
firmati dal Teatro cittadino: in prossimità del bicentenario
della nascita di due
colossi dell’opera mondiale come
Richard Wagner e
Giuseppe Verdi, saranno infatti rappresentati il Tristano e Isotta e l’Otello,
che si intrecceranno in serate consecutive per dare agli
spettatori la possibilità di apprezzare, anche attraverso
la direzione unica
di Myung-Whun
Chung, le differenze tra due modalità compositive
straordinarie e allo
stesso tempo estremamente differenti. A questa duplice
iniziativa, che conferma la Fenice come uno dei templi
della musica italiana, dedichiamo un
lungo approfondimento, che vede tra
gli esperti alternarsi Giorgio Pestelli e
Massimo Contiero,
alle prese rispettivamente con l’inventore del Wort-TonDrama e con il Genio di Busseto, preceduti da un inquadramento sul programma complessivo fornitoci dal sovrintendente e dal
direttore artistico.
Ma a parlare saranno anche i registi –
Paul Curran per il Tristan e Francesco Micheli per l’Otello –
in un focus a più voci che ricorda un po’ quello del nostro primo numero, nell’ormai lontano 2004, quando VeneziaMusica e dintorni nasceva in concomitanza con la restituzione
Un’opera da camera della Biennale Musica 2012,
diretta per la prima volta da Ivan Fedele:
Serial Sevens di Francesca Verunelli (foto di Martin Sigmund).
della Fenice alla città.
Sul versante della contemporaneità, l’attenzione si sposta
sul Festival di musica della Biennale, appena conclusosi sotto la direzione di Ivan Fedele, che ha inaugurato il primo dei
suoi quattro anni alla guida della rassegna veneziana. All’analisi puntuale del meglio proposto ai teatri dell’Arsenale
(ma anche alla magnifica e restaurata Sala delle Colonne di
Ca’ Giustinian) si alternano riflessioni sulla stessa Biennale
Musica e sulla sua funzione propulsiva e anticipatoria rispetto al panorama internazionale.
Oltre a tracciare le linee guida di un bimestre affollato e stimolante come quello che si appresta ad arrivare – dall’offerta musicale a quella teatrale, in particolare con i nuovi spettacoli programmati dallo Stabile del
Veneto – in questo
scorcio di 2012, anno complesso e difficile ma anche ricco di spunti interessanti, si sono volute prendere in considerazione poi due
esperienze formative di grandissimo
livello, entrambe
operanti nel settore della prosa: da un
lato si è dato conto
degli esiti del lungo
percorso condotto da Anatolij Vasil’ev alla Giudecca, nell’ambito del
progetto Pedagogia
della scena – promosso dalla Fondazione di Venezia a
partire dal 2010 –,
mentre dall’altro è
stato narrato il cantiere costruito già
dieci anni fa da Luca Ronconi a Santacristina, un centro
di elaborazione teatrale nel profondo
cuore dell’Umbria,
dove ogni estate attori professionisti
di diverse generazioni e provenienze
si incontrano e lavorano fianco a fianco
sotto l’occhio vigile
del Maestro.
Intendendo sempre più mescolare
approfondimento
e analisi critica in un amalgama coerente e – si spera –utile,
torniamo a interessarci anche di modalità espressive limitrofe all’arte dal vivo, come la pittura e il cinema, nella convinzione più volte dichiarata dell’inadeguatezza degli steccati
che storicamente hanno «ingabbiato» le diverse forme in
cui si esprime la creatività al giorno d’oggi.
Buona lettura dunque e buonissime feste a tutti i lettori da
parte della nostra redazione. ◼
3
sommario
4
3
Editoriale
8
Al via la stagione 2012-2013 della Fenice
Una conversazione con Cristiano Chiarot
a cura di Leonardo Mello
9
Una «maratona» tra Verdi e Wagner
Fortunato Ortombina racconta la doppia inaugurazione della Fenice
a cura di Ilaria Pellanda
11 Per una lettura dell’«Otello»
di Massimo Contiero
12 Il Moro di Francesco Micheli
a cura di Vitale Fano
14 Tristan und Isolde
di Giorgio Pestelli
15 Le Giornate Wagneriane 2012
di Leonardo Mello
16 Spunti per un’analisi drammaturgica sul «Tristano»
di Eugenio Bernardi
18 Wagner in Fenice secondo Paul Curran
a cura di Mirko Schipilliti
20 Myung-Whun Chung tra Otello e Tristano
di Enrico Bettinello
21 Impressioni sul Premio Venezia 2012
di Enzo Restagno
22 Somenzi e Romero: quattro mani per Schubert
a cura di Arianna Silvestrini
23 «Aere perennius…» atto ii
La musica da camera della Società Veneziana di Concerti
di Vitale Fano
24 Applausi per il festival organistico «Gaetano Callido»
Un’estate di musica tra San Trovaso, i Carmini e Sant’Elena
a cura di Margherita Gianola
25 Restaurato l’organo della Basilica del Santo
di Alberto Sabatini
contemporanea – la biennale musica 2012
26 A Pierre Boulez il Leone d’oro 2012
di Andrea Oddone Martin
27 Biennale Musica 2012: panoramica di un festival riuscito
di Mario Messinis
28 Vincono ancora i grandi maestri
di Mario Gamba
30 Due nuove opere da camera
di Oreste Bossini
32 A Little Venetian Journal
di Giordano Montecchi
34 Philip Glass alla Fenice per l’unica data italiana
di Guido Michelone
focus on
8-20
La riapertura della Fenice
tra «Otello» e «Tristano»
Interventi tra gli altri di
Giorgio Pestelli,
Eugenio Bernardi
e Massimo Contiero
classica
21
Enzo Restagno sul Premio
Venezia 2012
contemporanea
26-33
Biennale Musica 2012:
ne parlano Mario Messinis,
Mario Gamba,
Oreste Bossini
e Giordano Montecchi
Equilibri contemporanei intorno a Britten
La nuova stagione dell’Orchestra di Padova e del Veneto
di Alberto Castelli
36 Con lola la musica annulla le distanze
di Letizia Michielon
37 L’arsenale 2012: Nuova Musica a Treviso
di Ilaria Pellanda
38 Arriva a Padova la «Teoria dei colori» di Cesare Cremonini
di Tommaso Gastaldi
39 Gli Skunk Anansie e il «fattore Skin»
La band attesissima a Jesolo
di Giuliano Gargano
40 Ian Anderson a Padova per i fan dei Jethro Tull
di Guido Michelone
41 Le mille storie (rock) del Chelsea Hotel
di Tommaso Gastaldi
42 Un Candiani a tutto jazz
di Ilaria Pellanda
43 Omaggio a Giovanna d’Arco: una santa o una strega?
di Roberta Reeder
43 Giovanni Dell’Olivo tra Fenice e Goldoni
di Leonardo Mello
44 Il nuovo autunno in musica del Teatro Fondamenta Nuove
di Enrico Bettinello
45 I tre lorienti
Don Michi, il Concilio di Trento e gli Stelari
di Gualtiero Bertelli
47 L’«Oscura immensità» di Alessandro Gassmann
a cura di Ilaria Pellanda
48 «Pedagogia della scena»
Un triennio con Anatolij Vasil’ev
di Fernando Marchiori
50 Al lavoro con Luca Ronconi
Il Centro Teatrale Santacristina compie dieci anni
di Leonardo Mello
52 Estratti da «Pinocchio»
53 «L’infinito» di Scarpa secondo Arturo Cirillo
a cura di Leonardo Mello
54 Un teatro per attori
Thomas Bernhard secondo Franco Branciaroli
a cura di Ilaria Pellanda
55 Tre Oci Tre Mostre
I progetti fotografici per il Natale 2012
di Denis Curti
5
43
sommario
35 l’altra musica
47
L’«Oscura immensità»
di Alessandro Gassmann
48-51
prosa
Grande pedagogia teatrale
tra Vasil’ev e Ronconi
54
fotografia
6
sommario
arte
56 Al Correr le vedute di Francesco Guardi
di Eva Rico
57 All’Accademia la «Fuga in Egitto» di Tiziano
di Eva Rico
58 Il Museo del Paesaggio nel paesaggio
Una conversazione con il direttore artistico
a cura di Leonardo Mello
59 L’«Utopia del sembiante» di Torre di Mosto
di Stefano Cecchetto
60 «The Tightrope»
Un film di Simon Brook sul teatro del padre Peter
di Gianni De Luigi
61 La Fondazione Benetton per Andrea Zanzotto
di Ilaria Pellanda
62 Con «Bella addormentata» Bellocchio risveglia (anche) l’Italia
di Marina Pellanda
carta canta – libri - dischi
63 Le recensioni
di Giuseppina La Face Bianconi
64 Una monografia dedicata a Wolf-Ferrari
di Leonardo Mello
64 Lo «Sleeper» di Keith Jarrett
di Giovanni Greto
65 In volume il rapporto tra «Antonioni e la musica»
di Ilaria Pellanda
66 Le Fondazioni liriche oggi
di Giorgio Brunetti
67 La critica e il web
All’Olimpico un convegno e la consegna del «Premio Rete Critica»
a cura di Leonardo Mello
68 Luigi Squarzina celebrato alla Cini
Studiosi e artisti ricordano il grande regista
di Marianna Zannoni
70 Alessandro Lanari
Il «Napoleone degli impresari» sbarca in laguna
di Gabriella Minarini
72 Il Salone Europeo della Cultura a Venezia
di Manuela Pivato
73 Il provetto stregone
Mario Bortolotto e le vie della musicologia (4)
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini
74 Amori e insofferenze
Mario Bortolotto e la musica italiana dalla Generazione dell’Ottanta a Petrassi
di Fiamma Nicolodi
cinema
57
62
63
in vetrina
in vetrina – Mario Bortolotto
67
70
il tiziano
mai visto
Stampa: nome tipografia
la fuga in egitto
e la grande pittura veneta
Venezia
Gallerie dell’Accademia
29. viii. > 2. xii. 2012
orario | opening hours
lun | mon 8.15 - 14.00
mar > dom | tue > sun 8.15 - 19.15
info e prenotazioni | info and booking
+39 041 5200345
www.polomuseale.venezia.beniculturali.it
www.gallerieaccademia.org
Soprintendenza per il Patrimonio
storico, artistico e etnoantropologico
e per il Polo museale della città di Venezia
e dei comuni della Gronda lagunare
in collaborazione con
The National Gallery, Londra
Fondazione Ermitage Italia
Città di Venezia
Fondazione Musei Civici di Venezia
Museo Statale Ermitage
prodotta da
Venezia Accademia
Villaggio Globale International
focus on
8
Al via la stagione
2012-2013 della Fenice
Una conversazione
con Cristiano Chiarot
I
a cura di Leonardo Mello
l 16 novembre la Fenice apre la stagione lirica 20122013, ritornando per l’inaugurazione al tradizionale mese di novembre. Ne parliamo con il sovrintendente Cristiano Chiarot.
La decisione di inaugurare la nuova stagione in autunno ha
una serie di motivazioni. La prima è strettamente legata alle
questioni produttive: se si pensa – come noi facciamo – a un
teatro come a un’impresa culturale, con i suoi ovvi risvolti
economici e gestionali, è necessario operare delle precise scelte, che riguardano in primo luogo la scansione degli spettacoli all’interno della stagione. Partire in ritardo ci avrebbe penalizzati rispetto alle altre grandi realtà internazionali, la cui
programmazione inizia tra la fine di ottobre e il mese di novembre. È quello il periodo in cui si concentrano l’attenzione e le attese del pubblico mondiale. Negli ultimi anni, pur
presentando importanti allestimenti a gennaio, veniva meno
la percezione di una vera e propria riapertura, che per i teatri
è un momento fondamentale, una specie di rinascita in cui
con lo spettacolo d’esordio si dà la propria impronta e si imprime la propria specificità. Un secondo motivo è che, grazie
a quest’anticipazione, abbiamo potuto guardare alla seconda
parte dell’anno con maggiore tranquillità,programmando
con notevole anticipo l’opera per il Carnevale, quella per il
periodo pasquale, gli appuntamenti del festival estivo e via
dicendo. Abbiamo cioè immaginato una naturale distribuzione dei titoli a seconda delle esigenze temporali della città,
tenendo presenti i periodi di maggior afflusso in laguna. Novembre, dal punto di vista turistico, è un momento dell’anno in cui i numeri sono più contenuti, e la tipologia di ospiti che giungono dall’estero si sposa perfettamente con la nostra offerta culturale. Infatti abbiamo già fatto il tutto esaurito per l’Otello e il Tristano: con sette recite del primo e cinque del secondo avremo complessivamente dodicimila persone che vengono qui da tutto il mondo appositamente per noi.
Come mai avete scelto di iniziare la stagione con un doppio
appuntamento, intrecciando queste due celebri opere nell’arco
di quindici giorni?
Ogni scelta, oltre che dal suo valore culturale, è sempre condizionata da una serie di altre variabili. Quelle di quest’anno sono Verdi e Wagner: con Fortunato Ortombina abbiamo pensato che nel 2013 tutti si sarebbero rivolti a questi
due mostri sacri, di cui ricorre il bicentenario della nascita.
Allora ci è sembrata una buona idea anticipare le celebrazioni al crepuscolo del 2012. D’altro canto Otello e Tristano sono produzioni molto impegnative che richiedono un grosso investimento. E l’inaugurazione era il momento migliore per metterlo in atto, sapendo che avremmo potuto contare sul tutto esaurito nonostante i prezzi alti. Questo progetto si regge su alcune certezze che possediamo, dalla capacità
di programmare con anticipo a quella di organizzare il pal-
coscenico e l’orchestra. Oltre ovviamente a poter contare su
un grande direttore e due registi amici, Francesco Micheli e
Paul Curran, che stanno lavorando in grande sintonia tra loro e con tutto il Teatro, che condivide e appoggia questo sforzo enorme. Abbiamo optato per Otello e Tristano perché entrambe, in modo diverso, hanno molto a che fare con la nostra città: la storia stessa del Moro rimanda continuamente
a Venezia, e il secondo atto del capolavoro wagneriano è stato composto in laguna. Inoltre Otello, che con il Fastaff raggiunge le vette dell’espressione verdiana, presenta forti punti
di contatto con il lavoro del Genio di Lipsia. Non dal punto
di vista compositivo-musicale, perché Verdi mantiene inalterate la sua fisionomia e la sua personalità, ma invece da quello
drammaturgico. L’influenza della poetica wagneriana si nota
nell’attenzione sempre maggiore alla qualità del testo, composto del resto da un poeta come Arrigo Boito, che prende il
posto di librettisti anche eccelsi come, per citare solo un nome, Francesco Maria Piave.
Tra aumento progressivo delle recite e dei concerti, continue
iniziative e collaborazioni con le istituzioni cittadine, un festival che diventerà sempre più momento centrale dell’estate musicale veneziana, si ha l’impressione che la Fenice sia un teatro
attivo tutto l’anno.
Non è un’impressione, è una realtà, a partire dall’incremento di titoli e rappresentazioni. Grazie alla qualità e alla
disponibilità di tutti coloro che lavorano in Teatro (dall’orchestra al coro alle masse tecniche e amministrative) possiamo portare avanti un nuovo progetto di attività teatrale che
in questo frangente credo sia l’unica via di uscita dalla crisi: cominciando a lavorare su un piano pluriennale, aumentando le recite e gli appuntamenti concertistici, creando un
rapporto duraturo e non occasionale con gli artisti (che ci
consente di abbassare i costi dei cachet) sfatiamo il teorema
secondo cui più si produce più si spende. Noi produciamo
ciò che ci consentono i ricavi della biglietteria. Questo è l’obiettivo che ci siamo dati e che già quest’anno abbiamo raggiunto. Indipendentemente dall’incognita dei finanziamenti pubblici, senza i quali non saremmo in grado di fare nulla, la variabile dei costi artistici la gestiamo con gli incassi al
botteghino.
Quali sono le novità previste sul versante della contemporaneità, che so starle molto a cuore?
Per me l’opera in musica è sempre contemporanea. Le tematiche trattate e ciò che si vede in scena toccano nel profondo
il pubblico d’oggi come quello in cui il melodramma si è sviluppato grazie a sperimentatori come Cavalli, Monteverdi,
Haendel… Si tratta, a livello di allestimento, di rendere questi capolavori contemporanei, non necessariamente attraverso attualizzazioni, cui non credo molto. Partendo da questi
presupposti bisogna essere attenti alla musica del presente, e
in questo senso la Fenice ha voluto avviare una più stretta collaborazione con la Biennale Musica, che dovrebbe dare vita
a un titolo l’anno di nuovo teatro musicale. Da parte nostra
inseriremo comunque un’opera contemporanea all’anno in
stagione, come già è avvenuto nel 2012 con Sinopoli. Inoltre
riserveremo al nostro festival la commissione di alcune prime assolute. Poi c’è l’universo stratificato della danza, altra
grande tradizione della Fenice: alterneremo a un titolo di repertorio inserito nel cartellone la sperimentazione coreografica, riservata anch’essa al festival estivo. ◼
L’inaugurazione
della stagione sinfonica
2012-2013
della Fenice
(foto di Michele Crosera).
Fortunato Ortombina
racconta la doppia inaugurazione
della Fenice
N
a cura di Ilaria Pellanda
el 2013 ricorre il bicentenario della nascita
di Giuseppe Verdi e Richard Wagner, compositori entrambi legati profondamente a Venezia. La
Fondazione Teatro La Fenice celebra l’occasione
con una doppia inaugurazione della propria stagione lirica,
una sorta di «maratona» che avrà inizio il 16 novembre con
l’Otello di Verdi, che passerà quindi il testimone al Tristano
di Wagner il 18 dello stesso mese. Ce ne parla Fortunato Ortombina, direttore artistico del Teatro veneziano.
«Le due opere si alterneranno sullo stesso palcoscenico
con due diverse compagnie di canto e due registi – Francesco
Micheli per Otello (cfr. pp. 12-13) e Paul Curran per Tristan
(cfr. pp. 18-19) –, mentre sarà un unico direttore – MyungWhun Chung (cfr. p. 20), alla guida dell’Orchestra e del Coro della Fenice – a legare in un progetto unitario i due titoli.
Quando si parla di opera, non si parla solo di musica ma anche di umanità, perché le partiture sono state scritte da persone geniali che hanno saputo pensare anche alle generazioni future.
Il progetto della doppia inaugurazione nasce innanzitutto per una ragione di ordine storico, ossia per festeggiare i
duecento anni dalla nascita di Verdi e di Wagner che ricorreranno nel 2013. Non abbiamo voluto scegliere di dare inizio al cartellone con un solo compositore a scapito dell’altro
e si è così deciso di rendere loro omaggio alla stessa maniera
e nel medesimo tempo con due titoli decisamente legati alla
nostra città, basti pensare che i primi due atti del Tristano sono stati composti proprio in laguna, e che Otello comanda
la flotta veneziana.
A una prima riflessione di ordine puramente storico s’è affiancato il desiderio di capitalizzare le
nostre recenti conquiste riguardo a
quel modello organizzativo che accosta fra loro opere diverse in tempi
ravvicinati. Penso al 2010, quando,
proprio con Myung-Whun
Chung sul podio, abbiamo realizzato a giorni alterni la Traviata di Robert Carsen – che Chung
aveva già diretto
l’anno precedente – seguita da
una nuova produzione di Rigoletto secondo
Daniele Abbado (cfr. vmed
n. 36, pp. 26Giuseppe
Verdi.
27 e n. 37, pp. 16-17). In casi del genere è necessario poter
contare, come accennavo qualche battuta fa, su due compagnie di canto, due registi e un unico direttore d’orchestra al
quale affidare il buon funzionamento dello spettacolo sia dal
punto di vista musicale che drammaturgico. Tale meccanismo si è affinato negli anni e approderà nel mese di novembre
alla doppia inaugurazione Otello/Tristan. E poiché le ragioni dell’arte non sono mai disgiunte da quelle della vita pratica, sono state proprio le ragioni musicali a guidarci nell’organizzazione di questa nuova duplice messinscena, con tutte le difficoltà che un teatro che opera a Venezia può presentare. Se, ad esempio, alla Scala di Milano è possibile raggiungere la porta d’ingresso dei tecnici con un tir dal quale scaricare le scene direttamente sul palco, a Venezia i problemi di
trasporto sono notevoli: non da ultima la questione dell’acqua alta, che, quando cresce troppo, non permette alle barche di transitare sotto i ponti. Inoltre l’unico spazio per il ricovero delle scene su cui si può contare in laguna è quello
all’interno delle mura del teatro, che è uno spazio limitato
rispetto a quello degli edifici che intorno non hanno l’acqua
e che possono lasciare parcheggiati i camion con il materiale
in eccesso. Si è quindi trattato di vigilare con occhio artistico su un’organizzazione ingegneristica che è andata a toccare non solo gli aspetti musicali e umani ma anche quelli di disciplina del lavoro e di gestione dello spazio. I due allestimenti, fra loro di segno completamente diverso, sono stati dunque pensati al millimetro per il palcoscenico della Fenice, e
sono anche stati realizzati in maniera da poter essere sostituiti l’uno all’altro – ad esempio durante le prove – in un breve
lasso di tempo. Tengo molto a questo tipo di modello organizzativo basato sull’alternanza ravvicinata di titoli diversi.
Qualcuno dice che si tratta di un disegno unicamente volto
al “fare cassetta”. Ebbene, non è così. L’incasso è sempre relativo rispetto al costo complessivo della messinscena e se vogliamo proprio parlare di “cassetta”, quella che mi interessa
realmente è data dall’affezione del pubblico. Lavorando sulla qualità e la frequenza dello spettacolo, la gente viene in Fenice sempre più numerosa, e ciò che maggiormente mi commuove è vedere persone tornare e ritornare a vedere la stessa opera, per la seconda e la terza
volta, perché la cultura non è che dedizione e approfondimento».
Che tipo di regie hanno realizzato Micheli e Curran?
Si tratta di due allestimenti
molto diversi fra loro. In nessuno dei due casi è possibile
ravvisare un realismo tangibile ed entrambe le regie sono
pervase da una sorta di visionarietà. Nel caso di Otello
viene messa in scena la rappresentazione dello zodiaco, di tutta quella mappa
stellare nota in quell’epoca. Ci saranno inoltre degli spazi
in cui saranno riconoscibili le stanze di Otello, di Desdemona, di Jago. Il Tristan è tutto giocato attorno
all’immagine di una nave, che all’inizio è ben visibile e nel corso dell’opera continua a essere richiamata alla memoria grazie a elementi che
ruotano e si muovono. ◼
Richard
Wagner.
focus on
Una «maratona»
tra Verdi e Wagner
9
T
di Massimo Contiero
iziano, Picasso, Stravinsky, tre artisti vissuti a lungo, passati per diverse fasi creative. Anche
il longevo Verdi, morto ottantottenne nel 1901,
non fa eccezione. Al suo stile più tardo appartengono Otello e Falstaff, atti terminali di carriera, caratterizzati da una capacità di innovazione stupefacente, approdo ad
un linguaggio che segna una totale discontinuità con i lavori del passato. Entrambi i titoli prendono le mosse da Shakespeare, assurto a modello del teatro romantico attraverso Hugo. Verdi, già nel 1847, si era volto a Macbeth. Era forse
troppo presto, se sentì l’esigenza di rivederlo nel 1865. Aveva
a lungo pensato anche ad un Re Lear, abbandonato poi per
Rigoletto. Allora lavorava con Piave, abile riduttore di vicende, ma versificatore bersagliato dalla critica. L’editore Ricordi, per nulla rassegnato all’ozio post-Aida del Maestro, lo convinse che un poeta-musicista come Arrigo Boito, che, alla maniera di Wagner,
si confezionava i libretti, avrebbe fornito una qualità letteraria più consona al
grande Bardo. Si trattava di far incontrare all’anziano compositore un ex «scapigliato» che nei furori giovanilistici aveva auspicato in un’ode che l’arte italiana,
ridotta, secondo lui, a lupanare, fosse liberata «dal vecchio e dal cretino». Verdi aveva letto quelle parole come rivolte
a se stesso, cioè al baluardo della tradizione italiana, imperniata sul canto, ritenuto ostacolo ad un’apertura alle novità che
arrivavano soprattutto dalla rivoluzione
wagneriana, al diverso ruolo guadagnato
dall’orchestra, alla fine della struttura «a
numeri chiusi» ecc. La riappacificazione
avvenne dapprima collaborando alle modifiche approntate per la revisione di Simon Boccanegra. Non mancarono tensioni ma alla fine nacque un’amicizia. Il
primo atto dell’Otello shakespeariano,
che si svolge a Venezia, fu omesso, sacrificato a quell’ansia di stringatezza che fu
sempre un obiettivo verdiano. Boito mise
a punto una tela efficace, indulgendo negli endecasillabi e settenari a ricercatezze
lessicali predannunziane. Molti passi della tragedia di Shakespeare furono seguiti con diligenza. Verdi voleva intitolare
l’opera «Jago», tanto il personaggio era per lui drammaturgicamente determinante. È indubbio che su esso Boito abbia
lavorato con sagacia, fermandosi un passo prima dal renderlo truce all’eccesso. Ne rivela l’animo malvagio in quella devozione a rovescio che è «Credo in un dio crudel», la demoniaca capacità di insinuare il dubbio in Otello in «Era la notte, Cassio dormia».
L’attesa spasmodica del mondo musicale internazionale ebbe termine con la prima del 5 febbraio 1887, dall’esito estremamente lusinghiero. Verdi propose grandi novità di scrittura. L’orchestra esercitava una funzione unificante, rielaborando idee esposte dalle voci, in maniera non dissimile da
quella di Wagner. Il grande duetto soprano-tenore che chiuIago e Otello, figurini di Alfredo Edel (Milano, 1898).
de il primo atto, che si dipanava tra i versi «Già nella notte densa» e «Vien… Venere splende», aveva una lunghezza, permeata di sensualità, del tutto nuova per Verdi. Inevitabile fu il confronto con i lunghi colloqui d’amore tra Tristan ed Isolde, Siegmund e Siegliende, Siegfrid e Brünhilde.
Un ulteriore affinamento della qualità della strumentazione,
già magnifica in Don Carlos, Aida, Requiem, dimostrò una
volta per tutte che su questo versante Verdi non poteva essere tacciato di trascuratezza. Ma, anche qui, l’uso prolungato del corno inglese, prima della Canzone del salice di Desdemona, rinviò all’inizio del terzo atto di Tristano, alla lunga
melopea di quello strumento nelle mani di un pastore che
passa davanti al protagonista languente, vegliato da Kurwenal. Furono anche queste considerazioni che a lungo andare connotarono il ruolo vocale del protagonista alla stregua
dell’heldentenor wagneriano. La spavalda entrata in scena
con «Esultate! L’orgoglio musulmano sepolto è in mar»,
che richiede a freddo lo squillo protervo del sol diesis sulla terza sillaba di «Esultate!», avvallò questa convinzione.
Fu il piemontese Francesco Tamagno a rivestire il ruolo del
titolo, all’esordio. Seguì una quasi totale identificazione tra
l’interprete e il personaggio come, per molti versi, avvenne in
seguito con Mario Del Monaco. Quest’ultimo era indubbiamente un tenore lirico drammatico. La disponibilità di incisioni della voce di Tamagno, morto nel 1905, ci fanno invece intendere (pur con tutti i limiti della riproduzione) un
grana ben diversa, più affine alla linea belcantista. I suoi ruoli
di successo erano in opere come Poliuto, Ugonotti, Guglielmo
Tell e fu il primo Gabriele Adorno nella revisione di Boccanegra, prova decisiva per la scelta di Verdi. Ecco dunque che la
presenza, per l’edizione della Fenice che inaugura la stagione
2012-2013, del tenore Gregory Kunde, una carriera come interprete di Rossini, va nella direzione di un ripristino filologico, che non mancherà di far reagire gli affezionati alla tradizione, i quali si riconosceranno maggiormente nella scelta
di Walter Fraccaro, che canta nel secondo cast. ◼
focus on
Per una lettura
dell’«Otello»
11
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12
Il Moro
di Francesco Micheli
chi e la costumista Silvia Aymonino, con i quali ho lavorato
a strettissimo gomito, abbiamo voluto realizzare uno spettacolo «aperto», con elementi scenici ben riconoscibili e una
serie di novità che potranno essere scoperte durante lo svolgimento della rappresentazione.
a cura di Vitale Fano
Otello è la penultima opera di Verdi ed è del 1887, l’ultimo scorcio di secolo. La senti in qualche modo vicina al nostro
n occasione della doppia inaugurazione della stagiotempo?
ne lirica della Fenice, sarà Francesco Micheli ad allestiLa interpreto come uno scontro titanico fra Otto e Novere le scene per l’Otello di Verdi.
cento. Un eroe ottocentesco come Otello viene contaminaBergamasco, di formazione letteraria, spirito sperito dalle insicurezze di un uomo come Jago – che nella mia vimentale e innovativo, Micheli è oramai di casa al Teatro vesione appartiene al Novecento – e di conseguenza diventa un
neziano, dove, nei due anni scorsi, ha curato la regia del Kilessere umano esitante, come tutti noi siamo. Con quest’oler di parole di Claudio Ambrosini
pera Verdi va verso il nuovo seco(cfr. vmed n. 37, pp. 8-17) e quella
lo, ed è stupefacente la sua capacità
della Bohème di Giacomo Puccini
di gettare uno sguardo verso il fuVenezia – Teatro La Fenice
(cfr. vmed n. 38, p. 15). Abbiamo
turo. Ho cercato quindi di realizza16, 20, 27, 29, 30 novembre, ore 19.00
incontrato il regista sul finire del
re uno spettacolo che assomiglias22 novembre, ore 17.00
mese di ottobre per chiedergli, fra
se il più possibile all’atto di apertu24 novembre, ore 15.30
le altre cose, con quale spirito stia
ra di un testamento: pochi elemen13 novembre, ore 15.30 (prova generale)
affrontando l’occasione di inauguti, estremamente significativi e al liOtello
rare l’anno verdiano.
mite dell’oggettivo, tutti immersi
dramma lirico in quattro atti
libretto di Arrigo Boito
«Innanzitutto con un sentimenin una narrazione che, senza essedalla tragedia Othello di William Shakespeare
to di infinita gratitudine nei conre psicanalitica, mettesse in scena la
musica di Giuseppe Verdi
fronti della Fenice, che mi ha offermente dell’uomo.
e direttore Myung-Whun Chung
to la possibilità di essere il narrato- maestro concertatore
Come viene resa quella del Moro?
regia Francesco Micheli
re di questo Otello del terzo millenOtello è un uomo di mare; vive su
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
nio, e in secondo luogo con la conun’isoletta
che è una sorta di panfinuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
sapevolezza d’essere il depositario
lo instabile; è un condottiero privo
I
di una notevole responsabilità: quella di traghettare il capolavoro verdiano al destinatario ideale di oggi, cioè a quel
pubblico che, attratto dalle celebrazioni del bicentenario,
ancora non conosce a fondo l’opera di questo straordinario
compositore».
Il tuo Otello guarda alla tradizione?
Paradossalmente, pur non essendo un regista cosiddetto
«tradizionale», in questo caso ho sentito il bisogno di tornare alle origini per cercare di comprendere quali fossero le
«premure» che muovevano Verdi e Boito. Ho consultato diversi materiali, comprese le indicazioni sceniche pubblicate
da Ricordi, che mi hanno consentito di ricostruire gran parte della situazione originaria e di restituire la dimensione colossale di questi personaggi. Con lo scenografo Edoardo San-
di certezze, tanto che gli unici punti fermi per lui, come per
qualsiasi uomo abituato a stare fra le onde, sono le stelle. Per
questo la scatola scenica va a riempirsi di tutto quanto si può
trovare sul tavolo di lavoro di un capitano, ovvero della somma di mappe stellari, che restituiscono anche l’alone sulfureo e demoniaco – molto contemporaneo – che avviluppa Jago, che rappresenta l’animalità.
Come possono le mappe stellari restituire l’animalità?
Facendo riferimento al bestiario che anima le costellazioni dello zodiaco abbiamo cercato di dare spazio a questo tipo di immagini, che si stagliano in una sorta di luogo/nonluogo infinito, ossia quell’universo nel quale si dibatte la lotBozzetti per Otello secondo Francesco Micheli.
dall’altro quella che fa riferimento alla sfera della preghiera.
Determinante è anche l’incontro-scontro tra culture: non
so quanto Verdi fosse consapevole del fatto che raccontare,
nell’Italia del nord, la storia di un extracomunitario (Jago
definisce Otello un «selvaggio dalle gonfie labbra») sarebbe stato gravido di conseguenze nei tempi a venire. Certo è
che da Shakespeare a Verdi, per giungere fino a noi, si manifesta chiaramente la problematicità di un confronto culturale difficile ma possibile, e l’amore fra Desdemona e Otello
racconta che queste asperità si possono superare. Desdemona è una donna rinnegata dal padre, esule dalla propria città, che va in un mondo lontano dal suo e adotta gli usi e i costumi del proprio sposo convertitosi al cristianesimo. Alcuni momenti, poi, si configurano come perfetti luoghi di sincretismo culturale, basti pensare alla scena corale del secondo
atto, in cui gli abitanti ciprioti portano omaggi a Desdemona e dove a un testo di chiara ispirazione mariana si affianca
un accompagnamento di chitarre e mandolini che rievoca le
sonorità tipiche del mondo orientale.
La crudeltà di Jago è un elemento che emerge nella tua
messinscena?
Devo dire che di Jago, che è davvero un uomo orrendo, non
mi interessa tanto la cattiveria: le categorie di bene e di male,
che nel melodramma romantico sono estremamente significative, decadono a favore di una complessità di cui l’opera è
un meraviglioso affresco.
Nell’allestimento veneziano del Killer di parole di Ambrosini e in quello di Gesualdo Considered as a Murderer di Luca
Francesconi, che hai messo in scena al Festival MiTo nel 2008,
atrale di confine, come un qualcosa di legale ma al limite della trasgressione, con uomini e donne che si riuniscono intorno al fuoco nella taverna di un porto. Da questo momento festoso si scivolerà, passo dopo passo, verso il disastro. Se avessimo riportato in maniera fedele il libretto, il rischio sarebbe stato quello di rendere una scena di giovani in riva al mare
che fanno una schitarrata; nel nostro allestimento il tutto si
trasforma in una serata abusiva dei soldati, che invece di andare a dormire si trovano per bere un goccetto in compagnia.
Su quali altri elementi avete lavorato?
Sulla religione e sulla spiritualità intese come terreni di incontro e di scontro. È interessante notare che le due aree semantiche da cui provengono i vocaboli che maggiormente
ricorrono nell’opera siano da un lato quella astronomica e
c’è una figura geometrica ricorrente: il cubo. È presente anche
in questo Otello?
Sì, ed è curioso che pur lavorando con scenografi diversi
(Nicolas Bovey, Matteo Martini, Edoardo Sanchi) si sia arrivati più volte a questa figura. La ragione affonda le radici nella filosofia di Leibniz, secondo il quale l’atomo, la monade e
quindi la mente umana sono palazzi senza porte e senza finestre. Per questo l’immagine di un cubo, ermetico, all’interno del quale il pubblico può sbirciare attraverso una delle sei facce – che corrisponde alla quarta parete teatrale – è il
luogo ideale per rappresentare la mente. In questa bolla marittima e celeste di costellazioni che è la scatola scenica, si annida un epicentro, ossia il palazzo, la stanza di Otello, in stile prettamente arabo. ◼
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ta tra Otello e Jago.
Come vengono raffigurati l’odio e la gelosia, sentimenti chiave dell’opera?
Nel quadro di uno scontro fra rapporti di potere, che, seguendo Shakespeare, è ciò che regola tutti i rapporti umani. Otello uccide Desdemona anche perché, banalmente, è
un maschio che può sopraffare una donna, e i continui casi di uxoricidio dei nostri giorni rendono il tema orribilmente attuale. D’altra parte anche l’odio di Jago è alimentato
dalla scelta del Moro di nominare Cassio, anziché lui, suo
capitano.
Hanno un ruolo anche le gerarchie militari?
Cipro è di fatto un presidio militare, e poiché mi sembrava
utile che il contenitore relazionale fosse unico, ho voluto ambientare la vicenda in una caserma della Regia Marina militare italiana, ispirandomi in questo a una circostanza storica e familiare: mio zio fu il capitano della nave che, dopo l’8
settembre 1943, portò in salvo Vittorio Emanuele iii e Pietro Badoglio. Quanto all’onta di aver salvato il re traditore,
sosteneva che la Regia Marina, che prestava giuramento al sovrano, era di fatto un’arma fedele alla corona. E questo sentimento di fedeltà (o infedeltà) del sottoposto al capo, come
dello sposo alla sposa, è in fondo il tema nodale dell’Otello.
Il coro del primo atto è composto anche da donne. Come le hai
fatte… entrare in una caserma?
Forzando un po’ la mano, all’inizio dell’opera le donne diventano uomini, così tutto torna e si riesce a restituire una
comunità coesa. Verdi teneva molto al fatto che il «fuoco di
gioia» del primo atto emergesse come un luogo musicale e te-
13
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14
Tristan
und Isolde
N
di Giorgio Pestelli
el giugno del 1857, giunto quasi alla fine del
secondo atto del Sigfrido, Wagner decide d’interrompere la composizione dell’Anello del Nibelungo, in quegli anni manifestamente irrapresentabile, e pensa di dedicarsi alla creazione di un’opera più semplice e lineare, concentrata su pochi personaggi, senza troppi ingombri spettacolari; un’opera, questa
l’intenzione, pressochè popolare nella sua assolutezza lirica, e quindi di più agevole circolazione sui palcoscenici.
Che quest’opera «più semplice» sia poi divenuta il Tristano, che ad essa siano seguiti I maestri cantori di Norimberga, che l’interruzione si sia prolungata per dodici anni,
fino al 1869, ci persuade a vedere le cose anche da un’altra
prospettiva: quella di una idea del Tristano già nata in anni precedenti, tenuta per un po’ in serbo negli strati sotterranei della coscienza, fino a quando divampa come ispirazione dominante costringendo il compositore a interrompere il ciclo nibelungico per darle lo sfogo necessario
e indilazionabile.
La composizione infatti fu rapinosa, con alcune parti create, come ricorderà Wagner, in vero stato di transe. A differenza del suo abituale metodo di lavoro (stesura preliminare di tutto il dramma in prosa, versificazione,
composizione musicale) Wagner compose il Tristano atto per atto in tre continui getti creativi: il primo a Zurigo
dal giugno 1857 all’estate 1858, il secondo a Venezia, dove si era segregato dal mondo, dall’autunno 1858 al marzo 1859, il terzo a Lucerna dal marzo all’agosto 1859. Alla
«prima» si arrivò invece faticosamente: progetti di allestimenti a Karlsruhe e a Vienna (dove nel 1862 erano cominciate le prove) restarono senza esito per difficoltà economiche e per il diffuso parere che si trattasse di musica
ineseguibile; la situazione si sblocca quando entra in scena il re di Baviera Luigi ii, il grande protettore di Wagner;
si arriva così, dopo ulteriori rinvii e patemi e ostilità, alla prima del 10 giugno 1865 (repliche il 13 e il 19 giugno)
al Teatro di corte di Monaco sotto la direzione di Hans
von Bülow, primi interpreti i coniugi Ludwig e Malvina Schnorr von Carolsfeld. La prima esecuzione italiana avviene a Bologna il 2 giugno 1888, direttore Giuseppe Martucci, nella traduzione italiana di Arrigo Boito; la
prima francese il 28 ottobre 1899, a Parigi, sotto la direzione di Charles Lamoureux.
Pur essendo senza dubbio la realizzazione stilisticamente più unitaria e compiuta di tutto il teatro musicale wagneriano, il Tristano e Isotta presenta tre atti con ritmo
sentimentale, caratteri e colori molto particolari e proprii a
ciascuno di essi. L’atto primo è per metà agito e per metà raccontato; stupefacente è la sottigliezza con cui i due toni, il
racconto lontano e l’azione presente, sono mescolati per ottenere la massima efficacia teatrale. Il secondo atto al contrario è puro presente, attualità pura; unica la scena, notte e
giardino, che sembra delimitare uno spazio, un tempio, con
Brangania custode e Tristano e Isotta protagonisti di un rito. Il momento culminante della celebrazione, il famoso «O
sink hernieder, Nacht der Liebe» («O scendi notte d’amore») insedia nella musica quella misteriosa gravità che è la
vera atmosfera dell’amore e dei suoi riti, dove la qualità lirica del canto, la sua espansività «italiana», celebra il suo volo
più sciolto; e al proposito non si può non rammentare quanto
il giovane Strauss al suo primo viaggio in Italia, dopo aver as-
sistito al Tristano in italiano diretto da Martucci nel giugno
1888, scrive allo zio Carl Hörburger: «…Mai così chiaramente come in questa esecuzione a Bologna m’ero reso conto di quanto splendido belcanto si celi nel Tristan. Sarà dipeso dalla lingua, oppure dal magnifico legato e dal canto d’alta scuola che sa far intendere anche la minima parola del testo: fatto sta che qui l’intero Tristan mi è parso la più superba opera belcantistica che esista».
Anche il terzo atto ha il suo tono peculiare, quello di una
grande elegia solcata da visioni e deliri; ma a renderlo inconfondibile concorrono due elementi naturali e musicali insieme che assumono quasi l’importanza di persone prime: il
mare, con la sua vuota distesa, il suo luminoso tedio, e la canzone del pastore, simbolo dell’erranza e della solitudine che
la dolcezza bucolica può solo rendere più acerba. Quando
Isotta è finalmente approdata alla terra desolata, Tristano
è già dall’altra parte dell’esistenza, dove si eclissa con somma delicatezza, salvo pronunciare ancora una volta il nome
«Isolde», lasciando però la parola sospesa e incompiuta. Arrivano altri personaggi, si consumano altre morti secondarie
che scaricano la tensione; ma alla fine Isotta resta sola, come
solo era Tristano, e si appresta a celebrare quel «naufragare
insieme» che solo si può compiere nell’immensità indistinta della Notte e del Nulla. ◼
P
di Leonardo Mello
untuali come sempre, ritornano le Giornate Wagneriane, organizzate in autunno – e in concomitanza con la doppia apertura della stagione lirica della Fenice – dall’Associazione Richard Wagner Venezia, che quest’anno compie vent’anni di attività.
L’istituzione nacque infatti nel 1992 per iniziativa di Giu-
seppe Pugliese, il famoso critico musicale che ne fu il presidente per moltissimi anni, e al quale quest’edizione è dedicata. Il programma al solito si preannuncia assai interessante
e articolato tra momenti concertistici, approfondimenti ed
esposizioni. Sul primo versante, apre la manifestazione Gabor Farkas, giovane e già affermato pianista ungherese (Premio Liszt a Weimar nel 2010 e a Budapest nel 2011) e borsista a Bayreuth per l’Associazione veneziana nel 2012: a Palazzo Pisani, sede del Conservatorio «Benedetto Marcello», il 3 novembre proporrà un repertorio lisztiano intitolato Sulle orme di Richard Wagner. Il 25 novembre sarà poi la
volta del Trio Richard Wagner – composto da Roberto Baldini, violino, Alessandro Zanardi, violoncello e André Gallo, pianoforte (e borsista anch’egli nel 2008) – che al Palazzo Albrizzi presenteranno musiche wagneriane nell’adattamento di Alfred Pringsheim, musicista e matematico che nel
primo Novecento ha trasposto per complessi da camera molti brani del Maestro di Lipsia. Seguirà, sempre a Palazzo Albrizzi, l’inaugurazione della mostra «Tristan und Isolde: 12
tavole di Franz Stassen» (aperta fino al 31 dicembre): «L’esposizione – ci dice l’attuale presidente dell’arwv, Alessandra Althoff Pugliese – è curata da Paolo Bolpagni, che è stato nostro borsista nel 2009 e nel 2010 è divenuto il direttoSopra: Palazzo Vendramin Calergi,
sede dell’Associazione Richard Wagner Venezia.
A destra: Richard Wagner.
re del nuovo Museo diocesano «Paolo Sesto» a Brescia. Paolo è anche il curatore della mostra “Fortuny e Wagner”, che
verrà allestita,con la nostra collaborazione, appunto a Palazzo Fortuny dall’8 dicembre all’8 aprile, di cui le menzionate
opere di Stassen sono una sorta di “estensione”».
Momento centrale delle Giornate sarà il consueto Symposium, previsto per il 24 novembre: «La giornata di studi
(dalle 9.30 alle 12.30) – continua la signora Pugliese – si intitola quest’anno “Amore… Tragicità”, che sono le ultime due
parole scritte da Wagner in uno studio dedicato all’eterno
femminino. Tre le relazioni che si alterneranno nell’intensa
mattinata al Salone delle Feste di Palazzo Vendramin Calergi, sede dell’arwv: introdurrà Oswald Georg Bauer (Segretario Generale Emeritus dell’Accademia di
Belle Arti di Monaco
di Baviera) con un discorso su “Wagner e
Verdi – Due vite non
parallele”. L’elemento
femminile in Verdi e
Wagner sarà poi il tema trattato rispettivamente da Antonio Rostagno (docente all’Università di Roma 1 e
collaboratore dell’Istituto Studi Verdiani di Parma) e Ulrike
Kienzle (Goethe-Universität di Frankfurtam-Main). Alla conclusione del Symposium verranno inaugurate le due nuove stanze donate dal Casinò
alla nostra Associazione, che così potrà allargarsi nella straordinaria cornice di Palazzo Vendramin
Calergi».
In chiusura si citano i molti enti che collaborano con l’
arwv nella realizzazione
di questi importanti appuntamenti, a cominciare dalla Fondazione Teatro la Fenice: il Centro
Europeo di Studi e Ricerche Richard Wagner,
il Conservatorio «Benedetto Marcello», l’Associazione Culturale ItaloTedesca, il Centro Tedesco di Studi Veneziani,
l’Università Ca Foscari e
il Forschungsinstitut fuer
Musiktheater Bayreuth. ◼
focus on
Le Giornate
Wagneriane 2012
15
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16
Spunti per un’analisi
drammaturgica
sul «Tristano»
di Eugenio Bernardi
N
el comporre di persona i testi per le sue
opere Richard Wagner attinge ai più famosi poemi del Medioevo tedesco, operando però drastiche modifiche alle figure e alle vicende. Lo fa
evidentemente per drammatizzare testi epici, ma vantando nello stesso tempo una sapienza e una coscienza del proprio lavoro sconosciute agli autori medievali. In una lettera a
Mathilde Wesendonck, datata Lucerna 30 maggio 1859, ne
parla esplicitamente riferendosi a Wolfram von Eschenbach,
l’autore del poema su Parsifal, di cui si apprestava a scrivere
la propria versione. Lamentandosi delle difficoltà che il pro-
1.
2.
getto presentava fin dall’inizio, Wagner si burla dell’ingenuità del poeta medievale: «Io queste cose le prendo molto più sul serio. Guardi con quanta facilità se l’è cavata Maestro Wolfram! Che del contenuto vero e proprio non abbia capito assolutamente nulla, non ha importanza. Egli infila un evento dopo l’altro, un’avventura dopo l’altra, descrive curiosi e stravaganti episodi connessi al motivo del Graal,
brancola e lascia senza risposta chi prende la storia sul serio
e gli chiede cosa mai abbia voluto dire. […] Wolfram è una
figura assolutamente immatura, anche se di questo ha gran
colpa il secolo barbarico in cui viveva, un secolo totalmente confuso, in bilico tra il cristianesimo del passato e il sorgere di nuovi stati. In quei tempi nulla poteva essere portato a termine e la profondità del poeta si perde subito in fantasticherie senza senso. Bisogna aver infuso nuova e profonda vita a un argomento del genere (..) e dare poi un’occhiata
a quello che ne ha fatto un poeta come Wolfram per essere
bruscamente respinti dalla incapacità del poeta […] Già con
Gottfried von Strassburg mi trovai nella stessa situazione riguardo al Tristano».
Affermazioni evidentemente inaccettabili dal punto di vista storico-letterario, ma da considerare sia alla luce di quella «opera d’arte dell’avvenire» che Wagner aveva teorizzato negli scritti dei primi anni di esilio a Zurigo, sia come polemica contro l’uso che dei temi convenzionali del Medievo
faceva l’arte del suo tempo.
Ma cosa sa il poeta moderno di più di quello antico? Da
dove gli viene questa sua presunta maturità? E come la
dimostra?
Per il suo Tristan und Isolde Wagner ha fin dall’inizio una
trovata geniale ed estremamente indicativa. Delle due figure
dello stesso nome presenti nel testo medievale ne fa una sola. Lì la bella Isolde che Tristan viene a chiedere in sposa per
re Marke, suo zio, è figlia di quella Isolde che ha guarito un
eroe sconosciuto di nome Tantris. Quando si scoprirà che
Tristan altri non è che Tantris e che Morold, fratello di Isolde (madre) è stato ucciso da lui, Isolde (figlia) pensa di vendicare la morte dello zio Morold, ma ne è dissuasa dalla madre. Isolde (figlia) parte con Tristan alla volta della Cornovaglia e di re Marke, ma per errore i due bevono durante il tragitto il filtro d’amore preparato da Isolde (madre) e destinato al re. Da questo momento in poi il poema diventa un lungo intrecciarsi di episodi che mettono in risalto la forza e la
fatalità dell’amore dei due giovani, vittoriosi di ogni avversità e di ogni prova.
Wagner fa coincidere le due Isolde di Gottfried. Ora Isolde è colei che ha guarito Tristan dalla ferita infertagli da Morold, re dell’Irlanda e
nello stesso tempo è la
sposa che Tristan è venuto a chiedere per re
Marke. Morold non è
più lo zio, ma il fidanzato di Isolde, la quale dunque si sente ben
più offesa dell’Isolde del poema medievale e vuole vendetta.
Nella vicenda l’intervento più importante di Wagner rispetto al poema medievale riguarda, come si sa,
3.
il filtro. Nello scrigno
, insieme al filtro d’amore destinato al vecchio re Marke, Isolde stessa (non meno maga di sua madre) ha messo un filtro di morte, ma grazie all’intervento dell’ancella Brangäne, Isolde e Tristan berranno il filtro d’amore e ne saranno congiunti per sempre.
Costretta la materia medievale in questi termini e per di
più affidata ad una rappresentazione drammatica (che chiede
concisione e tempi stretti), è chiaro che ben poco spazio resta agli altri personaggi del poema di Gottfried: solo re Marke è una figura di grande dignità e presenza. Brangäne ha ben
poco della grazia della sua omonima medievale e per quanto riguarda il suo gesto fatale (lo scambio dei filtri) sia Isolde che Tristan finiranno per attribuirlo a Minne, dea dell’amore. Brangäne è fedele, come chi non ha visto l’altra faccia del mondo, così come a Tristan è fedele, senza capire,
Kurwenal. Della scontrosità di Tristan rispetto agli ordini
della regina prigioniera, lo scudiero dà, all’inizio del primo
atto, una spiegazione basata sul «tributo» e sulla «proprietà» totalmente diversa da quella che poi Tristan darà a Isolde, così come di fronte all’angoscia delirante di Tristan ferito a Karneol, egli saprà soltanto trarre il più convenzionale degli insegnamenti sulla follia dell’amore e le sue funeste
conseguenze.
1. Gottfried von Strassburg; 2. Wolfram von Eschenbach;
3. La separazione di Tristano e della bella Isotta,
Louis Rhead (1858–1926).
leno. Dopo il delirio d’amore, scontrandosi con un mondo
per pochi momenti dimenticato («Chi si avvicina?... Quale mai re?»)mentre Isolde grida la propria angoscia e sviene,
Tristan sa ormai che verità e inganno si intrecciano e si confondono («Tremenda volontà, piena di frode! / O gioia, consacrata dall’inganno!»). Se ammette che era stata la vanità a
spingerlo a tradire il patto del silenzio siglato con Isolde dopo la sua guarigione, deve anche ammettere che dal momento in cui l’ha conquistata per il re, l’immagine di lei si è impressa nel suo cuore come donna a lui da sempre predestinata. Il suo innamoramento, anche prima dell’intervento del
filtro, sembra infatti possibile solo in coincidenza di donna
a lui predestinata e di donna altrui. Fin troppo facile sarebbe
a questo punto richiamarsi alla biografia wagneriana e ricordare la tensione erotica in cui fu scritto il Tristan und Isolde,
quando insieme a Mathilde Wesendonck compare all’orizzonte anche Cosima von Bülow. Ma Wagner non ha messo
in scena la propria vita, molto più spesso ha cercato nella vita
situazioni già preraffigurate dalla sua fantasia.
L’incontro tra il re e Tristan nel secondo atto, quando già i
due amanti credono di poter rinunciare per sempre alle contraddizioni della vita alla luce del giorno, è un incontro solenne e inquietante proprio perché re Marke ha da sempre posto
Tristan alla base di un ordine morale e civile che ora senza di
lui è destinato a crollare. Alla domanda del re («E dov’è più
la fede, se Tristano commise infedeltà… se mi lasciò, se mi
tradiva / anche Tristano?») Tristan non ha risposta, può solo accennare ad un’esperienza che al re è sconosciuta,e chiamando a sé Isolde. Ma il regno che egli le promette sembra
più un regno di morte che di amore.
A concludere una scena di grande tensione, interviene Melot, su cui Tristan scarica l’angoscia in cui lo ha gettato l’accorato rimprovero del re. A Melot Tristan rinfaccia quello
che il re rinfacciava a lui poco prima: l’inganno, l’amore per
Isolde, il tradimento. La didascalia che chiude l’atto presenta un Tristan che non scansa la spada di Melot e cade ferito
come se si fosse lasciato ferire. La ferita che ne riporta sembra
il vero e unico mezzo per richiamare Isolde, come se potesse
ripetersi quello straordinario momento accaduto sulle rive
d’Islanda: la ferita diviene il simbolo di una storia di passione che solo la donna che fu di Morold e di re Marke può chiudere. Nell’ultimo atto l’attesa si compie in una terra desolata
che Tristan non riesce più a riconoscere come sua («Degli avi
miei?... I greggi miei?... In quale terra?») come se ormai tutto quello che appartiene al mondo della luce non avesse più
senso al di fuori del ricordo di Isolde e di quella scena d’amore tra un uomo senza patria e la regina che guarisce, che è anche la scena che drammaturgicamente riassume l’opera, fissandone un’immagine perfetta e monumentale.
sotto le spoglie di Tantris, quando egli la vide vibrare per un
attimo la spada contro di lui. Il suo è un estremo tentativo di
capire se nel momento in cui ebbe compassione di quell’eroe
ferito di cui le «pesava» lo sguardo, Tristan si fosse sentito
legato a lei per sempre o se, fingendo debolezza e abbandono,
stesse solo pensando di fare di quella donna la sposa di un altro. Sono momenti in cui Isolde diviene una grande figura, a
livello delle eroine della tragedia classica, una donna lacerata
da opposte passioni, capace di tenerezze e di crudeltà. Nel secondo atto, una volta entrata nel «regno della notte» e divenuta serva obbediente della dea dell’amore, nonostante l’avversa fortuna, si sentirà al sicuro.
Tristan ha altri segreti e un altro sapere. Egli ha da sempre
intuito l’ambiguità della passione di Isolde («Intendo quello che tacendo esprimi / e taccio quello che non hai compreso»)1, ma è anche consapevole di quale prestigio egli goda
a corte per la sua fedeltà. All’esaltazione della caratteristica
primaria per cui da uomo senza patria è diventato erede del
re, si oppone dentro di lui la consapevolezza di una forza avversa, contraria alla fedeltà. Accettando la coppa che Isolde
gli porge, egli tenta di salvare il suo onore di uomo coraggioso e fedele ai patti, ma sa che con quel gesto impetuoso («balzando su furioso… le strappa la coppa dalle mani») egli tradisce il re, qualora la coppa (come suppone) sia colma di ve-
«Chiunque si occupi di Wagner, poeta e plasmatore di linguaggio, dovrebbe ricordare soprattutto che nessuno dei
drammi wagneriani è destinato alla lettura e non deve essere
molestato con le pretese che si rivolgono al dramma in prosa». L’osservazione di Nietzsche vale ovviamente anche per
il Tristan und Isolde. Scrivendo i testi delle sue opere, Wagner pensava contemporaneamente alla «melodia infinita»
che avrebbe dovuto sorreggerli, arricchirli, spiegarli e complicarli. È «la melodia infinita» che fa risuonare le cose tacite o dicibili solo «al di là del nesso della ragione logicizzante»: il mito e l’oscura storia personale, la Sehnsucht amorosa
vissuta come volontà schopenhaueriana e la profonda ansia
di redenzione. Ed è questa la sapienza e la maturità che Wagner, autore moderno, vanta nei confronti dell’autore medievale. ◼
Tristano e Isotta bevono il filtro d’amore (xiv sec.).
1. Si cita dalla traduzione in versi di Vincenzo Errante.
focus on
Domina nel testo wagneriano infatti l’assoluta solitudine
dei due amanti rispetto al mondo che li circonda e di cui conoscono le regole, ma a cui oppongono un altro sapere, oscuro, misterioso, ambiguo. Le didascalie del testo insistono sui
loro sguardi fissi, cupidi, esterrefatti come se agli occhi fosse dato di intuire l’altra faccia, inebriante e minacciosa, che
si nasconde al di là delle parole. Fra ciò che sa il mondo che li
circonda e ciò che sanno i due amanti, vi è un abisso tanto più
angoscioso quanto più i concetti cui fa riferimento il mondo
sembrano avere una consistenza e un valore: amicizia, fedeltà, onore, tradimento, ed essi stessi sono tentati di usare quegli stessi concetti che alla luce di una diversa esperienza risultano pallidi e inefficaci. Nel primo atto sia Isolde che Tristan usano ancora il «linguaggio del giorno», consapevoli di
tradire se stessi volendo salvare un’immagine di sé che sanno falsa . Di fronte al silenzio turbato di Tristan che continua a risponderle in modo convenzionale, Isolde si affida allo scherno e al sarcasmo. Il suo è un ultimo disperato tentativo di ricostruire un rapporto di forze a lei più favorevole e sostanzialmente identico al momento in cui riconobbe Tristan
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Wagner in Fenice
secondo Paul Curran
tore animato da una profondità spirituale inusitata. Sempre
bacchette illustri, dunque, un privilegio e un aiuto concreto
a chi ha idee chiare e una visione concreta del compositore.
Premio Abbiati nel 2003 per Die Königskinder (I figli del re)
di Engelbert Humperdinck al Teatro San Carlo, Curran ha
a cura di Mirko Schipilliti
lavorato anche alla Scala di Milano e nei maggiori teatri italiani, da Cagliari a Firenze, da Bologna a Roma e Ancona.
aul Curran appartiene alle nuove generazioMaestro, lei parla molto bene l’italiano.
ni di registi alla ricerca della migliore appropriatezIn gioventù ho studiato francese e italiano in una scuola
za stilistica e linguisticattolica scozzese. Mi dicevaca fra messinscena e muno di studiare chimica, ma già a
sica, non eccessivamente proteso
quindici anni volevo imparare le
Venezia – Teatro La Fenice
verso un teatro «di regia» spinlingue. E prima di occuparmi di
18, 25 novembre, ore 15.30
to, che spesso miete vittime fra i
regia ho fatto anche l’interpre23, 28 novembre, 1 dicembre, ore 17.00
compositori, ma sensibilmente vite (parlo anche un po’ di russo).
14 novembre, ore 17.00 (prova generale)
cino alle tensioni che animano la
Aveva lavorato anche come
Tristan und Isolde
azione in tre atti
partitura e i suoi personaggi. Enballerino…
libretto e musica di Richard Wagner
tusiasta del lavoro di preparazioSì, ero un ballerino professiodal romanzo in versi Tristan di Gottfried von Strassburg
ne con il cast di Tristano e Isotta –
nista, ma a causa di un incidente
maestro concertatore e direttore Myung-Whun Chung
alla Fenice dal 18 novembre all’1
la mia carriera nella danza fu inregia Paul Curran
dicembre – parla da uomo di teterrotta bruscamente. In seguito
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
atro, personalità in grado di apstudiai teatro e regia in Austranuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
procciare il teatro musicale seconlia e Finlandia. Da giovane ave-
P
do più chiavi di lettura grazie agli studi iniziati fin da giovane e all’esperienza professionale nel mondo della danza. Stare sul palcoscenico con la musica che va e che vive nell’istante che non puoi mai carpire è una questione complessa, che
Curran ha sempre dato prova di saper affrontare con autorevolezza e delicatezza allo stesso tempo. Pensiamo alle regie
veneziane su partiture di Richard Strauss, con Ariadne auf
Naxos nel marzo 2003 sotto la direzione musicale del grande
e compianto Marcello Viotti, o con Daphne nel giugno 2005
diretta da Stephan Anton Reck. Ora, con Tristano e Isotta, la
collaborazione è con Myung-Wun Chung (cfr. p. 20), diret-
vo anche studiato musica, suonavo il clarinetto in orchestra,
e anche se non si trattava di un ensemble di primo livello,
l’importante per me era suonare.
Con quali compositori si trova più a suo agio?
Difficile a dirsi. Adoro Wagner, Strauss, ma anche Puccini, Bellini, Verdi. Sono entusiasta quando un’opera mi stimola. Ho realizzato Tristano e Isotta solo una volta in forma
semiscenica con la direzione musicale di Donald Runnicles.
Quella della Fenice sarà davvero una bella sfida.
Bozzetti per Tristano e Isotta secondo Paul Curran.
rendere quest’opera, una lettura che gioca con la relazione
che viene a innescarsi tra le luci – parte della vita emozionale
di ciascun individuo – e le azioni dei personaggi. E quest’opera, rispetto ad altre, è particolarmente adatta a tale tipo di
approccio.
E l’acqua? Può accogliere funzioni simboliche?
In senso stretto l’acqua compare solo nel primo atto, e non
ha in quest’opera un ruolo importante come invece accade
nel Vascello fantasma. Per questo abbiamo preferito suggerire solo l’idea di trovarsi su una barca piuttosto che rappresentarne una vera e propria immersa fra le onde.
Perché non ha firmato anche la regia dell’Otello di Verdi,
in produzione alla Fenice contemporaneamente al Tristano?
Be’, sarebbe stato impossibile realizzare due regie allo stesso tempo. Lavorai a un Otello alcuni anni fa a Trieste, con Josè Cura nel cast, ed è un’opera difficilissima, che adoro. Anche se è possibile trovare elementi di contatto con Tristano e
Isotta, credo che sarebbe stato un incubo per me trovarmi a
dover dar vita a entrambe gli allestimenti.
Spesso si incontrano registi che sviluppano un pensiero erroneamente slegato dalla musica. Per lei che invece conosce tecnicamente anche il linguaggio musicale, quanto è importante avere
le chiavi di accesso a una partitura per creare un allestimento?
Quindi bisogna osare di più per un’opera così «interiore»?
Sì, soprattutto nell’indagare l’essere umano, del quale Wagner ricercava lo spirito, l’anima. Il Tristano è un’opera molto soggettiva.
Nella sua regia veneziana di Daphne di Strauss aveva dato
particolare risalto all’espressività della luce. Tristano e Isotta viaggia continuamente fra luminosità e buio, fra mondo del
giorno, intriso delle convenzioni sociali, e mondo notturno, dove convivono amore e morte. Come ha vissuto questo rapporto
simbolico nel corso dell’allestimento?
È anche per questo che ho scelto una chiave astratta per
Il teatro d’opera è un’esperienza completa, comprende più
dimensioni, forse il punto più alto delle belle arti. Più che
saper leggere la musica bisogna soprattutto capirla e amarla. Ma se uno si dedica solo ai film e alla prosa non può comprendere fino in fondo la lirica. E se da una parte non sono
d’accordo con messinscene che propongano tagli alla musica – bisogna sempre rispettare la partitura – dall’altra parte nella regia d’opera non bisogna nemmeno agire esclusivamente in base alle note, come se si trattasse di un balletto, ma
capire piuttosto che sul palcoscenico insieme alla musica c’è
anche un’altra vita. ◼
focus on
Caso raro, Wagner è anche autore dei propri libretti. Come
affronta questo tipo di testo?
Sono testi particolari, perché Wagner era un uomo di teatro a tutto tondo, un compositore che metteva in partitura
tutte le sue idee: se non le rispetti sei perso. Wagner ha scritto un’opera moderna per la sua epoca, quindi anche noi dobbiamo essere moderni, e così anche i personaggi. Dopo Rienzi (concepita secondo la tradizione di Meyerbeer e del grand
opéra), Wagner riuscì a trovare una strada coraggiosa. E si
tratta di una modernità delle idee, non tanto di un qualcosa
di esteriore. Del resto le cose che hanno trasformato il mondo sono proprio le idee, non le azioni. Con Tristano e Isotta
Wagner ha cambiato completamente la storia della musica.
Che cosa la emoziona di più di quest’opera?
Non si tratta di una storia vera e propria, ma piuttosto di
rappresentazioni della filosofia di Schopenhauer, dell’idea di
amore, di che cosa sia l’essere, il sesso... Non può quindi essere una storia «domestica», ma piuttosto qualcosa di astratto. Inoltre se consideriamo che all’epoca, con i censori che lo
circondavano, Wagner non aveva comunque potuto realizzare tutto quello che avrebbe voluto, oggi dobbiamo andare
avanti con il medesimo spirito senza incorrere nel pericolo di
realizzare un qualcosa che sappia di museo.
19
focus on
20
Myung-Whun Chung
tra Otello e Tristano
P
di Enrico Bettinello
er dirigere negli stessi giorni un’opera di
Verdi e una di Wagner bisogna essere dotati o di
una capacità di scindersi pericolosamente vicina alla schizofrenia, oppure di una sensibilità artistica
fuori dal comune. È certamente questa seconda ipotesi quella che meglio si attaglia al caso di Myung-Whun Chung, che
sarà il padrone del podio nell’attesissima doppia inaugurazione della stagione della Fenice, che alternerà Otello e Tristan und Isolde.
Non è certo casuale che il direttore sia l’unico elemento
in comune tra i due allestimenti, perché l’originale accostamento trova un senso profondo solo se mediato dalla lettura
di una bacchetta in grado al tempo stesso di sottolineare piani di analogia e peculiarità.
Ma chi è Myung-Whun Chung, artista dalla vita articolata e cosmopolita?
Nato in Corea nel gennaio del 1953, inizia la propria attività come pianista già da bambino, per vincere poi il secondo premio al Concorso Pianistico Cajkovskij di Mosca all’età di ventun anni. È negli Stati Uniti che la sua formazione
si completa, con gli studi di perfezionamento sia al Mannes
College che alla prestigiosa Juilliard School, diventando poi
nel 1979 assistente di Carlo Maria Giulini alla Los Angeles
Philharmonic, orchestra di cui due anni più tardi verrà nominato direttore associato.
Da questo punto in poi il curriculum del maestro coreano vanta una vera e propria carrellata di incarichi prestigiosi che si succedono e si sovrappongono: nella seconda metà
degli anni ottanta è direttore musicale dell’Orchestra Sinfonica della Radio di Saarbrüken, dal 1987 al 1992 direttore principale invitato del Teatro Comunale di Firenze, e due
anni più tardi direttore musicale dell’Orchestra dell’Opéra
di Paris-Bastille.
Il mondo musicale italiano lo ricorda poi per otto anni, fino
al 2005, come direttore principale dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. Dalla metà degli anni novanta, la sensibilità del musicista si pone a servizio della musica del proprio continente, sia con la fondazione
dell’Asia Philharmonic, formata dai migliori musicisti di otto Paesi asiatici, che con la nomina a direttore musicale della
Seoul Philharmonic Orchestra.
Attualmente è, da dodici anni, direttore musicale dell’Orchestre Philharmonique de Radio France e nel 2011 ha assunto anche l’incarico di direttore-ospite principale della
Dresden Staatskapelle.
Lunghissima e prestigiosa anche la lista dei premi ricevuti
e delle orchestre da lui dirette in questi anni, che vanno dai
Berliner ai Wiener Philharmoniker, passando per il Concertgebouw di Amsterdam, l’Orchestra Filarmonica della
Scala (un rapporto che ha avuto un epilogo non facilissimo),
per non dire delle principali orchestre americane, da quelle
sinfoniche di Boston e di Chicago a quella della Metropolitan Opera di New York, passando per la New York Philharmonic Orchestra e quelle di Cleveland e di Philadelphia.
Nella sua articolata discografia – buona parte della quale
pubblicata dalla Deutsche Grammophone – troviamo una
particolare attenzione per il repertorio francese (Berlioz, Bizet, Ravel, Debussy, Saint-Saëns, Dutilleux, ma anche molto Messiaen) e russo, nonché interessanti letture di opere verdiane come lo stesso Otello.
Alla già intensa attività musicale Myung-Whun Chung abbina un particolare impegno in iniziative di carattere umanitario e di diffusione della musica classica tra le giovani generazioni, nonché di salvaguardia dell’ambiente. Ambasciatore del Programma delle Nazioni Unite per il Controllo internazionale della droga (undcp), nel 1995 è stato insignito dall’unesco del prestigioso titolo di «Uomo dell’anno», per poi ricevere in patria, il Kumkuan, il più importante riconoscimento governativo in campo culturale, per
il suo contributo alla vita musicale coreana. È attualmente
ambasciatore onorario per la cultura della Corea del Sud, il
primo nella storia del governo del suo Paese. Ambasciatore
dell’unicef per l’impegno a favore dell’infanzia, ha ottenuto l’anno scorso il titolo di «Commadeur dans l’ordre des
Arts et Lettres» dal Ministero della cultura francese. Proprio in questo 2012 Chung è riuscito per la prima volta a riunire per un concerto alla Salle Pleyel a Parigi la Unhasu Orchestra della Corea del nord e la Orchestre Philharmonique
de Radio France.
Una sensibilità artistica e umana davvero unica, come dicevamo all’inizio del nostro articolo, che ci sembra la qualità
più importante per dare alla profondità di lavori come Otello e Tristan und Isolde una prospettiva in grado non solo di
esaltare l’unicità dell’evento, ma anche di proiettare i mondi musicali di Verdi e Wagner verso nuove prospettive emozionali. ◼
Myung-Whun Chung (foto di Michele Crosera).
U
Passo ore e giorni ad ascoltarli nelle Sale Apollinee della Fenice, lo strumento a disposizione è un meraviglioso Fazioli;
non mi annoio quasi mai perché i ragazzi suonano tutti piuttosto bene e perché amo talmente la musica che potrei ripetere all’infinito la frase che Shakespeare mette in bocca al Duca Orsino all’inizio della Dodicesima notte:
di Enzo Restagno
na quarantina di giovani pianisti, il
meglio prodotto dalle nostre scuole musicali, si
presentano al Premio Venezia, organizzato con
competenza pari all’affetto da Barbara di Valmarana; vengono da tutta Italia e la rappresentanza del sud è
molto numerosa, spesso musicalmente ben agguerrita.
In alto Giulia Rossini, in basso Martina Consonni,
rispettivamente prima e seconda classificata
al Premio Venezia 2012 (foto di Michele Crosera).
«If Music be the food of love, play on,
Give me excess of it, that, surfating,
The appetite may sicken, and so die».
[Se la musica è nutrimento dell’amore, suonate ancora e datemene in abbondanza così che, essendone saziato il mio appetito si ammali e se ne muoia].
Gli Scherzi, le Sonate e
le Ballate di Chopin li ho
ascoltati a non finire, pensando ogni volta che il Duca Orsino aveva ragione.
Poi le Sonate di Beethoven, più raramente quelle di Schubert, molte parafrasi di Liszt, talvolta gli
Studi di Debussy, che paiono fatti apposta per avvicinare, fino a confonderli, il
cuore e l’intelletto. L’amore sconfinato per la musica non spegne però il senso
critico, finisce anzi con l’esaltarlo e ogni deviazione
dal percorso ideale dell’interpretazione la sento come una dolorosa trafittura;
per fortuna spunti intelligenti riscattano scivoloni
e approcci maldestri e poi
nessuno dà prova di cattivo gusto.
Il Premio Venezia comincia con la città, con l’essere
lì; ci pensavo in una mattina di libertà – la prova era
al pomeriggio – seduto al
Caffè Florian. Ho indugiato a lungo, fino a farmi
sorprendere dall’esplosione delle campane del mezzogiorno. In quel clangore universale mi è venuto
in mente che Nietzsche definiva il campanile «l’accento acuto posto sulla
piazza».
Alla sera, nel più bel teatro del mondo, Barbara
di Valmarana distribuisce
con tocco gentile e affettuoso un numero incredibile di premi. Sollecitato da
lei a riassumere le mie impressioni sul concorso, ho
definito con un po’ di commozione questi ragazzi, che trascorrono la maggior parte del
loro tempo in solitudine per accudire i capolavori dell’arte
musicale, tra i figli migliori del nostro Paese. ◼
classica
Impressioni
sul Premio
Venezia 2012
21
classica
22
Somenzi e Romero:
quattro mani
per Schubert
parere uno dei brani più belli della produzione di Schubert,
una composizione nostalgica che trascende il concetto classico di variazione. Per quel che riguarda la Fantasia in fa minore, si tratta di una composizione di ampio respiro, scritta
da Schubert per la contessa Karoline Esterhazy, per la quale pare avesse un particolare trasporto. È considerato uno dei
capolavori assoluti della musica a quattro mani, con un ima cura di Arianna Silvestrini
pianto formale classico e un carattere cangiante, e che alla fine delle sue pagine presenta una figura molto arcaica come
l 6 novembre al Toniolo di Mestre si esibiranquella del “fugato”. Il terzo brano è un pezzo cadenzato in
no in un concerto per pianoforte a quattro mani Gustaquattro tempi dal taglio classico della sinfonia e che, sia per
vo Romero e Massimo Somenzi, che ci ha descritto il prol’impianto che per la tonalità, sembra una sorta di prova gegramma della serata dedicata a Schubert.
nerale della grande Sinfonia in do maggiore, l’ultima scritta
da Schubert. È un pezzo raramente suonato e di
«Dopo l’integrale per quattro mani di Mozart
difficile esecuzione. Quando abbiamo letto que(eseguito assieme a Gustavo Romero durante una
sto Gran Duo, Gustavo e io siamo rimasti molMestre
tournée tra gli usa e l’Italia nel 2005, ndr.), è stato colpiti dalla sua maestosità: non ci sono molTeatro Toniolo
to abbastanza naturale pensare di realizzare un
te composizioni per pianoforte a quattro mani
6 novembre, ore 21.00
programma completamente schubertiano, prodi questa durata e di tale impianto. Questa soprio perché Schubert, così come il Genio di Sanata rappresenta il momento in cui il pianoforte
a quattro mani perde la caratteristica intimistica e salottiera e acquisisce sfaccettature volutamente sinfoniche, che fanno pensare all’orchestra. Nella recensione che fece di questo pezzo,
Schumann scrisse che più che una sonata a quattro mani, il Gran Duo sembra piuttosto la trascrizione di un pezzo per orchestra. In realtà la
scrittura che lo caratterizza è prettamente pianistica e non presenta formule prese in prestito da
altri strumenti, come spesso accade nella partitura per orchestra. Il concerto del 6 novembre si
articolerà, quindi, in tre momenti molto diversi
fra loro, sia per colorazione musicale che per atmosfera. Gustavo e io, inoltre, siamo pianisti diversi, con personalità e approcci alla tastiera decisamente eterogenei; ma, allo stesso tempo, abbiamo molti aspetti in comune e, anche per questo, sono curioso di suonare insieme a lui, per la
prima volta in pubblico, il Gran Duo».
Lei insegna al Conservatorio «Benedetto Marcello»: come lavora con i suoi allievi?
Cerco di trasmettere loro due cose fondamentali: innanzitutto la fedeltà al testo, della quale ho fatto una delle impostazioni principali sia
del mio modo di insegnare che del mio modo
di suonare. Un testo deve essere riconoscibile in
qualunque momento e deve consentire di dialogare con qualsiasi musicista e in qualsiasi parte
del mondo, anche senza bisogno di parole. Non
ci si può concedere spesso eccessive libertà interpretative, che rischiano di confondersi con un
cattivo approccio alla lettura e di dare così vita a
esecuzioni discutibili. Soprattutto con i capolavori, quelli con la C maiuscola, bisogna prestare molta attenzione: sarebbe come recitare l’Infinito di Leopardi cambiandone le parole, o accostarsi a un quadro di Picasso e alterarne i colori. Oltre a questo, cerco di insegnare l’importanza della libertà espressiva: sulla base di una
lettura corretta del testo, e cercando di rendere
al meglio il pensiero dell’autore, è giusto anche
che emergano le caratteristiche dell’interprete,
che ovviamente non deve essere un mero ripetilisburgo, è un autore che ha dedicato pezzi di altissima quatore; tuttavia, la sua libertà deve muoversi sempre nel rispetlità a questo tipo di repertorio. Il programma che presenteto dell’autore. ◼
remo al Toniolo è piuttosto vario: il primo brano, l’AndanMassimo Somenzi e Gustavo Romero.
tino variato in si minore, è un pezzo molto intimo, a mio
I
mi di interpretazione e di utilizzo dell’archetto.
Il 5 novembre si esibirà il pianista calabrese Giuseppe Albanese, vincitore del Premio Venezia nel 1997 e del Premio speciale per la miglior esecuzione dell’opera contemporanea alla liv edizione del Concorso Busoni di Bolzano. Il suo concerto, nella Sala Grande del Teatro La Fenice, sarà un recital
monografico dedicato a Debussy che ripercorrerà le tappe salienti dell’innovazione linguistica attuata dal compositore
di Vitale Fano
francese a partire dal 1890. In apertura la Suite bergamasque,
che rivela un linguaggio musicale nuovo e personale speciala stagione di musica da camemente per quel che concerne l’armonia; dei
ra 2012-2013 della Società Veneziaquattro pezzi il più celebre è Clair de lune, la
na di Concerti (svc) si pone sul piacui tenerezza sognante e la poesia evanescenVenezia
no della continuità rispetto all’ante e incantatrice preannunciano il Prélude à
Teatro La Fenice
no precedente, riadottando come titolo il verl’après midi d’un faune e Nuages. Seguiranno
5 novembre, ore 20.00
so di Orazio Aere perennius... (più duraturo
Ballade, pagina di raro fascino poetico, e Pour
Giuseppe Albanese, pianoforte
del bronzo), individuato dal direttore artistile piano, trittico in cui Debussy abbandona il
Musiche di Debussy
co Paolo Cossato per significare la tutela e il
tardoromanticismo germanizzante per guar2 dicembre, ore 20.00
rafforzamento della longevità del patrimodare a Couperin, Rameau, Bach, Scarlatti.
Gidon Kremer, violino,
nio musicale. Quattordici concerti in calenNella seconda parte del concerto troveranno
Dirvanauskaite, violoncello posto Nocturne, pagina molto graziosa, al lidario fra il 29 ottobre e il 21 aprile, con grandi Giedre
Khatia Buniatishvili, pianoforte
interpreti fra cui spiccano i nomi di Viktoria Musiche di Franck, Ciaikovskij, mite del salottiero; Estampes, altro trittico nel
Mullova, Gidon Kremer, il Quartetto Belcea,
quale compaiono un linguaggio pianistico riSchnittke
Matthias Goerne, Antonio Ballista, Grigory
voluzionario e l’uso dei soggetti (Pagodes, La
Sokolov, Alexander Lonquich, Enrico Bronsoirée dans Grenade, Jardins sous la pluie); e
zi, Michail Pletnëv, il Quartetto di Cremona e Alessandro
infine, a chiusura del concerto, lo spagnoleggiante Masques
Carbonare. In ossequio al titolo del ciclo, i programmi proe l’evocativa e sontuosa L’isle joyeuses, esempi della fase più
vengono in buona parte dalla letteratura sette/ottocentesca,
matura del pianismo debussyano.
ma non mancano interessanti incursioni nel Novecento con
Il 2 dicembre, sempre alla Fenice, ci sarà l’occasione di
autori come Schnittke, Varese, Martinu, Penderecki (oltre ai
ascoltare il violino di Gidon Kremer, il violoncello di Giedre
più familiari Stravinsky e Poulenc), e un omaggio monograDirvanauskaite e il pianoforte di Khatia Buniatishvili, che si
fico a Luciano Berio, in collaborazione con il Teatro La Fenimuoveranno fra le note di un programma dedicato a Franck,
ce, nel decimo anniversario della morte.
Ciaikovskij e Schnittke.
L’appuntamento che ha inaugurato la nuova stagione, lo
Al fianco della stagione «ufficiale» si dipana il progetto
scorso 29 ottobre nella Sala superiore della Scuola Grande
svc Giovani, che prevede sei concerti alle Sale Apollinee (in
di San Rocco, ha visto impegnata la violinista russa Viktoorario mattutino per le scuole e di pomeriggio per il pubbliria Mullova, che in oltre trent’anni di carriera internazionaco) tenuti da altrettanti giovani pianisti perfezionatisi a Bale si è segnalata come interprete dall’eccezionale versatilità.
silea nella scuola di Filippo Gamba: Joseph-Maurice Weder,
In una delle due date italiane della sua tournée, la Mullova
Fiore Favaro, Camilla Köhnken, Tommaso Lepore, Virginia
ha dato il via al cartellone con un programma monografico
Rossetti, Francesco Carletti. Un’iniziativa divulgativa ideadedicato a Bach. La Sonata in sol minore bwv 1001, la Parta dal presidente della svc, Fausto Adami, che mostra sensitita in mi maggiore bwv 1006 e la Partita in re minore bwv
bilità e lungimiranza nell’avvicinare gli studenti alle esecu1004 (con la celebre Ciaccona) sono titoli di cui la celebre
zioni di musica classica e nell’offrire a giovani interpreti di
violinista è una specialista indiscussa; l’incisione da lei reatalento un’opportunità di esibizione in una delle più belle
lizzata di tutte e sei le Sonate e Partite per violino solo per l’esale concertistiche del mondo. Ogni concerto sarà precedutichetta Onix costituisce una pietra miliare della sua evoluto da un racconto di Alessandro Zattarin (pianista, letterazione artistica e testimonia la conoscenza straordinaria della
to e critico musicale, già allievo dei corsi di perfezionamento
Mullova circa le possibilità di adattare lo stile polifonico al
di Maria Tipo) pensato per restituire «la suggestione che la
violino, facendo largo uso di quella tecnica delle corde dopstoria della musica custodisce tra le righe». ◼
pie che ha creato ai musicisti di tutti i tempi enormi proble-
La musica da camera
della Società Veneziana di Concerti
L
Giuseppe Albanese.
classica
«Aere perennius…»
atto ii
23
classica
24
Applausi
per il festival organistico
«Gaetano Callido»
Un’estate di musica
tra San Trovaso, i Carmini
e Sant’Elena
S
a cura di Margherita Gianola
i è concluso con successo il secondo Festival
Organistico Internazionale «Gaetano Callido», che
quest’anno ha visto protagonisti non solo il pregiatissimo organo della chiesa di San Trovaso a Venezia –
costruito appunto da Gaetano Callido – ma anche il novecentesco organo «V. Mascioni» della chiesa dei Carmini,
con un ultimo
appuntamento
nella chiesa di
Sant’Elena. Abbiamo incontrato il direttore
artistico Nicolò
Sari – giovane e
valente organista, diplomato
a Venezia con il
massimo dei voti e già vincitore
di vari concorsi
europei, tra cui
il «J. P. Sweelinck» di Amsterdam nel settembre scorso
–, il quale per
fare con lui un
bilancio di questa esperienza: «L’obiettivo che con l’Associazione Culturale “Alessandro Marcello” e il parroco Silvano Brusamento ci eravamo
proposti era la conoscenza e la promozione dell’arte della
musica d’organo nella nostra città attraverso appuntamenti
settimanali a ingresso libero, programmati in un periodo –
giugno, luglio e agosto – che non offre nulla di simile in città, in modo che la cittadinanza e gli ospiti di passaggio fossero stimolati ad approfittare delle serate estive per partecipare
a questi eventi, valorizzati dalle doti di interpreti di fama. La
musica come elevazione dello spirito e gesto gratuito di accoglienza: questo è stato lo scopo del nostro festival».
Come ha risposto il pubblico alla vostra offerta?
Il successo in termini di affluenza è stato notevole: una media
di circa duecento persone per concerto. Un pubblico attento che ha potuto anche beneficiare di un grande schermo
che durante il concerto trasmetteva le immagini riprese dalla cantoria: moltissime persone ci hanno lasciato commenti
entusiastici sull’iniziativa chiedendo di rimanere in contatto con noi per le prossime programmazioni.
Cosa vi ha spinti ad estendere la programmazione ad altre
chiese oltre a San Trovaso?
Il Festival è nato nel 2011 per valorizzare il patrimonio sto-
rico organario della chiesa di San Trovaso: lo strumento costruito da Gaetano Callido nel 1765, di pregevole fattura
e perfettamente conservato, è un raro esemplare di organo
doppio uscito dalla bottega del celebre organaro, che allora
era all’inizio della sua prolifica attività. Non tutto il repertorio si può però eseguire sulle delicate e corte tastiere settecentesche: per dare al nostro pubblico la possibilità di gustare programmi che spaziano fino al contemporaneo abbiamo
deciso di iniziare la rassegna con cinque concerti nella vicina
chiesa dei Carmini. L’utilizzo concertistico dell’organo costruito dalla Casa Organaria «V. Mascioni» nel 1946 e restaurato nel 2009 dopo anni di decadenza, si rivela fonte di
orgoglio e appagamento a fronte dei notevoli sacrifici sostenuti dalla Parrocchia per il suo recupero.
L’ultimo appuntamento si è tenuto nella chiesa di Sant’Elena: abbiamo voluto essere veicolo di promozione e conoscenza di questa zona di Venezia, coinvolta in misura minore
da attività culturali che possono essere motivo di attenzione
per veneziani e turisti.
Qualche appuntamento ha particolarmente interessato gli
spettatori?
Devo sinceramente dire che tutti i concerti sono stati assai applauditi, forse anche per la varietà dei programmi oltre che per la bravura degli interpreti. Tra di essi meritano un
plauso particolare i già affermati musicisti Maurizio Salerno
e Roberto Antonello, assieme a Matteo Imbruno, italiano di
nascita, ma da oltre vent’anni residente ad Amsterdam, dove occupa il prestigioso ruolo di organista dell’Oude Kerk.
Molto apprezzato è stato anche il virtuosismo del giovane
organista portoghese Rui Soares, da poco laureato in organo
antico al Conservatorio di Amsterdam e attualmente allievo di Ton Koopman, e i concerti di Luc Paganon – organista nella cattedrale di Sens, in Borgogna – e di Roberto Fresco, titolare dell’organo della Cattedrale di Madrid. Insolita
l’esibizione di Yuzuru Hiranaka e Anders Danman, che sulla piccola tastiera del Callido hanno suonato a quattro mani,
suscitando l’entusiasmo degli ascoltatori. ◼
L’organo di Gaetano Callido (1765)
nel concerto a San Trovaso.
N
di Alberto Sabatini*
ella nobile ed antica città di Padova si erge, quasi a protezione dell’ampio centro urbano, l’imponente Basilica del Santo: essa custodisce le spoglie mortali di Sant’Antonio (Lisbona 1195 – Padova 1231), venerato in tutto il mondo.
Nella Basilica è presente un importante organo a canne che
è stato da poco restaurato, rivisitato nella sua struttura fonica e completamente aggiornato nel suo sistema trasmissivo.
Il complesso e difficile lavoro è stato compiuto con magistrale perizia dalla rinomata Casa Organaria «V. Mascioni» di
Azzio (va): una Casa dedita, con grande amore e passione,
alla costruzione di organi nuovi ed al restauro di quelli antichi sin
dal lontano 1829. Grazie all’impegno profuso dalla famiglia Mascioni in questa operazione, lo strumento ha
acquistato un nuovo
e gagliardo smalto sonoro; ora quest’organo è da annoverarsi tra
i più grandi ed importanti d’Italia, e rappresenta – al pari di pitture, sculture e bassorilievi – una delle opere artistiche più pregevoli che costituiscono,
di fatto, l’incommensurabile tesoro racchiuso in quel grande
scrigno di arte, di fede e di cultura che è la
Pontificia Basilica di
Sant’Antonio.
Il visitatore che per
la prima volta varca la
soglia di questo tempio deve giungere sino
quasi ai piedi del presbiterio per notare l’organo: una tribuna riccamente decorata, posta nel braccio destro del transetto, custodisce uno
dei più significativi strumenti usciti dalle officine torinesi
di Carlo Vegezzi Bossi nel 1895, dotato di una mastodontica facciata di settantatré canne in stagno tigrato di sedici
piedi reali (la canna maggiore raggiunge i sette metri di altezza). Altri due corpi d’organo, costruiti da Vincenzo Mascioni nel 1929, sono collocati in vani nascosti del retrocoro.
L’assetto attuale dello strumento è il risultato di un successivo articolato lavoro, compiuto ancora da Vincenzo Mascioni nel 1931-1932, che ha comportato l’ampliamento degli organi della Basilica e la riunificazione dei comandi per l’organista in una unica grande consolle a cinque manuali e pedaliera, ora gestita da una nuovissima trasmissione elettronica.
Su richiesta della Veneranda Arca di Sant’Antonio – ente laico preposto alla conservazione ed alla manutenzione
La consolle dell’organo Mascioni.
dei beni artistici della Basilica –, i recenti lavori sono stati
progettati e diretti dallo scrivente – organista della Basilica – ed hanno comportato una oculata opera di revisione di
tutte le risorse foniche dello strumento che soffrivano, prima dell’intervento, di un’impostazione poco soddisfacente
per le attuali e mutate esigenze della liturgia, e manifestavano una ridotta funzionalità dovuta al naturale deperimento.
Alcuni dati significativi possono rendere l’idea dell’importanza di questo «titano» musicale: possiede più di seimila canne, dispone di ben sei corpi d’organo, cinque casse espressive, novantasei registri sonori, sessantasei registri
meccanici, e centosessantadue placchette di registrazione.
Da segnalare alcuni registri particolarissimi e di grande pregio, quali il meraviglioso Concerto Viole di sette file a progressione armonica, la Viola Pomposa 8’, dalla spiccata personalità, numerosi Flauti morbidissimi e vaporosi (con canne a camino, a imbuto, armoniche, a cuspide), nonché i Ripieni dall’impostazione e dall’intonazione tradizionale ita-
liana. Da menzionare pure, tra le ance, la Tuba Trionfale 16’ e
la Tromba Vaticana 8’ (a forte pressione), dalla caratteristica
sonorità, adatte a riempire l’enorme edificio sacro. Registri
profondissimi di 32’ e 64’ – che riproducono il suono emesso da canne alte anche venti metri – ampliano in modo meraviglioso la basseria del Pedale aggiungendo, nel Fortissimo,
uno stupefacente «effetto infinito».
L’acustica della Basilica, per l’organista dotato di buon gusto, equilibrio e coerenza interpretativa, rappresenta un valido banco di prova per le proprie doti di virtuoso e di esteta del suono. Non meno importante, poi, il portato spirituale del tempio stesso: come una sorta di grande ventre acustico, esso mescola, esalta e matura i suoni ed i timbri prodotti
dall’organo innalzando l’esecutore seduto alla grande consolle, quasi in un itinerarium mentis in Deum, ad una dimensione superiore che fa pregustare le bellezze di Lassù. ◼
* Organista della Basilica del Santo
classica
Restaurato l’organo
della Basilica del Santo
25
contemporanea
26
A Pierre Boulez
il Leone d’oro 2012
L
di Andrea Oddone Martin
eone alla modernità»: così Pierre Boulez definisce il riconoscimento alla carriera
di cui è stato appena insignito dalla Biennale Musica, lo scorso 6 ottobre, in un Teatro alle Tese gremito di personalità del mondo della musica accorse in doveroso tributo. Carriera densa e significativa quanto mai, quella premiata: Boulez (classe 1925) ha attraversato il xx secolo da indubbio protagonista, lasciando in eredità quelle che lui stesso definisce «indicazioni, tracce, vie possibili per il futuro della modernità». Una modernità concepita fin dagli inizi come concezione dinamica degli eventi e
delle azioni rivolte a un futuro sconosciuto, non vincolato a
una visione conservatrice e statica.
«
porain (formazione fondata dallo stesso Boulez nel 1976) è
altissima. Il virtuosismo pianistico di Dimitri Vassillakis
scolpisce le costruzioni sonore bouleziane con rigore severo,
dalla naturalezza sconcertante. Preziose, le cascate sonore dei
riverberi si irradiano dallo strumento e la fine del brano lascia
il posto allo stupore e agli applausi. L’esecuzione della Sonata per due pianoforti e percussioni di Bela Bartók suscita meraviglia per il perfezionismo esecutivo, che leviga le qualità
pungenti e sarcastiche della partitura e introduce l’ultima realizzazione di Boulez, una ri-creazione di Incises filtrata attraverso la partitura bartokiana, denunciandone le affinità fin
dall’organico e dalla timbrica ricercata. Sur Incises, così è intitolato il brano, viene condotto da Susanna Mällki in un virtuosismo trascendentale: condensazioni acustiche, strutture
cellulari dinamiche, punteggiature sonore, ritmi immediatamente incandescenti, colori vibranti e sfrangiate armoniche
persistenti attraversano i silenzi lasciando trasparire la particolare cura della qualità sonora della tradizione francese. ◼
Pierre Boulez
la biennale musica 2012
N
«Modernità è innanzitutto andare in una direzione che
non si conosce ma che si persegue sull’energia delle intuizioni», afferma il compositore. E in effetti, sin dall’inizio della
sua professione, il Maestro si è connotato per l’indipendenza del proprio pensiero critico: restano negli annali i veementi interventi nei quali egli contrapponeva la creatività artistica moderna alla tendenza paralizzante delle accademie, generando fatalmente incomprensioni e polemiche, senza risparmiare critiche, nella sua incessante elaborazione intellettuale, nemmeno al suo maestro, Olivier Messiaen. Animatore di
anni storici dei Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt, si
è trovato a stretto contatto con musicisti quali György Ligeti,
Hans Werner Henze, Iannis Xenakis, Karlheinz Stockhausen, John Cage nonché Bruno Maderna e Luigi Nono, ed è
alla loro amicizia che oggi dedica affettuosamente il premio
veneziano. Nel suo lascito saggistico è rappresentata l’indefessa ricerca – caratterizzata dalla proverbiale attenzione al
dettaglio, cui viene dedicata una cura maniacale – intorno al
principio generatore della musica e ai contesti (sociali, culturali, tecnici e tecnologici) in cui esso si sviluppa. George Steiner, nell’autobiografia dal titolo Errata, interrogandosi sul
principio della musica utilizza una sua definizione: «Cellule
e costellazioni dinamiche».
La cerimonia di premiazione assume un clima quasi nostalgico, cui fa da contrappunto la vitalità del Maestro, che – lontano dall’aspro rigore di un tempo – scalda e appassiona la
platea. L’esecuzione di Incises per pianoforte dà inizio al concerto. La qualità degli interpreti dell’Ensemble Intercontem-
ato nel 1925 a Montbrison, Francia, dagli studi di matematica a Lione passa a quello della musica a Parigi nel 1942, dove due anni dopo è ammesso al Conservatorio. Nel 1945 ottiene il
Premier Prix e nel 1946 è nominato direttore della musica di scena per la Compagnia Renaud-Barrault, dove dirige lavori di Auric,
Poulenc, Honegger e anche suoi. In questi anni compone la Sonatine pour flüte et piano, la Première Sonate per pianoforte e la prima
versione di Visage Nuptial per soprano, viola e orchestra da camera
su poemi di René Char. Nel 1951 si dedica a esperimenti di musica
concreta con Pierre Schaeffer negli studi di Radio France. Da una
serie di conferenze tenute nei corsi estivi a Darmstadt, fra il 1954
e il 1965, nasce il saggio Penser la musique aujourd’hui. Insieme
a Stockhausen, Berio, Ligeti e Nono, Boulez si afferma come una
delle maggiori personalità della sua generazione. Parallelamente si
svolge la sua carriera di direttore d’orchestra: nel 1966 dirige Parsifal a Bayreuth e Tristano e Isotta in Giappone. Nel 1969 guida per
la prima volta l’Orchestra Filarmonica di New York e ne diventa
direttore (1971-1977) succedendo a Leonard Bernstein. Su richiesta del presidente Georges Pompidou, nel 1977 accetta di fondare l’Institut de recherche et coordination acoustique/musique (ircam). Solo due anni prima nasceva l’Ensemble Intercontemporain, di cui diviene presidente. Nel 1976 viene invitato a Bayreuth
per eseguire la Tetralogia di Wagner con la regia di Patrice Chéreau. Nel 1979 dirige la prima esecuzione mondiale della versione
completata da Friedrich Cerha di Lulu di Alban Berg all’Opera
di Parigi. Nel 1992 firma un contratto di esclusiva con Deutsche
Grammophon e arricchisce la sua discografia dirigendo le più grandi orchestre del mondo. Nell’agosto dello stesso anno, il Festival di
Salisburgo gli consacra una serie di concerti che rappresentano la
quasi totalità dei suoi lavori. Fra le sue opere principali create all’ircam: Répons (1981/1988), Dialogue de l’ombre double (1985), explosante – fixe (1991/1993) e Anthèmes (1997). Le sue ultime composizioni sono Sur Incises, prima esecuzione assoluta al Festival di
Edinburgo nel 1998, e Dérive 2, di cui l’ultima versione è stata data
nel luglio 2006 al Festival di Aix-en-Provence. Alla Biennale è stato presente con continuità a partire dai primi anni cinquanta, presentando l’integrale della sua opera pianistica, prime italiane come Livre pour quatuor (1959) e capolavori come Figures, doubles,
prismes (1968), Eclat (1970), e soprattutto le cantate Cummings ist
der Dichter e Les soleil des eaux che con Improvisation III sur Mallarmé da Pli selon pli, diresse lui stesso con l’ Orchestra della Radio
di Baden Baden (1985). ◼
Pierre Boulez tra Paolo Baratta e Ivan Fedele
(foto La Biennale di Venezia/G. Zucchiatti).
a riproposta di Morton Feldman, il compositore americano quasi scomparso dalle nostre
programmazioni, è stata la punta di diamante della Biennale Musica. Un tempo le sublimi pareti sonore di Feldman erano considerate musicalmente monotone
ed estenuanti nella loro lunghezza. Alla Biennale, invece, il
pubblico è rimasto affascinato dalla immobilità incantatoria
del pianistico For Bonita Markus e del Quartetto per pianoforte e archi (mai eseguito in Italia dal 1989, l’anno di composizione e della morte dell’autore). Forse si affaccia un nuovo tempo anche esecutivo per il compositore come si è notato
per il Quartetto Klimt – in grado di conferire una emozionata dizione romantica, che direi shumanniana, alle microcellule dell’opera. Feldman rincorre l’idea della
semplicità nella
complessità. Nella sospensione del
tempo Feldman
costruisce labirinti infinitesimi, impercettibili varianti, dissolvenze incrociate. Non so se l’autore fosse vicino,
come si dice, ai
pittore americani dell’espressionismo astratto.
Era un artista astratto, ma contemplativo, prossimo al rituale imperturbabile delle coeve superfici colorate di Rothko,
con una concezione cosmica della musica. Dai tempi di Debussy e di Webern il suono non aveva conosciuto una simile
vocazione alla trascendenza e al mistero.
Nel complesso è stata una rassegna notevole, per l’osservazione a largo raggio degli «estremi» del comporre contemporaneo. In un rapido resoconto mi limito a segnalare le prime esecuzioni assolute o italiane più significative. Si sono imposti tra gli autori celebri, oltre a Feldman, le ancestrali memorie mistiche di Fachwerk della Gubaidulina, gli estri flautistici di Ambrosini, la elementarietà metafisica di Lucier,
l’ardente contrappuntismo del Quarto Quartetto di Dusapin, l’atarassica Electronic Music for Piano di Cage ricreata
originalmente con il live elctronics di Agostino Di Scipio.
Singolare la curiosità informativa del direttore artistico Ivan
Fedele per le nuove generazioni, che talora inseguono una
rinnovata tensione conoscitiva. Mi riferisco, per esempio, alle aspre antitesi di Franck Bedrossian e alla «saturazione»
fonica di Raphaël Cendo, dal materismo torrido sulla traccia di Xenakis, il compositore greco che esercita oggi una forMario Caroli (foto di Piero Colucci).
Quartetto Klimt (foto di Federico Cutuli).
densissimo cartellone, ma ricorderò almeno i Freeman Etudes per violino di Cage, nell’esecuzione del dedicatario Irvine Arditti, impassibile esempio di costruttivismo utopico.
Infine il ritratto per gli ottant’anni di Giacomo Manzoni:
composizioni da camera tracciano un intimo percorso dalle
liriche weberniane del 1958 all’aperta cantabilità di Per questo per voce e tromba del 2012. Spicca la raffinata scelta dei
testi di questo grande intellettuale.
Un cenno sulle esecuzioni. Straordinari una decina di solisti (si pensi al recital lucente del flautista Mario Caroli negli
intatti virtuosismi di Sciarrino e Ferneyhough) e vari complessi da camera. Purtroppo l’Orchestra di Stoccarda, unica importante formazione sinfonica, ha offerto un programma pletorico; mancano gli ensemble internazionali di largo
organico, ma la Biennale Musica soffre di troppo limitati sostegni economici. Finalmente è riapparso il catalogo, a cura
di Cesare Fertonani. Non ho riferito dettagliatamente sui
brani a mio parere discutibili (penso, per esempio, ai giovani
russi, alla ricerca affannosa dell’avanguardia occidentale, o ai
trentenni americani, in fondo conformisti nonostante le ambizioni di originalità). Ma le disuguaglianze nella programmazione fanno parte del tessuto culturale di un festival che
ha il compito di informare sulla attuale situazione compositiva e non soltanto di presentare capolavori. ◼
contemporanea
L
di Mario Messinis
te influenza soprattutto sui musicisti francesi. Interessante
la ricerca elettronica, come quella di Richelli e Sammarchi,
lontani dal ferreo razionalismo delle prime avanguardie. E
ancora: i sontuosi studi pianistici della coreana Unsuk Chin;
le nostalgie medievali, sentite attraverso Nono, della vocalità di The World feels Pressure del greco Kyriakides; la lucidità formale di Marco Momi, la nitida sottigliezza del suono di
Ante litteram di Oscar Bianchi.
Un breve cenno sulle due interessanti operine da camera.
Serial Sevens di Francesca Verunelli sorprende per la sottigliezza della scrittura vocale tra attrazione per il subcutaneo
e irruzione espressiva. La sapiente indagine melodico-declamatoria estende la ricerca di A-Ronne di Berio. C’è però una
dissociazione tra suono e immagine registica (Magritte visto
attraverso il surrealismo filmico di Kagel). AMGD di Giovanni Bertelli (un altro dotato trentenne italiano espatriato a Parigi) opta invece per una teatralità diretta nelle citazioni blasfeme di preghiere latine. Si pensa a Ligeti, a Kagel,
a Aperghis e all’evocazione grottesca del madrigale drammatico rinascimentale.
Non posso soffermarmi sui capolavori storici sparsi nel
la biennale musica 2012
Biennale Musica 2012:
panoramica
di un festival riuscito
27
la biennale musica 2012
contemporanea
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Vincono ancora
i grandi maestri
S
di Mario Gamba
e alla Mostra del Cinema di Venezia i nuovi film, in concorso o no, ottenessero scarsa attenzione e tutti discorressero di vincitori morali o effettivi nominando opere di Antonioni o Godard o Welles o Spielberg o Coppola proiettate in sezioni retrospettive, che bilancio si farebbe del festival? Probabilmente negativo. Si direbbe: va bene, abbiamo avuto l’occasione di vedere film indimenticabili, oggi più rivoluzionari che mai, alcuni di scarsa circolazione, però lo sguardo sul panorama mondiale nel raggio di visione delle nuove produzioni è poco esaltante. Colpa degli autori (nuovi o più o meno classici) o colpa
dei selezionatori? Da parecchi anni quando finisce un Festival internazionale di Musica contemporanea della Biennale
ci si trova a fare considerazioni analoghe.
Quest’anno è andata più o meno nello stesso modo. Non
sono mancati, intendiamoci, i lavori nuovi in assoluto o nuovi per l’Italia (bisogna comunque accontentarsi…) con caratteri attraenti. Che siano bastati a stimolare il desiderio di un
ragionamento, di una discussione, sulle tendenze della musica oggi, è tutto da vedere. Ma è a questo che servirebbe il festival. O no? Successi mediatici clamorosi tipo biennali cinema e arte è inutile sognarli. Sarebbe fantastico che l’appuntamento musicale veneziano di inizio autunno lasciasse una
scia di riflessioni, magari di incontri critici-pubblico in varie
località, per fare il punto su cosa è vivo e cosa è morto nella
musica del nostro tempo, le ricerche, le dirompenze, i riflussi
più o meno calcolati, i circoli allevatori di talenti (se ci sono),
le curiosità significative, le stravaganze. Passa la voglia alla fine del festival di immaginare qualcosa del genere.
Una annotazione è inevitabile, anche questa detta e ridetta.
Prima di addentrarci in una panoramica veloce della Biennale Musica n. 56. Siamo sicuri che occorra perpetuare all’infinito la scelta di mettere in programma solo le musiche di
provenienza «colta», altri dicono «accademica»? Le musiche classiche moderne, come dice il volgo. Quelle, insomma,
che Maurizio Pollini definisce «d’arte» lasciando intendere che un Lou Reed per non dire un Dizzy Gillespie per non
dire una Mira Calix con l’arte non hanno a che fare, chissà
con che cosa, forse con il Lego o con le agenzie di rating, va’ a
sapere. E si sa che Pollini da piccolo, età delle elementari circa, era già così esclusivo nei gusti – ereditati, acquisiti per lasciti ambientali e culturali, come tutte le cose, di naturale al
mondo non c’è nulla – da correre isterico a spegnere la radio
se trasmettevano una qualsiasi canzone o canzonetta. Isterismi, appunto. Non scelte equilibrate e illuminate.
Naturalmente ogni tanto si tenta l’inserimento dell’«altro», dell’«alieno», del «fuori sistema». Si guarda al
jazz, alla musica di improvvisazione, intuendo, giustamente, che è questa che manca, insieme al gran filone della «nuova elettronica». Due anni fa si tentò con Evan Parker e andò bene. Concerto di voluttà telluriche e di veemenze siderali. Quest’anno il nome era ancora più grosso: Anthony Braxton. È andata peggio. Una composizione per largo
ensemble che più che magmatica era asfissiante. Però valeva la pena di provarci, è chiaro. Il gruppo 12+1 in Italia e forse in Europa non si era
mai esibito in pubblico. La sala delle Tese
era stracolma. Vedere
all’opera l’immenso
Braxton con i suoi discepoli vecchi e nuovi,
dal trombettista Taylor Ho Bynum alla fagottista Sarah Schoenbeck, era allettante, anzi eccitantissimo. Peccato che lui abbia sprecato l’occasione con un lavoro più
accademico di quelli accademici per definizione (imperfetta),
un lavoro in ogni caso
inedito, e non si può
dire «bella forza, i
brani di jazz sono ogni
volta inediti!» perché
qui era tutto scritto e di improvvisazione si annusava a malapena l’odore. Va comunque dato atto a Ivan Fedele, il nuovo
direttore artistico, di aver mirato alto.
Una serata era dedicata a compositori americani non si sa
se emergenti o semplicemente giovani di età, affidati all’Ensemble Alter Ego e alternati a quattro opere di Alvin Lucier,
un grandissimo che in Biennale è stato sempre ignorato. In
realtà si è trattato di una piccola monografia su Lucier «decorata» con tre brani del trentenne Tristan Perich, del ventisettenne Sean Friar e del trentatreenne Mario Diaz de Leon. Come sarebbe stato più buono il piatto senza simili «ornamenti»! Un disastro, questi giovani (che, poi, se vogliamo dirla tutta, Stockhausen a ventitré anni aveva già scritto
Kreuzspiel…). Si è salvato appena Perich con i suoi soffi e suoni muti, mentre i goffi echi di straight jazz di Friar e la colonna sonora per documentario tipo «fattoria nello Wyoming
al risveglio» di de Leon erano penosi. Lucier, lui, ottimo, mirabile. E mestissimo, quasi funebre, nella novità assoluta Two
Circles, dove il principio del suono unico continuo era applicato con delicate distribuzioni tra gli strumenti (violino, violoncello, flauto, clarinetto, pianoforte).
Altra serata attesa per speranza di notizie fresche dal pianeta musica contemporanea era quella intitolata New Russia/
Old America con gli Alter Ego e gli Ex Novo a suonare assieComposition 355 (+) di Anthony Braxton.
L’Ensemble InterContemporain.
rato un enorme piacere. Ottima strumentista, Lotti ha rivelato doti di vocalista davvero magnifiche e assai glamour
(che non è parola vietata, si spera). Le ha impiegate in una
delle più belle novità assolute del festival, Alle tacenti stelle
– Ipazia, àchranton àstron di Luigi Sammarchi, una musica immaginifica e trasognata. Non le ha impiegate, visto che
non servivano, in un’altra splendida novità assoluta, Classifyng the Thousand Shortest Sounds in the World per flauto
solo di Claudio Ambrosini, lavoro di pensosa epidermicità,
e qui siamo in zona grandi maestri che portano lavori nuovi
alla Biennale, quello che manca sempre troppo.
Lucier e Ambrosini, Sammarchi, Braxton. Le prime di peso ci sono state. Poche, comunque. Con Pierre Boulez e il suo
Leone d’oro alla carriera c’è stata anche una mondanità che
non si ricordava da chissà quanto tempo. I gazzettini locali
e nazionali hanno riempito colonne con il solo elenco delle
personalità, i critici paludati che non vengono mai sono venuti e sono ripartiti dopo il concerto di musiche di Boulez. Il
«suo» Ensemble InterContemporain non le ha suonate bene, diciamo senza slancio. Alcuni dietrologi sostengono che
hanno fatto apposta, gli strumentisti dell’Ensemble, a rendere un poco insipida un’opera meravigliosa come Sur Incises, una delle più mosse e persino sensuali dell’autore. Perché
è un dittatore e loro lo odiano e aspettano solo che muoia per
togliersi un peso. Speriamo che non sia vero. ◼
contemporanea
tronics, dal duo Ciro Longobardi-Agostino Di Scipio, e dei
Freeman Etudes completi (o quasi…) sulle corde del violino
di un acrobatico eroico Irvine Arditti, che siamo in presenza di un immenso compositore in qualunque modo si voglia
intendere questo termine, anche in modo tradizionale. Purtroppo in ombra le altre situazioni cageane proposte dal festival: il Concert for Piano and Orchestra è risultato sbiadito con James Clapperton solista (eppure è senz’altro uno dei
migliori pianisti disponibili a livello internazionale) e la Fvg
Mitteleuropa Orchestra. E sul pallore delle realizzazioni di
Imaginary Landscape n. 5 e di hpschd da parte di Marco
Gasperini e Luca Richelli sarebbe meglio tacere, ma si tratta della collaborazione Bm-Conservatorio Benedetto Marcello e allora ci chiediamo perché così spesso avvenga all’insegna della prudenza tipo corso di studi (ma i due musicisti
non sono affatto giovinetti alle prime armi).
Spesso ma non sempre. In ambito Conservatorio veneziano la performance della flautista Federica Lotti ha procu-
la biennale musica 2012
me. L’anno scorso i russi dello Studio for New Music di Mosca (anziani e giovani, tutti rivoluzionari) erano stati il soffio
vitale della rassegna, quest’anno ci si poteva aspettare l’illuminazione dai giovanissimi Nikolay Popov, 26 anni, Kirili Shirokov, 22, Alexander Khubeev, 26. Il primo ha sciorinato effettacci per due percussioni costringendo tutti a rimpiangere la vera modernità di un Gene Krupa, re della batteria con Benny Goodman negli anni trenta del secolo scorso.
Il secondo ha fornito un esempio di concettualismo estremo
(una stessa scena sonora ripetuta tra lunghissime pause di separazione da due gruppi strumentali timbricamente ricchi)
e ha fatto pensare a una specie di scolastica. Il terzo ha fatto
del buon rumorismo, della buona alterazione violenta degli
strumenti, implacabilmente «grattati». Insomma, la rivoluzione russa forse continua da un’altra parte. In compenso
i due ensemble hanno interpretato In C di Terry Riley nella maniera più sciocca che si potesse immaginare. Per onorare la old America (che all’epoca del primo Riley era uno spumeggiante laboratorio
di innovazioni, in musica e non solo, in politica per esempio, nella società) hanno pensato più al Quartetto
Cetra (vecchia America dei tempi…, ecc.) che
al Village e ai beatnik,
così hanno fatto del
celebre brano uno slow
ma senza languore, come alla prima prova di
suonatori non troppo
esperti.
Ma parliamo di come si è goduto alla prima Bm di Ivan Fedele. Si è goduto molto.
Con Feldman e Cage,
prima di tutto. Piano,
violin, viola, cello, ultima opera di Feldman
– ma che fosse a Venezia la prima esecuzione italiana, come
stampato sul catalogo e purtroppo ribadito da chi scrive sul
manifesto del 10 ottobre scorso, non era vero: fu a Macerata
alla Rassegna di Scodanibbio nel 2001 con l’Ensemble Recherche –, e la sua For Bunita Marcus metterebbero in attivo i conti di qualunque festival. C’è in questi lavori tutto
il pragmatismo di chi ti fa trovare in uno spazio/tempo dove la libertà non è più utopia, dove la meditazione e l’attenzione seguono il criterio del piacere assorto e non della disciplina, c’è tutta la maestria compositiva di una maturità
che è uguale allo stupore e alle malinconie dell’adolescenza.
Grande idea di concludere il festival a notte fonda con Bunita interpretata da uno splendido, intelligentissimo, pianista,
quell’Andrew Zolinsky che è stato la rivelazione delle giornate veneziane.
C’è poi stato il capitolo John Cage. Appassionante. In grado di far ripensare su quel residuo dubbio che circola tra musicologi chierici: Cage grande inventore non grande compositore. Come se avesse senso stabilire una differenza! Facciamo finta di accettare il criterio che c’è dietro questo dubbio,
cioè che mancherebbe a Cage la raffinatezza e complessità di
scrittura finalizzate alla realizzazione di opere ben formate,
e diciamo, dopo l’ascolto a Venezia di Electronic Music for
Piano interpretata, per la prima volta con l’uso del live elec-
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la biennale musica 2012
contemporanea
30
Due nuove opere
da camera
L
di Oreste Bossini
a rappresentazione delle due nuove opere da
camera al Teatro alle Tese ha suscitato accese discussioni tra il pubblico che s’incamminava lemme lemme verso l’uscita dell’Arsenale. Lo spettacolo era l’unica serata di teatro musicale della Biennale di quest’anno, e il
pensiero correva con una punta di malinconia ai lavori scritti
per Venezia che hanno segnato la storia dell’opera del Novecento. Ma i tempi sono quelli che sono ed è inutile recriminare sulla decadenza del prestigio, meglio rimboccarsi le maniche e cercare di capire cosa c’è di nuovo e di buono nel misterioso mondo dei compositori trentenni di oggi. Molti esprimevano giudizi piuttosto severi soprattutto sul primo lavoro,
Serial Sevens di Francesca Verunelli. L’accusa principale mossa alla musica della giovane compositrice toscana, da qualche
anno trapiantata a Parigi, era di aver mostrato una scrittura del tutto priva d’immaginazione teatrale. Non saprei dire esattamente in che cosa consista questo famoso «senso
del teatro», perché mi sembra che la storia sia del passato, sia
più recente abbia dimostrato che esistono al mondo numerose (non infinite, ma numerose) forme di teatro e soprattutto che ogni autore cerca di proiettare in un lavoro drammatico in primo luogo immagini nate all’interno della sua mente. Le antiche didascalie dei libretti d’opera recitavano non a
caso «L’azione si finge in Siviglia», per dire che lo spettatore
doveva immaginare di trovarsi tra le strade e i palazzi di una
città spagnola, che forse né lui, né l’autore avevano e probabilmente avrebbero mai visto coi loro occhi. Questo per dire
che l’immaginario contemporaneo è un tema assai variegato e declinato in mille maniere differenti, di conseguenza mi
sembra che una categoria ambigua come quella di «senso te-
atrale» sia perlomeno controversa. Ma certo Francesca Verunelli sembra accostarsi al palcoscenico indossando un’asettica tuta protettiva, come se avesse il terrore d’infettarsi con il
terribile virus del Kitsch, che in effetti tende a proliferare in
maniera piuttosto rigogliosa nel mondo del teatro. L’impressione era rafforzata dallo spettacolo altrettanto algido di Kristiina Helin, che aveva piazzato i sette Neue Vocalsolisten in
cima a un grande lenzuolo bianco declinante a scivolo fino al
pavimento. Sette alienati ossessionati dal bianco (tutto è candido in questo lavoro, dal timbro delle voci e degli strumenti
a percussione alle vestaglie ospedaliere e al leggio troneggiante di fronte a ciascun cantore) sminuzzano in minuscoli fonemi un testo già di suo tritato di senso dalle ripetizioni e dalle decostruzioni linguistiche, mentre sotto di loro le abili mani di un sarto proiettate sul lenzuolo confezionano con gesti
misurati e servendosi di adeguati strumenti di lavoro un’elegante giacca scura, sulla quale svolazzano, una volta infilata sul manichino, un gruppetto di pappagallini irriverenti.
A ben pensarci, l’unica macchia di sporcizia e di disordine in
tutto il lavoro è un puntino di cacca lasciata da un volatile sulla spalla della giacca, chissà poi se in maniera voluta o no. La
visione del teatro di Francesca Verunelli è lontana anni luce
da un’idea di rappresentazione drammaturgica della vita reale, di personaggi che s’incarnano sulla scena con la loro storia e le loro passioni. Di sicuro non è un teatro ansioso di piacere al pubblico, anzi sembra quasi infischiarsene altamente
di sapere se in sala sia rimasto ancora qualcuno oppure no. Lo
spettatore naturalmente ha tutto il diritto di rifiutare un lavoro del genere, ma il critico invece dovrebbe sentire il dovere di sottolineare che un tipo di teatro così ferocemente antiteatrale non è un’invenzione della Verunelli, e che la spietata
rottamazione della tradizione operistica ha ormai alle spalle
una storia quasi secolare. Piaccia o non piaccia, questa tradizione esiste e Serial Sevens scorre nel solco di un’idea di teatro
Serial Sevens di Francesca Verunelli (foto di Martin Sigmund).
positore, tant’è vero che l’autore doveva farsi esso stesso esecutore della propria musica per avere il diritto di affermare il
proprio mondo sonoro. Oggi invece la prima preoccupazione di un compositore sembra quella di costruire il suono del
proprio lavoro, nella convinzione che il successo della propria
musica e il rispetto per la sua figura professionale dipendano
essenzialmente dalla capacità di inventare un sound peculiare. Forse è un’impressione superficiale, ma ho provato più d’una volta la sensazione che sotto la coltre di invenzioni timbriche e di intuizioni sonore, spesso ingegnosissime, di questa generazione si nasconda una materia prima piuttosto ordinaria.
L’altra opera da camera, amgd di Giovanni Bertelli, ribalta
invece quasi del tutto il discorso. Con gli stessi mezzi a disposizione, i Neue Vocalsolisten di Stoccarda e un paio di percussionisti multitasking, Bertelli inventa un teatro sanguigno,
arruffato, di linguacce. Lo spunto è una parodia dell’Ethi-
differenza della collega, Bertelli si sforza di fare del teatro comico e in qualche modo ci riesce, affrontando il genere più rischioso e senza rete. Ma lo fa con serietà e metodo, imparando forse più dal vecchio Verdi di Falstaff che dal teatro di Kagel, e almeno si salva l’anima. Sarà interessante magari vederlo alla prova con un testo teatrale un po’ più robusto dal punto di vista drammaturgico.
Le due operine sono il frutto del progetto europeo Enparts,
che dopo cinque anni ha chiuso i battenti. Forse in qualche
commissione di Bruxelles si sta valutando se finanziare l’iniziativa per un nuovo periodo oppure no, se proseguire l’esperienza di un laboratorio interdisciplinare o dichiarare che per
il momento ça suffit. Il risultato di quest’anno, tenuto conto
che si tratta di un laboratorio e del primo lavoro teatrale di
due compositori next generation (hanno passato i trent’anni, ma nella società dei bamboccioni sono considerati artisti
esordienti), mi sembra incoraggiante. Per una volta lo chiediamo noi all’Europa, si vada avanti! ◼
amgd di Giovanni Bertelli (foto di Martin Sigmund).
contemporanea
ca di Spinoza (l’acronimo amgd sta per aesthetica more geometrico demonstranda), per un testo che mette alla berlina la famiglia, i suoi rapporti immorali, le sue psicopatologie. Qui i gesti, al contrario del lavoro precedente, sono esibiti
in maniera esagerata come nelle comiche dei guitti ed esaltati da un’orchestra di rumori e di pernacchie percussive degna
del duo Otto&Barnelli. I personaggi del resto sono maschere astratte, tipi che incarnano categorie generali come l’Uomo, la Donna, il Nonno, il Bambino. Lo stile grottesco della
vocalità e l’assurdità della vicenda sono certificate infine dal
personaggio di Gaudeaux, che in francese si pronuncia come
Godot, ma ha il vantaggio di poter comparire in scena senza l’autorizzazione degli esosi eredi di Beckett. La religione,
specie quella cattolica, offre sempre ottimi pretesti per la parodia, fin dai tempi di Rabelais. Qui è il latino dell’Ave Maria
a fornire l’ossatura del libretto e della scrittura vocale, ma la
struttura geometrica della partitura si sviluppa attorno all’assurda catena di azioni compulsive dei cinque personaggi. A
la biennale musica 2012
astratto, di drammaturgia della voce che risale a Kurt Schwitters e Ezra Pound, rafforzata poi da una scrittura consapevole delle esperienze accumulate in vari decenni di sperimentazione vocale (su tutte, citerei A-ronne di Berio).
Vorrei invece mettere in luce un fenomeno diverso, che mi
sembra accomunare la Verunelli ad altri compositori della sua
generazione ascoltati alla Biennale e più in generale negli ultimi tempi. La ricerca sempre più raffinata e virtuosistica di un
suono personale, che rappresenta a mio modo di vedere l’aspetto più notevole della musica di questa autrice, nasconde
spesso una concezione abbastanza tradizionale, a volte addirittura elementare, della dimensione armonica. Soprattutto
armonica, ma in sottordine anche melodica e ritmica. È come
se il centro di gravità della ricerca compositiva si fosse spostato
in questi anni quasi esclusivamente sul suono, a scapito degli
elementi tradizionali del linguaggio musicale, come l’armonia, la melodia, il ritmo. Un tempo il suono era il regno quasi esclusivo dell’interprete e del suo strumento, non del com-
31
la biennale musica 2012
contemporanea
32
A Little
Venetian Journal
V
di Giordano Montecchi
enezia, Biennale Musica numero cinquantasei. Martedì 9 e mercoledì 10 ottobre: al Piccolo
Arsenale e alle Tese è il momento dei giovani, parola che in Italia, ultimamente, fra j’accuse e epiteti assortiti, ha assunto colorazioni forti, a volte improprie
e strumentali, portandosi dietro insomma un che di sottilmente provocatorio. Cinque concerti in due giorni (erano
sei ma uno mi è sfuggito) nel corso dei quali si sono ascoltate opere strumentali e vocali di sedici diversi compositori di cui undici, appunto, giovani o relativamente tali, nati
comunque dal 1974 in avanti e quindi con non più di trentott’anni sulle spalle.
Gli altri cinque autori si dislocavano lungo diverse generazioni novecentesche. Il Conservatorio ha dedicato un affettuoso omaggio a Luciano Chailly, classe 1920, scomparso nel 2002. Martedì, al Piccolo Arsenale, fra new russians e
old americans, abbiamo ritrovato In C di Terry Riley, born
in 1935. E, ancora, Plus Oultre di Hugues Dufourt che ha
da poco compiuto i sessantanove; e poi Réplique di Jean-Luc
Hervé, cinquantadue anni. Il quinto e ultimo «anziano»
mancava purtroppo all’appello, trattandosi di Fausto Romitelli che, andandosene prematuramente otto anni fa, neppure quarantenne, ha lasciato tristemente vacante quel posto di compositore italiano più dotato della sua generazione
che già si era conquistato. Di lui si è ascoltato Golfi d’ombra
per un percussionista, partitura non ultimata e ricostruita da
Simone Beneventi che l’ha eseguita in prima assoluta. Quattro, per l’appunto, le prime assolute, e nove le prime italiane
ascoltate nei due giorni in questione.
Questa ricca, ricchissima offerta di giovani autori e di musica appena nata mi ha spinto a Venezia, diviso a metà fra speranza e timore; augurandomi di poter annotare qualche nome nuovo, di fare qualche incontro sorprendente, promettente, indimenticabile persino. Ma anche timoroso di ritornarmene deluso, senza niente di nuovo da raccontare; e la casella della bellezza malinconicamente vuota di nuovi arrivi.
Proprio così, «bellezza», altra parola della discordia, come e
ancor più di «giovani».
Il timore della delusione, figlio dell’esperienza, lo conosco
bene. È un sentimento che negli anni ha lavorato, subdolo
ma inesorabile, generando un senso crescente di distanza –
distanza critica ma anche affettiva – da quella nuova musica o musica contemporanea o new music o neue Musik, poco importa l’etichetta, della quale per tanto tempo mi sono nutrito, appassionandomi alle sue sorti, ora amando, ora
detestando, ma sempre fiducioso che la sorpresa, l’entusiasmo, l’innamoramento avrebbero premiato, se non oggi domani, quella dedizione. Perché in arte, finché c’è sorpresa c’è
speranza.
Ma il tempo ha registrato più che altro il progressivo diradarsi della sorpresa. E con esso l’aumento della distanza di
cui sopra, la percezione di una progressiva estraneità, di indifferenza rassegnata, un po’ fatalistica per gli oggetti dell’ascolto. Così da anni ormai la domanda è sempre quella: sono io o è lei? È la sclerosi dell’ascoltatore divenuto incapace di sorprendersi? O è lei, la musica, quella musica, che via
via si è fatta più anemica e
replicante? Che ha perso la
sua capacità di conquistare?
L’istinto di conservazione, ma anche lo sporadico, troppo raro insorgere di shock, soprassalti, entusiasmi densi di umore risarcitorio e capaci di risvegliare la passione, mi fanno
propendere per la seconda
ipotesi. Ben sapendo però
il rischio di finire risucchiato nel coro vociante e insipiente dei denigratori, per i
quali, in musica, contemporaneo è sinonimo apriori di
inascoltabile.
Delle tante musiche incontrate, giusto un paio
mi hanno colpito per qualche aspetto pregevole. La ricercata levigatezza sonora,
adamantina e seducente messa in opera da Marco Momi in
Iconica IV, una composizione del 2010 per trio d’archi, flauto, clarinetto, pianoforte preparato e live electronics. E poi i
suggestivi amalgami vocali, meritoriamente memori del miglior Berio e affidati alle ben note virtù dei Neue Vocalsolisten, ascoltati in Serial Sevens di Francesca Verunelli, opera
da camera per sette cantanti e due percussionisti, prodotta
dalla Biennale insieme a Musik der Jahrhunderte di Stoccarda. Opera di cui ricordo anche la chiusa: una magnifica, elettrizzante cadenza delle percussioni che conservo come il momento forse più convincente e ahimè fugace fra i tanti succedutisi nei due giorni veneziani.
Serial Sevens era parte di un dittico che comprendeva un
altro lavoro di teatro musicale da camera, amgd aesthetica
more geometrico demonstrata di Giovanni Bertelli per cinque voci e due percussionisti. Scrittura elegantemente stilizzata per Verunelli, sberleffo tagliente, volgente a Kagel, per
Bertelli. Tratto preponderante e comune ai due era invece la
cripticità deliberata dei testi e il clima non-sense, alimentato
dall’inventiva registica di Kristiina Helin, col suo indecifrabile e precario equilibrismo fra humour e gratuità.
Quel mercoledì sera c’era però un altro dato ancor più incombente a volerlo individuare. Era infatti quella l’unica seSimone Beneventi.
Marco Momi (foto di Paride Galeone).
contemporanea
lia. E se chi governa non lo capisce deve cambiare mestiere.
Dare respiro alla Biennale non significa allestire un red carpet e trasformarla in evento. L’incubo di una Biennale che
domani applaudisse Giovanni Allevi o Goran Bregovič è ben
più cupo del vederla rinchiusa com’è attualmente in quella
sua torre di un avorio ormai cariato dal tempo.
Dare respiro significa due cose. Primo: più risorse, come
si è detto. Secondo: più orizzonte, più raggio d’azione. Uno
sguardo sì consapevole del grande valore di quella tradizione che Morton Feldman chiamava academic avantgarde, la
madre dei giovani-vecchi compositori che abbiamo ascoltato. Ma consapevole anche che una rassegna limitata a questa
tradizione racconta solo una minima quota della musica che
oggi dà il suo bravo contributo a trasformare i gusti, le idee, i
comportamenti degli uomini; e quindi a cambiare il mondo.
Eppure quest’anno, mi sussurrano, ci sono anche Elliott
Sharp e Antony Braxton: l’orizzonte della Biennale non è
affatto così limitato. Se è per questo, aggiungerei, in passato
ne sono transitate parecchie di musiche di artisti «non togati». E non c’è chi non ricordi la controversa biennale newyorkese diretta
da Uri Caine.
Ma non è questo il punto. Allargare l’orizzonte alle «altre musiche» è
uno slogan inflaccidito,
un desideratum troppo
indefinibile e ambiguo.
Non si tratta di aprire spazi. Gli «spazi riservati»
non aprono, ma tendono
piuttosto a segregare. Così come le presenze isolate di artisti di richiamo,
si tratti di Goebbels o Alva Noto, Braxton, Scanner o chi per essi, non risultano inclusive, ma al
contrario rimarcano diversità e distanze, dando
anche una poco simpatica strizzatina d’occhi a destra e a manca. Aumentare le presenze glamour per dare alla Biennale una vernice di trasversalità multi-culti sarebbe una scelta vacua per un festival che
la storia condanna a essere uno dei più importanti del mondo. Un festival che le miserie recenti della politiche culturali italiane condannano invece a una malinconica economia
di sussistenza.
Forse oggi la Biennale non può fare altro che concentrarsi sul suo tradizionale alveo accademico (nessun intento denigratorio in questo termine). Ma è lecito, anzi doveroso sognare – anzi no: reclamare ad alta voce – un festival messo
nelle condizioni di ripensare a fondo la sua capacità di lettura del presente. Un festival che possa permettersi di destinare le sue energie e competenze migliori innanzitutto alla ricerca e al monitoraggio della musica nuova nei suoi alvei di
produzione, alvei così diversificati e così bisognosi di essere
individuati, indagati e approfonditi. Soltanto dopo vengono
la scelta, la selezione, gli indirizzi.
Bisogna ricominciare dall’esplorare, dal conoscere il mondo che ci sta attorno. Sta qui il deficit più grave: un deficit di
conoscenza. Da tempo la Biennale – così come troppa parte della vita musicale italiana, arroccata a difesa delle sue piccole traballanti cittadelle – è andata perdendo la sua capacità di guardare lontano e fors’anche vicino. A questa deriva bisogna ribellarsi. Il difficile è capire in che modo ribellarsi. ◼
la biennale musica 2012
rata dedicata al teatro musicale, un lusso che la Biennale non
si può più permettere se non riducendo ai minimi termini le
dimensioni, gli organici, in una parola: i costi.
Perché la Biennale è povera, una povertà dissimulata con
dignità caparbia, ma percettibile in una programmazione
che si intuisce fortemente condizionata dagli scarsi mezzi.
Biennale specchio di un Paese che affoga nella grettezza di
politiche incapaci non solo di curarne ma anche di diagnosticarne il morbo che lo consuma: una «insufficienza culturale» che è la madre di tutte le corruzioni e degenerazioni della
politica come della cittadinanza. Ma questo sentiero ci porterebbe fuori strada. Restiamo al pessimismo della musica.
Perché dunque ascoltando una dozzina di giovani si ha la
sensazione prevalente che scrivano come dei settantenni disillusi, rimossa ogni traccia di ingenuità, preoccupati solo
della propria tecnica? Quasi interpretando alla lettera quella feroce stilettata di Donatoni quando disse: «Compongo
unicamente per allenarmi a comporre».
Non è così, non può essere così, eppure in genere il risultato è proprio quello e a prevalere è una sorta di neomanierismo post-xyz. Una sola eccezione forse, nel pomeriggio dei
giovani russi: Kirill Širokov, ventidue anni. Sfrontatamente
insopportabile, ma anche sorprendente per la sua determinazione nel colpire al basso ventre gli ascoltatori che infatti alla fine lo hanno subissato di fischi. Con perfidia impietosa, il suo Stripping ribadiva la medesima cellula dalla staticità microscopicamente variata e inframmezzata da pause
estenuanti; materia minimale, un Feldman inacidito sospinto, una replica dopo l’altra, oltre il limite della sopportazione. Di certo il giovane Kirill sapeva che la sua era una sfida,
ma non sembrava contento dei fischi (forse non ci sono più
i radicali di una volta per i quali molti fischi, molto onore).
Al termine di un concerto, un amico mi ha chiesto come
mai ero tanto silenzioso. Perché non ho niente da dire, ho risposto, perché questa musica non mi ha detto niente, mi suona lontana, estranea ormai. Musica sganciata da un mondo
che, intanto, oggi, adesso, mentre scriviamo, macina tonnellate di musica di ogni genere, lurida e sublime, seducente e
repellente, tragica e ridanciana, Apollo e Dioniso, ancora loro, ma di cui negli antri incantevoli dell’Arsenale veneziano
non giunge la minima eco, e neppure il distillato. Musica nel
cui ribollire, fra industria e degrado, genialità e furberie, ribellione e delocalizzazione, si agitano più novità, credo, di
quante se ne ascoltano, da tempo, negli autunni veneziani.
Però i giovani vanno alla Biennale. Il pubblico c’è ed è attento, curioso. Segno che questa musica interessa. Certo che
interessa: c’è pochissimo altro in giro. Interessa anche perché
la domanda di musica in Italia, in questo Paese ridotto alla
fame d’arte e di cultura, è fortissima. La Biennale, ogni anno
(bisticcio simbolico forse) si fa onore. Ma appare ormai come una presenza avulsa da un contesto sempre più avvilente
e che malamente tollera ciò che non fa evento.
Dieci, cento, mille giovani compositori, niente red carpet,
niente star (a parte, quest’anno, Boulez e Braxton – star relative) non fanno né faranno mai evento; non allettano né
sponsor, né politici. Perché, purtroppo, dalle nostre parti
nessuno finanzia per niente.
Eppure dare respiro alla Biennale Musica, questo alfiere
esausto di una cultura marginalizzata, è un dovere sacro. Più
respiro vuol dire più importanza. E più importanza vuol dire anche, brutalmente, più soldi. Soldi negati da governanti
incapaci (?) di capire che la crisi è anche e soprattutto figlia
di un cinismo e di un’incultura civile il cui unico antidoto è
una rinascita culturale, passaggio indispensabile per garantire un futuro a un Paese che si chiama nientemeno che Ita-
33
contemporanea
34
Philip Glass
alla Fenice
per l’unica data italiana
te forse di più immediata fruizione, con minor rigore, prossima talvolta alla sinfonia americana otto-novecentesca, come pure al rock autoriale.
All’incirca dagli anni ottanta, Glass prende addirittura le
distanze da entrambi i termini, benché mantenga un modus
iterativo, che però recupera alcuni elementi tonali sfruttando assai bene tanto le possibilità formali europee quanto alcune remote suggestioni che provengono dalle culture mudi Guido Michelone
sicali primitive o fuori dal Vecchio Continente: non è un caso che l’unico nome a comparirgli accanto nell’abbondante
ercoledì 12 dicembre il Teatro La Fediscografia sia quello dell’indiano Ravi Shankar, suonatore
nice ospita l’unica data italiana del progetto
di sitar e già sensale degli esperimenti di jazzmen o rockstar
«An Evening of Chamber Music» del comcome John Coltrane, George Harrison, John McLaughlin.
positore statunitense Philip Glass, una serata
Inoltre Glass intensifica un’attività per così dire multimediamonografica di musiche, appunto, cameristiche,
le prediligendo la simbiosi con altre discipline arche vedono quali interpreti d’eccezione lo stesso
tistiche, dal teatro alla danza, dal cinema alla pitGlass al pianoforte e Tim Fain al violino.
tura, dalla performance alla videoarte, mediante
Venezia
Nato a Baltimora il 31 gennaio 1937, autore di
collaborazioni spesso prestigiose, come quella con
Teatro La Fenice
musica colta o classico-contemporanea, Glass
Godfrey Reggio, regista di film-documentari do12 dicembre, ore 20.00
è ritenuto tra i massimi rappresentanti della cove la colonna sonora forse supera in potenza cosiddetta scuola minimalista americana musicale,
municativa la pur altissima qualità delle immagiche, grosso modo dagli anni sessanta a oggi, annovera, fra
ni montate, in crescendo audiovisivi impetuosi che lo stesso
gli altri, autori/performer come Terry Riley, Steve Reich, La
Glass propone, in versione live, suonando sotto lo schermo
in cui si proiettano le pellicole.
Vanno poi ricordate l’opera teatrale Einstein on the Beach ideata con Robert Wilson, e altri score
per la fiction, da Kundun (Scorsese) a The Truman Show (Weir), da
The Hours (Daldry) a Sogni e delitti (Allen). Nel 2007 risulta al nono
posto della Top 100 dei geni viventi stilata da una rivista americana;
e il 12 settembre scorso vince a sorpresa il Praemium Imperiale 2012,
massima onorificenza giapponese
in ambito artistico; per il settantacinquesimo compleanno, presenta
al pubblico newyorchese la sua Decima Sinfonia, mentre il recital veneziano si aprirà con «Mad Rush»
(1979) per piano solo, seguito dalla Chaconne dalla Partita per violino solo in sette movimenti (2010)
scritta apposta per Tim Fain. Seguiranno gli ultimi due numeri (il
Quattro e il Cinque) della raccolta pianistica Metamorphosis (1989)
e tre brani per violino e pianoforte («France», «The Orchard» e
«The French Lieutenant») dalle musiche di scena per The Screens (Les paravents, 1989) da Jean
Monte Young, John Adams. Tuttavia, come si avverte anche
Genet, per il Guthrie Theater di Minneapolis. Il concerto si
dal progetto che Glass presenterà in Fenice, il minimalismo
concluderà con «Wichita Vortex Sutra» (1990) per tastieè da alcuni anni l’oggetto di una contesa estetico-culturale
ra e voce registrata su testo di Allen Ginsberg e con «Pendufra gli studiosi e i sempre più numerosi fan del celebre comlum» (2010) per violino e pianoforte, scritto per celebrare il
positore; per lui, infatti, esaurito l’intenso periodo di partixc anniversario dell’American Civil Liberties Union.
ture minimaliste, attorno ai primi anni settanta, contrariaIl concerto avrà luogo in concomitanza con la mostra
mente ai nomi sopraelencati, avviene il progressivo distacco
«Modern Views of Ancient Treasures» della fotografa
dalla corrente mimimalista stessa, la quale del resto non riLynn Davis, allestita al Museo Archeologico Nazionale di
sulta affatto scuola, movimento, tendenza, ma spesso un’etiVenezia, a testimoniare il legame di amicizia che lega i due
chetta di comodo per critici desiderosi di chiamare per noartisti, che spesso si traduce in collaborazioni di musiche per
me un certo stile. E proprio quello stile che, in fondo, Glass
mostre (da parte di Glass) o di foto scattate durante i concerperpetua dai suoni e dalle culture dell’Estremo Oriente, vieti (da parte della Davis). ◼
ne per così dire espanso e incanalato verso ciò che i musicologi individuano come postminimalismo; insomma, un’arPhilip Glass.
M
La nuova stagione
dell’Orchestra di Padova
e del Veneto
T
di Alberto Castelli
ra i grandi centenari che animeranno il
2013 musicale (i duecento anni dalla nascita di
Giuseppe Verdi e Richard Wagner, il secolo da
quella di Benjamin Britten), l’Orchestra di Padova e del Veneto (opv) mostra di privilegiare nettamente l’ultimo. Per questioni di specifica vocazione sinfonica e di organico orchestrale, anzitutto: l’assetto è infatti quello della compagine da camera,
ampliata sempre più di frequente (e con eccellenti risultati sonori e musicali) fino alla cinquantina abbondante di elementi. Ma anche per l’attenzione che la
programmazione dell’Orchestra ha sempre riservato, dalla direzione artistica
di Bruno Giuranna ai più
recenti cartelloni firmati da Filippo Juvarra, al grande compositore inglese, con produzioni che hanno incluso tanto opere celeberrime (Les Illuminations op.
1.
18, con Juliane Banse e Christoph Poppen; la Serenata per tenore, corno e archi op. 31 con Ian Bostridge, Alessio Allegrini e Paul Watkins; la cantata drammatica Phaedra, con Sonia Prina; Lachrymae op. 48, con lo stesso Giuranna) quanto pagine meno praticate (il Preludio e fuga op. 29; il Doppio
concerto per violino e viola con Thomas Zehetmair e Killius
Ruth; i Two Portraits per viola e archi con Massimo Piva).
I tre concerti della stagione 2012-2013 che l’ opv dedica
a Britten intersecano il calendario ufficiale delle celebrazioni della Britten-Pears Foundation (www.britten100.org,
www.brittenpears.org) e sono accomunati dalla presenza
accanto all’ opv di alcuni tra gli interpreti più affermati della scena internazionale.
Gérard Korsten, alla sua prima collaborazione con l’Orchestra, è il direttore musicale dei London Mozart Players.
Inaugurerà il percorso Britten il 6 dicembre 2012 affrontando un programma che accosta volutamente lo Schubert
dell’ultima Sinfonia al grande compositore inglese. Insieme
a Mozart, Schubert fu infatti uno degli autori piú amati da
Britten. Frank Bridge ne fu invece il primo insegnante, e le
Variazioni op. 10 (scritte nel 1937) rappresentano un omaggio al maestro da parte del giovane ma già maturo allievo.
Il 14 marzo 2013 sarà in programma una pagina più matura, la Sinfonia per violoncello e orchestra op. 68, che Britten
scrisse per Msitislav Rostropovich nel 1963, incorniciata dal
1. Umberto Clerici; 2. Gérard Korsten (foto di M. Borggreve);
3. Gianluca Cascioli (foto di Silvia Lelli); 4. Giovanni Sollima.
Cantus per orchestra d’archi e campana che Arvo Pärt dedicò al compositore all’indomani della sua morte, e dall’ultima delle sinfonie «londinesi» di Joseph Haydn. Insieme all’
opv, Umberto Clerici, uno tra i piú affermati giovani violoncellisti italiani, e Christoph Poppen, che dopo le numerose
collaborazioni del passato torna a Padova da protagonista di
una carriera internazionale che lo porterà a debuttare alla testa dei celebri Wiener Symphoniker.
L’accostamento spontaneo fra Barocco e Novecento che
nasce dalle affinità musicali tra Britten e Purcell (e tra Poulenc e Rameau) sarà rafforzato l’11 aprile 2013 dalla presenza di due interpreti del calibro del direttore britannico Paul
Goodwin e del tenore olandese Marcel Beekman, attivi sia
nell’ambito della prassi esecutiva barocca che della musica
del xx secolo. Con il Notturno op. 60 per tenore solo, sette strumenti obbligati e archi (dedicato ad Alma Mahler ed
eseguito per la prima volta nel 1958) l’opv completa anche
2.
3.
4.
la programmazione dei grandi cicli per voce e orchestra del
compositore inglese.
Intorno al centenario britteniano la nuova stagione
dell’Orchestra affolla numerose pagine del Novecento storico e dei nostri giorni, valorizzate dalla cornice del format
ram-Ricerche Artistiche Metropolitane dell’Assessorato
alla Cultura del Comune di Padova. Le radici del contemporaneo saranno esemplificate dalle Suite per piccola orchestra
di Igor Stravinsky e dal Concerto per organo, archi e timpani di Francis Poulenc (19 novembre, con l’organista Simone Vebber e i giovani direttori allievi del Master diretto da
Giancarlo Andretta), e dal Requiem per orchestra d’archi
di Toru Takemitsu (31 gennaio, con il direttore Sascha Goetzel). La musica d’oggi sarà invece rappresentata, oltre dal
già citato Pärt, da una delle figure più eclettiche del panorama internazionale, il violoncellista Giovanni Sollima, che
debutterà con l’opv (26 novembre) in veste di solista, direttore e compositore con Hell I, brano profondamente evocativo ispirato alla Commedia dantesca, e Folktales, concerto
per violoncello e orchestra. Gianluca Cascioli, giovane pianista italiano tra i più affermati in tutto il mondo, comparirà
invece in veste di compositore (22 febbraio) con l’opera Trasfigurazione, vincitrice del Primo Concorso di composizione
Francesco Agnello promosso dal cidim-Comitato italiano
di musica (www.cidim.it) per ricordare uno tra gli operatori
musicali di maggior spicco del nostro Paese. Tutti i concerti
avranno luogo all’Auditorium Pollini alle 20.45. ◼
contemporanea
Equilibri
contemporanei
intorno a Britten
35
contemporanea
36
Con lola
la musica annulla
le distanze
I
di Letizia Michielon
l sogno goethiano di spezzare le barriere tra arte e scienza e di realizzare un percorso di ricerca interdisciplinare sembra avvicinarsi sempre più alla realtà,
nei nostri giorni. In questa direzione opera anche l’innovativo connubio tra musica e tecnologia proposto all’interno di Trieste Next-Salone Europeo dell’Innovazione e
della Ricerca Scientifica, in occasione del concerto che lo
scorso 29 settembre ha coinvolto interpreti che interagivano contemporaneamente
in tre sedi tra loro lontane:
Mario Brunello nell’Aula Magna del Conservatorio «Giuseppe Tartini» di
Trieste, i violoncellisti Angelo Zanin, Ester Vianello e Valerio Cossu nella sala «Trentin» dell’Università Ca’ Foscari di Venezia
e Ursula Ivanus Iwaki nella sala dell’Accademia di
Musica dell’Università di
Lubiana. Le distanze sono state annullate grazie a
lola, il low latency audio visual streaming system
di alta qualità sviluppato
dal Conservatorio di Trieste in collaborazione con
il Consortium garr. In
virtù dei bassissimi tempi
di latenza (l’intervallo di
tempo tra l’emissione del
suono e dell’immagine in
un luogo e la loro ricezione
nell’altro) gli artisti hanno interpretato musiche di
Vivaldi e Mozart come se si
trovassero nella stessa sala.
La manifestazione, proposta da Nordesteuropa Editore in collaborazione con
il «Giuseppe Tartini», ha
coinvolto, oltre al già citato Consortium garr, anche il Conservatorio «Benedetto
Marcello» e l’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Università di Lubiana, l’arnes e il Consorzio LightNet.
«La peculiarità di questo sistema – spiega Massimo Parovel, direttore del Conservatorio di Trieste – sta nell’avere risolto un aspetto finora poco considerato all’interno delle reti civili, ossia come coordinare tra loro processi a distanza interdipendenti, anche molto complessi, in tempo reale. Noi lo
stiamo testando con successo e soddisfazione in un campo,
quello musicale, in cui i tempi di latenza devono essere estremamente brevi per rendere possibile e artisticamente valida
un’esecuzione in contemporanea e soddisfare l’esigenza di
chi suona e di chi ascolta».
Finora lola, messo a punto grazie alla competenza di due
docenti del Conservatorio triestino, Nicola Buso e Paolo Pachini, e di Claudio Allocchio, responsabile dei servizi appli-
cativi avanzati di garr, è stato utilizzato essenzialmente per
scopi didattici, valorizzando un tipo di connettività simmetrica e bidirezionale che rende disponibile la stessa capacità
di banda in upstream e downstream, indispensabile perché
gli utenti «facciano cose» sulla rete e non siano degli spettatori passivi. Il progetto ha consentito la realizzazione di master class transoceaniche con la Texas Christian University
School of Music e collegamenti europei con l’ircam di Parigi, il Gran Teatre del Liceu di Barcellona e il Royal College
di Londra. Delle potenzialità tecniche e applicative di lola
si è parlato all’interno del Workshop «Introducing lola»,
tenutosi a Trieste lo scorso aprile – e recentemente a Napoli – all’interno del meeting dell’aec (Associazione Europea
dei Conservatori e Accademie di Musica), durante il quale si
è svolto il concerto a distanza del trombettista Mauro Maur
e della pianista Françoise de Clossey. Le prossime tappe del
progetto sono: la ricerca della stabilizzazione del colore, l’estensione audio da due a otto canali, l’ampliamento delle riprese a sistema multi-telecamera, l’utilizzo della simultaneità a tre o più poli, il raffinamento degli aspetti legati alla psicopercezione audio-video locale e remota, la realizzazione di
masterclass diffuse e la costituzione di partenariati a livello
europeo con finalità di ricerca e produzione artistica. Di notevole interesse anche le applicazioni in campo teatrale, per
quanto riguarda l’azione scenica, la danza, la drammaturgia; nel ramo scientifico, ad esempio nel caso della chirurgia
a distanza; e nel settore industriale, per aumentare il controllo interattivo a distanza di processi simultanei complessi. ◼
Mario Brunello durante il concerto
tenutosi lo scorso 29 settembre
nell’ambito di Trieste Next 2012.
G
di Ilaria Pellanda
iunge quest’anno alla sua quarta edizione la
rassegna Nuova Musica a Treviso, progetto organizzato dall’ensemble L’arsenale e reso possibile
grazie all’intervento del Comune e della Provincia di Treviso, della Regione Veneto, di Asolo Musica e Teatri spa, e, per il secondo anno consecutivo, grazie al Grant in
consueto, non rinuncerà a esplorare nuovi luoghi e territori
di ascolto. E il nostro percorso, anche di rivitalizzazione del
passato nel presente, si svolgerà come una promenade lungo cui le consuete Matinée domenicali (con Anna D’Errico,
Emanuele Torquati e Peter Ablinger, Francesco Dillon, Luca
Ieracitano) si alterneranno agli appuntamenti del venerdì».
Il 9 novembre, di venerdì, appunto, grazie alla nuova collaborazione con l’Ordine degli Architetti si terrà un evento
dedicato proprio a John Cage nell’ex palazzo della Provincia,
le cui stanze saranno rianimate dal trombonista e compositore newyorkese Christopher McIntyre, dal violinista Marco Fusi, il percussionista Simone Beneventi, il pianista Roberto Durante e dalle installazioni di Giorgio Klauer e Nicola Buso, Giacomo Covacich e Giorgio Tempesta.
Aid della Ernst von Siemens Foundation.
Venerdì 16, all’Auditorium Stefanini, si inaugurerà un’alQuasi un anno fa – lo scorso gennaio 2012 (cfr. vmed n.
tra collaborazione, quella tra L’arsenale e il Cineforum La44, p. 32) – avevamo avuto occasione di incontrare Filippo
birinto, che si uniranno per dare nuova musica al Don ChiPerocco, direttore artistico e musicale dell’ensemble fondasciotte di Orson Welles, in prima assoluta. Aziza Sadikova,
to nel 2005 a Treviso, che ci aveva raccontato come il gruppo
Riccardo Buck, Jagoda Szmytka, Lorenzo Tomio, Roberto
si fosse costituito con lo scopo di creare un laboratorio finaDurante e Filippo Perocco hanno realizzato ex-novo alculizzato a dare la possibilità ai giovani musicisti e compositori
ne pagine che verranno eseguite in tempo reale durante la
di lavorare a stretto contatto, e con l’intenzione di superare
proiezione.
la divisione tra lo scrivere musica e il fare musica, tra il conceNuovissimo anche il contributo di Cantierezero: venerdì
pire un suono e il gesto che andrà a produrlo.
23 novembre, al Museo di Santa Caterina, la
Dal canto suo, la rassegna Nuova Musica nastagione proseguirà con «Bodysnatchers/Ulsce nel 2009 e vede articolarsi al suo interno,
tracorpi» (pianoforte a quattro mani, violino
Il programma dettagliato
anno dopo anno, cicli di concerti, seminari,
ed elettronica). Assieme alla musica di Cage,
della rassegna
masterclass.
quattro prime assolute: quelle di Agostino Di
Nuova Musica a Treviso
L’arsenale – che ha fra le sue cifre stilistiche
Scipio, Gerhard E. Winkler, Giorgio Klauer e
è consultabile
il fare musica in luoghi non convenzionali ed
Stefano Trevisi.
nel sito www.larsenale.com
è da sempre attento alle esperienze della conLa rassegna si concluderà il 30, ancora al
temporaneità, a cercare e a creare il contatto
Museo di Santa Caterina, dove L’arsenale recon realtà artistiche internazionali, e a dar vita a inedite colplicherà il doppio omaggio già presentato agli Incontri Asolaborazioni – farà ruotare il nuovo programma della rasselani qualche mese fa: quello a Robert Browning, attravergna attorno alla figura di John Cage, per festeggiarne i censo nuovi lavori ispirati alla sua poesia, e a John Cage, con
to anni dalla nascita.
«Four6», ultima fatica del compositore americano.
«La qualifica di compositore – ci ha detto Filippo PerocIl prossimo anno l’ensemble di Perocco sarà impegnato in
co – è riduttiva se rivolta a colui che ha disintegrato i rapuna nuova tournée negli usa che toccherà Los Angeles, New
porti tra passato e futuro, tra suono e silenzio. Ma non ci saYork e giungerà fino alla Harvard University di Boston, dorà solo Cage in questa stagione 2012: accogliendo la temative L’arsenale sarà accolto in qualità di ensemble in residenca proposta da RetEventi, Punctus contra punctum – ovveza. Di ritorno, il gruppo trevigiano sarà a Berlino al Festival
ro nota contro nota, passo dopo passo – L’arsenale, come di
Die Unerhörte Musik, dove porterà le nuove sperimentazioni nate dal più recente organico: soprano, sax, chitarra/basso elettrico, fisarmonica, sintetizzatori, strumenti fatti in caL’ensemble L’arsenale, Mata Festival, Le poisson rouge,
New York City, 10 maggio 2011.
sa e amplificazione. ◼
contemporanea
L’arsenale 2012:
Nuova Musica
a Treviso
37
l’altra musica
38
Arriva a Padova
la «Teoria dei colori»
di Cesare Cremonini
«PadreMadre», composta all’indomani della separazione
dei propri genitori. Tre anni dopo viene pubblicato Maggese,
secondo album in studio registrato in parte agli Abbey Road
di Londra. Ne seguirà un fortunato tour teatrale con tanto
di orchestra sinfonica ad accompagnarlo dal vivo, al quale farà seguito il suo primo cd live: 1+8+24. Nel 2005, anticipato dal singolo «Dicono di me», esce Il primo bacio sulla ludi Tommaso Gastaldi
na, quarto album dell’artista bolognese a cui segue una tournée nei palasport. Arriva anche l’inevitabile Greatest Hits,
l successo è una vetta da conquistare passo dopo
nel 2010, che contiene l’inedito «Mondo», brano cantato
passo, tenendo conto che cambiamenti troppo repenticon Jovanotti, e «Hello! », registrato con Malika Ayane. Se
ni, come succede con l’altitudine in montagna, possoda un lato Cremonini rimane un grandissimo ammiratore
no dare alla testa. Cesare Cremonini è arrivato alla fadei Queen, è difficile scindere la sua musica dall’ambiente in
ma in tutta comodità, in sella alla sua Vespa 50
cui è cresciuto, in particolare da una città come
Special senza neppure scalare impervie vette alBologna che vanta una scuola cantautorale molpine ma solo le comode rotondità dei colli boloto importante. Dalla, Carboni, Bertoli sono soPadova
gnesi. Era il 1999 quando sulla scena italiana irlo alcuni dei musicisti che hanno fatto la storia
Gran Teatro Geox
ruppero i Lunapop: in tre mosse diventarono il
musicale della città emiliana e con cui Cremo7 novembre, ore 21.15
nuovo fenomeno pop nazionale. Appena pubnini è cresciuto fino a diventarne parte a pieno
blicata, «50 Special» vendette centomila cotitolo. Recentemente ha partecipato, assieme a
pie, seguita poi da
«Un giorno migliore», fino alla
pubblicazione del
primo album del
gruppo, Squerez?,
che ne consacra la
popolarità. Sembravano essere destinati a un roseo
futuro, invece il
gruppo si scioglie
di lì a poco ponendo fine alla favola
dei Lunapop ma
dando inizio alla carriera dell’autore di tutti i brani del disco. Infatti, dietro alla composizione di tutti
quei successi c’era
unicamente Cesare Cremonini, che
passata la sbornia
da successo ricomincia con molta
umiltà la propria
carriera solista,
che oggi, dopo dieci anni e quattro dischi, lo vede come una
molti altri colleghi, ai due concerti organizzati per raccogliedelle più importanti e creative realtà musicali nazionali. Nare fondi in favore delle popolazioni colpite dai terremoti in
to a Bologna, città in cui ancora vive e che non manca mai di
Emilia Romagna. Sempre in questi ultimi tempi, ha collabocitare nei suo brani, ha una formazione musicale classica: sturato con Gianni Morandi per la colonna sonora del film Padia infatti pianoforte e, visto il talento dimostrato, sembra
droni di Casa di Edoardo Gabbriellini. Non è la prima voldestinato a una carriera concertistica. Il giorno del suo unta che lavora nel mondo del cinema, sia come compositore di
dicesimo compleanno, però, un regalo di suo padre cambiecolonne sonore, sia come attore: nel 2010, ad esempio, è starà per sempre il futuro del giovane Cesare: si tratta di Boheto protagonista del film di Pupi Avati Il cuore grande delle ramian Rhapsody dei Queen, che apre orizzonti musicali finogazze. L’ultima fatica discografica, uscita pochi mesi fa, s’inra sconosciuti a un ragazzo fino ad allora abituato a Chopin
titola La Teoria dei Colori, lavoro di piena maturità artistie Beethoven. I Queen, e in particolare Freddy Mercury (anca in cui finalmente riesce a coniugare la sua passione per il
che lui da giovane studente di pianoforte), diventano il riferock inglese e i riferimenti all’Italia dei suoi amati cantautorimento musicale preferito e di maggiore ispirazione di Creri. Con il nuovo disco è partita anche la sua nuova tournée,
monini. Bagus, il suo primo disco solista, esce nel 2002 e suche lo porterà a Padova il 7 novembre, affiancato sul palco
bito si intuisce che il cammino cantautorale che ha intrapreanche dal fidato bassista e amico Ballo, che suona con lui sin
so è ben lontano da tutto ciò che gli aveva regalato la notoriedai tempi dei Lunapop. ◼
tà di pochi anni prima. Suoni più ricercati e temi che toccano argomenti differenti e personali, come quelli affrontati in
Cesare Cremonini (foto di Alessio Pizzicanella).
I
ritagliarsi uno spazio lambendo questo movimento, adottandone ogni tanto la velocità e gli strumenti, ma arricchendo di contenuti più politici la propria produzione. Non si
può però non ricordare che nel 2000 i due mondi si toccano – e non poteva essere altrimenti – ufficialmente: Skin e
Maxim Reality, voce dei Prodigy, incidono il singolo «Carmen Queasy». Finisce il millennio, è il momento dello sciodi Giuliano Gargano
glimento degli Skunk Anansie. Per circa otto anni i componenti della band intraprendono carriere soliste. Skin – che
i sono band che fanno bei dischi, che azzeccapubblica due cd – collabora anche con alcuni artisti italiani:
no il brano della vita, che hanno idee originali da
nel 2001 esce «La canzone che scrivo per te», con i Marletrasformare in musica, che sfornano opere dignine Kuntz di Cristiano Godano. Nel 2008 scrive una canzotose. Ma per sfondare e arrivare al successo plane per la colonna sonora di un film di Silvio Muccino, e nelnetario ci vuole un fattore che le renda eccezionali. Per gli
lo stesso anno collabora con Boosta dei Subsonica. Alla fiSkunk Anansie questo fattore si chiama Skin. Deborah Anne del decennio arriva, puntuale, il momento della reunion.
ne Dyer, fondatrice e leader del gruppo inglese, aggiunge –
Nel 2009 esce Smashes and Trashes, una raccolta che riassucon la sua voce, con la sua personalità e non da
me il meglio dei tre dischi degli anni novanta,
ultimi con il suo aspetto e la sua presenza scepiù tre inediti. Nel 2010 arriva Wonderlustre,
nica – quel tocco in più a una band compotrascinato dai due singoli «My Ugly Boy» e
Jesolo
sta comunque da buoni musicisti, e che nel«You Saved Me». Ed è fresco di pubblicazioPala Arrex
le sue due fasi di esistenza (dal 1994 al 2001,
ne Black Traffic. Un disco che – nel bene o nel
21 novembre, ore 21.00
e dal 2009 a oggi) ha saputo evolversi mantemale – non lascia indifferenti. I detrattori senendo una forte coerenza di stile e di contenugnalano l’assoluta mancanza di idee nuove,
to. La prima fase, cominciata appunto a metà degli anni noconsiderano il disco ripetitivo e banale. I sostenitori scorgovanta del secolo scorso, è quella dell’underground inglese.
no in esso, invece, un vero e proprio manifesto politico, conTesti duri, antipolitici e antireligiosi, canzoni sul sesso e sul
tro una classe dirigente incapace di pensare al prossimo e vorazzismo (Skin è bisessuale dichiarata, si è sposata con la sua
tata solo alla salvaguardia di se stessa. La verità probabilproduttrice proprio questa estate), brani di protesta su basi
mente sta nel mezzo: si tratta di un disco veloce, rabbioso,
che qualche volta rasentano la techno. Tre cd – Paranoid &
urlato. Skin in alcuni passaggi appare addirittura sguaSunburnt (1995), Stoosh (1996) e Post Orgasmic Chill (1999)
iata e stridula, forse per rimarcare anche plasticamen– proiettano gli Skunk Anansie in cima alle classifiche di
te la rabbia dei contenuti. Il singolo di apertura è
tutto il mondo. Paradossalmente però, i singoli più di succes«I Believed In You», vero e proprio atto di
so sono quelli in cui il ritmo si abbassa. Ballate come «Heaccusa contro la politica. Ma – come da tradonism (Just Because You Feel Good)» del 1997, o «Secretdizione – non mancano i brani più lenti e rafly» del 1999, fino a «You’ll Follow Me Down» (1999) fanfinati, come «I Hope To Meet Your Hero»
no conoscere la band a un pubblico più vasto. Resta però,
e «Diving down», in cui Skin, ancora una
nel riascolto dei tre cd, la sensazione forte di dischi dallo
volta, aggiunge quel tocco che rende unispirito antagonista. È necessaria una parentesi, per capire in
ci gli Skunk Anansie. ◼
che contesto ci muoviamo. La scena
musicale inglese di quegli anni è dominata dal «Big Beat»:
si tratta di quel movimento – quasi una
sottocultura – che
mischia la musica
elettronica con altre
influenze, dal jungle
al trip-pop, e che
vede nei rave party la
sua massima espressione. I nomi di punta
sono i Chemical Brothers, Timo Maas,
gli Apollo
440, Fatboy
Slim e soprattutto i Prodigy. Ecco, gli
Skunk Anansie riescono a
La band inglese
attesissima a Jesolo
C
Skunk Anansie.
l’altra musica
Gli Skunk Anansie
e il «fattore Skin»
39
l’altra musica
40
Ian Anderson
a Padova
per i fan dei Jethro Tull
jazz in sintonia con quanto all’epoca accade ad altre band
britanniche, dai Cream ai Led Zeppelin, dai Savoy Brown
ai Ten Years After. Nel giro di pochi mesi, con alcuni cambi nella formazione iniziale e l’arrivo a Londra, l’ensemble
passa al cosiddetto stile progressive, imponendosi come allettante, virtuosistica formazione in grado di includere in un
sound robusto anche elementi sonori classici, folk, barocchi,
di Guido Michelone
rinascimentali; ed ecco quindi il trittico di album – Stand
Up (1969), Benefit (1970), Aqualung (1971) – osannati dall Gran Teatro Geox di Padova venerdì 30 novemla critica giovanile e dal pubblico hippie, che, ormai scioltibre ospita sul suo palco il cantante, flautista e composi i Beatles, trova in gruppi come Genesis, King Crimson,
sitore Ian Anderson, leader del gruppo
Gentle Giant, Yes, Pink Floyd, Nice, van Der
rock inglese Jethro Tull. Per la prima
Graaf, Camel, Renaissance e appunto Jethro
volta dal vivo, Anderson eseguirà per intero
Tull il punto di riferimento per una fresca muPadova
le due versioni dell’album Thick as a Brick,
sicalità colta e popolare, arcana e futuribile,
Gran Teatro Geox
a quarant’anni dall’uscita del primo omonilenta e veloce al tempo stesso.
30 novembre, ore 21.15
mo long playing; è un lavoro che nel 1972, a
E ancora, per tutti i seventies, i sette album –
cinque anni dallo strepitoso debutto, segna
in media uno all’anno: A Passion Play (1973),
per sempre la carriera di una band inossidabile, che dunque
War Child (1974), Minstrel in the Gallery (1975), Too Old to
resiste da quasi mezzo secolo nonostante i cambi frequenti
Rock’n’Roll: Too Young to Die! (1976), Songs from the Wood
per un totale di
ben ventitré musicisti, che via via
fanno parte del
quintetto che
prende il nome
da un agricoltore del Seicento.
Per l’occasione
del quarantennale, Ian Anderson offre quindi
un sequel del disco iniziale (titolandolo semplicemente Thick
as a Brick 2), celebrando, al quadrato, un concept
album straordinario: importante non solo per la
carriera del folletto di Dunfermline (Scozia), oggi sessantacinquenne, ma
anche per la storia del pop, visto che, all’epoca, resta numero
(1977), Heavy Horses (1978), Stormwatch (1979) – successiuno nelle hit parade in tutto il mondo per diversi mesi, convi a Thick as a Brick risultano ottimi esempi di un prog semfermandosi tra i trentatré giri più noti dell’intero prog-rock.
pre più vicino al folk-rock, mentre nei lustri successivi, doDunque il Thick as a Brick 1 & 2 World Tour riporta il miminati da mode new wave e tecno-pop, anche Ian Anderson
crosolco sulla scena per intero, come non accade dal 1972,
si adegua a un sound elettronico lontano dalle proprie oriaffiancandolo ai brani del nuovo seguito. E lo stesso concergini, salvo poi sterzare bruscamente all’indietro e riproporto richiede una messa in scena complessa, che via via si arricre suoni più grintosi, spaziando dall’hard-rock al blues-jazz,
chisce di performance, danze, happening e video inediti gifino ai recuperi un po’ commemorativi, ma accolti calorosarati dallo stesso Anderson: si tratta di un’ occasione in fonmente da un’audience ormai intergenerazionale, dello splendo unica e singolare per i fan dei Jethro Tull e per gli amanti
dido decennio prog. Dice infine Ian Anderson a proposito di
della musica, con un one-man-show che si offre in modo ineThick as a Brick dal vivo: «Penso che sia importante trovare
dito e sorprendente; ma Ian Anderson non è mai da solo sul
quella sfumatura che è da qualche parte nel mezzo, ed è quelpalco: pur rubando la scena a tutti, dirige una band affiatatislo che abbiamo anche cercato di attuare sul palco. Ci sarà una
sima, con John O’Hara alle tastiere, Florian Opale alla chicerta componente teatrale, visiva, ma non voglio farlo semtarra elettrica, David Goodier al basso, Scott Hammond albrare troppo come uno spettacolo di Madonna o Lady Gaga.
le percussioni e l’inedita presenza del cantante/attore Ryan
Non vuole guardare al mondo dello spettacolo, vuole piutO’Donnell.
tosto apparire come una versione un po’ più brillante di ciò
Ma, storicamente, prima di arrivare a Thick as a Brick, Anche si potrebbe trovare in una qualsiasi sala comunale». ◼
derson risulta il leader di un quintetto che in pieno sessantotto esordisce con This Was, un «padellone» rock-bluesIan Anderson live Band (j-tull.com).
I
pressionante: il primo in ordine cronologico è senza dubbio
il poeta scozzese Dylan Thomas, che qui trascorse gli ultimi
giorni della sua vita, consumata dall’abuso di alcol. Robert
Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, estimatore del poeta
scomparso, ha soggiornato al Chelsea Hotel per molto temdi Tommaso Gastaldi
po, componendo tra le mura della stanza 211 «Sad Eyed Lady of the Lowlands». Anche molti scrittori della beat geneolti hotel, veri o inventati che siano,
ration vi hanno alloggiato: William Burroughs, che nelle sue
hanno da sempre ispirato gruppi e cantautori
stanze ha scritto Pasto Nudo, Allen Ginsberg, Gregory Cornella composizione di brani dedicati a questi
so e Jack Kerouac, che secondo alcuni storici ha composto
rifugi temporanei nel loro continuo peregriqui il suo capolavoro On the Road. Nel 1970, appena comnare. Una lunga lista di canzoni e album che
prata la sua prima Polaroid, Robert Mapplecomprende, tanto per citare i pezzi più noti,
thorpe viene a vivere nella camera 1017 assiel’«Hotel California» degli Eagles, il «Morme alla sua musa Patty Smith, e da qui inizia
Vigonza
rison Hotel» dei Doors, l’«Heartbreak Hola sua carriera nel mondo della fotografia. Tra
Teatro Quirino De Giorgio
tel» di Elvis, fino a Vasco Rossi con il suo
gli amori nati e vissuti tra le mura dell’Hotel
16 novembre, ore 21.00
«Stupido Hotel» e l’«Hotel Supramonte»
c’è quello tra Leonard Cohen e Janis Joplin,
di Fabrizio De André, che narra del suo rapiampiamente descritto nella canzone del canmento assieme alla moglie Dori Ghezzi sugli altipiani sardi
tante canadese «Chelsea Hotel #2», mentre nella stanza
da parte di banditi locali. C’è però un luogo unico al mon614 si incontravano furtivamente Marilyn Monroe e Arthur
do, un hotel che ha ospitato nelle proprie camere un numero
Miller, che qui era venuto ad abitare dopo il loro divorzio.
impressionante di artisti, siano essi cantanti, scrittori, pittoAl nome dell’Hotel è legato anche il film diretto da Andy
ri, registi, poeti o fotoWarhol Chelsea Girls,
grafi. Grazie alla moche racconta le avvenderna tecnologia basta
ture di alcune ragazun computer e uno di
ze legate alla factoquei programmi che
ry del padre della pop
permettono di camart. Nella colonna sominare virtualmente
nora del film companelle grandi città e ci
re il brano omonimo
si può trovare davan«Chelsea Girls» delti all’entrata di questo
la cantante Nico, che
stabile rosso mattone
di lì a poco si unirà ai
costruito alla fine del
Velvet Underground.
diciannovesimo seNella camera 1008
colo al 222 della 23a
Arthur C. Clarke e
Ovest, tra la settima e
Stanley Kubrick scrisl’ottava strada, natusero la sceneggiatura
ralmente a New York.
per 2001 Odissea nello
Il Chelsea Hotel prenSpazio. Joni Mitchell
de nome proprio dal
venne ispirata dall’oquartiere in cui sorriginale arredamento
ge, oggi zona di galledella propria camera
rie d’arte ma in originella composizione di
ne terra di immigrati
«Chelsea Morning»,
soprattutto irlandesi.
mentre i Jefferson AiUn Hotel le cui mura
rplane misero in mutrasudano storia e culsica la loro permanentura ma anche droza in «Third Week in
ga, sesso e violenza, in
the Chelsea». Senza
un continuo alternardubbio la pagina più
si di personalità che
triste della storia del
vi hanno soggiornato
Chelsea Hotel è quelnell’arco di poco più
la consumatasi nella
di cinquant’anni. Da
stanza numero 100,
tutto questo materianella quale Sid Vile è nato uno spettacolo teatrale – in programma all’interno
cious uccide con una coltellata la sua fidanzata Nancy Spundel cartellone di «musik[è]», organizzato dalla Fondazione
gen, entrambi sotto l’effetto di stupefacenti. Per l’omicidio
Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo – scritto dal giornaSid verrà condannato, per poi morire di overdose il giorno
lista radiofonico Massimo Cotto, che sul palco è la voce che
dopo la sua scarcerazione. Un guestbook davvero impressionarra le avventure accadute tra le mura del famoso Hotel,
nante, che conta anche Jimi Hendrix, Madonna, Jim Morriaccompagnato nelle parti musicali dalla voce di Mauro Erson, Charles Bukowski, Jackson Pollock e decine e decine di
manno Giovanardi, ex leader dei La Crus, e Matteo Curallo
personaggi che hanno in qualche modo segnato la cultura di
alla chitarra e al pianoforte. La lista degli ospiti è davvero imquesto secolo. Nel 2011 il Chelsea Hotel ha chiuso i battenti e il suo futuro è ancora incerto, quindi non resta che guardare al passato e cominciare a raccontare per difendere quei
Mauro Ermanno Giovanardi e Massimo Cotto
luoghi che contengono la nostra memoria. ◼
(foto di Caterina Mariani).
M
l’altra musica
Le mille storie (rock)
del Chelsea Hotel
41
l’altra musica
42
Un Candiani
a tutto jazz
L
di Ilaria Pellanda
o scorso ottobre ha preso il via la rassegna Jazz
Groove 2012, approdata al Centro Culturale Candiani di Mestre – e organizzata grazie alle forze del
Comune di Venezia, dell’Assessorato alle Attività Culturali e del Circolo Culturale Caligola – per
festeggiare il suo settimo anno di una programmazione
invernale che, tra i suoni dell’Africa, il jazz, il blues e la
sperimentazione, continua a incidere il solco della contaminazione fra i linguaggi e gli stili.
Si è partiti dunque dall’Africa, in particolare dal Mali, terra dove blues e jazz traggono origine (come ricorda anche il film-documentario Dal Mali al Mississippi, che Martin Scorsese girò nel 2003). Ed è proprio in
Mali che, nel 1963, nasce Baba Sissoko, polistrumentista e atteso ospite della serata inaugurale che si è svolta
il 14 ottobre, durante la quale, assieme al quartetto Taman Kan, ha presentato le sonorità del suo recente album African Griot Groove.
Il 28 ottobre è stata la volta del trio Mistaking Monks.
Il gruppo – di cui è appena uscito il primo disco, Man1.
tic – nasce da un’idea del chitarrista Xabier Iriondo, già
Afterhours e camaleontico esponente della più aperta avanguardia rock italiana, idea alla quale partecipano il batterista Cristiano Calcagnile (Cristina Donà e
Stefano Bollani) e il sopranista Gianni Mimmo, erede di Steve Lacy. Al Candiani, in una serata dedicata a
Musica&Cinema, i Mistaking Monks hanno sonorizzato dal vivo il film Il colore del melograno (Sayat Nova, 1968), del regista armeno, nato in Georgia, Sergej
Paradjanov.
L’11 novembre si torna al jazz americano con John
Abercrombie. Anche se meno noto di Pat Metheny,
John Scofield e Bill Frisell al grande pubblico, il chitarrista newyorkese, classe 1944, è un punto di riferimento per le giovani generazioni di jazzisti. Le collaborazioni con Dave Holland e Michael Brecker, Gato Barbieri e Jack DeJohnette, Charles Lloyd e Joe Lovano – solo per citare qualche nome – stanno a confermare quan2.
to Abercrombie sia stimato e apprezzato dai colleghi.
Al Candiani si presenterà nella veste di leader del suo
omonimo quartetto, impegnato in un tour europeo per
promuovere il recente Within a Song, album pubblicato
dall’etichetta tedesca ecm. Sul palco assieme ad Abercombrie e alla sua chitarra salirà dunque anche la solida coppia ritmica formata da Drew Gress (contrabbasso) e Joey Baron (batteria), mentre il sassofonista Billy Drewes prenderà il posto di Lovano, presente invece nel disco.
L’appuntamento di domenica 25 novembre è con il
jazz italiano firmato da Paolo Botti, virtuoso della viola e «frequentatore» anche di banjo, chitarra dobro e
armonica. Assieme al suo quartetto – completato da
Dimitri Grechi Espinoza (sax alto), Tito Mangialajo
Rantzer (contrabbasso), Filippo Monico (batteria) –
proporrà un jazz contemporaneo screziato da sonorità decisamente blues. Ospite speciale, la profonda vo3.
ce di Betty Gilmore, poetessa e cantante presente anche
nell’ultimo album di Botti, Slight Imperfection.
Il ciclo di concerti si chiude mercoledì 5 dicembre con un
ritorno all’Africa, quella di Fatoumata Diawara, cantautrice ivoriana classe 1982, cresciuta in Mali e di stanza a Pari-
gi. Dopo aver superato i pregiudizi culturali che troppo spesso subiscono le donne africane nel campo dell’arte, a soli
trent’anni Fatoumata ha già conosciuto anche il successo come attrice, anche se vede nella musica il suo più intimo destino. Statuaria, sorriso radioso, al Candiani presenterà il suo
Fatou, che nel 2011 l’ha vista debuttare, ottenendo fin da subito un largo successo grazie alle sonorità pop di una voce
che reinventa ritmi veloci e melodie blues dell’ancestrale tradizione wassoulou. ◼
1. John Abercrombie; 2. Fatoumata Diawara;
3. Paolo Botti e Betty Gilmore.
Q
di Roberta Reeder*
uest’anno ricorre il vi centenario della nascita di Giovanna d’Arco, che secondo alcuni salvò la Francia per diretta volontà divina e secondo
altri con l’ausilio del diavolo: personaggio storicamente controverso, viene talvolta raffigurata come una santa e altre come peccatrice. La sua storia è stata
rappresentata più volte nell’arte e nella cinematografia, e nella
musica molte sono le opere a lei dedicate. Nel xix secolo Giuseppe Verdi e Pëtr Il’ič Čajkovskij composero partiture ispirate alla sua vita e Charles Gounod le intestò più composizioni, incluse le Vision de Jeanne d’Arc per violino e pianoforte/
organo ((1893), Le prière de Jeanne d’Arc (1894), Jeanne d’Arc
et les voix du ciel e Messe a la mémoire de Jeanne de Arc (1887).
Durante il xx secolo, nel 1947 Arthur Honneger compose la
musica su un testo di Paul Claudel per l’oratorio dramatique
Jeanne d’Arc au bûcher (Giovanna d’Arco al rogo); nel 1953,
al San Carlo di Napoli, Roberto Rossellini diresse quest’opera
con Ingrid Bergman nel ruolo di Giovanna. Più recentemente
George Brassens, Leonard Cohen, Fabrizio De André e Angelo Branduardi hanno scritto canzoni sulla Pulzella.
Per celebrare questa ricorrenza l’Associazione Culturale
Musica Venezia vuole presentare Omaggio a Giovanna d’Arco in collaborazione con l’Alliance française di Venezia, un
concerto arricchito da proiezioni tratte da manoscritti del xv
e xvi secolo e dalla narrazione dei fatti salienti della vita della
Fanciulla d’Orleans, che salvò la sua patria dopo l’invasione
degli inglesi. L’Omaggio prenderà inizio con l’esecuzione della famosa «Agincourt Carol», del
xv secolo, che celebra la vittoria inglese della battaglia di Agincourt.
Venezia
Ascolteremo quindi la musica dei
Sale Apollinee
grandi compositori franco-fiamdel Teatro La Fenice
minghi dell’epoca, da Claude Ser4 novembre, ore 18.00
misy a Gilles Binchois e Guillaume Dufay. Verrà poi eseguita una
canzone popolare medievale francese, «L’homme armé» (L’uomo
armato), cui seguiranno brani di
compositori inglesi e antichi
canti popolari britannici, come
la celebre «Greensleeves». Al-
la fine del racconto biografico sarà
la volta di cantate dedicate a lei da
due grandi compositori del xix secolo, Liszt (Giovanna d’Arco al rogo) e Rossini (Giovanna d’Arco). Le
arie saranno interpretate dal contralto Giovanna Bragadin, le canzoni saranno eseguite da Giovanni
Dell’Olivo, voce e chitarra, accompagnati da Gianluca Geremia e Davide Gazzato ai liuti, Gianluca Sfriso al pianoforte e Alvise Seggi al contrabbasso. I testi
sono della sottoscritta, che ne reciterà anche la versione inglese, mentre Ilaria Pasqualetto quella in italiano. ◼
*Direttore artistico Associazione Culturale Musica Venezia
A sinistra: Giovanna d’Arco. A destra: Un momento di Kociss.
Giovanni Dell’Olivo
tra Fenice e Goldoni
Q
di Leonardo Mello
uello di Giovanni Dell’Olivo, affermato
cantautore veneziano, sarà un novembre piuttosto impegnativo. Da una parte infatti tornerà in
scena – ulteriormente rifinito e perfezionato – il
suo Kociss, magnifico spettacolo teatral-musicale che narra la saga di Silvano Maistrello, il leggendario antieroe di una Venezia che non esiste più. Come già raccontato altre
volte in queste pagine (cfr. vmed n.
Venezia
41, p. 36 e n. 44, p. 70) le atmosfere
Teatro
Goldoni
di povertà e miseria che caratteriz18 novembre,
zano alcune zone della città laguore 18.30
nare degli anni settanta – inserite
Kociss
in un contesto storico che dà condi e con
to della situazione complessiva del Giovanni Dell’Olivo
Paese in quel difficile periodo – si intrecciano con il percorso esistenziale di questa figura divenuta mitica per la capacità
rocambolesca delle sue evasioni, oltre che per lo spirito talvolta «solidale» che caratterizzava le sue azioni, fino a diventare
il paladino dei diseredati, coltraltare malavitoso all’assenza e
all’ostilità dello Stato e delle sue leggi. Tutto ciò, senza agiografie e partigianerie, emerge dal tessuto drammaturgico, costruito a stazioni di grande immediatezza immaginifica: alle
parole recitate da Ilaria Pasqualetto e Giacomo Trevisan si alternano i brani composti e cantati dallo stesso autore, spesso
in coppia con la splendida voce di Serena Catullo, ed eseguiti dai bravissimi strumentisti del Collettivo Lagunaria, cui si
aggiungono le immagini digitali realizzate dal vivo da Mauro Moretti, il tutto diretto magistralmente da Gianni De Luigi. Sarà questa volta il Teatro Goldoni – nell’ambito dei Festival dei Matti (16-18 novembre) – ad accogliere Kociss, che si
accinge, nella prossima primavera, a divenire anche libro per i
tipi di NdA – Milieu Edizioni. Ma Dell’Olivo, qualche giorno prima, sarà protagonista anche di una serata per lui piuttosto insolita, dedicata dall’Associazione Musica Venezia al
vi centenario della nascita di Giovanna d’Arco (cfr. l’articolo
a fianco). Nella suggestiva cornice delle Sale Apollinee, oltre
ad arie da Rossini e Liszt, interpretate da Giovanna Bragadin,
troveranno spazio anche antiche canzoni popolari francesi e
inglesi, affidate appunto al musicista veneziano, che delle melodie e armonie della tradizione popolare ha una conoscenza
assai profonda, come testimonia il lavoro compiuto sui canti
veneziani nel precedente, bellissimo Lagunaria (cfr. vmed n.
21, pp. 17-18). Con l’accompagnamento del contrabbasso di
Alvise Seggi lo vedremo dunque cimentarsi in ballate come la
celebre «Greensleeves», la marziale «L’homme armé» e la
melanconica, struggente «The Three Ravens». ◼
l’altra musica
Omaggio
a Giovanna d’Arco:
una santa o una strega?
43
l’altra musica
44
Il nuovo autunno
in musica del Teatro
Fondamenta Nuove
Un’esperienza unica e originale, che oltre a emozionare, fa
riflettere su come la trasgressione delle forme acquisite possa
portare a risultati inaspettati.
Ancora uno sguardo nuovo (traditore?) sulla tradizione, sabato 24 novembre con il progetto Bonebridge, nuova band
del violoncellista Erik Friedlander (storico partner di John
Zorn) che trae ispirazione dalle musiche del sud degli Stati
di Enrico Bettinello*
Uniti. Partendo dalla sua passione adolescenziale per gli Allman Brothers e Johnny Winter, Friedlander ha allargato il
i ricomincia. O forse sarebbe
proprio trio – già applauditissimo al Fonmeglio dire che si continua. Con la
damenta Nuove tre anni fa – allo speciavoglia immutata di condividere con
lista di slide-guitar (e originario di MemVenezia
la città e il suo pubblico – fatto di
phis) Doug Wamble. L’alchimia tra il vioTeatro Fondamenta Nuove
chi la vive e di chi la attraversa – domanloncello e la slide guitar – i due strumende, avventure, mutazioni e linguaggi del
ti sono anime gemelle in questo contesto –
9 novembre, ore 21.00
presente. L’autunno 2012 del Teatro Fonè alla base della musica del quartetto, comOpera Riparata
damenta Nuove parte proprio da qui ed è a
pletato da due nomi tra i più straordinari
Tribute to Bruno Munari
volte difficile, per chi come me ha il piacedella scena newyorkese come quelli del basre e la responsabilità curatoriale delle scelte,
sista Trevor Dunn e del batterista Micha24 novembre, ore 21.00
pensare in termini di una ripartenza di stael Sarin.
Bonebridge
gione: anche se c’è stata un’estate di mez- (Erik Friedlander trio + Doug Wamble) È poi con un piacere particolare che raczo il discorso non si è mai interrotto e ogni
conto l’appuntamento di martedì 27 no27 novembre, ore 2100
appuntamento apre finestre di dialogo con
vembre, che presentiamo in collaborazioHassan Khan, Superstructure
quello che abbiamo condiviso e con quelne con Palazzo Grassi – Punta della Dogalo che metteremo in gioco domani. Eccola
na – François Pinault Foundation. Prota6 dicembre, ore 21.00
però una data di ripartenza: venerdì 9 nogonista è infatti uno degli artisti di punta
Josephine Foster
vembre, alle 21. Segnatevela perché ad apridella scena globale di oggi, Hassan Khan,
S
re la stagione autunnale del teatro vi aspettano Mozart e Verdi, Wagner e Rossini come non li avete mai sentiti! Ospitiamo infatti Opera Riparata-Tribute to Bruno Munari, performance tra le più affascinanti degli ultimi tempi, vero e proprio tributo alla fantasia di Munari ed emozionante avventura che attraverso la ricomposizione della tradizione ne svela l’attualità ancora visionaria. Quaranta frammenti di celebri opere liriche vengono smontati e rielaborati, proiettati nel futuro da Økapi – uno dei più originali sperimentatori
elettronici – e dalla videoarte di More*Tv*V.
Opera Riparata è dunque un tributo a Bruno Munari e alla sua Opera Rotta (creata con Davide Mosconi). Partendo
dal testo originale scritto nel 1989 da Munari e Mosconi, il
musicista Økapi e l’artista visuale More*Tv*V de-strutturano e ri-compongono quaranta famose opere liriche, secondo
le tecniche contemporanee del remix digitale (cutting, breaking down, juxtaposing e overlapping).
attualmente ospite anche con un bellissimo video della mostra «La Voce delle Immagini». Da noi presenterà l’aspetto
«sonoro» della sua ricerca artistica, tra tradizione egiziana
ed elettronica, con la performance Superstructure.
Ancora sguardi nuovi sulla tradizione giovedì 6 dicembre con la voce indimenticabile di Josephine Foster, una delle cantautrici di ambito indie-folk-rock di maggiore personalità, recentemente agli onori della copertina della più prestigiosa rivista musicale al mondo, «The Wire». A Venezia
presenterà le canzoni dell’ultimo disco Blood Rushing, considerato uno dei migliori episodi della nutrita discografia di
Josephine; si tratta di una sorta di ritorno alle origini: folkrock e blues psichedelico resi unici da una voce inimitabile. ◼
* Direttore artistico del Teatro Fondamenta Nuove.
A destra: Økapi.
A sinistra: Josephine Foster.
Don Michi, il Concilio di Trento
e gli Stelari
di Gualtiero Bertelli
la donna
Oggi il carnevale non è più niente.
Una volta sì che era bello.
il ricercatore
Ma una volta quando?
la donna
Prima del Concilio di Trento.
il ricercatore
Ma quando è stato questo Concilio di
Trento?
la donna
Guardi, o ero ben piccola o ai tempi
della mia mamma perché
non me lo ricordo.
Q
uesto dialogo riportato da Roberto Leydi
in apertura della prefazione del libro Dolce felice notte curato da Renato Morelli è avvenuto «non molti anni fa», scrive Leydi nell’anno
2.000 (quindi supponiamo nei primi anni novanta) in una località della montagna lombarda tra il ricercatore Italo Sordi e una signora rimasta anonima.
Il dialogo può sembrare assurdo, e per quanto riguarda a
datazione lo è
certamente. Ma
il fatto che fosse ancora riportato dalla memoria popolare
un qualche cambiamento prodotto dal concilio, chiusosi più
di quattrocento
anni prima, non
è assurdo, anzi è segno d’interventi diffusi
e culturalmente
penetrati in strati profondi della
cultura popolare. Insomma doveva essere successo qualcosa
che davvero aveva modificato in modo sostanziale alcuni vissuti religiosi o parareligiosi del popolo.
Dalla Lombardia alla Venezia Giulia, dal Ticino a tutti i
territori dell’ex Austria-Ungheria tra Natale e l’Epifania risuonava, e ancora risuona anche se con minore frequenza,
lungo le strade innevate della montagna o davanti alle case
illuminate dei paesi di pianura, il canto della Stella (la «Ciarastea» come veniva denominata nella nostra provincia) intonato da un gruppo di uomini o ragazzi incolonnati dietro
ad un palo con in cima una grande stella dorata. Tre di questi
uomini o ragazzi sono «vestiti» da re e rappresentano i Magi, o, per dirla con una modificazione linguistica sedimentata in alcuni canti natalizi, «i tre Lorienti».
«Siamo qui dai tre lorienti / che abiam visto la gran stela; i
tre lorienti in questa sera, / la note e il giorno...» (Sant’Antonio de Tortal, bl, 1987).
Frontespizio del libro Sacri Canti
di don Giovanni Battista Michi di Fiemme;
Fierozzo, Val dei Mòcheni, La Stela, 1985 (foto di Renato Morelli).
Con il canto della Stella si ricorda l’arrivo dei Magi alla
grotta di Betlemme il sei gennaio e l’adorazione del Messia
appena nato da parte dei tre sapienti orientali.
Per proseguire nella ricostruzione di un evento che ha fortemente connotato la cultura cattolica popolare abbiamo bisogno di ricordare alcune questioni che affiorarono per secoli nelle discussioni teologiche, nel confronto tra le chiese occidentali e orientali e che infine ebbero una significativa presenza nelle tesi dei Riformatori luterani.
I Protestanti della «Riforma» misero sotto accusa la scelta della Chiesa Romana di spostare il Natale al 25 dicembre,
con la motivazione che fu un cedimento al paganesimo. Il
Cristianesimo avrebbe fatto rientrare dalla finestra culti solari di Babilonia passati ai pagani romani!
In effetti sulla data della nascita di Gesù ci furono per lungo tempo varie ipotesi: 28 marzo, 19 aprile, 20 maggio e
ognuna di queste ipotesi fondava le sue ragioni su elementi
diversi della tradizione. Solo dalla fine del terzo secolo il 25
dicembre divenne la ricorrenza della nascita di Gesù per tutta la Cristianità.
Ma fu una scelta molto discussa poiché si collocava proprio
nel solstizio d’inverno, data nella quale coincidevano alcune
importanti feste di religioni pagane contemporanee a quella
cristiana. La Chiesa è stata più volte «accusata» di aver fat-
to propri riti, credenze e scadenze pagane sia a livello ufficiale che, talvolta in contrasto con la Chiesa ufficiale, a livello di
manifestazioni popolari.
Dunque il Natale era visto dai Protestanti con estrema riluttanza e fino al 1800 non ebbe alcuna rilevanza nelle chiese
della «Riforma». A Ginevra, città di Calvino, si poteva essere multati e persino messi in prigione per aver celebrato il
Natale e il Parlamento Inglese proibì l’osservanza del Natale, definendola una festa pagana.
Di conseguenza tutta la vicenda dei Magi fu derubricata a
semplice leggenda e il 6 gennaio fu consacrato al battesimo
di Cristo da parte di Giovanni Battista, com’era e com’è ancor oggi osservato dalla Chiesa Orientale.
Uno dei punti di forza della propaganda luterana e calvinista era costituito dalla pubblicazione nelle diverse lingue
«volgari» (italiano, francese, tedesco, ladino) delle sacre
scritture, finalmente accessibili a tutti, e di altri documenti «riformati» tra i quali molti libretti con canti, mettendo
così in condizione ogni persona di partecipare consapevol-
l’altra musica
I tre lorienti
45
l’altra musica
46
mente alle attività religiose comunitarie.
Il Concilio di Trento si trovò di fronte alla necessità di arginare il dilagare, specialmente al nord, di questa ed altre eresie, per cui negli anni successivi al Concilio fiorirono «laudi a travestimento spirituale», cioè canti di struttura profana con contenuti religiosi, nelle diverse lingue locali, con diffusioni, come nel nostro caso, di portata quasi continentale.
Alla fine del secolo scorso alcuni ricercatori che da anni in
diverse zone del Paese studiavano i canti popolari di carattere paraliturgico (a due di questi, Renato Morelli di Trento e
Gian Luigi Secco di Belluno va la mia riconoscenza per aver-
mi introdotto a questa tematica affascinante) notarono che
alcuni canti del periodo natalizio, eseguiti prevalentemente
da gruppi itineranti, si ripetevano pressoché uguali nel testo
in realtà culturali diverse e talvolta molto distanti. Si trattava di canti cosiddetti «della Stella» poiché si riferivano alla cometa che avrebbe guidato i magi alla capanna della natività. «Erano “popolari” in quanto eseguiti senza partiture
scritte, erano di “tradizione orale” in quanto tramandati da
sempre a memoria oppure è possibile risalire a uno o più autori?» si chiede l’etnomusicologo Renato Morelli, e la risposta la trova nei primi anni novanta in Val dei Mòcheni, un’isola linguistica di origine tedesca tra i monti del Lagorai, in
provincia di Trento. «In seguito ad un’indagine puntigliosa – scrive Morelli – è stato finalmente possibile trovare il
testo a stampa a lungo ricercato: un volumetto in 12° di 72
pagine» che è risultato essere la raccolta Sacri Canti di don
Giambattista Michi di Tesero. Tale libretto era, ed è ancora,
gelosamente e devotamente custodito da Fiore Stefani, animatore degli Stelari, e non esce mai dal suo maso, neanche in
occasione delle questue della Stela.
Ma da dove arrivano questi canti raccolti dal Michi? Li ha
effettivamente raccolti dalla memoria popolare, come dichiara nell’introduzione dedicata al «pio lettore»? Li ha
desunti da antecedenti fonti a stampa? Derivano dalle due
fonti, magari con qualche suo apporto personale? Non lo
sappiamo. Ma è certamente straordinaria la diffusione che
quest’opera contenente trentasei canti, diciotto dei quali in
latino e altrettanti in volgare, ha avuto e continua ad avere.
Di questi canti ben diciassette sono ancora documentati nella tradizione orale dell’arco alpino che va dal Ticino all’Istria veneta.
Ciò malgrado i divieti alla loro pubblica esecuzione che le
autorità politiche emanarono
dalla fine del
xvii secolo in
tutta Europa,
minacciando
e attuando pesanti sanzioni.
La ragione di
tanta avversità? I Sacri Canti degeneravano in «baccanali» alimentati da «altre
profane canzoni e da alcuna
sorte di istrumenti musicali», canti «pii e onesti» guastati
da persone che «con licenziosa e scandalosa libertà ardiscono farsi lecito d’introdurre, e premischiarli cantilene dissolute, et indecenti, profanando sino le sacre lodi, ed avanzandosi anche a parole ingiuriose».
Se nei centri urbani, più vicini al potere e alla sua azione di
controllo, l’attività degli Stelari si è certamente ridotta fino a
scomparire, nei piccoli centri isolati di campagna e ancor più
di montagna ha resistito a lungo, arrivando sino a noi, ma soprattutto integrando la raccolta del Michi con altre cante che
ci offrono oggi uno straordinario repertorio di canti di questua e corali natalizi ancora molto praticato e altrettanto ben
documentato. ◼
Nota bibliografica per chi volesse approfondire:
• «Dolce felice notte…» i Sacri canti… a cura di Renato Morelli, Quaderni
Trentino Cultura 2, 2001 (con cd allegato).
• Renato Morelli, Identità musicale della Val dei Mocheni, Publistampa,
Pergine Valsugana (tn) 1996.
• Collana cd «Soraimar» a cura di Gian Luigi Secco: (6 cd con registrazioni sul campo di canti natalizi): «Bon santo an», «Aleluja», «Pan e
vin e sanità», «I tre lorienti», «Noi siamo i tre re», «Oratorium de Nadal». I canti sono stati raccolti in tutte le aree venetofone d’Italia, dell’Istria veneta e del sud-est del Brasile. Si può accedere liberamente a questi
canti andando nell’archivio del sito dell’Associazione Soraimar: www.
soraimar.it.
A sinistra, sopra: Bondo, Valli Giudicarie (tn),
I tre re con il presepio, 1993 (foto di Renato Morelli);
sotto: Ballò di Mirano (ve), La Ciarastela, 1999 (foto Carraro).
A destra: copertina del secondo cd di canti natalizi
della collana Soraimar a cura di Gian Luigi Secco.
A
a cura di Ilaria Pellanda
lessandro Gassmann
continua a imprimere alla direzione dello Stabile
del Veneto un orientamento che si volge alla valorizzazione della drammaturgia contemporanea e al
rinnovamento del linguaggio teatrale. A testimoniarlo, fra gli altri appuntamenti in cartellone, sarà la sua regia
di Oscura immensità, spettacolo tratto
dal quasi omonimo romanzo di Massimo Carlotto. Abbiamo incontrato
Gassmann durante il primo giorno di
prove della sua nuova messinscena.
«Il lavoro svolto in queste due stagioni teatrali ha ottenuto risultati
molto incoraggianti. Spettacoli di autori, fra l’altro veneti, come Tiziano
Scarpa con il suo L’infinito (cfr. vmed
n. 45, p. 59 e p. 53 di questo numero)
e Vitaliano Trevisan non solo con
Wordstar(s) (cfr. vmed n. 43, p. 64)
ma anche con l’adattamento del Riccardo iii che andrà in scena nel 2013 e
che mi vedrà nel doppio ruolo di regista e interprete, hanno riscosso ottimi consensi e critiche favorevoli, confermando così la bontà delle nostre
scelte, sia produttive che programmatiche, indirizzate verso una pluralità
di scritture di teatro contemporaneo.
Proprio in sintonia con questo orientamento, e anche per la mia personale
ammirazione nei confronti di Massimo Carlotto, ho accolto con favore la
sollecitazione dell’Accademia Perduta-Romagna di coprodurre uno spettacolo tratto dal suo romanzo L’oscura immensità della morte – del cui
adattamento teatrale si è occupato lo
stesso Carlotto – e di curarne la regia.
Il testo racconta di delitti avvenuti
nella provincia del nordest del nostro
Paese e narra di possibilità di perdono, pentimento e redenzione. Con un
linguaggio incisivo, essenziale, crudo
e un ritmo dell’azione serrato e coinvolgente, l’autore racconta un tragico
fatto di cronaca, mettendo a confronto vittima e carnefice, entrambi lacerati da rispettivi drammi personali».
Come si muoverà la tua messinscena?
Nelle mie regie finora ho sperimentato spesso l’utilizzo di proiezioni e
retroproiezioni, che fossero in grado
di rendere una forma di realismo mol1. Alessandro Gassmann;
2. Giulio Scarpati; 3. Claudio Casadio.
1.
2.
3.
to forte, capace anche di uscire dal racconto grazie a momenti di vera e propria creazione visiva. In particolare questo testo di Carlotto mi permette di utilizzare al meglio tale mezzo espressivo, che diventa luogo reale dove avviene la narrazione, declinata con una forma di montaggio quasi cinematografico – almeno per quanto mi riguarda e per quanto ho
fino a oggi realizzato –, e quindi senza bui e senza interruzioni: tutto d’un
fiato.
È possibile individuare qualche differenza tra pièce e romanzo?
No, e direi anzi che la pièce, proprio perché adattata dallo stesso autore del libro, è molto fedele al testo
originario.
In scena ci saranno Giulio Scarpati e
Claudio Casadio. Come stai lavorando con loro?
Giulio e Claudio incarneranno due
personaggi che monologano. Con
Scarpati ci stiamo concentrando su
una recitazione che sia il più possibile realistica, cruda e crudele. E se con
Giulio, che solitamente siamo abituati a vedere nei panni di personaggi buoni e positivi, lavoreremo sul suo
lato oscuro, con Casadio ci concentreremo su una dimensione più umana.
Sono due attori molto distanti l’uno
dall’altro e credo che proprio per questo siano perfetti per i ruoli che vanno
a interpretare.
Cosa emerge da questa oscura
immensità?
Ne emergono una società e un’umanità impaurite, che hanno perso fiducia nel futuro, ed emerge anche tutta
quella violenza alla quale siamo, oramai e purtroppo, abituati. Si tratta in
questo caso di una violenza non solo
fisica ma anche e soprattutto psicologica. Carlotto è molto abile nel descrivere la società del nostro Paese, soprattutto quella della provincia e delle periferie del nord italiano. Anche
per questo, credo che sia uno spettacolo che potrà interessare in particolare il pubblico veneto che vorrà venire a vederlo. ◼
Venezia
Teatro Goldoni
7, 9, 10 novembre, ore 20.30
8, 11 novembre, ore 16.00
Trieste
Teatro Politeama Rossetti
13, 15 novembre, ore 20.30
14 novembre, ore 16.00
Mestre
Teatro Toniolo
28, 29 novembre, ore 21.00
Padova Teatro Verdi
8, 9, 10, 11, 12 gennaio, ore 20.45
10, 13 gennaio, ore 16.00
prosa
L’«Oscura immensità»
di Alessandro Gassmann
47
prosa – formazione
48
«Pedagogia
della scena»
ra i paradossi del teatro, quello pedagogico è il primo e, anche storicamente, il meno dibattuto, nonostante preceda e implichi tutti gli
altri. Arte «sociale» che ha bisogno del pubblico, arte dal vivo che non si può riprodurre, che scinde l’arti-
nale con un maestro. E non si tratta neppure di creare eventi d’eccezione destinati a esaurirsi in attese fuorvianti e insegnamenti frammentari, quanto piuttosto di affrontare una
carenza strutturale del sistema teatrale e una priorità della
pedagogia teatrale (e vorremmo dire della pedagogia tout
court): formare i formatori e insieme riflettere sui metodi pedagogici. L’isola della pedagogia teatrale, il laboratorio internazionale diretto da Anatolij Vasil’ev che ha concluso il suo
ciclo triennale a Venezia, ha cercato di dare una risposta concreta a tale urgenza ineludibile. Sostenuto dalla Fondazione di Venezia e dalla Scuola Paolo Grassi di Milano, coordinato da Maurizio Schmidt e Cristina Palumbo, il progetto
ha visto tra il 2010 e il 2011 l’arrivo all’isola della Giudecca
di quaranta allievi-pedagoghi selezionati dal direttore, dopo
sta chiedendogli di essere allo stesso tempo esecutore e strumento
della propria esecuzione, il teatro è prima di tutto un’arte che
nessuno ti può insegnare, eppure devi trovare qualcuno che te
la insegni. Nessuno infatti può
davvero spiegare come si diventa attori. Chi vi aspira deve lavorare su di sé, e dentro di sé, ma per
farlo deve possedere delle tecniche che non può imparare fino in fondo da solo perché
vengono trasmesse, da sempre, in modo quasi esoterico, da maestro ad allievo.
Quella che è stata definita l’arte segreta dell’attore si può travasare solo attraverso un’esperienza artistica tesa a
oltrepassare il teatro
per arrivare alla vita stessa. Né le accademie strutturate in
corsi stabili, né il pullulare di occasionali stage rispondono evidentemente all’esigenza di incontro profondo e perso-
un bando internazionale, in due sessioni di workshop propedeutici. Attori e registi provenienti da tutto il mondo per
«fare lentamente qualcosa di veramente necessario per il teatro», come dichiarava il maestro russo all’inizio di quest’avventura. Residenzialità, lentezza, concentrazione, ripetizione. Per sette settimane, otto ore al giorno, il lavoro si è concentrato il primo anno su quelle che il regista chiama Strut-
Un triennio
con Anatolij Vasil’ev
T
di Fernando Marchiori
zione delle strutture ludiche, il mantenimento di uno stadio
di continua improvvisazione del corpo e della voce per consentire la concentrazione sulla vita spirituale del ruolo. La
pratica della composizione attraverso il conflitto e l’azione,
che pone al centro del processo creativo l’attore e la sua ricerAl lavoro con Anatolij Vasil’ev.
ca espressiva, giunge a Vasil’ev, attraverso il magistero di Marija Knebel’ e Andrej Popov, direttamente da Stanislavskij. È
dunque un fiume profondo alimentato da una delle più importanti sorgenti dell’arte scenica novecentesca quello che si
è venuto a mescolare in Laguna con i mille rivoli della ricerca contemporanea. A conclusione del laboratorio, gli allievi-pedagoghi hanno mostrato il risultato del loro lavoro con
gli attori nel corso di una lunga serata aperta alla città. Normalmente la tecnica degli etjud viene applicata a porte chiuse, ma in questo caso Vasil’ev ha voluto che gli allievi imparassero anche dal lavoro in presenza del pubblico, cogliendo
le sue reazioni. Per quanto alcuni studi abbiano lasciato intravedere potenziali sviluppi drammaturgici e attorali, poco
importa, naturalmente, dare giudizi sugli esiti performativi
dell’esperienza. «L’etjud e il caso
sono fratelli», ricordava il maestro accogliendo gli spettatori
in sala. Importa invece evidenziare la necessità di non lasciar
morire un’esperienza di questo
livello, dalla quale potrebbero
nascere non solo degli spettacoli internazionali (alcuni allievi si
stanno già organizzando in tal
senso) ma una vera e propria
scuola di respiro europeo per
la formazione pedagogica
teatrale. Già l’arta di Parigi ha recentemente proposto un corso con le
stesse caratteristiche di
quello veneziano. Sarebbe davvero un peccato che la città lagunare, capitale ideale del teatro e sede
di svariate istituzioni interessate all’arte scenica (dalle due
università alla Biennale, dall’Accademia di
Belle arti al Teatro Stabile) si lasciasse scippare
anche questa occasione. ◼
prosa – formazione
ture psicologiche, attraverso i testi di Anton Cechov, con un
approccio attivo e collettivo. La seconda sessione nell’estate
2011 si è rivolta alle Strutture Ludiche e Miste, proponendo
di lavorare sulle novelle di Luigi Pirandello. Infine, per la terza sessione svoltasi in ottobre 2012, Vasil’ev ha selezionato
quattordici allievi-pedagoghi guidandoli nel lavoro sul metodo appreso in collaborazione con un gruppo di venti attori.
Ma tra l’ex Convento dei Santi Cosma e Damiano alla Giudecca, sede del laboratorio, e il Teatro Junghans si sono svolte in questi tre anni anche varie attività aperte agli studiosi e
agli appassionati di teatro: proiezioni di filmati storici, testimonianze, conferenze, percorsi per osservatori, incontri con
Vasil’ev. Il lavoro con gli allievi si è basato sul metodo degli
etjud, ovvero l’analisi del testo mediante l’azione, l’esplora-
49
prosa – formazione
50
Al lavoro
con Luca Ronconi
Il Centro Teatrale Santacristina
compie dieci anni
I
di Leonardo Mello
l cantiere teatrale di Santacristina, fondato dieci anni fa nell’omonimo luogo umbro da Luca Ronconi insieme a Roberta Carlotto, quest’anno si
è articolato in quattro diversi percorsi, che, dal 21 agosto al 16 settembre, hanno visto coinvolti dieci giovani attori professionisti, provenienti dalle migliori scuole di teatro
italiane – Ivan Alovisio, Fausto Cabra, Clio Cipolletta, Loris Fabiani, Gabriele Falsetta, Lucrezia Guidone, Lucia Marinsalta, Francesco Petruzzelli, Sara Putignano, Francesco
Sferrazza Papa – e interpreti di fama come Riccardo Bini,
Francesca Ciocchetti, Giovanni Crippa e Sandro Lombardi. Anche questa volta dunque il principale obiettivo di questo Centro Teatrale – mettere in connessione diverse generazioni di attori in un rapporto di mutuo scambio creativo
– è stato al centro delle quattro settimane di lavoro artistico, nell’ottica formativa perseguita e sperimentata nel tempo dal Maestro.
Sotto lo sguardo vigile di Ronconi, affiancato da altri due
registi, Luca Bargagna e Giorgio Sangati, l’esperienza laboratoriale si è incentrata sull’Inappetenza di Rafael Spregelburd,
stella ormai consolidata del panorama drammaturgico internazionale, e sull’Innesto, commedia poco nota di Luigi Pirandello, protagonista delle ultime edizioni del seminario estivo
di Santacristina. In prima persona il Maestro ha poi condotto l’esplorazione di Pornografia di Witold Gombrowicz, straordinaria e mordace vicenda di eros e thanatos che contrappone, almeno apparentemente, la maturità dei due protagonisti e l’acerba adolescenza di una coppia di ragazzi, coinvolti loro malgrado in un complesso disegno omicida. A questi
tre percorsi si aggiunge l’estrosa, bizzarra Commedia di matti assassini dedicata da Giuliano Scabia – presente durante le
giornate agostane – a Franco Quadri.
Pur trattandosi di quattro drammaturgie diverse e distanti,
selezionate singolarmente e senza alcuna intenzione di trattare tematiche comuni, oltre alla consueta dialettica attore/
personaggio esse sembrano presentare alcuni rimandi intertestuali, che vanno dall’erotismo al crimine, dal rapporto/
scontro tra vecchiaia e giovinezza al cangiante concetto di
scandalo.
Il primo testo, L’inappetenza, declinazione moderna della
biblica lussuria, tra desideri sessuali sfrenati e comunicazione impossibile, tra conflitti generazionali e apatica indifferenza affronta le dinamiche relazionali di una famiglia argentina di oggi, in un contesto sociale e personale allo stesso tempo straniato, inquietante ed esilarante, oltre che sideralmente lontano dalle consuetudini cui il pubblico è assuefatto: come nelle altre sei tessere dell’Eptalogia di Hieronymus Bosch,
l’autore argentino tende infatti a mettere in crisi le aspettative dei suoi spettatori, sia grazie agli spunti tematici trattati che smontando sistematicamente il flusso delle informazioni – e la loro consolante comprensibilità – mediante dialoghi spiazzanti, continue omissioni e oscuri ammiccamenti. Sotto la stretta supervisione di Ronconi – che ha recentemente messo in scena La modestia e si accinge a presentare Il
panico, altre due porzioni della medesima Eptalogia – questa
è la strada che Giorgio Sangati, cui è stata affidata la direzione del laboratorio, ha voluto percorrere con i suoi attori: l’attenzione si è dunque focalizzata su un’analisi del testo che
avesse come principale obiettivo la percezione dello spettatore, permettendogli di entrare poco a poco all’interno della pièce attraverso la sottolineatura delle esche e delle chiavi nascoste e disseminate in modo solo in apparenza casuale all’interno del testo. Un lavoro dunque concentrato sulle
sfumature, spesso ironiche, della breve ma complessa partitura drammatica, messe in evidenza grazie allo studio capillare delle singole scene e frasi da parte degli interpreti, a partire da Francesca Ciocchetti, che già aveva incontrato Spregelburd nella Modestia.
Diversa l’operazione portata avanti con L’innesto pirandelliano, curata da Luca Bargagna. Lo spunto iniziale l’ha fornito una recensione del 1919 firmata da Antonio Gramsci, in
cui l’intellettuale sardo mette in rilievo il contrasto tra la scabrosa attualità del tema affrontato dall’autore girgentino –
uno stupro e le sue ricadute su un tessuto familiare borghese
– e le rigide regole che governano la società (non solo teatrale) del tempo, e che finiscono per condizionare la commedia.
Questa lettura, condivisa da Luca Ronconi, porta a inglobare in una battuta di Giovanni Crippa nei panni del Dottor
Romeri – personaggio che si sforza di mantenere una posizione «oggettiva» rispetto alle dinamiche psicologiche che
contrappongono la vittima, il marito, la madre e la sorella di
lei – lunghi stralci dello scritto gramsciano, come a suggerire allo spettatore una sorta di presa di distanza critica. Durante le sessioni laboratoriali la sequenza pirandelliana viene
smontata e rimontata, privilegiando il frammento alla struttura unitaria. Questo per permettere, nelle intenzioni del regista, di mantenere il nucleo essenziale del testo, che ancor
Luca Ronconi a Santacristina
con gli attori delle edizioni 2010 e 2011 (ctsantacristina.it).
pera (nonché del pensiero di Gombrowicz). Ma la drammaturgia costruita dal maestro romano e proposta nel lavoro con
gli attori non si ferma a questo pur essenziale snodo tematico. Analizzando minuziosamente ogni sfaccettatura, emergono tutti gli elementi sparsi nel libro, a cominciare dall’erotismo stantio e mortifero dei due personaggi principali (proprio grazie a un duplice omicidio, del resto, il loro desiderio viene appagato). Attraverso il continuo alternarsi delle
voci di Witold e Federico risulta poi progressivamente chiaro anche che il secondo rappresenta la parte nera del primo,
e ci troviamo di fronte a un’unica personalità che si sdoppia
in cui sono presentati cinque psicotici
omicidi usciti provvisoriamente dalla
struttura penitenziario-sanitaria che
li ospita per una rappresentazione in
cui ciascuno di loro assume più ruoli, fino a ingaggiare, nei panni di nobili cavalieri muniti di destriero di cartapesta – in perfetto stile scabiano –,
una battaglia cruciale contro la morte
scandita da un incessante tic tac d’orologio. È ancora Luca Ronconi a suggerire a Luca Bargagna e Giorgio Sangati, che conducono in coppia il workshop, una possibile chiave di lettura:
selezionando alcune scene all’interno
del lungo testo, i due registi puntano
infatti sull’esecuzione piuttosto che
sull’interpretazione, concentrandosi
sulle singole parole. Ne deriva un lavoro fondato sull’atto recitativo, dove agli attori è richiesto di spogliarsi
del loro essere interpreti, alla ricerca di
una neutralità del proprio «dire» le
battute, aiutati in questo anche dalla
natura poetica della commedia, oltre che dal suo tessuto fortemente allitterante e anaforico. I giovani attori del gruppo,
dopo un primo, naturale disorientamento, entrano appieno
nei meccanismi di questo inedito approccio.
Mentre per gli altri percorsi si ritaglia il ruolo di supervisore, o meglio di attento consigliere, Luca Ronconi affronta invece in prima persona Pornografia di Gombrowicz, un
romanzo complesso e acuminato in cui, a una prima lettura,
il punto focale sembra essere – come spiega nelle fasi iniziali uno studioso come Francesco M. Cataluccio – il rapporto che si instaura tra due persone di mezza età e due ragazzi,
sui quali i primi proiettano i propri desideri erotici. E certamente lo scontro tra maturità e giovinezza, intese come antitetiche e in conflitto tra loro, è uno dei tratti salienti dell’o-
per dare sfogo al proprio voyeurismo
(il cui retroterra autobiografico è denunciato dal nome di uno dei protagonisti). «L’essenza pornografica dell’opera – afferma Ronconi – sta proprio
nel voyeurismo verso se stessi: la vera
scena pornografica è quella in cui Witold legge le lettere di Federico. Questa mi sembra la chiave del romanzo,
rivelando che i due personaggi sono
in realtà uno solo: lo scrittore, attraverso queste lettere, si confessa all’ipotetico lettore». Lo scavo in profondità all’interno dell’opera, eseguito in
lunghe sessioni di lavoro – dove, dopo
aver tagliato il superfluo, ogni singola frase, parola, sintagma sono sviscerati e vengono analizzati sia dal punto
di vista del ritmo che dell’intonazione
– mette poi in evidenza la geniale cattiveria di questo autore polacco emigrato in Argentina alle soglie della seconda guerra mondiale, e il suo fastidio interiore per concetti come storia,
patria, nazione. E si fa palese anche l’inesausto intento sarcastico-parodico che sta dietro al dipanarsi della trama. Proprio
per questa gamma infinita di sfumature, il regista insiste sulla necessità, a livello recitativo, di non indulgere mai alla descrizione di quanto viene detto: al racconto, ripete più volte,
vanno sostituite delle immagini, quasi delle istantanee. La
stessa attenzione rivolta al tracciato verbale ritorna poi nella costruzione dei primi movimenti e delle prime azioni sceniche, che non sovrapponendosi mai al parlato scoraggiano
in chi guarda la percezione di un flusso narrativo. Ronconi –
anche grazie al lavoro svolto con gli attori durante il seminario – imprime alla sua elaborazione drammaturgica una direzione che mette in rilievo dettagli e particolari probabilmente ignoti alla maggioranza dei lettori di Gombrowicz. ◼
prosa – formazione
oggi risulta problematico e scandaloso – e proprio per questo contemporaneo –, tralasciando invece sia il contesto sociale che l’ambientazione d’origine, vale a dire il salotto borghese. Questo slittamento semantico si ripercuote necessariamente anche sul lavoro degli attori, perché lo smontaggio
cui si accennava va di pari passo con un’approfondita analisi
delle reali intenzioni e motivazioni che animano i personaggi, accrescendone i chiaroscuri e le zone d’ombra cui devono
dare vita gli interpreti coinvolti.
La relazione tra attore e personaggio si complica e moltiplica nella Commedia di matti assassini di Giuliano Scabia,
51
prosa
52
Estratti
da «Pinocchio»
N
el numero di luglio (cfr. vmed n. 47, p. 49)
Enrico Castellani, fondatore e anima insieme a
Valeria Raimondi
di Babilonia Teatri,
ci aveva parlato del nuovo proModena
getto dedicato a Pinocchio e reTeatro Storchi
alizzato insieme all’Associazione 8 dicembre, ore 21.00
«Gli amici di Luca», che ha co- 9 dicembre, ore 15.30
me obiettivo la sensibilizzazione
dell’opinione pubblica circa il difficile processo di riabilitazione e ritorno alla vita delle persone
uscite dal coma. In vista del debutto a Modena, pubblichiamo
alcuni stralci del testo dello spettacolo.
Gigi
Hello
Do you speak english?
Parlate inglese?
Hello, my name is Luigi
Mi chiamo Luigi
Gigi per gli amici
For my friends Gigi
Parlo male
Lo so
Pain attention please
State concentrati
Ho fatto un incidente
Un platano
59 giorni di coma
Questo è il risultato
Sono passati 30 anni ma…
Mi sono trasformato
Ma non sono diventato un pezzo di legno
Sono ancora fatto di carne ed ossa
Sometimes I feel like a ghost
Mi sembra di essere un fantasma
Un fantasma fa paura
Un fantasma non si vede
Il fantasma di ciò che ero
I’m looking for ghostbusters
Sono in cerca di un acchiappafantasmi.
Paolo
Riccardo
Nessuno ha bussato alla mia porta
Ho bussato io
Sono salito fino in cielo
Toc toc
Niente
Non mi hanno neanche aperto
Una voce
Torna giù
Torna giù bello
Qui non c’è nessuna fata
Vai a purgare
Non hai finito
Il pianeta terra ti chiama
Alzati e cammina
Cammina un cazzo
C’ho messo 4 anni a rimettermi in piedi
Briciola è stata la mia fisioterapia
Briciola e le sue pisciate
Correva e rosicavo
Saltava e rosicavo
Scopava e rosicavo
Rosica rosica i pesci hanno mangiato tutta la pelle dell’asino
Tutte le orecchie
Tutta la coda
Pinocchio è tornato un burattino
Un burattino di legno
Pinocchio è tornato Pinocchio.
Al bar mi chiamavano Remì
Garçon
Un cognac di champagne – un Remy Martin
In discoteca mi chiamavano Champagne
Garçon
Uno champagne
Due champagne
Trois champagne
Uno zecchino
Due zecchini
Trois zecchini
Lavoravo
Guadagnavo
Ballavo
Rimorchiavo
Poi
Poi ricordo solo la nebbia
Tanta nebbia
Quel muretto non c’era mai stato
Poi
Poi niente
Sono sceso dalla macchina
Mi ha trovato la pattuglia che mi aveva appena fermato
Ero in stand by
35 giorni di stand by
Coma
Al risveglio ero una scarpa vecchia
Rotta
Una scarpa da cassonetto della Caritas
In quel cassonetto ho trovato la mia nuova identità
My second life
Volontariato
Niente più lavoro
Niente più champagne
Niente più Remy
Paolo
Only Paolo
Je suis Paolo
Facchini Paolo.
Un momento di Pinocchio secondo Babilonia Teatri.
cupare infinitamente di più. Quando ho letto il testo di Tiziano mi è nata spontanea, pur nelle ovvie differenze, una similitudine con un film molto antico di Pupi Avati, Noi tre,
che è stato anch’esso un cult della mia giovinezza: lì è narrato il viaggio italiano del giovane Mozart. È una pellicola
che cerca di scoprire, attraverso questo soggiorno non si sa
quanto reale e quanto inventato, un Mozart privato, lontaa cura di Leonardo Mello
no dal cliché del genio assoluto. L’infinito mi ha fatto tornare alla mente quelle atmosfere, un modo in fondo apparenualche tempo fa (cfr. vmed n. 45, p. 59) Titemente leggero di raccontare un mostro sacro, verso il quaziano Scarpa ci ha raccontato la genesi dell’Infile si ha sempre un atteggiamento un po’ reverenziale. Da qui
nito, la pièce teatrale da lui composta
è nato uno spettacolo anche divertente, con un
intorno alla poesia (e alla persona) di
approccio decisamente non scolastico. Anzi, seGiacomo Leopardi. Lo spettacolo,
condo me lo spettacolo è profondamente contro
prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, ha debutla scuola, o meglio contro una certa attitudine tiTrieste
tato un anno fa e ora, dopo molte applaudite replipicamente scolastica a spiegare la poesia. Il testo,
Politeama Rossetti
che per le scuole, ritorna in scena tra Trieste e Pa- 16, 17 novembre, ore 20.30 al contrario, dice implicitamente che «parafra18 novembre, ore 16.00
dova, tappe di una tournée che abbraccia tutta la
sare» un componimento poetico è impossibile
Penisola. Ne parliamo con il regista, Arturo Cie che le glosse a fondo pagina sono spesso uno
Padova
rillo, che impersonava il poeta agli inizi e ritorna
inutile sciocchezzaio. Credo infatti che la poesia
Teatro Verdi
a vestirne i panni ora. Che impressione ti ha fat- 23, 24 novembre, ore 20.45 si possa comprendere soltanto creando dei pato lavorare su una figura considerata in un certo
ralleli con le esperienze che ciascuno di noi vi25 novembre, ore 16.00
senso lontana dal nostro mondo come Leopardi?
ve. Quando Leopardi, catapultato ai giorni nostri, illustra al suo giovane
coetaneo L’infinito cerca di rendere quelle parole accessibili a un ragazzo d’oggi, per cui quello
sguardo oltre la siepe diviene un trip, un viaggio
quasi allucinogeno totalmente legato all’immaginazione. Questo è forse il
più grosso pregio che ravviso nell’opera di Tiziano, l’inventarsi cioè un
Leopardi giovane che incontra e dialoga con un
altro giovane come lui che
però appartiene al nostro
tempo. Non c’è l’intenzione di mettere in scena
il poeta sofferente, ma si
Be’, che sia percepito come lontano da noi mi sembra un
vuole presentare invece un ragazzo tra ragazzi, un ventenpeccato, un segno evidente e negativo di ciò che siamo divenne profondamente solo e irrisolto. Da ciò deriva una carattetati. Per mia fortuna, ai tempi del liceo, io ho avuto con lui un
rizzazione poco macchiettistica del poeta, cosa che comunincontro folgorante, molto più forte di quello con altri penque tendo sempre a evitare nei miei spettacoli. D’altro canto
satori di moda tra gli adolescenti, uno per tutti Nietzsche.
dare vita a Leopardi mi ha creato qualche difficoltà, essendo
Tanto fu intenso quell’incontro inaspettato con i suoi versi
lui un personaggio estremamente noto di cui si possiede una
e le sue prose che già allora mi ero procurato (e divorato) molcerta iconografia stereotipata. Ma la situazione stessa, con i
tissime opere in più rispetto a quelle raccolte nelle antologie.
suoi contorni onirici (non si sa bene se tutto quanto accade
E diversamente dal giovane contemporaneo con cui Tiziasia soltanto un sogno), mi è venuta in aiuto nel dare al persono Scarpa l’ha messo a confronto, che non lo conosce (né lo
naggio una dimensione piuttosto astratta, nella quale mi trocomprende), avere conosciuto il suo pensiero mi fece fare un
vo decisamente più a mio agio.
soprassalto, divenendo uno dei punti cardine della mia forNella concreta costruzione dello spettacolo, che rapporto si è
mazione. E questo soprattutto per la diversità che percepivenuto a creare con l’autore?
vo in lui rispetto a tutto quello che veniva prima, in termini
Non era la prima volta che mettevo in scena un testo di Tidi capacità drammatica, ironia e perfino spietatezza: già da
ziano: avevo già allestito, a Napoli, il suo Inseguitore. Lui ha
ragazzino lo consideravo uno dei massimi vertici della letteuna sua tradizione teatrale, non ha alcuna difficoltà nel metratura italiana. Il fatto che oggi non sia uno scrittore di ritere in voce i suoi testi, e gli riconosco anche un’ottima capaferimento lo vivo come un problema. Uno dei molti meriti
cità affabulatorio-istrionica. Però nonostante questo, pur esdel recente spettacolo di Mario Martone sulle Operette mosendo spessissimo presente alle prove, non è mai stato «sorali è stato anche quello di far finalmente riparlare Leoparvraccaricante» rispetto al lavoro degli attori. Anzi, devo dire
di. Trovo che sia un poeta e un intellettuale – e non mi rifeche ha dimostrato sempre grande attenzione ponendosi «in
risco soltanto alle opere più celebri – di cui ci si dovrebbe ocascolto», disponibile a discutere insieme a noi (e talvolta anche a cambiare) le battute e i passaggi che ci riuscivano meno
Arturo Cirillo e Andrea Tonin (teatrostabileveneto.it).
facili, soprattutto nella seconda parte. ◼
Q
prosa
«L’infinito»
di Tiziano Scarpa
secondo Arturo Cirillo
53
prosa
54
Un teatro per attori
cato un’intera pièce. I suoi testi non hanno un sottotesto,
non hanno dispositivi drammatici, e Il teatrante è anche una
feroce critica all’imbecillità. Bruscon dice che la sua commedia intitolata La ruota della storia non è un groviglio di allusioni e che lui è un poeta universale della verità».
Come ha lavorato dal punto di vista registico?
a cura di Ilaria Pellanda
Non credo sia possibile individuare una vera e propria lettura registica: Bernhard, che ha una lontana parentela con
ranco Branciaroli continua il proprio persoSamuel Beckett, nel Teatrante fornisce un sacco di indicazionale percorso di riflessione sul teatro e sul suo rapporto
ni: guarda a destra, guarda a sinistra, si guarda intorno, ecc.
con la società: espresso ad esempio lo scorso anno nella
Non c’è quindi bisogno di fare una regia e si tratta piuttosto
pièce di Ronald Harwood Servo di scena (cfr. vmed n.
di una questione d’attore. Proprio per questo, il successo del
44, p. 68), vedrà un nuovo punto di approdo nel Teatrante di
testo – già rappresentato in passato nel nostro Paese ad esemThomas Bernhard, che, prodotto dal Centro Teatrale Bresciapio da Tino Schirinzi e da Paolo Graziosi – risiede tutto nelno e dal Teatro de gli Incamminati, calcherà il palco del Polile caratteristiche di chi incarna Bruscon. Lo ripeto: non c’è
teama Rossetti di Trieste dal 7 al 9 dicembre.
regia, la regia è quella di Bernhard, che ha tessuto un monologo truccato da spettacolo. Per
«In questo testo di Bernhard c’è una bataiutare l’interprete a ricordare le battute, il teTrieste
tuta che ben si collega, per quel che riguarda
sto è stato disseminato di tutta una serie di inTeatro Politeama Rossetti
la mia riflessione sul teatro, sia a Servo di sceformazioni – schiaccia le tavole del palcosce7, 8 dicembre, ore 20.30
na, sia al mio recente Don Chisciotte. Si tratta
nico, si appoggia la muro, ecc. – che altro non
9 dicembre, ore 16.00
di un pezzo del monologo di Bruscon – il tesono che puntelli che vengono in soccorso alatrante che dà il titolo alla pièce – dove si dice
la memoria dell’interprete. Bernhard ben sache il drammaturgo non deve mai dimenticare che in scena
peva che settanta pagine non sono poche da ricordare. Ecco
vanno sempre degli anti talenti: ogni attore è un anti talenallora che ogni dieci righe viene inserita un’azione da eseguito, e più è famoso e grandioso, peggio sarà; quando un attore, perché la memoria da palcoscenico è sempre legata al far
re incarna un re – si legge nel testo – fa schifo, perché non sa
qualcosa, di modo che il cervello, automaticamente, vada a
nemmeno cosa sia un re, e quando un’attrice interpreta una
richiamare la battuta. Nonostante si tratti di un monologo,
sguattera fa ancora più schifo, proprio perché nemmeno sa
Bernahard ne fa quasi una commedia, e assieme a Bruscon ci
cosa sia una sguattera. Gli attori vanno in scena per recitare
sono in scena anche la moglie, il figlio e la figlia, e poi ancora
ciò che non possono essere. E fanno totalmente schifo. Ebil locandiere, la locandiera e la loro figlia. Ma a ogni modo la
bene, è in tale gioco raffinato realizzato da Bernhard che riregia non esiste, ci tengo a sottolinearlo, e anzi credo che reasiede la giustificazione del testo, perché l’unica cosa che un
lizzarne una comporterebbe un ineluttabile rischio: mettere
attore sa e può saper portare in scena è l’attore stesso. E Brudel proprio in Thomas Bernhard significherebbe rovinarlo,
scon, infatti, è un attore. Tutto ciò lo si può ben ricondure credo che proprio questo sia il motivo per cui in Italia non
re a quanto sto realizzando da circa tre o quattro anni, osarriva al successo di pubblico che meriterebbe. Credo che la
sia al mio progetto di portare in scena degli attori, in quancolpa risieda nelle regie. Non è un autore che si presta alle reto l’attore è l’unica parte che l’interprete stesso sa veramengie: è un autore per attori.
te incarnare, l’unica figura di cui sa veramente qualcosa. Ha
Che tipo di scena ha creato Margherita Palli?
ragione Bernhard quando dice che ciò che gli attori rappreL’azione si svolge in una locanda austriaca con tanto di corsentano è sempre reso in modo falso e bugiardo, ma è appunna appese al muro. Una scena molto bella. Questa moda,
to per questo che si tratta di teatro. In tutto ciò riche a mio parere dura da troppo tempo, di presentare semsiede la giustificazione medesima del Teatranpre – anche a causa dei budget limitati – palcoscenici spogli
te, dicevo, cioè il motivo
con scene astratte, fatte di piccoli segnali, ha veramenper cui molto spesso i
te stancato. Lo stupore ammirato del pubblico quanprotagonisti dei testi
do si apriva il sipario su Servo di scena era dovuto
di Bernhard sono deproprio alla scenografia. Angli attori, che l’autoche per Il teatrante ne è stata
re chiama addirittupensata una decisamente reara per nome: si penlistica: se il locale in cui si svolsi ad esempio a Ritge il testo è una locanda austriater, Dene, Voss, o
ca, mi sembrerebbe vergognoancora a Bernhard
so segnalarla solo con una testa
Minetti, al quale
di cervo e una bottiglia su un taThomas Bernvolo. Deve essere una vera e prohard ha dedipria locanda austriaca! E se i soldi non ci sono, parlo in generale, significa allora che la pièce
non potrà essere realizzata. ◼
Thomas Bernhard
secondo Franco Branciaroli
F
Franco
Branciaroli
(foto di
Andrea
Angelucci).
I progetti fotografici
per il Natale 2012
D
di Denis Curti*
opo il grande successo della mostra di Elliott Erwitt («Personal Best»), la casa dei Tre Oci,
in occasione del Natale 2012, presenta un progetto espositivo che raccoglie tre differenti esperienze legate all’eccellenza fotografica veneziana, con il chiaro intento di dare visibilità ai protagonisti della cultura visiva presenti nella città lagunare.
La prima, intitolata «La seduzione delle forme – Le nuove
acquisizioni della Fondazione di Venezia», propone appunto
le ultime acquisizioni fotografiche presenti negli archivi della
Fondazione e si ricollega, con armonia, alle preziose immagini appartenenti al Fondo Zannier. In parete, le gigantografie
di Olivo Barbieri scattate su piazza San Marco, i paesaggi assoluti e immacolati di Giorgia FioVenezia
rio, le sperimentazioni contemCasa dei Tre Oci
poranee di Paolo Ventura sul tedal 14 dicembre
ma della memoria e alcuni prezioal 13 gennaio
si vintage della fotografia italiana
più classica come Nino Migliori,
Mimmo Jodice e lo stesso Italo Zannier. La Fondazione di Venezia intende sottolineare il proprio impegno culturale verso
la fotografia e restituire ai veneziani l’opportunità di ammirare le proprie collezioni.
La seconda esposizione, «Emersioni – (some) new photography in Venice», è una collettiva a cura di Xframe (associazione culturale attiva proprio all’isola della Giudecca), curata
da Saul Marcadent, che vede la presenza di numerosi giovani
fotografi: Manuel Capurso, Manuel Costantini, Laura Fiorio,
Gianmaria Gava, Diambra Mariani, Nicola Mazzuia, Daniele
Sambo, Federico Sutera, Luca Tommasi. Nelle sale dei Tre Oci
diversi progetti, divisi per autore, offrono al pubblico un percorso visivo composto da una serie di opere in cui emerge con
tutta evidenza la varietà di stili e linguaggi differenti. È l’energia delle idee. È la restituzione della creatività giovanile, del loro
impegno sul territorio. I racconti fotografici spaziano dall’immagine di paesaggio a quella artistica, dal reportage alla fotografia di architettura e narrano storie legate alla città, alla vita contemporanea, a tematiche sociali, antropologiche o concettuali, dando così un assaggio della produzione fotografica
contemporanea.
Infine, «Flash» la mostra sociale del circolo «La Gondola»:
come ogni anno, il celebre circolo fotografico presenta le opere dei propri soci. L’argomento prescelto quest’anno è il flash,
leit motiv di una ricerca visiva collettiva che si interroga sul tema della velocità, sul significato dell’attimo fuggente, del momento unico e irripetibile. I soci della «Gondola», custodi della tradizione culturale fotografica di Giuseppe Cavalli, si confrontano con le suggestioni di Weegee degli anni cinquanta, fino alle provocazioni contemporanee di Martin Parr. Una mostra eterogenea, capace di mettere in luce le molteplici possibilità creative della macchina fotografica e di un accessorio considerato sinora marginale come appunto il flash.
Con la mostra «Tre Oci Tre Mostre» prende corpo una delle ipotesi sulle quali si discusse all’avvio delle attività culturali
nella Casa dei Tre Oci: dibattere, produrre e fruire cultura attraverso il linguaggio della fotografia, non solo con importanti esposizioni rivolte a un pubblico vasto ma soprattutto con
una particolare attenzione alle realtà locali «storiche» come
il circolo «La Gondola» o «emergenti» come l’associazione
Xframe, prendendo atto dello stretto e profondo rapporto che
Venezia ha con la fotografia.
La valorizzazione di questo legame fra la città, che ha in sé tante memorie del passato, e gli strumenti nuovi della comunicazione per immagini è la sfida che si apre alla Casa dei Tre Oci.
La fotografia, ormai oggetto primario anche nel patrimonio
culturale della Fondazione di Venezia, ma per molti aspetti minoritario nel percorso della fruizione culturale in Venezia, può
trovarvi una casa accogliente e scientificamente adeguata. ◼
fotografia
Tre Oci Tre Mostre
55
* Direttore scientifico Casa dei Tre Oci
La seduzione delle forme – Le nuove acquisizioni della Fondazione di Venezia
Massimo Siragusa, Ravenna, Parco dei divertimenti di Mirabilandia, luglio
2005.
Emersioni – (some) new photography in Venice»
Laura Fiorio, Antenne.
Mostra sociale del circolo «La Gondola»
Fotografia di Antonio Baldi.
arte
56
Al Correr le vedute
di Francesco Guardi
laguna o dei canali, popolatissima di imbarcazioni e di personaggi assorti nella loro quotidianità. Originale è anche la
scelta dei soggetti: il Rio dei Mendicanti, il Canale della Giudecca con la punta di Santa Marta, L’isola di San Michele,
Forte Sant’Andrea. In un periodo posteriore, quando la madi Eva Rico
turità artistica sarà maggiore, lascerà poi completamente libera la sua immaginazione nei Capricci, dove le rovine di ediittore quasi ignorato dopo la sua morte,
fici antichi, uniti a decrepite costruzioni «moderne» vengoFrancesco Guardi (1712-1793) nel Novecento fu al
no fantasiosamente situati nelle isole della laguna. Questo
centro di un appassionato dibattito a proposito delsuo stile rococò e decorativo, lontano dalla moda e dall’accala paternità di diverse opere, attribuite di volta in
demismo classicheggiante imperanti a Venezia, lo allontana
volta a lui o a suo fratello Antonio. Ancora oggi il catalogo
dalla committenza dei nobili veneziani e lo rende poco in sidei suoi dipinti è incompleto, ma Francesco è conotonia con il gusto degli stranieri in viaggio durante
sciuto soprattutto per le vedute, anche se questa sail cosiddetto Grand Tour. Di fatto, Guardi non ebbe
rà, all’interno della sua carriera, un’attività piuttomai un grandissimo successo in vita, ma cominciò
Venezia
sto tarda, che intraprenderà negli anni della maturia essere apprezzato dopo la sua morte e soprattutto
Museo Correr
tà. Si tratta in effetti di un artista abbastanza etero- fino al 6 gennaio 2013 nella seconda metà dell’Ottocento, quando studiodosso, che cominciò come copista di dipinti di stosi, collezionisti e critici entusiasti cominciano a conria, e che solo attorno alla quarantina si interessò a
siderarlo addirittura più importante dell’arcifamoun tipo di pittura che a quell’epoca Longhi aveva reso di moso Canaletto. I due esempi più noti sono quelli dello scrittore
da: l’interno veneziano. Celeberrimi i due quadri di Ca’ Reze giornalista francese Charles Yriarte nel suo Venise: l’histoizonico, Il parlatorio delle monache e Il ridotto, un’attenta dere, l’art, l’industrie, la ville et la vie e di Paul Leroi sulle pascrizione della mondanità del Settecento veneziano, tra abgine della rivista «L’Art»: entrambi detestano la pittura acbigliamento, maschere, costumi, ozio, spensieratezza… Francademica e adorano Guardi. Si citano due passi emblematici.
cesco sta cercando di farsi strada in un filone molto apprezYriarte scrive: «Guardi è molto più vivo di Canaletto: è un
zato e con ancora scarsa concorrenza. Eppure nemmeno qua
colorista più originale, e nessuno è superiore a lui nel suo getroverà la sua collocazione, tanto da reinventare la propria arnere quando esegue e realizza il suo pensiero. […] La sua prote e provarsi in un altro contesto pittorico, anch’esso di grandigiosa facilità e la vivacità spiritosa dell’esecuzione, la grazia
piccante, unite alle qualità atmosferiche di trasparenza e di luce rimaste
insuperate, fanno di lui un pittore a
sé, davanti al quale il Canaletto stesso, pur così ammirevole […], diviene
un artista freddo e sbiadito».
Ed ecco Leroi: «Canaletto ci mostra la vera Venezia, tale e quale esiste
materialmente; l’altro me la rappresenta come io me la ricordo e il mio
ricordo mi è caro. Viva Guardi! Il fascino dei poeti e degli artisti! Il giorno in cui la sua patria ha perso la potenza, lui, lui è rimasto l’irresistibile
seduzione».
Nell’epoca dell’industrializzazione e delle rivolte democratiche l’aristocrazia guarda con nostalgia al
passato spensierato e frivolo del Settecento, rievocandone la moda e l’arte. In questo contesto i collezionisti
ricercano avidamente le opere di un
personaggio estroso e originale come Guardi, che già nelle sue inquiede successo: il vedutismo. In questo campo la concorrente vedute sembrava preannunciare la fine di quel mondo idilza era maggiore, ma probabilmente Guardi approfitta della
liaco, ma che si sgretolava dietro le maschere. La bella mostra
temporanea assenza di Canaletto in laguna per costruirsi la
del Correr ci permette di ripercorrere tutta la sua carriera e
sua nicchia di clientela. I primi lavori seguono di fatto i modi rivalutarlo dal punto di vista tecnico, in particolare come
delli di Antonio Canal, ma poco a poco Francesco si distacpittore prospettico, ma soprattutto di riconoscere l’estrema
ca dal più famoso vedutista e si afferma sui tanti che si dedioriginalità di questo artista che attraverso le sue vedute non
cano a questo tipo di pittura grazie alla sua particolare sensolo descrive una città, ma ritrae un’epoca, una cultura, uno
sibilità, a una tavolozza poco consueta e a un modo del tutto
stile di vita, una società in decadenza che preannuncia conoriginale di realizzare le tele. Pur rispettando i modelli, egli
vulse trasformazioni. Palazzi, rii, barche, macchiette, cielo e
modifica le proporzioni, sfalsando e deformando la prospetacqua: i paesaggi urbani di Francesco Guardi raffigurano l’ativa, comprimendo sempre di più gli elementi architettonici
nima della Venezia del Settecento. ◼
fino a farli diventare soltanto linee di separazione fra il cielo e
l’acqua. Sono questi infatti i veri protagonisti: un cielo lumiFrancesco Guardi, Canal Grande
noso e allo stesso tempo cupo, oltre che tipicamente veneziacon San Simeone Piccolo e Santa Lucia,
no, con luci e ombre in constante movimento, e l’acqua della
olio su tela, 48x78 cm, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.
P
A
Giorgio Vasari è il primo a descrivere il dipinto di Tiziano
come «un quadro grande di figure simili al vivo, che oggi è
nella sala di Messer Andrea Loredano che sta da San Marcuola; nel quadro è dipinta la Nostra Donna che va in Egitto, in mezzo a una gran boscaglia e certi paesi molto ben fatti, per avere dato Tiziano molti mesi opera a fare simili cose, e tenuto per ciò in casa alcuni tedeschi, eccellenti pittori
di paesi e verzure. Similmente nel bosco di detto
quadro fece molti animali, i quali ritrasse dal vivo, e sono veramente naturali e quasi vivi». Già
Venezia
in questa prima narrazione il Vasari elenca alcuGallerie dell’Accademia
ne delle più importanti caratteristiche del gio«Il Tiziano mai visto.
vanissimo Vecellio, che poi si riscontreranno in
La fuga in Egitto
e la grande pittura veneta» tutte le tappe della sua lunga vita creativa, e in
particolare pone l’accento sulla sua meticolosifino al 2 dicembre
tà e sul tempo impiegato da Tiziano per conclu-
rriva in laguna direttamente dalla Russia la famosa Fuga in Egitto di
Tiziano, opportunità unica di ammirare questo dipinto del maestro cadorino, resa possibile grazie alla collaborazione
fra la Soprintendenza per il Patrimonio Artistico di Venezia, i Musei Civici Veneziani e l’Ermitage di San Pietroburgo, che lo ripropone dopo
un restauro durato oltre dieci anni. Quest’opera capitale dell’attività giovanile di Tiziano si presenta adesso in tutto il suo splendore,
permettendo di apprezzare le caratteristiche stilistiche dell’artista durante il periodo iniziale della sua carriera, e la sua contestualizzazione nell’ambito della pittura di paesaggio veneta del Cinquecento che – particolarmente nel
primo ventennio del secolo – non
ha riscontro in altri centri italiani,
tanto che alcuni artisti si specializzeranno nel genere. I pittori veneti accolgono con entusiasmo l’influenza della scuola fiamminga, in
particolare delle incisioni di Dürer
che circolavano in città e che furono particolarmente stimate da
Lotto e Giorgione. Queste vedute campestri – contemporanee e
radicalmente opposte a quelle urbane di grande formato di Gentile Bellini o Vittore Carpaccio, per
citare solo due nomi illustri – ambientano i personaggi e gli eventi sacri, mitologici o allegorici, in un paesaggio quasi sempre sereno e rassicurante (distese
d’erba e alberi frondosi, lontane montagne azzurrine, nuvole in movimento come nell’Allegoria sacra di Giovanni Bellini), ma che può essere altresì inquietante, con il vento che
agita le foglie o il cielo illuminato da un lampo (come nella
Tempesta di Giorgione). In tutti i casi non si tratta più di uno
sfondo: la natura è protagonista del quadro tanto quanto le
figure, ed entrambi, natura ed essere umano, convivono in
armonia. Bisogna anche ricordare il dibattito, molto animato all’epoca, sulla superiorità della pittura, capace di imitare
qualsiasi aspetto del tangibile o del visibile, rispetto alla scultura, da questo punto di vista molto più limitata: la minuziosità nell’elaborazione del paesaggio e soprattutto la rappresentazione dei fenomeni meteorologici e la loro azione sulla
natura (foglie mosse dal vento, riflesso della luce sulle nuvole,
ecc) certificano questa supremazia. Sarà inoltre fondamentale nella scelta del soggetto in questione (e del suo grande successo) la moda della poesia e della narrativa elegiaco-pastorale, a cominciare del bestseller di Jacopo Sannanzaro, Arcadia, pubblicato nei primissimi anni del secolo.
Tiziano Vecellio, La fuga in Egitto,
olio su tela 206 × 336 cm,
San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
dere l’opera, spinto in primo luogo da un’evidente volontà
di estrema precisione nel rappresentare vegetazione e animali. Ma – secondo quanto hanno rivelato gli scrupolosi studi
portati a termine durante il lungo restauro cui è stata sottoposta l’opera – la lunga gestazione è dovuta anche ai diversi rifacimenti e cambiamenti della composizione realizzati
dall’autore. Sempre il Vasari descrive poi anche altre peculiarità di questo dipinto, come le sue dimensioni – si tratta
infatti del quadro di paesaggio più grande tra quelli realizzati in quell’epoca a Venezia o addirittura in Italia – e conferma i già menzionati interesse e entusiasmo per lo stile tedesco e fiammingo.
Oltre all’opportunità di ammirare quest’opera giovanile,
la mostra «Il Tiziano mai visto» (curata da Irina Artemieva e Giuseppe Pavanello, autori anche del bel catalogo Marsilio) ci offre un’altra occasione unica: mettere a confronto
una delle prime opere del maestro, appunto la Fuga in Egitto, e quella che è considerata il suo testamento pittorico, la
Pietà, che le Gallerie dell’Accademia conservano alcune sale
più in là. La vivacità e l’esuberanza della prima – che ci fanno
immaginare un uomo energico e vigoroso, consapevole delle
sue potenzialità e con tutta la vita davanti – si contrappone
allo sconforto e all’afflizione che trasmette la seconda, opera di un vecchio che si appresta a morire e a fare i conti con il
Creatore. (e.r.) ◼
arte
All’Accademia
la «Fuga in Egitto»
di Tiziano
57
arte
58
Il Museo del Paesaggio
nel paesaggio
Una conversazione
con il direttore artistico
C
a cura di Leonardo Mello
on «Utopia del sembiante» (cfr. p. 59) il
Museo del Paesaggio diretto da Giorgio Baldo,
che ne è anche il fondatore, continua nel suo spedito percorso espositivo. Senza fare giochi di parole, a lui chiediamo, per iniziare, qual è il paesaggio reale entro il quale è inserito il Museo.
Ha dietro sé una storia brevissima, perché la sua esistenza è cominciata alla fine dell’Ottocento. La struttura di base di questo paesaggio è tutta artificiale, essendo stata forgiata (ma sarebbe meglio dire «fabbricata») dalla Bonifica integrale italiana tra la fine del xix e la prima metà del xx secolo.
Fa parte dei più di cinque milioni di ettari di territorio italiano che quel grande intervento ambientale (su scala europea)
ha sottratto al dissesto idrogeologico e al disordine idraulico,
portando a paesaggio un buco nero nello spazio nazionale, disabitato, privo di attività produttive, infestato da febbri malariche. Il territorio dove ora si trova il Museo (come gran parte della costa friulana, veneta, emiliana, prima di quell’intervento) era palude, regno dell’assoluto naturale, patria di uccelli, insetti, acqua, barene. Da quello che solo cent’anni fa era
terreno paludoso, è emersa una terra nuova, tutta artificiale,
ideata dall’uomo per l’uomo per farne un suo luogo «immaginario», cercando di realizzare il sogno di un posto in grado
di dare lavoro a diseredati, contadini, braccianti, disoccupati;
e insieme di creare un sito in cui trionfasse l’armonia tra uomo e natura. La prima trasformazione durò sino agli anni cinquanta, dando luogo a un paesaggio agrario particolarissimo.
Poi, su una parte di questo spazio è avvenuta la seconda grande
trasformazione: a ridosso del mare è sorto un secondo paesaggio, altrettanto inedito, quello della «città ludica», destinata alle ferie, al divertimento di massa. Così nel vecchio spazio
agrario della bonifica vi sono oggi, compresenti, tre forze-immaginario in competizione; la prima deriva dalla sussistenza
dei vecchissimi spazi rimasti dal tempo della palude, cioè il naturale «puro»; poi quella del paesaggio agrario; infine quello del paesaggio «urbano», vale a dire del litorale della festa.
Ma è finita la trasformazione di questo spazio nuovo emerso nel Novecento?
Oggi sembra farsi strada un nuovo immaginario, legato ai
movimenti ecologici, al rispetto per l’ambiente, alla sostenibilità, al movimento lento; un immaginario che vuole mantenere le isole vecchissime del naturale «puro» e aumentarne il
peso, che intende preservare il paesaggio agrario contro l’appetito dell’urbanizzazione selvaggia, che si propone di modificare in senso «naturalistico» lo stesso litorale turistico.
Il Museo del Paesaggio è dentro questo laboratorio, che immagina una nuova forma per questo spazio così giovane; anzi direi che lo «osserva» (da quest’anno, tra l’altro, dentro il
Museo ci sarà un «Osservatorio del paesaggio di bonifica»
della Regione Veneto). Ma non solo: vuole fornire riflessioni e azioni per la nuova trasformazione, chiamando artisti,
architetti, urbanisti, a confrontarsi e a intervenire con azioni e progetti. E ci piace pensare che la nuova Città Metropolitana di Venezia sia lo sfondo necessario del suo futuro; che si
faccia strada l’idea di
considerare il centro
del veneto orientale,
dove si trova il nostro
Museo, come un suo
grande parco agricolo di nuova concezione, una sorta di
«Central Park» metropolitano; uno spazio ricco di natura e
di artificio, di mobilità lenta, di sostenibilità ambientale. È tempo di pensare a un gigantesco intervento di Land art.
Come del resto è stata la bonifica.
Di cosa si occupa il Museo?
Intanto bisogna definire cos’è. Si trova a Boccafossa, frazione di Torre di Mosto, perfettamente inserito nel paesaggio
agrario del Veneto orientale. Si compone idealmente di tre
centri: il primo è il «Museo della civiltà contadina», con al
suo interno una ricca «collezione» di strumenti agricoli del
secolo scorso; il secondo è il Museo del Paesaggio vero e proprio, dove viene condotta una serie di attività espositive e culturali sul tema; il terzo è una fattoria didattica di cinque ettari, con un proprio orto botanico. Il Museo comunque ha come centro della sua attività la collezione e le mostre di opere
che hanno che affrontano il paesaggio del Novecento veneto.
Tale collezione è visitabile per i primi cinque mesi dell’anno.
Durante il resto del tempo vengono prodotte esposizioni artistiche dedicate al Novecento e alla contemporaneità. Sino a
oggi in sei anni di attività sono state promosse diciotto esposizioni con relativo catalogo.
Chi vi sostiene nella vostra attività?
In primo luogo naturalmente il Comune, proprietario del
Museo; in secondo ci è stata molto vicina in questi anni la Regione Veneto, sia per gli interventi strutturali sia come partner di alcune mostre; poi la Fondazione di Venezia, che ci ha
dato in comodato il nucleo della nostra collezione. Ma voglio
sottolineare anche il contributo fornitoci dalla Fondazione
Comunitaria «Terra d’Acqua», che ha capito il nostro progetto e ne è attiva sostenitrice e finanziatrice. A queste entità
fondamentali per la vita del nostro Museo si sono affiancate
nel tempo altre partnership e contributi di associazioni, banche e privati. ◼
Il Museo del Paesaggio: un’immagine dell’esterno
e un momento dell’inaugurazione di «Utopia del sembiante».
nome dai canoni della tradizione pittorica e dalle forme definite del reale.
La mostra organizza una messa in scena dei «paesaggi»
dell’arte nei quali appaiono le diverse polarità dentro alle
quali si dirama la sensibilità dell’artista per la ricerca di una
figurazione che abita contemporaneamente dentro e fuori
noi. Lo spazio di un altrove dove regna da sempre l’utopia e
di Stefano Cecchetto*
dove emerge con forza la presenza di un oltre, che il visibile ricerca al di là dell’apparenza: il sembiante appunto.
opo la mostra «Terra Madre»
Un teatro dell’utopia che permette di scorgere la
(cfr vmed n. 46, p. 63) che interrogadialettica degli opposti nel movimento incessanva la relazione Uomo-Natura, il Mute del visibile verso l’invisibile, della forma verLocalità Boccafossa
seo del Paesaggio di Torre di Mosto
so l’informe, del colore verso la sua negazione, e
(Torre di Mosto)
presenta una nuova esposizione dal titolo: «Utodel bianco e del nero come contrapposizione deMuseo del Paesaggio
pia del sembiante – Il Paesaggio nei paesaggi»,
gli opposti.
«Utopia del sembiante
che pone una serie di interrogativi sull’interpre- Il Paesaggio nei paesaggi»
Un «paesaggio» di trasformazioni: uno spatazione del termine «Paesaggio» nell’arte mozio aperto dove avvengono i procedimenti del
fino al 9 dicembre
derna e contemporanea. Questo nuovo progetto
pensiero.
presenta, per emblemi, le differenti concezioni di
«Utopia del sembiante», richiamandosi alla
questa cruciale parola nella visione di alcuni
metafora dell’arcipelago, individua nel mare
artisti del Novecento e contemporanei.
dell’arte alcune isole tematiche dove i diffeLe isole della mostra
D
1. Paesaggio/Paesaggi: visivi/
mentali/anemici/malinconici
Opere di Hieronymus II Francken,
Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Mimmo Rotella, Arturo Martini, Zoran Music, Ennio
Morlotti, Roberto Crippa, Giulio
Turcato, Kurt Schwitters, Conrad
Marca-Relli, Mario Deluigi, Nicola
Magrin, Donato Marrocco, Massimo Giorgi, Victor Vasarely, Alberto
Gianquinto, Virgilio Guidi, Gennaro Favai, Valeria Rambelli, Antoni Tapies.
2. Lo spazio inconsueto del bianco
Opere di Lucio Fontana, Patrizia
Molinari, Alberto Burri, Giulio Paolini, Stefano Curto, Claudio Parmiggiani, Turi Simeti, Sayed Haider Raza.
3. La profondità del «nero» e
l’alchimia del melanconico
Opere di Afro, Emilio Vedova,
Eraldo Mauro, Mauro Sambo,
Hans Hartung, Valerio Bevilacqua,
Davide Battistin, Cristina Cocco,
Giovanni Soccol, Arkady Lvov, Leonetta Marcotulli, Pino Castagna,
François Morellet, Joseph Beuys,
Danny Shain, Joseph Albers, Nino
Ovan, Marina Sasso, Ingrid Mair
Zischg.
Un’indagine sulla figurazione e sull’astrazione di un «paesaggio dell’anima» messo in
relazione con il paesaggio reale, a partire da
quelli che trovano ispirazione nel visibile, sino
a quelli metafisici, surreali e mentali.
Visioni che intendono formulare un percorso che indaga lo spazio interiore dell’uomo contemporaneo, immagini libere e autoA sinistra: Emilio Vedova, Senza titolo.
A destra: Alberto Gianquinto, La luna, la quercia,
la tavolozza, 1982.
4. Il teatro della memoria
Opere di Ezio Gribaudo, Angelino,
Mario Sironi, Gerold Meister Cadaf, Alberto Savinio, Filippo De Pisis, Terenzio Trevisan, Stefano Giovannone, Ruggero Savinio, Franco
Francese, Giovanni Cesca.
5. Identità/Alterità: La figura
dell’artista nella solitudine
dell’atelier
Opere di Fausto Pirandello, Valentina Furgani, Arman, Gianfranco Ferroni, Lia Bosch, Alessia Zolfo, Simona La Mattina, Giuseppe
Maraniello.
renti linguaggi assumono la compresenza dei
temi, in un dialogo mai costretto, ma scosso
da un vento che trasporta i semi da un’isola
all’altra e ne svela i reciproci legami.
Il percorso espositivo presenta, in dialogo
tra loro all’interno di ogni isola, opere di alcuni dei maestri del Novecento provenienti
da prestigiose collezioni private, accanto alle
ricerche degli artisti contemporanei che propongono dipinti realizzati per l’evento. ◼
*Curatore della mostra
arte
L’«Utopia
del sembiante»
di Torre di Mosto
59
cinema
60
«The Tightrope»
Un film di Simon Brook
sul teatro del padre Peter
T
di Gianni De Luigi
he Tightrope – traduzione libera: Sul filo del
rasoio – di Peter Brook è stato per me un evento, anche se come ha detto Ermanno Olmi, coproduttore del film, «evento» è una parola scontata.
Le parole usate da Brook all’inizio danno subito il senso e
la direzione del percorso che attraverso la documentazione
per immagini saremo portati a seguire: «Come si fa a rendere il teatro reale? È così facile ricadere nella tragedia o nella
commedia. Quel che più conta è camminare esattamente sul
filo di rasoio della corda dell’acrobata...». Quando l’ho incontrato al l’hotel Quattro Fontane, più piccolo di come lo
ricordavo, con il suo cappellino di paglia, la giacca grande di
tela, pantaloni con due grosse tasche sui fianchi, ma soprattutto un paio di scarpe massicce nere e il bastone, ho avuto
una sensazione che non riuscivo a decifrare, mi sono chiesto: a chi assomiglia questo piccolo uomo che indovina tutto
dell’uomo? Ho trovato la risposta solo alla fine del film, dopo averlo ascoltato e guardato per ottantasei preziosi minuti. Era il Charlot di Charlie Chaplin, la sua forza e umanità,
la gestualità, la posizione dei piedi, il modo di appoggiarsi al
bastone, l’intensità dello sguardo di un azzurro inebriante
che non fa perdere un dettaglio. Ottantasei minuti, che riescono a condensare ottantasette anni di ricerca, perché, come suggerisce lui stesso, si cerca da quando si nasce. Questo
film unico ci porta a essere testimoni degli esercizi, del linguaggio, dell’umiltà del Maestro sulla corda tesa. Voglio riportare alcuni stralci di un’intervista realizzata da Antonio
Cuomo a Brook e a suo figlio Simon, regista della pellicola
(pubblicata in www.movieplayer.it, 6 settembre 2012). Dice Peter Brook: «Ogni volta che vengo in Italia, si rivolgono a me come Maestro e io mi volto chiedendomi con chi ce
l’hanno. (sorride). The Tightrope è un lavoro “eccezionale”
proprio perché fatto da mio figlio Simon, quindi nato su una
base di fiducia. Non ho mai consentito ad altri qualcosa del
genere, non solo di filmare, ma anche di essere presente, perché si tratta di un processo negativo per chi partecipa. Questo è un film unico perché va a esaminare alcuni aspetti degli
esercizi che hanno a che fare col teatro, ma anche con la vita.
Il discorso della corda tesa rimanda a una situazione in cui ci
troviamo tutti, la condizione cioè di essere sempre sulla lama
del rasoio rischiando di cadere da una parte o dall’altra. The
Tightrope non è un documentario, ma una drammatizzazione». In effetti le tracce dei suoi libri sono palesi in questo
film girato con cinque telecamere nascoste, gli attori-allievi
e la partecipazione di Yoshi Oida, vecchio attore che collabora con il Maestro da molti anni. Questo rapporto-confronto
chiarisce ancor più il percorso che continua, come spiega ancora Brook: «Tutto cambia, è qui la chiave. La tragedia delle
opere drammatiche sta nel fatto che molte persone le hanno
sempre considerate immutabili, come se non potessero mai
cambiare, e invece è il contrario: è l’umanità che non cambia.
Per molti anni in Inghilterra c’è stato questo atteggiamento
folle per cui i testi di Shakespeare non potevano in nessun
modo mutare, invece oggi vediamo le cose in maniera diversa: c’è la sensazione che l’essere umano sia in continua evolu-
zione e dunque anche nelle situazioni più tragiche si ritrova
qualcosa di grandioso. Le opere immortali, è vero, sono immobili perché scritte in un libro, ma quando le vai a leggere
scopri che al loro interno vi sono aspetti e riflessioni che scaturiscono in continuazione, e prima o poi capita che qualcuno lo faccia come nessuno aveva fatto in precedenza. È quello che sta succedendo in questi anni. È la fune. Se non cambi niente cadi da una parte, a destra – come in politica –, se
cambi troppo, a sinistra. Ed è questa la corda tesa, tenere l’occhio fisso sull’ideale umano che non si raggiungerà mai perché è oltre la corda, ma che ci consente di progredire e avanzare. È necessario trovare l’equilibrio avanzando, perchè a restare immobili prima o poi si cade».
Questo film dovrebbe essere visto e rivisto da tutti i componenti delle cosiddette Accademie e Scuole teatrali per decidere se continuare o con umiltà rimettere in discussione tutto ciò che si è realizzato finora. ◼
La locandina e un fotogramma dal film The Tightrope (filmtv.it).
Padana Superiore: da Venezia al Lago di Garda viene esplorato un territorio ferito da uno sviluppo incontrollato, cui si accompagnano le storie e le voci di alcuni personaggi che lo abitano e ne vivono le più evidenti contraddizioni.
Il 28 novembre sarà lo stesso Andrea Segre a presentare il suo
di Ilaria Pellanda
Magari le cose cambiano (2009): Neda, cinquant’anni, «romana de Roma», è cresciuta nel cuore della capitale, a due passi
rganizzato dalla Fondazione Benetton Studal Colosseo. Oggi però ridi e Ricerche di Treviso, ha preso il via nel mese
siede a Ponte di Nona, nel
di ottobre il primo ciclo della rassegna cinematocuore delle «nuove centragrafica intitolata «Paesaggi che cambiano doc» e
lità» alla periferia della Cadedicata ad Andrea Zanzotto, il grande poeta di Pieve di Sopitale, sei chilometri oltre il
ligo scomparso nel 2011 che, prima e meglio di
Grande Ractutti, ha descritto il degrado dei nostri luoghi e
cordo Anuil senso di perdita e di lutto per la «distruzione
lare, lungo la
Treviso
fisica del paesaggio».
Prenestina,
Auditorium Spazi Bomben
I cinque documentari in programma, che
a oltre ven14 novembre, ore 21.00
trattano tutti temi inerenti alle trasformazioti chilomeA Nord Est (2010),
ni dell’ambiente e dei luoghi, vanno a testimo- di Luca Scivoletto e Milo Adami tri dal Coniare la vitalità di una produzione che è cresciulosseo. Sara,
28 novembre, ore 21.00
ta in modo considerevole anche nel nostro Padiciott’anni,
ese, rendendo disponibili molti lavori di auto- Magari le cose cambiano (2009), a Ponte di
di Andrea Segre
ri di varia provenienza. Le pellicole raccontano
Nona invece
storie legate a luoghi diversi, fissando la memoci è cresciuta.
12 dicembre, ore 21.00
ria del loro passato e mostrando i cambiamenFiglia di una
Rumore bianco (2008),
ti (o gli stravolgimenti?) subiti nel tempo, senza
pugliese e di
di Alberto Fasulo
limitarsi a riprendere gli ambienti ma indaganun egiziano,
do su come gli uomini hanno interagito e inteè una delragiscono con gli spazi attraverso le forme culturali che elabole pochissime ragazze delrano, vivendoli in questo modo come paesaggi.
la zona ad aver avuto la posIl nordest d’Italia, in particolare, offre da questo punto di
sibilità di studiare al liceo.
vista un laboratorio di notevole interesse. È per tale ragione
Da questa borgata perifeche questo primo ciclo della rassegna, che si svolgerà all’Audirica, Sara e Neda conducotorium Spazi Bomben, propone una breve selezione di docuno lo spettatore in una sormentari scelti dalla paesaggista Simonetta Zanon, tutte pellita di autoinchiesta sulle dicole che affrontano, con sguardi, ambientazioni e modi narnamiche di interesse e di porativi fra loro eterogenei, i temi suddetti. Nella seconda parte
tere che segnano le vite quodel cineforum, che si svolgerà tra febbraio e aprile del prossimo
tidiane di migliaia di cittaanno, saranno invece proposti film «narrativi» selezionati da
dini come loro: quartieri
Luciano Morbiato, studioso di storia e critica cinematografica.
costruiti senza servizi, senLa rassegna è stata inaugurata il 17 ottobre con la proiezioza collegamenti viari, senne di Ritratti. Andrea Zanzotto (2000), di Carlo Mazzacurati
za luoghi di socialità, senza
e Marco Paolini. L’incontro fra Andrea Zanzotto e Paolini si
nessuna manutenzione. Per
sviluppa entro tre nuclei fondamentali di ricerca: la natura, la
non tacere il disagio e la rabstoria e la lingua. La vicenda riguarda quello che è stato detto
bia, e perché solo così, attrail «secolo dell’ottimismo», secolo che ha visto crescere la fede
verso la capacità di unirsi e
nella scienza ma anche il collasso di qualsiasi forma di raziodi protestare insieme, «manalità, e che il poeta ripercorre nei suoi segni fondamentali. Il
gari le cose cambiano».
film è stato presentato da Andrea Cortellessa, studioso dell’oInfine, il 12 dicembre, Alpera di Zanzotto, e da Luciano Morbiato.
berto Fasulo parlerà delIl 31 ottobre è stata la volta del Suolo minacciato di Nicola
la propria regia di Rumore
Dall’Olio (2009), documentario di denuncia sul disastro del
bianco (2008), le cui immaconsumo di territorio nell’area parmense. Il film è stato pregini scorrono lungo il «re
sentato dallo stesso regista, al quale si è aggiunto il commento
dei fiumi alpini»: il Tagliadi Marco Tamaro, direttore della Fondazione Benetton.
mento. Spina dorsale di una
Per entrare nel vivo del bimestre che abbraccia questo nuoregione che è stata snodo e
vo numero di VeneziaMusica e dintorni, il 14 novembre sarà
crocevia nella storia d’Euproiettato A Nord Est (2010), di Luca Scivoletto e Milo Adaropa, il fiume è il protagonimi, che, assieme a Francesco Vallerani – docente di Geografia
sta di un racconto che indapresso l’Università Ca’ Foscari di Venezia –, commenteranga la forza della natura e le
no le immagini di quello che è un viaggio lungo la statale 11
sue possibilità di resistenza,
la quotidianità degli uomiFotogrammi da:
ni e delle donne e le loro for1. Ritratti. Andrea Zanzotto, di Carlo Mazzacurati
me di ostinazione: un film che intende costruire un raccone Marco Paolini (2000); 2. A Nord Est, di Luca Scivoletto
to aperto all’imprevedibilità delle situazioni di ripresa e che si
e Milo Adami (2010); 3. Magari le cose cambiano,
sviluppa come una vasta riscoperta dell’inesauribile universo
di Andrea Segre (2009); 4. Rumore bianco, di Alberto Fasulo
(2008); 5. Il suolo minacciato di Nicola Dall’Olio (2009).
naturale e umano che è il Tagliamento. ◼
cinema
La Fondazione Benetton
per Andrea Zanzotto
61
O
1.
2.
3.
4.
5.
cinema
62
Con «Bella addormentata»
Bellocchio
risveglia (anche) l’Italia
di Marina Pellanda
B
ella addormentata, un’antifrasi che calcola la
giusta distanza e poi colpisce questa nostra Italia
dallo sguardo ottuso. Come con un sasso lanciato
nell’acqua, dal tiro si propagano immagini che, avvolgenti cerchi concentrici, chiedono all’occhio di lavorare
per sinestesia e cercare in ogni momento la propria fisicità,
senza lasciarsi accecare da rassicuranti valori acquisiti.
Il film – presentato in Concorso alla lxix Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia lo
scorso settembre (cfr. vmed n. 47, pp. 60-61, ndr.) – si svolge
nell’arco temporale di quella settimana del febbraio 2009 in
cui il corpo di Eluana Englaro raggiunge la clinica La Quiete di Udine, dove sarebbe stata spenta la sua vita artificiale, e
ricostruisce per lo spettatore un mosaico in cui ogni tessera,
ogni immagine, costringe al silenzio quel vociare compulsivo e accecante – dal senatore Quagliarello a Silvio Berlusconi – che ha chiuso un intero Paese in una morsa di considerazioni assurde.
Questo modo di procedere è ricorrente nei film di Marco
Bellocchio, il cui stile è un magma nel quale le immagini – vari tipi di immagini – creano sensazioni formali, emotive e, solo in un secondo momento, di senso; in Bella addormentata
tale modo diventa un congegno per verificare, ricomponendole, falle e incrostazioni di un presente confuso e maldestro,
un presente che, pur avvolto e quasi sommerso dalla riproduzione visiva degli eventi – sullo sfondo un perfetto utilizzo di
materiale di repertorio restituisce da televisori perennemente accesi la realtà di quei giorni –, mostra un’epoca senza lampi, dominata dalla violenza con cui ognuno impone agli altri
il proprio pensiero, la propria idea, le proprie ragioni, e questo perché nessuno è più in grado di guardare.
L’Italia, sembra dire Bellocchio, rinunciando alle potenzialità del vedere ha messo in scena – nella settimana conclusasi con la morte di Eluana Englaro – un triste e impudente te-
atro dell’assurdo, dal quale tuttavia gran parte dei personaggi che animano le quattro storie del film riescono a uscire, riescono a liberarsi, coinvolgendo in questa loro catarsi anche
lo spettatore. Insieme a Maria, che apre gli occhi all’amore,
a suo padre, il senatore Beffardi, che li apre alla propria coscienza, e a Rossa, che li apre alla vita, anche chi guarda si risveglia. La responsabilità di tale ridestarsi va certamente attribuita a una macchina da presa che, come l’aiutante numinoso di ascendenza proppiana – in fondo fin dal titolo, pur
con intento un po’ ironico, Bella addormentata sembra voler
alludere a un immaginario fiabesco –, compone una partitura
complessa in cui furore, dolore e finzione sono la misura con
la quale Bellocchio cerca il senso di una bellezza estetica e morale ancora certamente annidata nelle strettoie dell’esistenza.
Ritrovando in pieno la forza visionaria dell’Ora di religione – in cui, non a caso e ancora una volta, il regista si confronta con la fiaba (basti pensare al riferimento al Pifferaio di Hamelin in questo film del 2002) –, Bellocchio, con le sue scelte e a distanza di tre anni e mezzo dalla cronaca che fa da cornice al film, ci libera da un incantesimo opponendo all’Italia
irosa ed esagitata raccontata dalla televisione in quel periodo,
un film di immagini dolci e intense, in cui la natura archetipica della fiaba torna a essere un valore: ognuno dei protago-
nisti è infatti, per dirla con Propp, l’eroe di un disagio singolare e intimo che però è al tempo stesso l’espressione dell’isteria collettiva di un Paese.
In Bella addormentata i personaggi, attraverso i loro pensieri e raffrontando ragione e pulsione, si fronteggiano e si
incamminano in una ricerca di senso rispetto alla quale lo
sguardo del regista, pur forte e teso ma mai dogmatico, non
indica né ciò in cui si deve credere né, ancor meno, ciò che si
deve fare, lasciando agli spettatori il compito di completare
il percorso. È certo però che, sul finale del film, nel momento in cui si vede l’ombra di Pallido, il medico interpretato da
Piergiorgio Bellocchio, avvicinarsi al letto di Rossa, la tossicomane interpretata da Maya Sansa che sta riaprendo grazie
a lui gli occhi alla vita, ci si può immaginare, come nella favola riecheggiata dal titolo della pellicola, un bacio che risveglierà non solo l’eroinomane vagabonda riportandola al mondo
ma anche, almeno un po’, questa Italia assopita in uno stato
di pericoloso dormiveglia. ◼
Un fotogramma del film (Maya Sansa/Rossa, foto Francesca Fago).
P
di Giuseppina La Face Bianconi
aolo Gallarati, ordinario di Storia della musica e Drammaturgia musicale a Torino, è anche un
apprezzato critico musicale. In Trent’anni all’Opera raccoglie duecento e più critiche apparse sulla «Stampa», ordinate in senso storico-cronologico, dal Sei
al Novecento: all’atto pratico, è un libro di lettura sul melodramma, e al tempo stesso un ricco campionario della
produzione e recezione dello spettacolo operistico nei suoi
aspetti più svariati. Nel focalizzare la messinscena, la concertazione, il contributo dei cantanti, Gallarati dà un’immagine icastica di ogni allestimento, nelle sue peculiarità e innovazioni, ma anche nelle cadute di gusto e nei fraintendimenti in cui può incappare. La raccolta dà esempi eloquenti
di come il musicologo acribico e il garbato polemista sappiano distillare piccoli capolavori di buona divulgazione; di come, prendendo lo spettatore per mano e indicandogli passo
passo il cammino, lo si porti a riflettere, imparare, analizzare quel che vede e ascolta. In prefazione, Gallarati illustra il
lavoro del recensore nelle condizioni odierne, mutate rispetto a una volta: «Il critico musicale è sceso dalla cattedra, ha
rinunciato a svolgere estese considerazioni storiche, si è fatto
spettatore tra gli spettatori»; uno spettatore che ha l’occhio
e l’orecchio allenato e sa mediare fra l’opera, l’allestimento
e i lettori, che magari la sera prima erano a teatro oppure, da
lontano, si fanno almeno un’idea di spettacoli che non potranno vedere. Lo stile del critico torinese invoglia alla lettura, ma il libro invoca anche la rilettura: ogni pezzo suscita
riflessioni che, al di là della musica, interessano la cultura in
senso lato, attira l’attenzione sul dato immediato ma stimola nel contempo l’approfondimento individuale in tanti al-
tri campi. Il volume è utile al musicologo, al melomane, allo
studente: si lascerebbe usare anche in una lezione universitaria, per un lavoro laboratoriale. Un bel dono.
L’architetto Sergio Ragni, rossinista appassionato, ha
raccolto un’inestimabile raccolta di cimeli sul Cigno di Pesaro e, per estensione, su Isabella Colbran (1785-1845), il soprano spagnolo che, prima donna nei teatri reali di Napoli, fu dapprima l’amante dell’impresario Domenico Barbaja,
indi sodale di Rossini e infine sua consorte dal 1822 al 1836.
Alla «cantante che più d’ogni altra influenzò il melodramma italiano dell’Ottocento», creatrice di Desdemona, Armida, Ermione, Zelmira e Semiramide, Ragni ha ora eretto
un amoroso monumento: sulla base di una documentazione
d’impressionante vastità, in una monografia di 1200 pagine
vergate con la verve d’uno Stendhal ne documenta nel dettaglio origini, formazione artistica, carriera, repertorio, ta-
Paolo Gallarati,
Trent’anni all’Opera (1978-2010),
Firenze, Le Lettere, 2012
(«Storia dello spettacolo: Saggi», 19),
341 pp.,
isbn 978-88-6087-585-3, 32,00 euro.
Sergio Ragni,
Isabella Colbran. Isabella Rossini,
prefazione di Philip Gossett,
Varese, Zecchini, 2012,
xl-1226 pp. in due tomi,
isbn 978-88-65400-21-0, 75,00 euro.
Federico Vizzaccaro,
La Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach,
Palermo, L’Epos, 2012 («Quadri di un’esposizione», 3),
220 pp.,
isbn 978-88-8302-411-5, 18,30 euro.
Raffaele Mellace,
Johann Sebastian Bach. Le cantate,
prefazione di Christoph Wolff,
Palermo, L’Epos, 2012,
781 pp., isbn 978-88-8302-441-2, 68,30 euro.
lento scenico, risorse vocali, fortuna critica, iconografia, indole, fasti e debolezze. Un modello nel genere della biografia canora.
Nell’introdurre una sua agguerrita monografia su La
Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach il giovane musicologo tiburtino Federico Vizzaccaro afferma che «negli ultimi vent’anni la musicologia italiana sembra aver trascurato l’opera» del Thomaskantor. Osservazione esatta, anche
nell’uso del verbo
sembrare: in effetti, questa pubblicazione di Vizzaccaro, insieme
con un’altra iniziativa editoriale promossa dallo
stesso editore – il
palermitano L’Epos –, dimostra
che sotto un apparente silenzio
c’è stato tra noi
chi, come lui, ha
dissodato questo versante rigogliosissimo della storia musicale. La trattazione della messa cattolica cui Bach attese dal
1733 al 1749 non si esaurisce nell’esegesi di un capolavoro
fulgido ed enigmatico: è anche la ricostruzione d’un episodio di storia della disciplina, da Vizzaccaro ben raccontato.
D’altro canto Raffaele Mellace, professore associato
nell’Università di Genova, congeda ora il primo di quattro
grossi volumi che illustreranno partitamente tutte le opere
di Bach. Il primo, recentissimo, riguarda Le cantate, ossia il
nucleo della produzione di Bach a Lipsia. Preso alla lettera,
il tema esige robuste competenze teologiche oltre che musicali: e Mellace non si tira indietro, anzi distribuisce la materia, com’è giusto, secondo il calendario liturgico (e secondo i contesti civili per le cantate profane); sicché ogni tassello dell’ampio mosaico trova pertinente collocazione intellettuale. Un libro che leggeremo e consulteremo a lungo. ◼
carta canta — libri
Le recensioni
63
carta canta — libri - dischi
64
Una monografia
dedicata
a Wolf-Ferrari
O
Lo «Sleeper»
di Keith Jarrett
di Leonardo Mello
ggi, forse, Ermanno Wolf-Ferrari può
essere “riabilitato”. Il tempo del successo popolare legato al teatro – del successo
tour court
– [...] è passato, certo; e non
può tornare. È passato però
anche il tempo in cui si credeva in un Novecento obbligatoriamente ribelle e
iconoclasta, comunque nemico giurato della tradizione e di qualsiasi possibilità
di un eventuale suo ripristino-ripensamento. È trascorso il “Novecento duro e puro” per cui Theodor Wiesengrund Adorno nella sua
Filosofia della musica (1949)
vede in Stravinsky un atteggiamento di restaurazione
da riprovare mentre profeAlberto Cantù,
tizza l’autentico progresso
Ermanno Wolf-Ferrari.
in Arnold Schönberg. [...]
La musica, la grazia, il silenzio,
L’augurio è che questa moprefazione di Alberto Batisti,
nografia critica possa stimocon cd allegato,
lare cantanti, solisti di struGabrielli Editori,
mento e gruppi da camera,
San Pietro in Cariano (vr)
direttori d’orchestra, teatri
2011, 128 pp., euro 15.
e istituzioni concertistiche
oltre, s’intende, ai colleghi studiosi. Che li spinga a guardare un po’ più da vicino e al di là di pregiudizi ideologici una
produzione cospicua e notevole, molto differenziata, talvolta curiosa, spesso sorprendente, ad esempio, in quel terreno
da arare che è l’ambito strumentale di Wolf-Ferrari»: queste
parole rappresentano al meglio Ermanno Wolf-Ferrari. La
musica, la grazia, il silenzio, l’appassionato volume scritto da
Alberto Cantù per i tipi di Gabrielli Editori. Il saggio – assai documentato – parte proprio dall’oblio disceso su questo
compositore italo-tedesco attivo tra la fine dell’Ottocento e
la prima metà del Novecento, per raccontarne con dovizia di
particolari gli anni della formazione, i primi passi nel mondo della musica, il consolidamento della celebrità (a soli ventisei anni gli viene ad esempio affidata la direzione del «Benedetto Marcello»). Ampio spazio è poi dedicato a un minuzioso esame delle opere, sia sul versante teatrale (in cui spiccano i componimenti goldoniani, come – per citare soltanto i più famosi – I quattro rusteghi o Il campiello) sia sul versante concertistico e strumentale. Un libro appassionante e
assai leggibile, pur nella rigorosa precisione dei dati, che permette di scoprire la personalità (sconosciuta ai più) di questo
musicista profondamente legato a Venezia. Al catalogo completo delle opere, che chiude la pubblicazione, si aggiunge un
prezioso cd con il Concerto in re maggiore op. 26 per violino e orchestra, eseguito la scorsa primavera in prima italiana dall’Orchestra Città di Ferrara (direttore Marco Zuccarini, violino Laura Marzadori) e realizzato grazie al Comitato per i Grandi Maestri presieduto da Gianluca La Villa (cfr.
vmed n. 41, p. 25 e n. 47, p. 24). ◼
«
A
di Giovanni Greto
quarant’anni dalla pubblicazione del suo primo disco per la ecm, l’etichetta bavarese, ovviamente con il consenso di Jarrett, decide di editare un’intensa, vibrante, travolgente registrazione dal vivo del quartetto europeo, costituitosi nella seconda
metà degli anni settanta. Si tratta del concerto del 16 aprile
1979 al Nakano Sun Plaza, un confortevole e acusticamente apprezzabile auditorium, situato in un quartiere assai frequentato della capitale giapponese. Valeva la pena ripescare
un’incisione di trentatré anni fa? La risposta è affermativa
per una serie di ragioni: il quartetto aveva pubblicato soltanto un paio di lp, nonostante frequenti tour. La musica appare tutto fuorché datata. A trentaquattr’anni, il pianista della Pennsylvania esibisce un tocco inconfondibile, raffinato,
splendidamente classico, che va a braccetto con un’improvvisazione basata sul blues e sulla tradizione folk e gospel, arricchita da una padronanza delle dinamiche sonore. I brani
sono soltanto sette, in centocinque minuti di rara limpidezza. Alcuni sono lunghissimi e si dissolvono rinascendo in
quello seguente, come succede per i primi due di ogni disco.
Nel primo, i ventun minuti di «Personal Mountains» si allacciano ai 10 di «Innocence», dando luogo per così dire a
una lunga suite, ricca e suddivisa in momenti di tensione, di
delicatezza, di languore. Nel secondo, l’iniziale, etnica «Oasis», in cui il leader accantona in un primo tempo il pianoforte, dedicandosi alla marimba, assecondato da Garbarek,
trentaduenne all’epoca, che abbandona il soprano passando
a esili flauti che evocano melodie popolari tradizionali, confluisce nel «Chant of the Soleil» per un tempo totale di quasi quarantadue minuti. Il pubblico, rispettosissimo com’era
un tempo quello degli appassionati giapponesi di jazz, applaude convinto ed educato, finché alla fine del
sesto brano, probabilmente quello conclusivo, richiama ritmicamente mediante un
insistente clapping
percussivo il quartetto che si congeda con
«New Dance», un
tema gioioso, nel quale emerge la cavata
possente di Danielsson al contrabbasso e
Sleeper,
un elegante fraseggio
Keith Jarrett, piano, percussioni;
sui tom e sul rullante
Jan Garbarek, sassofono tenore
privato della cordiera
e soprano, flauto, percussioni;
di Christensen, una
Palle Danielsson, contrabbasso;
coppia ritmica efficaJon Christensen, batteria e percussioni,
ce, elegante e, sopratecm Records, 2 cd.
tutto, mai greve né
scontata.
Note finali: 1) Non c’è una nota di commento nel libretto, ma raccontano a sufficienza le oscure foto in bianco e nero. 2) Che dire del titolo ? Che ci sia forse un riferimento –
visto il lungo tempo trascorso – al divertente film del primo
Woody Allen? ◼
M
di Ilaria Pellanda
olto spesso il tema del rapporto tra Michelangelo Antonioni e la musica è di quelli
scansati dalla critica, perché il regista non ha
mai fatto mistero del suo disamore nei confronti delle sette note applicate al cinema. E le sue pellicole,
per molti aspetti, ben lo testimoniano, almeno di primo acchito, nel senso che l’attenzione si concentra sulla costruzione del racconto e dell’immagine piuttosto che sugli altri elementi. Antonioni detestava la funzione di commento musicale e sosteneva che se le immagini necessitavano dell’ausilio
della musica per raggiungere il pubblico, ebbene questo era
sinonimo della loro stessa deficienza.
Roberto Calabretto nel suo Antonioni e la musica, uscito
lo scorso settembre per i tipi di Marsilio, non si acconten-
ta però di certe dichiarazioni di disamore
del maestro, anroberto calabretto,
che se ne utilizAntonioni e la musica,
za una per titoMarsilio, Venezia, 2012,
lare il primo ca206 pp., euro 20.
pitolo: «Da ragazzo suonavo
il violino ma non amo la musica nel film». Si tratta di una
citazione decisamente autobiografica – ha notato Roberto
Ellero (direttore del settore cultura del Comune di Venezia,
del Centro Culturale Candiani di Mestre e responsabile delle attività cinematografiche lagunari) durante la presentazione del libro lo scorso 26 settembre alla Casa del Cinema di
Venezia –, che denota il disamore, non generalizzato, per la
musica intesa come commento, come quel qualcosa che veniva massicciamente utilizzato nel cinema americano classico e anche in quello italiano, e che per molti aveva un retrogusto di posticcio e di retorico.
Calabretto va a dimostrare come sia anche proficuo il rapporto tra Antonioni (che aveva una discoteca enorme e molto mirata, con moltissimi dischi di jazz e del rock degli anni
settanta, quasi niente di lirica, e di classica soprattutto Bach
Un fotogramma da Zabriskie Point, 1970 (wikipedia.org).
e il Novecento) e la musica, tra il regista e l’universo sonoro.
La sua analisi procede sui testi, prende corpo dai film, a partire dai primi documentari fino ad arrivare alle ultime opere.
Vanno ben separate – come ha sottolineato poi Roberto
Pugliese durante la stessa presentazione– quelle che sono le
posizioni teoriche o le dichiarazioni di intenti di Antonioni
da quella che poi è la risultante dell’applicazione della musica nel suo cinema. Le opinioni, le dichiarazioni, come ad
esempio la frase provocatoria sul violino, assomigliano ad altre sue posizioni simili, come quella a proposito del doppiaggio: Antonioni rifiutava tutto ciò che in qualche maniera
percepiva come una sovrastruttura, un’aggiunta, un di più,
un qualcosa di troppo nel corpo del film.
L’indagine svolta da Calabretto – inquadratura per inquadratura, battuta per battuta – mette in luce come nel cinema di Antonioni la musica venisse utilizzata per sottrazione, prosciugata, e come il regista esigesse dai musicisti sempre meno note. Giovanni Fusco, compositore che collaborò con il maestro fin dai primi documentari, non faceva segreto della sofferenza che provava nell’andare in sala di registrazione con degli interventi musicali già ridotti all’osso e
sentirsi dire da Antonioni che avrebbe dovuto ulteriormen-
te tagliarli. Un’ansia di sottrazione che non equivale e non
autorizza tuttavia ad affermare che nel cinema di Antonioni non ci sia materia sonora (quando Fusco morirà, nel 1968,
nell’esprimere le proprie condoglianze alla famiglia del musicista Antonioni dirà: «S’è spenta la mia voce»). A parte alcuni film, ad esempio a partire da Zabriskie Point (1970), è
difficile ricordare il cinema di Antonioni sotto l’impatto di
un’impressione musicale. Eppure la musica nel suo cinema
c’è, eccome, solo che si tratta di un elemento che, come osserva Calabretto, comprende (anche) suoni di natura, suoni elettronici, rumori industriali, e non da ultimo il silenzio,
che è musica e che fa parte della procedura di decostruzione
del commento musicale inteso nella sua accezione hollywoodiana ma anche italiana di quegli anni. Quando Antonioni
comincia a realizzare i primi lungometraggi dopo tutta l’esperienza documentaristica – anche questa splendidamente
raccontata nel libro di Calabretto – questi procedimenti di
sottrazione, di prosciugamento, testimoniano un atteggiamento di grande attenzione verso la sfera musicale. Il volume mette anche in evidenza come Antonioni abbia avuto un
grosso merito nella storia della musica per film, quello cioè
di pensare alla materia sonora in termini propriamente cinematografici. Per farlo, il regista chiedeva al proprio compositore di realizzare dei brani che potessero abbinarsi e dialogare con le immagini al punto da creare quella che egli stesso
diceva essere «un’unica impressione sensoria». ◼
carta canta — libri
In volume il rapporto
tra «Antonioni e la
musica»
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in vetrina
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Le Fondazioni
liriche oggi
L
di Giorgio Brunetti*
e attuali difficoltà della finanza pubblica pongono grossi problemi per il finanziamento delle Fondazioni liriche. Per quest’anno il fus è stato definito e pure ripartito tra i teatri con la sorpresa però che
esso è risultato più ridotto rispetto a quello dell’anno scorso,
quando nel decreto Milleproroghe era stata approvata un’aggiunta al fus della quale hanno beneficiato tutte le Fondazioni. Il problema sta ora a quanto Comuni e Regioni potranno assegnare ai teatri visto che il fus, sebbene costituisca il
contributo più rilevante, non è certo sufficiente ad assicurare quell’ammontare di contributi, a livello pubblico, necessari a far chiudere i bilanci in equilibrio. A questi si potranno
aggiungere quelli privati che, per quanto essenziali, non sono
certo di ammontare paragonabile a quelli pubblici.
Si sa che il teatro d’opera non si autofinanzia, altrimenti si
dovrebbero stabilire prezzi al pubblico che renderebbero vuote le sale. I costi per condurre i teatri d’opera sono purtroppo rilevanti per molte cause. Prima di tutto perché le persone
coinvolte nel produrre lo spettacolo sono numerose; affollano il palcoscenico, in buca devono suonare orchestre dai molti elementi. Inoltre, nel «fare teatro» non vi sono possibilità né di standardizzazione del lavoro né di sostituire questo
in modo consistente con macchine e impianti. Mettiamoci
poi la crescente produttività degli altri settori di attività economica, che non può che trasmigrare nell’aumento dei salari anche del personale che lavora nei teatri. Non ultimo, nella
lievitazione dei costi concorre lo star system dei cantanti e dei
direttori d’orchestra.
Da tutto questo discende la necessità di contributi esterni,
pubblici e anche privati, per consentire la continuità della vita dei teatri. Questo non significa che per condurre un teatro non occorra grande attenzione alla produttività, al contenimento dei costi, utilizzando questi principi sia come messaggio da diffondere nell’organizzazione teatrale sia come ricerca di metodi di lavoro, dietro le quinte, che riducano l’impiego di risorse a parità di risultato. Gestire risorse finanziarie pubbliche o apportate da terzi senza l’obbligo di remunerarle (né con tassi di interesse né con dividendi) impegna ancor più il management del teatro ad essere attento e prudente
nel gestirle, osservando il principio di economicità, ovvero di
svolgere l’attività entro i vincoli dati dalle risorse disponibili.
Nel rispetto di questo principio rientra pure il pieno utilizzo
delle risorse disponibili ovvero lo «sfruttamento della capacità produttiva». In altre parole, mettere in scena tanti spettacoli, tanti concerti in modo da utilizzare al meglio orchestrali, coristi e tecnici. Critica pertanto risulta la scelta produttiva che riesca, nei limiti della qualità artistica da rispettare, ad
utilizzare al meglio l’organismo personale a disposizione. Soluzione possibile se si è in grado di attrarre spettatori in modo
da occupare i posti disponibili e consentire che dagli spettacoli si generino incassi da botteghino tali da coprire i loro costi vivi, quelli dei cast e degli aggiunti da chiamare per rinforzare le strutture in relazione agli spettacoli da realizzare. Abbinare stagione per la popolazione stanziale e repertorio per i
flussi di turisti può costituire la via per disporre di questa leva
di azioni interna (produttività) preziosa per concorrere a realizzare l’equilibrio di bilancio. È il caso della Fondazione del
Teatro La Fenice che, seguendo questa politica della produttività, viene a collocarsi al trentaseiesimo posto nella graduatoria dei teatri per numero di rappresentazioni operistiche in un
anno (116), superando di gran lunga ogni altro teatro italiano.
Sempre nello spirito di ricerca di economicità, altrettanto
importante è una programmazione a lungo respiro, che consente di reperire più facilmente e convenientemente le risorse
artistiche, nonché di coinvolgere tempestivamente i tour operator al fine di catturare i flussi turistici.
I contributi pubblici e privati non devono essere considerati
come spese da sostenere a fondo perduto, ma come veri e propri investimenti dai quali trarre benefici futuri. Dal punto di
vista dell’utilità pubblica appaiono evidenti i risultati prodotti dal teatro musicale. Dall’attrazione turistica alla ricaduta in
termini occupazionali diretti e indiretti. Si pensi alla produzione di allestimenti scenici, ai vari servizi richiesti per il funzionamento di un teatro. È un vero centro produttivo, come
una fabbrica, che crea un indotto circostante.
Ma vi è un investimento meno appariscente ma particolarmente significativo in una società della conoscenza verso la
quale ci stiamo incamminando. La musica e il teatro musicale, come altre esperienze culturali, non sono mero svago,
passatempo, magari elitario, ma un «laboratorio cognitivo»
che permette, oltre ad aprire «nuove possibilità di senso»,
di sottoporsi ad un allenamento mentale nella formazione di
idee per mettersi in gioco, per proporre nuove soluzioni. La
tradizione lirica italiana non più vista per dirla con Pier Luigi Sacco come «un giacimento da sfruttare ma elemento vivo che concorre alla formazione dell’immaginario e dei valori collettivi».
Su questo piano si giustifica pure il contributo privato. Al di
là del suo intrinseco valore filantropico, per l’impresa in particolare, assume il significato di investimento per legare sempre
più il proprio prodotto al territorio dal quale proviene, alla sua
storia, alla sua identità, concorrendo in tal modo a produrre
maggior valore per il cliente. Il finanziamento alla musica e al
teatro musicale come investimento è il principio che dovrebbe entrare nella cultura del Paese, oltre che essere un capitolo di spesa stabile nell’assegnazione delle risorse pubbliche. ◼
*Vicepresidente Fondazione Teatro La Fenice
Teatro La Fenice.
All’Olimpico un convegno
e la consegna
del «Premio Rete Critica»
I
a cura di Leonardo Mello
l Teatro Olimpico di Vicenza nacque alla fine del
Cinquecento come uno straordinario esperimento teatrale. Non deve dunque sorprendere che l’Accademia Olimpica, grazie all’intuizione di Roberto Cuppone, abbia
invitato per una intensa e affollata due giorni di incontri e discussioni chi si muove nella frontiera più avanzata dell’attuale
sperimentazione scenica: la Rete Critica, ovvero gli artefici dei
blog e dei siti che si occupano di teatro e che sono ovviamente interessati alle esperienze teatrali più avanzate.
Il 27 e 28 ottobre, grazie a una serie di interventi e relazioni,
«La Rete Critica a Vicenza» ha dato spazio a un vivace confronto tra i protagonisti di diverse esperienze innovative, oltre
che assegnare il Premio Rete Critica, che dà voce a questa galassia virtuale. Incontriamo Oliviero Ponte di Pino, tra gli organizzatori di questa doppia giornata di studi.
Quali erano gli obiettivi dell’incontro di Vicenza?
In primo luogo tentare un’analisi della situazione attuale,
con un’attività informativa e critica sul teatro sempre più ricca, variegata e vivace, grazie a decine di siti e blog: qualche
tempo fa proprio su Venezia Musica e dintorni si era tentato
un primo censimento. Il teatro e la mediasfera stanno cambiando rapidamente, con l’avvento del web 2.0. Sta mutando anche il pubblico. Dunque si deve adeguare anche la critica. Il problema non è più, da tempo, la differenza tra critica su carta e critica in rete, ma come l’una e l’altra stiano mutando, come si stiano integrando e come possano entrare in
rapporto con i lettori-spettatori teatrali. Questo nodo è stato
affrontato da alcune delle relazioni, anche partendo dall’inchiesta sulla critica teatrale condotta nei mesi scorsi da Venezia Musica.
Che ruolo può, o deve avere oggi, la critica in rete?
La critica in rete continua a svolgere le diverse funzioni della critica tradizionale:
– una funzione informativa; al livello più banale, per usare
un’espressione coniata da Roberto Canziani, il critico onliAldo morto, di e con Daniele Timpano.
ne può essere uno «show-advisor», un po’ come i turisti che
lasciano i loro giudizi su alberghi e ristoranti; insomma, consigli per gli acquisiti; come per tutti i consumi culturali, sono
sempre più numerosi quelli che prendono le loro decisioni in
base a quello che leggono in rete;
– una funzione critica, ovvero il giudizio sugli spettacoli su
cui erano incentrate le classiche recensioni; tuttavia il teatro
è cambiato: in primo luogo, ormai da decenni, gli spettacoli
che stimolano il lavoro critico sono in genere spettacoli innovativi, problematici, spesso provocatori; in secondo luogo, il
recente inserimento dei nuovi media e di dispositivi portabili come smartphone e tablet, e in genere la tendenza al coinvolgimento dello spettatore perseguita da molti artisti, finiscono per porre lo spettatore e dunque il critico in una posizione diversa; il critico svolge anche una funzione formativa
nei confronti del pubblico: questi blog, che si assumono la responsabilità del loro giudizio, rappresentano dei «corpi intermedi» rispetto alla democrazia diretta (ma anche pericolosa) dei «Mi Piace»;
– una funzione di studio, approfondimento e documentazione di quello che sta accadendo; è un aspetto interessante,
viste anche le possibilità di archiviazione consentite dal digitale: per questo è stata importante la presenza a Vicenza di
Gerardo Guccini, in rappresentanza della commissione del
cut (ovvero i docenti universitari di teatro)
che si occupa delle riviste.
Ovviamente la rete allarga notevolmente le
possibilità di intervento critico: basti pensare alla facilità di produrre e diffondere contenuti multimediali, ma anche alle possibilità
di condivisione di contenuti e di dibattito offerte dai social network. Tutto questo da un
lato pone dei problemi di linguaggio, dall’altro può anche influire sull’evento teatrale in
sé: c’è già qualcuno, come Frank Bauchard,
che parla di spettatore 2.0.
E per il futuro?
Stiamo pensando a proseguire la discussione su diverse linee:
– il Premio Rete Critica: rivedere la formula, anche aggiornando il censimento di chi si
occupa di teatro sul web;
– fare rete: cercare di coordinare le attività
dei vari siti, per dare loro più forza senza intaccare la loro identità: ci sono già esperienze che vanno in questa direzione, come Rete Critica e la rassegna stampa realizzata dal Tamburo di Kattrin, ma si può
certo fare di più, a cominciare da dossier tematici da realizzare in collaborazione;
– la sostenibilità: esaminare le strategie economiche dei siti (banner, crowdfunding, residenze presso festival, raccolta
pubblicità, vendita e-books, eccetera), per individuare strategie più efficaci, anche prendendo ispirazione da chi opera
in altri settori; per realtà basate in buona parte sull’impegno
volontario, questo è un nodo decisivo, anche per le implicazioni deontologiche;
– il linguaggio: esaminare dal punto di vista sia teorico che
pratico le esperienze più innovative e interessanti.
Avete anche assegnato il Premio rete Critica…
Sì, a conquistare il voto dei blogger teatrali è stato Daniele
Timpano, autore e protagonista di Aldo Morto. Tra gli utenti di Facebook ha invece spopolato l’attrice Simona Malato,
protagonista del Riccardo III. Ma al di là del risultato finale,
mi pare sempre molto interessante la cartografia disegnata
dal Premio, che coordino insieme a Massimo Marino, Annamaria Monteverdi e Andrea Porcheddu, grazie alle molteplici voci e alle diverse sensibilità che raccoglie Rete Critica. ◼
in vetrina
La critica e il web
67
in vetrina
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Luigi Squarzina
celebrato alla Cini
Studiosi e artisti
ricordano
il grande regista
di Marianna Zannoni
«Mi piace pensare a Luigi Squarzina come a un illuminista
romagnolo: lucido e appassionato, sarcastico e sensibile. Totalmente laico, nel pensiero, nel lavoro, nei rapporti con gli
altri. Mi ha sempre affascinato la naturalezza con cui sapeva passare dalla scrivania del suo studio o di una biblioteca
asettica, all’apparente caos polveroso di un palcoscenico in
prova. E la sua sapienza di “ fare” teatro, di giocare al teatro e
di trasformare questo gioco – fatto di corpi, di luci, di trovarobe, di colori e di suoni – in storia del teatro».
È
con queste parole che l’attrice Benedetta Buccellato ricorda il suo Maestro in un messaggio inviato ai partecipanti al Convegno internazionale di
Studi «Luigi Squarzina. Studioso, drammaturgo e
regista teatrale», tenutosi dal 4 al 6 ottobre presso la Fonda-
zione Giorgio Cini. E tanti altri sono stati i ricordi ammirati e commossi degli uomini di teatro e degli studiosi che si sono dati appuntamento a Venezia per rendere omaggio alla vita e all’opera di Squarzina, un Maestro della scena teatrale
contemporanea.
Promotore dell’iniziativa è stato il Centro Studi per la Ricerca documentale sul Teatro e il Melodramma europeo della
Fondazione Cini, cui Squarzina, poco prima della sua scomparsa, avvenuta nell’ottobre del 2010, decise di donare la propria biblioteca.
Il convegno, realizzato in collaborazione con l’Accademia
Nazionale dei Lincei di Roma, ha ottenuto l’Alto Patronato
del Presidente della Repubblica, il Patrocinio della Regione
del Veneto e il sostegno del Dipartimento di Filosofia e Be-
ni culturali di Ca’ Foscari, della Fondazione Teatro La Fenice
e della Fondazione Cassa di Risparmio e Banca del Monte di
Lugo, città d’origine di Squarzina.
Il Comitato Scientifico era composto da Maria Ida Biggi,
che in qualità di direttore del Centro Studi ha curato l’intera
iniziativa, Lina Bolzoni e Carlo Ossola dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Marco De Marinis dell’Università di Bologna, Paolo Puppa di Ca’Foscari e Silvia Danesi Squarzina,
moglie del Maestro e docente di Storia dell’Arte presso l’Università La Sapienza di Roma.
Il programma era denso e articolato e contava sulla presenza di alcuni tra i maggiori docenti italiani di storia del teatro.
Il convegno era strutturato in più sessioni, ognuna delle quali dedicata ad un aspetto particolare del lavoro del Maestro:
dello studioso, saggista e organizzatore teatrale hanno parlato
Masolino d’Amico, Maria Ida Biggi, Maurizio Giammusso,
Maria Grazia Gregori, Gerardo Guccini, Ginette Herry, Giuseppe Lotta, Claudio Longhi, Lorenzo Mango, Elena Randi,
Alessandro Tinterri e Claudio Vicentini. Nella giornata di venerdì, nella sessione dedicata alla drammaturgia, sono intervenuti Anna Barsotti, Roberto Cuppone, Isabella Innamorati e
Federica Mazzocchi, mentre numerosi sono stati gli interventi dedicati al lavoro di Squarzina regista teatrale, tra questi si
ricordano Roberto Alonge, Eugenio Buonaccorsi, Francesca
Bisutti, Leonardo Mello, Franco Perrelli, Paolo Puppa, Franco Vazzoler e Piermario Vescovo.
Tra i tanti partecipanti, impegnati nel non facile compito di
descrivere una figura multiforme come quella di Squarzina,
un vero intellettuale «a tutto tondo», sono intervenuti anche giovani studiosi che hanno beneficiato di alcune borse di
studio messe a disposizione dalla generosità della professoressa Danesi Squarzina.
In ciascuna delle tre giornate, a conclusione e completamento della discussione scientifica, nella splendida cornice del Cenacolo Palladiano, anche il grande pubblico ha avuto la possiDa sinistra a destra,
in questa pagina: Giancarlo Zanetti,
Franco Graziosi, Paola Mannoni, Gabriele Lavia;
nella pagina a fronte: Carlo Quartucci,
Tullio Solenghi,Paola Gassman, Ugo Pagliai.
zati da scenografi che hanno prestato volentieri alla Fondazione Cini una parte dei loro materiali.
Il modellino di Gianfranco Padovani per Madre Courage e
i suoi figli allestito dal Teatro Stabile di Genova nel 1970, raffigura l’impianto scenico e il carro che la protagonista Lina
Volonghi trascinava in uno straordinario effetto cinetico grazie a due pedane rotanti. Lo scenografo, dopo averlo restaurato per l’occasione, ha deciso di donare la maquette al Centro
Studi Teatro.
Pier Luigi Pizzi ha prestato i bozzetti per due versioni di Turandot del 1969 e del 1971 e gli schizzi per le scene dell’opera Il
Gattopardo, tratta dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa con libretto di Luigi Squarzina (1967).
Tra le opere documentate grazie ai numerosi materiali conservati da Giovanni Agostinucci a testimonianza della sua
lunga collaborazione con il Maestro, compaiono in mostra Il
fu Mattia Pascal del 1974, La Locandiera del 1991, Cavalleria
Rusticana e I Pagliacci del 1996 allestite a Montecarlo ed alcune opere per il Rossini Opera Festival di Pesaro. Inoltre, anche Agostinucci ha deciso di contribuire ad accrescere il Fondo Squarzina restaurando il modellino realizzato nel 1991 per
l’opera di Mozart, L’obbligo del primo comandamento che Silvia Danesi Squarzina, in questa occasione, ha deciso di donare alla Fondazione.
La scelta di organizzare un programma tanto ricco e vario
nasce dalla volontà di diffondere il ricordo di Squarzina an-
la sede del convegno, nella quale era possibile rivedere e risentire rare registrazioni video e audio di regie squarziniane. Tra
queste, ad esempio, La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau, spettacolo del 1967 interpretato tra gli altri da Alberto
Lionello.
Nel corso della prima serata, è stato presentato da Marco De
Marinis e dal presidente della Fondazione Istituto Gramsci
Giuseppe Vacca, il volume Luigi Squarzina. Il teatro e la storia, a cura di Elio Testoni e pubblicato negli Annali della Fondazione Gramsci.
Dal primo ottobre, infine, presso gli spazi della Biblioteca
della Nuova Manica Lunga era allestita una mostra di modellini, bozzetti di scena e figurini per i costumi di alcuni importanti spettacoli con la regia teatrale di Luigi Squarzina, realiz-
che tra gli spettatori e i non specialisti, nella convinzione che la
conoscenza della storia del teatro contemporaneo italiano sia
di fondamentale importanza per la formazione di un pubblico consapevole e attento. Questo assume un rilievo particolare nel caso di Luigi Squarzina, sia per l’importanza intrinseca
del personaggio, il cui peso nelle vicende teatrali italiane è tuttora vivo e presente, sia per la sua idea del ruolo pubblico, «politico» in senso alto, dell’esperienza teatrale, idea che Squarzina ha mantenuto salda per tutta la durata della sua carriera.
Le relazioni del convegno saranno pubblicate in un volume della collana degli Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei, a cui sarà allegato il dvd degli incontri serali del convegno
e un’intervista inedita a Luca Ronconi – realizzata da Paolo
Puppa – che ricorda il suo rapporto con Squarzina. ◼
in vetrina
bilità di ascoltare le testimonianze e le letture di collaboratori del Maestro.
Questo incontro pomeridiano, di grandissimo interesse
per ogni appassionato del nostro teatro, è stata un’occasione
per riunire alcuni tra gli artisti che lavorarono o spesero il loro apprendistato con il grande regista. Tra gli attori intervenuti Omero Antonutti, Giancarlo Zanetti, Franco Graziosi
e Paola Mannoni hanno letto alcuni brani dai testi teatrali di
Squarzina, mentre Giuliano Scabia, Matteo d’Amico, Gabriele Lavia, Carlo Quartucci e Tullio Solenghi hanno raccontato
la sua figura attraverso i loro ricordi personali. Altrettanto interessante è stata la presenza di Paola Gassman e Ugo Pagliai
che, leggendo il carteggio tra Squarzina e Vittorio Gassman,
hanno introdotto l’ascolto di alcuni brani dalla registrazione
radio della prima versione integrale italiana dell’Amleto tradotta dallo stesso Squarzina e interpretata da Gassman nel
1952, frutto del loro breve ma intenso sodalizio artistico. Antonio Audino ha raccontato le vicissitudini del ritrovamento
e del restauro della registrazione che era rimasta sepolta negli
archivi della radio. rai Radio 3 ha, infatti, aderito entusiasticamente a questo progetto proponendosi come Media Partner
del convegno ed inviando alla Fondazione Cini le copie digitali di molte storiche trasmissioni, documenti preziosi per udire la voce di Squarzina e ricostruire il suo lavoro per la radio.
Grazie a questa preziosa collaborazione e al contributo delle Teche rai è stata allestita anche una sala, a pochi passi dal-
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in vetrina
70
Alessandro Lanari
Il «Napoleone degli impresari»
sbarca in laguna
N
di Gabriella Minarini
ella sua secolare storia, la Fenice di Venezia vede susseguirsi alla guida del teatro decine di impresari: tra questi, nel 1829 approda in
laguna un brillante quarantenne di Jesi, Alessandro Lanari (1787-1852), che già godeva di una solida esperienza in area marchigiana e aveva iniziato la sua carriera al Teatro
del Giglio di Lucca nel 1820 (con «preziosità» quali la Gabriella di Vergy di Carafa). L’incarico per le successive stagioni di primavera e di estate-autunno 1821 gli permise di
gettare le basi del suo metodo di lavoro: diversificare
le piazze per ridurre i costi di gestione e accrescere la
qualità delle produzioni. Infatti, durante la stagione lucchese «sconfinò» con la compagnia al Teatro degli Avvalorati di Pisa e al Teatro Rossini degli
Accademici Fulgidi di Livorno, e nell’autunno ottenne anche l’incarico quinquennale per la gestione
del prestigioso Comunale di Bologna.
Non stupisce che già nel settembre 1823 il
segretario della fiorentina Accademia degli Immobili collocasse il Lanari fra coloro che «adempiono con maggior premura agli impegni […] contratti con
l’Accademia, e col pubblico, ponendo in Scena buoni Spettacoli». Lanari è solo agli inizi di una lunga carriera, che lo porterà a gestire grandi
teatri con allestimenti e cast prestigiosi,
senza avere rivali nella prima parte del secolo, come ricorda John Rosselli, «soprattutto per quel che riguarda la finitura e l’esattezza storica di scene e costumi». Donizetti riteneva che non ci fosse «impresario più accorto di lui e più dedicato a ben servire il pubblico», e anche Rossini, rifiutando di dare il Tell per
la riapertura della Fenice dopo l’incendio del 1836, lo giudica tuttavia un «abile impresario»; in più, nel 1823, Lanari aveva rilevato a Firenze una sartoria per utilizzare il proprio vestiario e i suoi
artisti in vari circuiti teatrali
con il minimo di tempi morti
tra una stagione e l’altra, per
cui dobbiamo immaginarlo
in viaggio senza sosta, in un
paganiniano moto perpetuo.
Nel vivaio lanariano troviamo anche Giuseppina Strepponi, che in Lanari non trovò solo un impresario, ma anche un amico fidato, il cui riconosciuto talento gli varrà il
soprannome di «Napoleone
degli impresari».
Fin dal suo primo incarico
a Venezia, Lanari ebbe competenze notevoli, con grosse
complessità nei livelli d’intervento, dovendo trattare
con la non facile Nobile Presidenza della Fenice per i ri-
tardi organizzativi e per la mancanza di professori d’orchestra
a soli dieci giorni dalla prima – il Costantino in Arles di Giuseppe Persiani – fissata, come di consueto, per il 26 dicembre.
L’impresario, nelle lettere inedite raccolte nell’archivio della
Fenice, evidenzia con precisione di dettagli la colpevole lentezza decisionale della Presidenza, ma lo fa con un discreto
tono reverenziale (con «quegli illustrissimi – come dirà poi a
Donizetti – non v’è da scherzare»), il che gli consente di agire rapidamente, senza correre il rischio di imbattersi in ulteriori opposizioni. Ma il problema più grosso, in quella stagione, doveva ancora arrivare. Difatti, il 16 dicembre 1829 Lanari scrive alla Presidenza di aver ricevuto notizia che Giovanni Pacini «trovasi a Viareggio in Toscana ammalato»: grande difficoltà per l’impresa, perché il maestro Guillon intendeva chiudere la stagione con la sua Maria Brabante e si rifiutava «ad andare in iscena colla sua opera per terza», rimanendo «schiacciato» tra una prima per Venezia
(il Costantino in Arles) e una prima assoluta di Pacini. Per il timore di ricevere «delle nuove non consolanti sulla salute del maestro Pacini», Lanari riesce a strappare a Bellini l’impegno per un’opera
inedita: sarà I Capuleti e i Montecchi, che andrà in
scena, per quarta, l’11 marzo 1830; promessa formalizzata in data 5 gennaio da Bellini in persona:
«Qualora il maestro Pacini manchi al suo contratto di venire a scrivere le sue opere al Gran
Teatro la Fenice, dietro l’invito da voi fattomi, mi prendo l’impegno di scrivervi io il
libro Giulietta Cappellio da Romani,
con il patto espresso però di avere un
mese e mezzo di tempo dal giorno che
mi verrà consegnato il libro per andare in scena». Bellini era già a Venezia,
per cogliere l’occasione di presentarsi
al pubblico della Fenice, «accomodando – una volta tanto – la parte di Imogene nel Pirata per il mezzosoprano Giulia Grisi»,
come riferisce il Rosselli. Ma i tempi per lo scambio Pacini/Bellini erano strettissimi: Felice Romani doveva riscrivere il libro già musicato dal Vaccai, e la Presidenza impegnarsi a ottenere un risultato adeguato al prestigio del Gran Teatro, ottemperando ai rigidi vincoli previsti dal contratto, come «l’obbligo di
tenere in pronto uno spartito vecchio d’esperimentata riuscita da sostituire
alla prima Opera, nel caso in cui questa avesse incontrata la generale disapprovazione». I giorni passano, Bellini preoccupato scrive allo zio Vincenzo
Ferliti che il «suo compromesso è stato trasportato
sino a domani, e se l’impresa non delibera, io spero di sottrarmi dal pericolo d’una malattia» e alla
paura di andare incontro
a un fiasco. Il giovane maestro percepiva un pericolo – non così fantomatico
– poiché l’impresa (leggi
Nobile Presidenza) lo costringeva a scrivere l’opera
in un mese e mezzo, quan-
Di più, fattosi forte dei «clamorosi applausi» ricevuti, passa alla carica mettendo in luce le inadempienze della Presidenza, e la paralizzante gestione volta a tergiversare sperando di spuntare contratti migliori, cioè al ribasso. Lanari invece ribatte che le migliori voci non stanno ad attendere i comodi della Fenice: «Trovandomi a Milano, e a Parma, tentai
di scritturare il Tenore Rubini, e il Basso Lablache, […] ma in
alcun modo non hanno voluto meco legarsi ad onta di tutti li
sforzi, ed offerte possibili». Perché al ribasso puntava anche
l’attento impresario, che aveva sferrato un ceffone alla compagna Carlotta, colpevole di aver troppo calorosamente applaudito il tenore Duprez, con il rischio di veder crescere le sue
pretese economiche. Nonostante l’impegno che per «persuadere la Nob. Presidenza – come scrive ancora Lanari – nulla si lascierà d’intentato per ben servirla, non risparmiando
ne fatiche ne mezzi», i rapporti tra l’impresario e la suddetta
Colgo questo incontro per domandarle l’approvazione del Maestro Ricci per il carnevale dal 1830
al 1831 per scrivere la prima Opera non che della prima Ballerina Francese Lecomte attualmente a Torino, della Castelli prima Ballerina Italiana
attualmente a Genova scritturata nella sua qualità
per il Carnevale, a Primavera, abilissima anche nelle parti, quando il bisogno lo volesse. […] Aggiungo pure al Sig.re Conte Pappadopoli che se le riuscisse col mezzo di Tessier a Parigi di persuadere Madame Malibrand di venire fra noi nel detto Gran
Teatro il futuro carnevale 1830 al 1831, saremmo
pronti di accordarle Franchi Ventiottomila, dico
F.chi 28,000 – ed anche Trentamila […] quando
Madame Malibrand non potesse accettare per il citato Anno, gli offro l’Autunno del 1831, e successivo Carnevale 1831 al 1832, cioè da P.mo Agosto
del 1831 a tutto il 20 Marzo 1832 per i miei Teatri
di Competenza in Toscana L’Autunno, o Carnevale di Venezia, e gli accorderei Cinquantamila Franchi compresi i Benefizi che crederò farle fare […].
L’impresario si espone notevolmente; ma è un uomo sicuro di sé, attento a soppesare che cosa sia gradito al pubblico di
Venezia, abile nel solleticare il narcisismo della nobile società
proprietaria di uno dei massimi teatri del momento, ma anche capace di misurare l’effettiva capienza della sua borsa. E,
come si deduce dalla successiva lettera del 16 gennaio 1830 –
a stagione appena iniziata – mal sopportava le critiche che gli
venivano rivolte:
[…] mi sia permesso di subordinatamente far osservare alla Nob.
Presidenza, che tutt’altro malcontento ho potuto scorgere in
questo Pubblico riguardo alla scelta degli Artisti, o spettacoli di
quest’anno, ma invece una generale approvazione […] chiaramente lo mostrava il fatto nell’avere avuto l’impresa un numero di Abbonati mai stato fatto negli anni scorsi, i clamorosi applausi poi di
cui, tanto nell’Opera che nel Ballo rimbombò la gran sala del Teatro, ne confermano e coronano il risultato.
Nella pagina a fronte: ritratto giovanile di Alessandro Lanari
(Civica Raccolta Stampe Bertarelli, Milano);
lettera di Alessandro Lanari a Guglielmo Brenna – Firenze, 13
novembre 1845 (Archivio Storico del Teatro La Fenice, Venezia).
In questa pagina: Giuseppe Bertoja, Rio Alto nelle Lagune
Adriatiche, Attila, Prologo, 2, Venezia, Teatro la Fenice, 17 marzo
1846 (bozzetto, Museo Correr, Venezia).
«nobile» presidenza veneziana continueranno a non essere
né facili né gratificanti nel corso di tutte le gestioni.
Alessandro Lanari sarà impresario della Fenice per numerose stagioni fra il ’31-’32 e il ’45-’46, compresa quella fatale
del 1836-’37, quando il teatro, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre, prese fuoco. In quella circostanza l’impresario mise
in luce doti non comuni: tempestività, coraggio e fermezza
degni di un grande direttore d’impresa, per salvare la stagione, riuscendo a fare l’interesse della Fenice, quello degli artisti e, non ultimo, anche il suo. Con un certo orgoglio, scrive lui stesso ai banchieri fiorentini Mandolfi e Fermi, «in tre
giorni mi è riuscita una operazione che difficilmente sarebbe combinata in tre mesi. Col concorso di questo R. Governo
[…] trasporterò tutti [gli] spettacoli preparati per l’incendiato Teatro in quello d’Apollo». Lanari darà molte altre prime
alla Fenice, alla cui direzione lo ritroveremo, per l’ultima volta, nella stagione di «Carnovale e Quadrigesima» 1845-’46,
quando metterà in scena l’Attila (seconda delle cinque opere
commissionate a Verdi dalla Fenice) nonché altri due melodrammi del maestro: Ernani e Giovanna d’Arco (come opera nuova per Venezia): ben tre titoli verdiani, proposti con il
consueto sfarzo di mise en scène o, per dirla come da contratto, «con la solita magnificenza e illuminazione», con cui Lanari salutava la Fenice rendendo omaggio all’operista più affermato del momento. ◼
in vetrina
do i suoi tempi compositivi erano almeno di un anno («col
mio stile devo vomitar sangue»). Ma scrivere per il Teatro La
Fenice era un grande onore: «Vedi che strozzamento, e ben tu
penserai, dicendomi che ho fatto male – scrive Bellini a Francesco Florimo –; ma le dimostrazioni del Governatore e di
quasi tutta Venezia gioisce di questa combinazione, ed io spero di non far tanto male».
Finalmente, il 20 gennaio, si concluse la sospirata scrittura
per l’opera nuova del maestro catanese: l’impresario era riuscito a ricucire lo «strappo», causato dalla defezione di Pacini, con un giovane compositore fresco di idee, pieno di ambizione, anche se non privo di timori. Lanari aveva raggiunto lo
scopo: portare a compimento la stagione con artisti prestigiosi che rinsaldassero la sua affidabilità sia come impresario che
quale uomo d’affari pieno di talento e di iniziative, spesso usate, per così dire, sul filo del rasoio. Dopo la defezione di Pacini, Lanari, per mettere in chiaro i punti salienti per la nuova stagione, si affretta a scrivere alla Presidenza questa inedita lettera:
71
in vetrina
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Il Salone Europeo
della Cultura
a Venezia
mostrare che la cultura è più viva che mai, anzi è vispissima, e
a passi lesti marcia verso la candidatura di Venezia e del nordest a Capitale europea della Cultura nel 2019.
Quattro progetti a cominciare dal Padiglione Salone dei
Beni Culturali che, giunto alla sua xvi edizione, abbraccerà tutte le nuove esperienze di valorizzazione della cultura
di Manuela Pivato
mettendo a confronto enti, istituzioni, operatori e quell’intero mondo di spazi espositivi italiani, europei e mondiali. Il
n ponte verso Berlino, un altro con lo
secondo segmento del Salone, Open Design Italia, è invece
sguardo rivolto al 2019, un terzo in direzione
un concorso-mostra-mercato che rilancia la figura degli audelle nuove tecnologie. È il multiforme e multoproduttori, ovvero coloro che inventano, realizzano e ditilingue Salone Europeo della Cultustribuiscono un progetto, offrendo un modo inra che dal 23 al 25 novembre, negli spazi dei Manovativo di intendere i rapporti fra domanda e ofgazzini Ligabue a Venezia, riunirà studiosi, desiferta rispetto a come si producono e si comunicaVenezia
gner, restauratori e artigiani all’ombra di un evenno beni ad alta intensità culturale.
Magazzini Ligabue
to che, organizzato da Nordest Europa in partLa terza parte del Salone sarà riservata alla nuodal 23 al 25 novembre
nership con Expo Venice e in collaborazione con
ve tecnologie digitali, attraverso le quali la culCa’ Foscari e iuav, Fondazione Symbola e Fondatura supera le barriere, ignora gli ostacoli, aggizione di Venezia, quest’anno si moltiplica per quattro. Quatra le frontiere e diventa incredibilmente a portata di mano,
tro progetti per un super concentrato di cultura con un codi sguardo, di clic, godibile sullo smartphone, sul pc, in 3d.
mune denominatore, «Venezia#Berlin», e la volontà di diL’ambizione è quella di diventare, nell’arco dei prossimi anni, la sede nazionale di incontro e di
esposizione degli operatori del settore, permettendo così a un pubblico sempre più vasto, soprattutto giovane, di sperimentare quanto le nuove tecnologie aprano orizzonti inattesi e insperati e creino un’infinita girandola di opportunità per un diverso approccio alla cultura.
Guarda invece al passato, ma con
tecniche futuribili, la sezione nuova
di zecca del Salone che si intitola Restauri Aperti, grazie alla quale saranno spalancate le porte dei cantieri attualmente in corso nei principali palazzi della città. Gli specialisti insieme al pubblico potranno dunque conoscere dal vivo i materiali e le tecniche utilizzate dalle imprese e dagli artigiani del restauro grazie a convegni,
seminari tecnici, ma soprattutto grazie a visite nei cantieri che saranno seguite da aperitivi serali nei laboratori.
La tre giorni ai Magazzini Ligabue
non sarà però solo una vetrina. Tra un
dibattito e un sopralluogo, un drink
e una scoperta, lì dove laguna e terraferma si abbracciano, il Salone intende anche realizzare concrete opportunità di business per istituzioni
e aziende, offrendosi come fulcro per
il trasferimento di conoscenze e l’incontro tra domanda e offerta di servizi culturali e turistici. Ma il Salone dei Beni Culturali in realtà guarda
molto più avanti: presieduto da Armando Peres, diretto da Filiberto Zovico, e guidato nel comitato scientifico da Cesare De Michelis, scruta l’orizzonte e punta alla candidatura di
Venezia e del nordest d’Italia, come si
diceva in apertura, a Capitale Europea della Cultura 2019. Le buone premesse ci sono tutte. ◼
U
I Magazzini Ligabue.
Mario Bortolotto
e le vie della musicologia (4)
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini
Prefazione
P
er la seconda volta, dopo la Germania dell’Ottocento, tra Lied romantico (Alberto Caprioli) e Richard Wagner (Gian Paolo Minardi), le indagini
sull’attività critica di Mario Bortolotto si concentrano su una specifica area geografica e cronologica: l’Italia
del Novecento, tra compositori nati nell’ultimo quarto del
secolo precedente (la cosiddetta Generazione dell’Ottanta)
e compositori nati sul far del nuovo secolo. Niente Puccini e
Giovane scuola, dunque; e niente Nuova musica post 1950.
Ma artisti genericamente riuniti sotto l’etichetta del «rinnovamento»: Casella, Malipiero, Respighi (e Pizzetti, di cui
però Bortolotto non sembra essersi mai occupato), e
la loro discendenza, formata – nel nostro caso – da
Dallapiccola e Petrassi.
Questo cordone ombelicale occupa da sempre un
posto di rilievo nelle elucubrazioni degli studiosi,
e proprio Fiamma Nicolodi, cattedratica all’Università di Firenze nonché autrice dell’informatissimo scritto che, ricco com’è di novità e informazioni
inedite, occupa tutto lo spazio assegnato al Provetto
stregone, ha saputo negli anni districarlo discuterlo
spiegarlo con lucida, non sentimentale, fermezza (oltre al ben noto studio su Musica e musicisti nel ventennio fascista, Discanto, Fiesole 1984, si rilegga il
saggio – efficacissimo nella sua sintesi – sul giovane
Petrassi: Inizi prestigiosi, in Petrassi, a cura di Enzo
Restagno, edt, Torino 1992, pp. 64-73, in particolare 65-69). Del resto, tale filiazione era pienamente
riconosciuta dai diretti interessati: «Debbo alla pratica clandestina [della musica] la grande fortuna di
aver incontrato Alfredo Casella. Da quel momento
ebbi chiara coscienza di come avrei dovuto lavorare,
e in quale direzione. Potremo mai misurare il debito di riconoscenza che dobbiamo noi tutti, compresi i giovani di oggi,
smemorati e puntigliosi, a questa grande figura […]?», afferma Petrassi nella Lettera a Guido M. Gatti posta in apertura
al numero 1, a lui interamente riservato, dei «Quaderni della Rassegna musicale», nel quale s’incontrano anche le dense
pagine sulla sua produzione a firma del giovane Bortolotto.
E non è dubbio che gli elogi da questi rivolti al Casella autore, oltre che della giovanile e mai sopita passione per il suo
libro Il pianoforte (Tumminelli & C., Roma-Milano 1936),
oltre che della stima per l’interprete alla tastiera (udito una
sola volta, a Roma, nell’immediato secondo dopoguerra), si
siano nutriti dell’amore e dell’ammirazione che gli professavano «gli allievi» Petrassi e Fedele d’Amico, al quale ultimo, conosciuto solo poco tempo prima, è per l’appunto dedicato Il cammino di Goffredo Petrassi. Scrive Bortolotto a
Petrassi, da Pordenone, il 6 febbraio 1963: «Si dà ora il caso
che io debba venire a Roma il giorno 13, invitato da Alberto Mondadori a parlare sul nuovo libro di Fedele D’Amico
[I casi della musica, Il Saggiatore, Milano 1962]; la concione avverrà presso la Libreria Einaudi nel pomeriggio. Credo
ci sarà anche Lei. Oltre tutto, il libro è brillantissimo, fa piaMario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo).
cere ogni tanto parlare bene di qualcosa. Ne abbiamo quasi
perduto l’abitudine; forcément!» (l’originale manoscritto è
conservato presso l’Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina).
E se le riflessioni di Bortolotto su Petrassi sono condotte in
continuo dialogo e quasi allo scopo di smentire il giovanile
libriccino di d’Amico (Goffredo Petrassi, Edizioni di Documento, Roma 1942), il risultato che ne scaturisce è un piccolo (per dimensioni) «classico» imprescindibile, e in effetti imprescisso. Come facilmente si evince, ad esempio, dal
numero di volte in cui è stato citato durante i lavori del convegno su Petrassi svoltosi a Roma nel 2004 (atti pubblicati
dalla «Nuova rivista musicale italiana», numeri 4/2005 e
2/2006); o anche da rilievi tecnici e argomentazioni ripresi
in contributi recenti di spiccato valore: penso a Neoclassicismo di Petrassi? e a Using History, To Make History: Goffredo Petrassi and the Heritage of Musical Tradition, di Antonio
Rostagno e, rispettivamente, Susanna Pasticci1.
Ma poi, per concludere queste brevi note introduttive, Casella in prima persona – senza cioè la mediazione di Petrassi, d’Amico o di chicchessia – è pronubo d’uno tra i «folli»
amori bortolottiani (più d’uno, anzi, a tener conto di altri
nomi ricordati dalla Nicolodi: Alkan, Cortot…), quello per
Walter Gieseking, «esponente – scrive il musicista torinese
a pagina 94 del Pianoforte – di una concezione pianistica totalmente nuova e ricca di avvenire», una concezione, diremmo noi, «neoclassica», improntata a princìpi di «naturalezza, semplicità, purezza di stile» (p. 98), e attenta alle più
«lievi sfumature» del suono (p. 99). Immagini parafrasate
quarant’anni dopo da Bortolotto, quando di Gieseking loda «il culto della esattezza, della limpidezza del suono, della
evidenza strutturale, […] l’equivalenza assoluta fra il pensiero musicale e il suono»2. (j.p.) ◼
1 Antonio Rostagno, Neoclassicismo di Petrassi?, «Nuova rivista musicale italiana», xxxix (ix n.s.), 4, ottobre-dicembre 2005 (atti del Convegno internazionale di studi Petrassi. L’arte, il tempo, le idee, Roma, Accademia nazionale di Santa
Cecilia, 1-3 ottobre 2004), pp. 447-480; Susanna Pasticci, Using History, To Make History: Goffredo Petrassi and the Heritage of Musical Tradition, «Studi musicali», xxxviii, 2, 2009, pp. 445-485. Testi entrambi condotti secondo procedimenti analitici stringenti (benché io non condivida, di Rostagno, le conclusioni
sul piano politico-ideologico), gli stessi a suo tempo invocati da Bortolotto: «Penso che un lavoro monografico […] debba essere […] una serie di fatti, derivazioni
stilistiche ecc.»: lettera di Mario Bortolotto a Goffredo Petrassi, Roma, 12 ottobre 1961 (Fondo Petrassi, Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di
musica, Latina).
2 Mario Bortolotto, L’entomologo Gieseking, note di copertina per gli omnia discografici, emi, 1976, s.i.p.
Il provetto stregone
Il provetto stregone
73
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
74
Amori e insofferenze
Mario Bortolotto
e la musica italiana
dalla Generazione dell’Ottanta
a Petrassi
S
di Fiamma Nicolodi1
pirito libero (anche nel contraddirsi e mutare
opinione), selettivo, elitario, Mario Bortolotto è un
maître à penser di razza, che non ha mai fatto mistero delle sue predilezioni e dei suoi rifiuti riguardo sia
ai musicisti della Generazione dell’Ottanta sia ai compositori che hanno seguito le loro tracce. In particolare, Dallapiccola e Petrassi, i «dioscuri», come venivano chiamati all’inizio delle loro carriere: più per motivi anagrafici (erano nati entrambi nel 1904) che di affinità stilistiche.
Come la dimensione internazionale e il «moderno» costituiscono per Bortolotto elementi di attrazione, così all’opposto il provincialismo e il retaggio tradizionale vengono
considerati una tara dell’Italia musicale tardottocentesca
e primonovecentesca, incapace di confrontarsi con le altre
nazioni europee e di emergere in fatto di sperimentalismo
e di attualità, Puccini beninteso escluso (benché al tempo
in cui queste dichiarazioni furono rese la cosa non apparisse
poi tanto ovvia): «L’unico musicista che dell’Europa avesse notizia, Alfredo Casella, si affrettò a virare la Borbonìa
delle tarantelle, lasciando proprio a Puccini il compito di
dare una versione sufficientemente italiana della modernità musicale»2 . E i rappresentanti dell’Ottanta (Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi, ai quali – secondo alcuni – andrebbe aggiunto Franco Alfano), attivi durante il Fascismo – periodo della nostra politica culturale inficiato dal nazionalismo e, soprattutto nel secondo decennio, da un accentuato conformismo3 , – offrono un materiale d’indagine troppo poco allettante per chi, come il Nostro, ha sempre cercato punte di eccellenza, scartando la mediocritas più o meno aurea.
Di qui, pensiamo, il naufragio di un progetto che Bortolotto accarezzava nel 1961-1962, come si evince da una lettera a Dallapiccola: «Sto lavorando alla Storia della musica
italiana dalla generazione dell’Ottanta in poi, lavoro che mi
prenderà chissà quanto tempo! Lo finirò?»4 . Un suo panorama storico dettagliato sugli «ottantenni» e sui loro successori in effetti manca. Il che non significa che di fronte a occasioni specifiche (opere, concerti, testimonianze) Bortolotto critico non abbia detto e non dica la sua, spesso centran1 L’autrice desidera ringraziare Gloria Manghetti, Ilaria Spadolini e l’intero personale
dell’Archivio contemporaneo «A. Bonsanti» con sede presso il Gabinetto G.P. Vieusseux di
Firenze, nonché il personale dell’Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica di Latina per aver agevolato l’indagine sui carteggi di Mario Bortolotto con Luigi Dallapiccola e con Goffredo Petrassi. È grata inoltre ad Annalibera Dallapiccola per aver concesso
il permesso di riprodurre brani di lettere di e a suo padre Luigi. Sulla consistenza del carteggio Dallapiccola-Bortolotto, si veda Fondo Luigi Dallapiccola. Autografi, scritti a stampa, bibliografia critica con un elenco dei corrispondenti, a cura di Mila De Santis, premessa di Gloria Manghetti, Polistampa, Firenze 1995 («Inventari», 5).
2 Mario Bortolotto, La signora Pinkerton, una e due, «Chigiana», XXXI (nuova serie 11, 1974),
1976, pp. 347-363: 348; rist. in Id., Consacrazione della casa, Adelphi, Milano 1982 («Saggi», 22), pp. 131-151: 133.
3 Fiamma Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Discanto, Fiesole 1984 («Contrappunti», 19).
4 Lettera di Mario Bortolotto, da Pordenone, a Luigi Dallapiccola, Firenze, 27 gennaio
[1961] (Fondo Luigi Dallapiccola, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», Firenze). Sempre Bortolotto, l’anno seguente (s.d. e s.l.), scrive invece a Goffredo Petrassi, Roma: «Intanto sta faticosamente nascendo il libro sulla musica italiana del dopoguerra. Prima idea era stata quella di limitarlo ai Giovani (fra poco Generazione di Mezzo), poi la velleità dell’enciclopedismo prevalse: ci metterò tutto. Così vi sarà un capitolo sulla Sua opera» (Fondo Petrassi,
Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina).
do il bersaglio.
Il musicista dell’Ottanta o, per essere più precisi, del 1883
– data l’estensione temporale dell’etichetta coniata da Massimo Mila per quella pattuglia di compositori che avevano
ben pochi tratti in comune, al di là della congiuntura natale:
l’obiettivo di ridare vita al repertorio strumentale italiano, la
distanza temporale e quella spaziale (modalità e folclore) come strade alternative alla musica italiana dei loro anni giovanili – su cui il Nostro insiste nei suoi scritti con maggiore
frequenza e benevolenza è Alfredo Casella. Il motivo è facilmente spiegabile. Bortolotto, come del resto Berio che aveva
ricevuto il volume in dono dal padre nel 1941 allo scopo di
«allargare i suoi orizzonti» (così suona la dedica al figlio Luciano apposta sul volume da Ernesto)5 , ammira innanzitutto il pianista e il didatta, ossia l’autore del Pianoforte, ch’egli
dimostra di conoscere approfonditamente nella prima edizione, datata 1936 6 .
Molte sono le citazioni di questo testo che troviamo spigolando in programmi di sala (un solo esempio: quello per il
concerto diretto da Riccardo Muti, solista al pianoforte Svja-
Gian Francesco Malipiero.
toslav Richter, Accademia di Santa Cecilia, Stagione 19711972) e soprattutto nel volume Dopo una battaglia7. Il pianoforte, dedicato all’amico Cortot, pullula di pianisti noti e
meno noti, come la figura assai defilata, ma di per sé originale e significativa di Charles-Valentin Alkan (1813-1888), ammirato nella sua doppia veste di autore e di pianista da Liszt
e, più tardi, da Busoni.
La musica di Alkan – scriveva Casella – potrebbe essere paragonata a quella di Berlioz, alla quale si avvicina per la ricchezza e la
stravaganza dell’immaginazione, nonché per una frequente bruttezza musicale sempre segnata però da grande genialità8 .
5 Vedine la riproduzione fotografica nella fig. 2 di Alfredo Casella e l’Europa, atti del Convegno internazionale di studi (Siena, 7-9 giugno 2001), a cura di Mila De Santis, premessa di Giovanni Carli Ballola, «Chigiana», XLIV, 2003; Luciano Berio ha lasciato qualche osservazione
su Casella in Radici, in Musica italiana del primo Novecento. “La Generazione dell’80”, atti del
Convegno (Firenze, 9-11 maggio 1980), a cura di Fiamma Nicolodi, Olschki, Firenze 1981
(«Historiae musicae cultores», xxxv), pp. 9-12: 11.
6 Alfredo Casella, Il pianoforte, Tumminelli & C., Roma-Milano 1936 («Melos»).
7 Bortolotto, Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Adelphi, Milano
1992 («Saggi. Nuova serie», 9), pp. 26, 28, 75, 122, 222.
8 Casella, Il pianoforte, cit., p. 174.
nale», mostrerà un’altra tolleranza verso la rapsodia Italia
(1909), stesa in uno stile tra il russo e il mahleriano, che, accanto a canzoni napoletane e a melodie siciliane autentiche
(quest’ultime desunte dalla raccolta di Alberto Favara, cui
il compositore torinese avrebbe in seguito attinto anche per
La giara)11, riprende lo stesso Funiculì funiculà impiegato da
Strauss (e da Mahler, nel Lied Die schönen Trompeten blasen del Knaben Wunderhorn)12 , tanto da definirla una «simpaticissima mascalzonata» del «giovane Casella parigino e
avanguardista»13 . D’altra parte, la pagina, oltre ad avere ottenuto il plauso di una parte della critica già alla prima parigina (Salle Gaveau, 23 aprile 1910)14 , ha di recente attirato l’attenzione di studiosi diversi per età e orientamento15 ,
e non solo come incunabolo di uno stile individuale ancora in formazione.
La predilezione di Bortolotto si indirizza, verrebbe fatto
di dire naturalmente, verso i lavori di Casella meno estroversi e più intimi, scritti sempre durante il soggiorno parigino (1896-1915) e attraversati dal cosiddetto «dubbio tonale» (Notte di maggio per voce e orchestra, 1913: titolo alla
Rimskij-Korsakov, che si rifà invece al testo poetico di Carducci; L’adieu à la vie, da Tagore nella traduzione francese di
Gide, 1915; Elegia eroica per grande orchestra, 1916; A notte alta, poema musicale per pianoforte, 1917). Lavori, questi,
in cui il fondo pessimistico di Casella16 si esprime in un linguaggio dissonante, armonicamente esasperato, vicino all’espressionismo viennese. A proposito di queste composizioni
il Nostro commenta: «Devono figurare in ogni antologia rigorosa del Novecento»17.
Lo stile dei «ritorni» e il pastiche sono invisi al Bortolotto
«adorniano» degli anni sessanta, che in una lettera a Dallapiccola commenta con sarcasmo questo passo dell’articolo Musik im Funktion scritto da Stockhausen e apparso su
«Melos» nel settembre 1957: «La nuova funzione della musica deve essere spirituale. […] Il nostro convincimento è che
bisogna seguire la strada tracciata dalla Symphonie de Psaumes di Stravinskij»18 . Conoscendo i gusti antineoclassici del
suo interlocutore epistolare, gusti che all’epoca anch’egli
11 Alberto Favara, Canti della terra e del mare di Sicilia, Ricordi, Milano 1907. Dopo la morte di Favara (1923) tutte le raccolte di canzoni folcloriche da lui curate sono confluite in Id.,
Corpus di musiche popolari siciliane, 2 voll., a cura di Ottavio Tiby, Accademia di scienze, lettere e arti, Palermo 1957 («Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo. Supplemento agli
Atti», 4).
Ildebrando Pizzetti in un ritratto di Emilio Sommariva.
sella, che sembrano essergli tutte (o quasi) note, e all’edizione delle Sonate di Beethoven. Scrive nel 1998 in un articolo comparso su «Repubblica» e poi confluito in Corrispondenze: «Di essa conosciamo bene, oggi, i limiti filologici, ma, del pari, continuiamo a riconoscere le innumerevoli
soluzioni e proposte date ad una scrittura ingrata. Del resto,
un musicista della statura di Alfred Cortot la consigliava come insuperabile»9.
Riguardo al Casella compositore, Bortolotto rifugge negli
anni sessanta-settanta dagli aspetti folcloristici10 , ravvisandovi un fondo di retorica nazionalistica: si pensi, ad esempio, al balletto La giara (da Pirandello, Parigi 1924, commissionato dai Ballets Suédois, con scene e costumi di De Chirico). Ma alludendo, in La serpe in seno, al pannello conclusivo di Aus Italien (1904), «Neapolitanisches Volksleben. Fi9 Bortolotto, Elettrico Casella, «la Repubblica», 23, 62, 14 marzo 1998, p. 31; poi in Id.,
Corrispondenze, Adelphi, Milano 2010 («Saggi. Nuova serie», 65), pp. 333-337.
10 La citata «Borbonìa delle tarantelle»: Id., La signora Pinkerton, una e due, pp. 131-151:
133; ma anche «le numerose tarantelle caselliane (anche quella della Giara)» che accedono
«alla riprovevole soglia del folclore»: Id., Il cammino di Goffredo Petrassi, «Quaderni della
Rassegna musicale», 1, 1964 (L’opera di Goffredo Petrassi), pp. 11-79: 18.
12 Quirino Principe, Strauss, Rusconi, Milano 1989 (La musica), pp. 485-486; Id., Mahler.
La musica tra Eros e Thanatos, Bompiani, Milano 20022 («Tascabili Bompiani. Saggi», 249),
p. 602 (prima ed. Rusconi, Milano 1983).
13 Id., La serpe in seno. Sulla musica di Richard Strauss, Adelphi, Milano 2007 («Saggi. Nuova serie», 54), p. 108.
14 Segnalo, per tutti, l’articolo di Jean Huré, Œuvres de A. Casella, «Le monde musical»,
1910, p. 139, riportato in Alfredo Casella. Gli anni di Parigi. Dai documenti, a cura di Roberto
Calabretto, Olschki, Firenze 1997 («Studi di musica veneta», 25), pp. 161-162.
15 Virgilio Bernardoni, La Sinfonia op. 12 e la genesi dell’idea sinfonica nel primo Casella, in
Alfredo Casella negli anni di apprendistato a Parigi, atti del Convegno internazionale di studi (Venezia, 13-15 maggio 1992), a cura di Giovanni Morelli, premessa di Guido Salvetti, Olschki, Firenze 1994 («Studi di musica veneta», 20), pp. 101-127; Principe, Eredità mahleriane nel pensiero del giovane Casella, ivi, pp. 129-150.
16 Dopo alcune osservazioni sparse di Gastone Rossi Doria, la «costante presenza d’un elemento tragico nell’arte di Casella» è proclamata a chiare lettere da Massimo Mila, Itinerario
stilistico di Casella, «La rassegna musicale», xvi, 5-6 maggio-giugno 1943, pp. 132-147; poi,
col titolo Itinerario stilistico (1901-1942), in Casella, a cura di Fedele d’Amico e Guido M.
Gatti, Ricordi, Milano 1958 («Symposium», 1), pp. 31-55: 34.
17 Bortolotto, Elettrico Casella, cit., pp. 333-337: 337. Fedele d’Amico, De Chirico dietro lo
spartito, in Id., Tutte le cronache musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, I (1967-1972), pp. 348-351, oltre a riportare un’«affermazione tremendamente eretica» di Mario Labroca («Elegia eroica, A notte alta, il vero Casella è quello») databile all’inizio degli anni Trenta, dunque in piena fase neoclassica di Casella, osserva che nel «cosiddetto secondo stile di Casella» è «la chiave» per intendere i successivi approdi ‘classici’ e ‘italici’, ravvisando tra le due fasi una continuità di poetica e lessico musicale. L’idea è stata raccolta e integrata con vari esempi e rilievi analitici da
John C.G. Waterhouse, Continuità stilistica di Casella, in Musica italiana del primo Novecento, cit., pp. 63-80.
18 Karlheinz Stockhausen, Musik in Funktion, «Melos», 24, 9, September 1957, pp.
249-251.
Il provetto stregone
Passando quindi all’apprendimento specifico, l’estensore
indicava, accanto alle Douze études dans les tons majeurs op.
35 e alle Douze études dans les tons mineurs op. 39, le «Trois
Grandes Etudes op. 76 nelle quali vi è la magnifica e monumentale Etude en mouvement semblable et perpétuel». Nel
riprendere l’aggettivazione di Casella («magnifica e monumentale»: p. 28), Bortolotto estende l’analisi di questo terzo Studio alla «scrittura a due mani uguali» derivante da
Kessler e Chopin, ed enfatizza la neutralità dell’esito in questi termini: «Una esclusiva struttura musicale: siamo nell’era dell’arabesco hanslickiano; uno schema didattico, almeno come maschera dell’inconfessabile». Il Nostro non manca inoltre di ricordare l’obiettività dell’osservazione di Casella, storicamente sfasata rispetto alla cultura musicale del
suo tempo: «L’epitome [del Pianoforte] – così scrive a p. 26
– è del 1936, testimone dunque di un clima neoclassico che,
specie in Italia, segnava quasi un antipodo con lo stile di
Alkan», anch’esso peraltro costellato di segnali neoclassici (pp. 30 sgg.).
Ripetuti anche i rimandi alle musiche pianistiche di Ca-
75
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
76
condivideva, Bortolotto si lancia in un commento ludico:
Evidentemente ci siamo affrettati a celebrare la morte del Neoclassicismo. Lo vediamo ora più vivo che mai: con la differenza che i «ritorni» abbastanza ingenui a Bach, Vivaldi, Rossini,
Čajkovskij ecc. sono sostituiti da ben più astuti recapiti: Ockeghem, Gesualdo, Josquin, Machault, ecc. ecc.
Una sola speranza: che la storia della musica si esaurisca presto.
Sarà difficile comporre dei pastiches sulla melica greca19.
Non meno sarcastico e radicale il rifiuto opposto all’«arte
italiana degli anni trenta […] ansiosa di mito […] che vuol essere insieme simbolo di una concezione elementare (e astorica) dell’esistenza, e fuga da un presente, da una realtà in atto che sta lentamente evolvendo a soluzioni irredimibili, a sinistri sfaceli». Non so se oggi Bortolotto controfirmerebbe
questa sua lettura «politica» dell’«atteggiamento neocattolico» e rivolto all’«arcaico», al «primordio», della Generazione dell’Ottanta, di sicuro considera tuttora «questa situazione dell’artista italiano […] un fatto locale […]. Un dialetto, insomma: e si sa che i poeti dialettali, anche i supremi,
[…] corrono sempre il pericolo mortale […] di “abbassare la
loro espressione al tipico, che […] è […] genericità […]” (Brandi). […] Il dialettismo dell’arte italiana si rovescia tranquillamente in intellettualismo: […] da allora si sono cominciati a rovesciare sulla penisola i vari monstra chiamati Cimarosiana o Paganiniana o Tartiniana»20 . Quando, nel 2007, ribadisce la condanna a Malipiero e a Dallapiccola (se Strauss
scrive a Hofmannsthal che dal «vecchio Lully» non si può
ricavare altro che «un sublimato odore di muffa», con questa piccola frase annienta «i varii conati, Tartiniana, Vivaldiana, Rossiniana, Cimarosiana, che appestarono l’area
neoclassica»)21, concede però la grazia al prediletto Casella:
dall’elenco dei monstra è scomparsa Paganiniana.
Almeno dal 1998, infatti, la musica al quadrato di Casella,
in quanto inespressiva e neutra, incontra il suo favore, in ciò
aderendo alle posizioni di Fedele d’Amico22 , costante termine di confronto lungo tutta la sua attività critica:
Il compositore più stimolante resta, a ragione, quello dei pastiches. […] Aveva cominciato per ischerzo, in amichevole gara con
Ravel, […] ne uscirono le due serie che s’intitolano A la manière
de…
Ma anche dove l’invenzione sembrasse più diretta, era raro che
non avesse a comparire, quasi una filigrana, l’ombra di qualche
compositore fra i suoi più amati e vezzeggiati: e non si pensi solo
ai campioni della «mediterraneità»: Scarlatti, Paganini e Rossini
[…]. I recapiti erano sempre imprevedibili: il Vecchi […]; lo Chopin […]; il Rimsky-Korsakov, il Debussy, lo Strawinsky […], e persino […] l’ombra di Mahler […]. E, quando non parafrasava, valendosi di un mestiere sopraffino, quei grandi modelli, Casella finiva
col rifare il verso a sé medesimo, restando sempre, qualunque cosa
scrivesse, il compositore «del tutto imparziale» di un feroce graffio barilliano. […]23
Nei confronti di Malipiero, le recensioni giornalistiche o
le osservazioni che è possibile reperire nella corrispondenza
sono assai tranchants: «Ero ieri a Venezia e ho avuto modo
19 Lettera di Bortolotto a Dallapiccola, Firenze, [febbraio] 1960 (Fondo Luigi Dallapiccola, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», Firenze).
20 Bortolotto, Il cammino di Goffredo Petrassi, cit., pp. 11-79: 20-21.
21 Id., La serpe in seno. Sulla musica di Richard Strauss, p. 34.
22 «Senza dubbio il pastiche, o diciamo più genericamente, l’ironia e il divertimento stilistico, furono i luoghi tipici in cui Casella adempì alla sua funzione di riattivare una coscienza
strumentale italiana in modo omogeneo all’Europa del tempo»: d’Amico, Il compito di Alfredo Casella (1962), in Id., I casi della musica, Il Saggiatore, Milano 1962 («La cultura. Storia,
critica, testi», LXVI), pp. 462-468: 467.
23 Bortolotto, Elettrico Casella, cit., pp. 333-337: 335-336.
di ascoltare i Mondi celesti e infernali di Malipiero: esecuzione buona, ma il lavoro, quale insopportabile lungaggine! Dispiace, di un vecchio maestro, dover constatare questa penosa aridità inventiva»24 .
Vent’anni più tardi, nel marzo 1982 da Roma, recensendo
per «L’europeo» La favola del figlio cambiato (1934), il giudizio si fa ancora più severo:
Più passa il tempo (Gian Francesco Malipiero è scomparso nove anni or sono) più ci riesce difficile non convenire con l’affermazione di un grande compositore, cui chiedemmo un giorno se ammettesse qualcosa, nell’opera immensa del musicista veneziano:
«Nemmeno una battuta» fu la risposta.
Riascoltare La favola del figlio cambiato sull’esecrabile libretto di
Pirandello, vale rattristarsi assai. […] Se Pirandello, nelle melense
filastrocche, si volgeva verso la poetica del «Corrierino dei piccoli», Malipiero si limitava a riprodurre il recitativo degli aborriti veristi, senza nemmeno uno straccetto della loro incontinenza melodica. Un tenore, per amor di Dio25 .
Ottorino Respighi.
E qui emerge un’osservazione da Bortolotto formulata tra i
primissimi (insieme a lui possiamo ricordare Cesare Orselli
e Piero Santi) e che il pubblico riscontra facilmente all’ascolto (ammesso, come diceva Mila, che le sue orecchie non siano
foderate di «prosciutto ideologico»): ossia che il declamato degli esponenti principali della Generazione dell’Ottanta e quello verista distano più nelle intenzioni che nella sostanza. Se le fonti cui attingono sono diverse – da una parte
il gregoriano e il recitativo arcaico monteverdiano, dall’altra
(con la Giovane scuola) il recitativo durchkomponiert, fluente
dai lombi dell’opera tardoverdiana, dell’opéra-lyrique francese e del dramma wagneriano – la loro scrittura vocale appare in definitiva molto simile, se non del tutto sovrapponibile. (Analogo rilievo viene avanzato anche a proposito della
Donna serpente, ripresa a Palermo sempre nell’82 sulla scia –
insinua Bortolotto – di «tragicomiche nostalgie»: «Casella tenta disperatamente di allargare i [propri] confini espressivi, sperimenta la contrapposizione di farsesco e grave, de24 Lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Dallapiccola, Firenze, 6 febbraio 1961 (Fondo Luigi Dallapiccola, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», Firenze).
25 Id., Che farcene di Malipiero, «L’europeo», XXXVIII, 11, 15 marzo 1982, p. 87.
Franco Alfano.
è drastico: «effetti senza causa»28 . Il «filo che […] salda ben
bene» Respighi, Malipiero e Casella, ribadisce Bortolotto,
«è l’inconfessata vocazione al canto verista»29.
Su Dallapiccola gli interventi di Bortolotto sono limitati,
anche se fra le righe s’intuisce una conoscenza approfondita dell’autore istriano. Oltre a una breve recensione sulle Liriche di Machado ascoltate al Festival di Venezia nel 196730 ,
26 Id., Nostalgia senza magia, ivi, XXXVIII, 17-18, 3 maggio 1982, p. 73
27 Id., Il cammino di Goffredo Petrassi, cit., pp. 11-79: 21.
28 Id., Attenta agli acinaci, Semirâma, ivi, XLIII, 5, 31 gennaio 1987, pp. 50-51. Sull’ultimo
Respighi («gli “accostamenti storici e spirituali […]” si annacquarono sempre più, seguendo
un nazionalismo, per di più letterario, che lo condusse a delirare su non si sa qual carattere “divinamente italico” del gregoriano […] atto a svilire qualsiasi ricerca e trovata armonica, e a spegnere la tavolozza stillante di colori gradevoli in un tedioso continuo d’archi, a sostenere più
o meno il micidiale decorso del declamato. In esso, come nemesi storica, ricompare […] il verismo, contro cui la polemica era stata meno aspra della affinità elettiva»): Id., Non disseppellite
quel cadavere, ivi, XXXVII, 41, 12 ottobre 1981, p. 68.
29 Id., Attenta agli acinaci, Semirâma, cit., pp. 50-51: 51.
30 Id., Note su Venezia, «Lo spettatore musicale», II, 1, gennaio 1967, pp. 14-18: 17: «Le liriche di Machado, musicate da Dallapiccola nel 1948 per voce e pianoforte, trovano nella versione con piccolo ensemble un’altra possibilità. Preferiamo la versione originale: ma è sicuro sempre il fascino di quelle linee vocali, fra le più intime che il musicista abbia pensato».
abbiamo un programma di sala per La Fenice sui Canti di liberazione, risalente al 1964. Qui, nel mentre riscontra l’insegnamento di Webern nella divisione della serie in quattro
tronconi, il critico non si preoccupa tanto delle novità linguistiche (procedimenti a specchio, eliminazione totale delle ottave e delle false relazioni di ottava)31, quanto dello stile
musicale, sottolineando la «continua co-presenza […] di elementi diatonici, tonali o modali, e di tecnica seriale», e, in
particolare nel primo dei tre Canti, «le attrazioni tonali»
(«che in Dallapiccola […] esisteranno sempre»), la ritmica
debussyana di un passo, la rilevanza del fattore timbrico, derivato dall’op. 16 di Schönberg e massimamente riscontrabile nella Piccola musica notturna, infine «la frusciante sonorità dei piatti sospesi, arpa, timpano e celesta, e l’esilissimo inciso di corno e flauto» non attribuibile ad altri che a lui32 . Più
di recente il Nostro si è occupato di Volo di notte (1937-1938,
rappresentato nel ’40) e del Prigioniero (1944-1948, eseguito
in concerto nel ’49, in forma scenica nel ’50): dittico allestito dal Maggio musicale fiorentino nel 2004 sotto la direzione di Bruno Bartoletti33 . Con una certa sorpresa apprendiamo che l’opera più remota, oggi assai discussa sotto il profilo ideologico per la figura autoritaria di Rivière34 e intrisa di
memorie musicali e soluzioni ibride (il blues, lascito della Sonata per violino e pianoforte di Ravel, la fusione fra diatonismo e cromatismo, ecc.), è da Bortolotto giudicata superiore al Prigioniero sul piano drammaturgico. Su quest’ultimo titolo graverebbero infatti memorie pucciniane (l’accordo con cui si apre l’opera rimanda a quello di Scarpia: «mais,
c’est la Tosca», avrebbe commentato, non a torto, Milhaud
udendolo)35 ed episodi retoricamente enfatici (come il canto dei Pezzenti). Nel carteggio con Dallapiccola, Bortolotto
mostra invece di prediligere l’opera più engagé, che nel 1962,
vista a teatro (alla Scala di Milano, accoppiata alla Turandot
di Busoni), è apprezzata proprio per la relazione ambigua che
vi si stabilisce tra bene e male:
Si tratta di cosa stupefacente, di quelle in cui l’attuazione, o il dono del Supreme Commander36 superano le intenzioni. Ne risulta
un groviglio inestricabile di ragioni e di torti che ha l’ambivalenza
della vita stessa, e che è in ogni caso altra cosa affatto dall’opera a
tesi, quale ci rappresentano; o di cui si va cianciando.
La mia «simpatia» per il bieco tenore va aumentando sempre
più e certamente egli può cantare così bene perché è l’unico a sapere che cosa è la libertà: essa è dal cielo […]. Per me si potrebbe anche intitolare Il grande Inquisitore, che sarebbe anche un modo di
onorare Dostoevskij37.
31 Su cui invece insiste Dietrich Kämper, Luigi Dallapiccola. La vita e l’opera, trad. it. di
Laura Dallapiccola e Sergio Sablich, Sansoni, Firenze 1985, pp. 191-206 (ed. or. Gefangenschaft und Freiheit. Leben und Werk des Komponisten Luigi Dallapiccola, Gitarre + Laute,
Köln 1984).
32 Id., Canti di liberazione, in Musiche religiose. «In Memoriam Joannis XXIII», programma di sala, Teatro La Fenice, Venezia 1964, s.i.p.
33 Id., Le prime opere teatrali di Dallapiccola musicista diatonico, «Amadeus», XVI, 9, settembre 2004, pp. 12-13.
34 Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, pp. 289-290; Ben Earle, The AvantGarde Artist as Superman: Aesthetics and Politics in Dallapiccola’s «Volo di notte», in Italian
Music During the Fascisti Period, ed. by Roberto Illiano, Brepols, Turnhout 2004 («Speculum musicae», X), pp. 657-716; Jürg Stenzl, Luigi Dallapiccolas “neues Weg”? Von den «Tre
Laudi» zur Oper «Volo di notte», in Luigi Dallapiccola nel suo secolo, atti del Convegno internazionale (Firenze, 10-12 dicembre 2004), a cura di Fiamma Nicolodi, Olschki, Firenze 2007
(«Historiae musicae cultores», CIX), pp. 265-275.
35 «Un côté puccinien […] è stato segnalato dalla critica parigina in Dallapiccola, e perché no
in Petrassi?»: Bortolotto, Il cammino di Goffredo Petrassi, cit., pp. 11-79: 15 (in rapporto ad
Autunno, prima lirica della raccolta Colori del tempo su versi di Vincenzo Cardarelli, 1931).
36 La stessa espressione, i «doni del Supreme Commander», accompagnata stavolta dall’autore («come Schoenberg diceva» nello scritto On revient toujours, datato 1948 ma edito la prima volta nella silloge Style and Idea) si legge anche nel saggio su Petrassi (ivi, pp. 11-79: 18) a
proposito del Primo Concerto.
37 Lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Dallapiccola, Firenze, 8 marzo 1962 (Fondo Luigi
Dallapiccola, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», Firenze). Asserzioni del tutto sovrapponibili a queste si ritrovano anche in Bortolotto, Canti di liberazione, cit., s.i.p.
Il provetto stregone
sumendola pari pari dall’Ariadne straussiana, e vi inserisce
un’assurda parte di tenore, prova lampante di quante voglie
veriste si nascondono sotto le sofisticatissime poetiche parigine: gli stantuffi di Cocteau, in luogo del cuore, o i ribollenti visceri mascagnani?»26 Quanto all’assolo di Miranda con
coro a cappella in apertura dell’Atto iii, da sempre considerato uno dei momenti più riusciti dell’opera, aveva provveduto a liquidarlo già nel ’64: «Certi arcaismi della vocalità italiana […] appartengono assai più alla storia della nostra
cultura che a quella della musica. Comprensibile che gli allievi di Casella [leggi Fedele d’Amico] potessero entusiasmarsi per il rifacimento del madrigale drammatico, per il ricalco di Vecchi o Biancheri, che è il Lamento di Miranda»27).
Anche su Semirâma di Respighi (1910), opera di cui si irride il libretto (di «tale Alessandro Cerè […] un bravo giovanotto, giustamente innamorato del divino D’Annunzio. Sono, si sa, amori pericolosi») e si apprezzano certo moderno
spessore sinfonico, certe raffinatezze timbriche («ben pochi
in Italia la sapevano tanto lunga»), ricondotte in un alveo
wagnerian-straussiano (un «delirio di identità»), il giudizio
77
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
78
Impressione riaffermata a oltre quarant’anni di distanza, dopo l’ascolto fiorentino: «[Il] torturatore [è] di lui [il
Prigioniero] ben più vitale. […] Finisce col richiamare su di
sé tutto l’interesse, e sui due sacerdoti che forse fanno parte dell’orribile inganno […]. Il meglio dell’opera è nella fuga dalla cella».
Né va dimenticata la lettera scritta da Dallapiccola durante la stesura del fortunato libro Introduzione al Lied romantico, in risposta a una richiesta esplicita di Bortolotto: «So
che lei conosce perfettamente la letteratura liederistica: mi
farebbe cosa pergrata inviandomi l’indicazione di qualche
Lied su cui si erano esercitate le Sue straordinarie capacità di
vivisezione»38 . In una nota a piè di pagina, lo studioso ringrazia esplicitamente il compositore per alcune osservazioni riguardanti sia il quarto brano della Dichterliebe («Wenn
Ich in deine Augen sehe») sia la frequenza, nei Lieder come nelle opere pianistiche, della conclusione con la «semplice terza»: «Devo il bellissimo esempio a Dallapiccola».3940
Nel n. 4 la ripresa al pianoforte della frase iniziale è sospesa: il pianoforte sillaba sul Si il
suo «Wenn ich in deine Augen
seh’», troncando sulla prima
sillaba del sostantivo Augen. Su
di essa il suono armonico (Re),
ottenibile con opportuno uso
del pedale, scende a illuminare quello sguardo, ad accendere
un incantato Augenlicht39.
Le unisco due osservazioni fatte in pratica e in teoria.
La prima riguarda il n. 4 della Dichterliebe, in cui (e per la
prima volta) vengono usati i
suoni armonici del pianoforte.
Che l’effetto da me segnato in
foglio a parte non venga usato
non è altro che una dimostrazione della sordità dei pianisti. Ma nessuno potrà contestare che, con la «mia» pedalizzazione, il Do risulta chiarissimo
– derivando dal Fa grave e dal
Fa all’ottava (questo secondo
«suonato»). Se il primo pezzo
della Dichterliebe aspetta l’attacco del secondo per «risolvere», questo quarto pezzo rimane sospeso a mezz’aria. Il pianoforte sillaba sul La: «Wenn
ich in deine», alla prima sillaba
del sostantivo Augen interviene
il suono armonico. Una «ripresa» del primo verso sottintesa e
non conclusa 40 .
Il rapporto fra i due, basato su una stima tutt’altro che esente da una certa diffidenza guardinga e da qualche puntura
38 Vedi lettera del 27 gennaio 1961, di cui alla nota 3. Analoga richiesta era stata avanzata
anche a Petrassi (lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Petrassi, Roma, 3 febbraio 1961: Fondo Petrassi, Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina), ma senza risultati apparenti.
39 Bortolotto, Introduzione al Lied romantico (1962), Milano, Adelphi, 19842 («Piccola Biblioteca», 165), p. 123.
40 Lettera di Dallapiccola, da Firenze, a Bortolotto, Pordenone, 1° febbraio 1961 (Fondo Luigi Dallapiccola, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», Firenze). Vi si legge ancora: «[Il libro sul Lied] mi interessa in modo particolare. […] Come molti della mia generazione mi sono
nutrito anch’io del Lied romantico: che oggi la generalità se ne sia distaccata è più che logico. In
un mondo in cui la pederastia sta prendendo ogni giorno più piede è naturale che sia proprio il
Lied romantico a cadere non presentando più alcun interesse. […] L’altro es riguarda il n. 9. Ho
creduto di dover usare il Sustaining Ped onde isolare la terza. La “corona” a mio modo di vedere
dovrebbe riguardare soltanto questa terza maggiore, intervallo tanto amato da Schumann».
aguzza 41, si concluderà bruscamente a seguito del comportamento tenuto da Bortolotto durante la prova generale di
Ulisse al Teatro alla Scala, nel gennaio 1970 (ma va notato
un buco nella corrispondenza – a meno che eventuali missive non siano andate perdute – tra il ’65, quando Dallapiccola riceve in conservatorio una cartolina su cui si legge: «Eja,
carne del Carnaro! Alalà»42 , e il ’70):
Sapevo che Ella era stato a Milano. […] Lo sapevo perché se i miei
occhi sono tutt’altro che acuti, le mie orecchie sentono molto bene. Non avevo dunque fatto fatica a riconoscere la Sua voce. Ella si
è «divertito» nel vedermi «cantare tutta l’Opera». Non cantavo:
stavo sacramentando perché i cantanti, giustamente, si erano rifiutati di cantare […] e la Scala non aveva avuto il coraggio di chiudere le porte ai critici […].
Se Ella si è divertito nel vedermi cantare, io non mi sono affatto
divertito sentendo la Sua voce dal palco in continuazione. […] Ad
altri, forse, avrà offerto ancora una volta preziose illuminazioni43 .
Luigi Dallapiccola.
Bortolotto avanza una strenua autodifesa (lettera del 1°
marzo 1970), Dallapiccola sembra disposto a «conciliare.
Ora, dalla sua lettera, mi sembra di poter dedurre che, nel
palco della Scala, Ella protestava contro l’organizzazione del
«primo teatro del mondo». Come facevo io, dalla platea.
Lietissimo per l’unità di vedute. E non se ne parli più» (17
marzo 1970), ma, in effetti, finì che i due non si parlarono
più.
Superfluo, infine, dilungarsi su Petrassi: Bortolotto, forte di un rapporto confidenziale e amichevole con l’artista,
è stato non solo il critico ufficiale e più agguerrito (venen41 Ho già ricordato l’ironia di Bortolotto su Tartiniana; posso aggiungere questo passo,
Domani ipotetico, in Consacrazione della casa, cit., pp. 183-210: 191: «In Webern la serie vale a preparare il materiale. In Schoenberg essa, invece, non è univoca: fra i suoi modi d’uso, il
compositore […] accoglie largamente la configurazione melodica […]. In questa operatività è
già composizione, e non predeterminazione mera: idea, questa, che passerà, divenendo centrale in Berg appunto e, ancor più vistosamente, in compositori periferici: poniamo in Dallapiccola» (corsivo mio).
42 Accanto a quella di Bortolotto vi si legge la firma del compositore veneto Francesco Carraro. La frase citata è tratta dalla dannunziana Canzone del Carnaro, musicata nel 1930 da un
giovane Dallapiccola ancora fervente fascista.
43 Lettera di Dallapiccola, da Firenze, a Bortolotto, 22 gennaio 1970 (Fondo Luigi Dallapiccola, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», Firenze).
45
46
Goffredo Petrassi.
sizioni più speculative, a cominciare dal Concerto per flauto e orchestra (1960): in esso «m’è parso nuovo, e interessante, il senso del tempo: dà come l’impressione di oggetto sottratto al divenire, allo scorrere normale. In questo è un po’ la
sua opera “giapponese” […]. Sono invece un po’ in dubbio su
certe zone di orchestra, specie i tenuti lunghissimi: creano
una tensione angosciosa che non mi pare collimi col resto»49.
Il riconoscimento di questa «novità» sorretta dal magistero tecnico dell’artifex («raffinatezza da mandarino, […] vera
magia»), invoglia lo scrivente a «sorridere alle vecchie definizioni dei Suoi critici», la «chiarezza latina, [la] trasparen44 D’Amico, Goffredo Petrassi, Edizioni di Documento, Roma 1942.
45 Roman Vlad, Petrassi (1949) e La «Noche oscura», in Id., Modernità e tradizione nella musica contemporanea, Einaudi, Torino 1955 («Saggi», 193), pp. 217-231 e 232-235.
46 John S. Weissmann, Goffredo Petrassi, Suvini Zerboni, Milano 1957; New edition (revised), ivi, 1980
47 Mi limito a ricordare: Bortolotto, Ottetto degli addii, «Lo spettatore musicale», VI, 2,
marzo-aprile 1971, pp. 6-8; Id., Il compositore: momenti di distensione e punte accanite di ricerca, «Amadeus», XV, 6, giugno 2003, pp. 47-49. Di grande interesse anche l’intervista a Petrassi comparsa sullo «Spettatore musicale», I, 2, febbraio 1966, pp. 8-10.
48 Lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Petrassi, Roma, 15 dicembre 1962 (Fondo Petrassi,
Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina).
49 Lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Petrassi, Roma, s.d. [1961.] (Fondo Petrassi, Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina).
za mediterranea» provocatoriamente esaltate (contro i sostenitori di un’«italianità» reazionaria) da Casella50 , soprattutto la posizione assunta da d’Amico, propenso, nel libro
del ’42, «a elidere tutti i nessi fra Petrassi e la coeva situazione
artistica europea», secondo ne scrisse, con un po’ di giovanile oltranzismo semplificatorio, Claudio Annibaldi51. Anche
in queste lettere, troviamo espressioni che dalla veste privata passano alla pagina a stampa: il Propos d’Alain «andrà benissimo come chiusa [della monografia], essendo il “sugo di
tutta la storia” per davvero»52; frase che nel saggio diviene:
«Autobiografico per eccellenza è certo questo Propos, che ha
ambito di aggiungere una morale alla lunga vicenda compositiva, ovvero dare il sugo di tutta la storia» (p. 77).
Il rapporto artista-esegeta si spinge fino a includere un côté,
per così dire, operativo: Bortolotto suggerisce, esorta anzi
Petrassi a comporre un duo ispirandosi alla Sonata per violino e violoncello, di Ravel: invano. Riesce però a distoglierlo
da un progetto operistico sul Gattopardo di Tomasi da Lampedusa: «Non sono d’accordo. Immagino quello che è suo,
in quell’opera: le stelle, che permettono di riprendere il discorso sfortunato di “Morte dell’aria”. Quello che non capisco, è come si possa pensare a mettere in scena personaggi vestiti con la moda del ’60 [1860], per finire con quella del
’910, quando la musica non è quella di Barber, o di Menotti […], ma la Sua più recente. […] Certo, Lei diceva: faute de
mieux»53 Al posto del romanzo storico-psicologico consiglia
testi teatrali a sfondo simbolico, quali Under Milk Wood di
Dylan Thomas (un radiodramma del 1954) o Venezia salva di Simone Weil, tradotto in italiano da Cristina Campo,
buona amica di Bortolotto.
Lo scambio epistolare consente anche di ricostruire la travagliata genesi dello studio sul compositore laziale: chiesto
da Petrassi (favorevolmente impressionato dalle ventitré pagine sulla sua produzione 1957-1960 pubblicate da Suvini
Zerboni)54 per conto di un editore tedesco, che dapprima ridurrà il numero delle pagine a disposizione, poi si darà alla macchia, vergato a mano nell’autunno-inverno 1961-1962
(dopo Introduzione al Lied romantico, e intrecciandosi alla
stesura di un saggio su Stockhausen e dei libri, mai conclusi,
su Gesualdo e sulla musica italiana del Novecento), invano
offerto ad Alberto Mantelli per l’«Approdo musicale» (una
rivista pubblicata dalla rai), nell’estate del ’63 trova infine
accoglienza tra le generose (non di denaro, però) braccia di
Guido M. Gatti e dei neonandi «Quaderni della Rassegna
musicale». Dopo averlo consegnato all’editore, con grande
franchezza Bortolotto preciserà: «Avrei voluto che lo scritto
fosse solo obbiettivo, invece finisce per trapelare tutto. Non
mi dispiace troppo in fondo. Si vedrà quanto abbia amato anche cose sbagliate, tipo Morte dell’aria: oggi è più importante che un lavoro sia giusto (juste) che non bello, o perfetto. I
lavori di Igor [Stravinskij] sono sempre più perfetti, e sempre
meno giusti»55. ◼
50 L’articolo di Casella, Al Festival di Amsterdam. Le nuove tendenze musicali, «L’Italia letteraria», 2 luglio 1933 («[La Partita di P. ] pareva un modello di chiarezza latina, di trasparenza mediterranea, di armonioso giuoco di forme, di timbri e di melodie. […]. Questa nuova
vittoria [della Partita] […] vale a dimostrare una volta di più la esistenza in Italia di una corrente musicale ad un tempo internazionale per quanto riguarda la natura degli interessi affrontati e risolti, e nondimeno profondamente nostra per lo spirito che anima quella musica») è cit.
in Fiamma Nicolodi, Ricezione del primo Petrassi, «Nuova rivista musicale italiana», XL (X
n.s.), 2, aprile-giugno 2006 (atti del Convegno internazionale di studi Petrassi. L’arte, il tempo, le idee, Roma, Accademia nazionale di Santa Cecilia, 1-3 ottobre 2004), pp. 195-216: 215.
51 Claudio Annibaldi, Trent’anni di critica petrassiana, «Quaderni della Rassegna musicale», 1, cit., pp. 111-32: 117.
52 Lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Petrassi, Roma, 12 ottobre 1961 (Fondo Petrassi,
Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina).
53 Vedi lettera s.d. [1961], di cui a nota 49.
54 Bortolotto, Le opere di Goffredo Petrassi 1957-1960, Suvini Zerboni, Milano s.d. [1960].
55 Lettera di Bortolotto, da Pordenone, a Petrassi, Roma, 13 agosto 1963 (Fondo Petrassi,
Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina).
79
Il provetto stregone
do dopo d’Amico , Vlad , Weissmann ), ma anche quello che meglio ha saputo penetrare il linguaggio, lo stile e, soprattutto, la «necessità immanente allo svolgersi del cammino» del musicista laziale quale si rivela fin dalla Récréation concertante (Terzo concerto per orchestra, 1953): il suo
tendere alle «esperimentazioni e invenzioni sempre più radicali» (Il cammino di Goffredo Petrassi, p. 52). Per dirla in
modo ancor più chiaro: «Il senso dell’evoluzione di Petrassi, la sua vera lezione, la più profonda [sta] appunto in questo
lento corrodere i nessi, i legami, i rapporti del linguaggio ereditato per arrivare a una propria elaborazione dell’universo
pancromatico, seriale o no» (p. 15). Questa «lettura […] volutamente tendenziosa» (ribadita in tutti i contributi successivi, in vita e in morte di Petrassi)47 emerge anche dalle
lettere (quelle da me consultate risalgono per lo più al triennio 1961-1964), dove s’incontrano confessioni di questo tipo: «Nulla mi piace di più della Sua astrazione […] e dell’arabesco inarrivabile»48 , e dove abbondano le lodi alle compo44
VeneziaMusica e dintorni
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Le collaborazioni di questo numero
• Eugenio Bernardi (pp. 16-17)
già Ordinario di Letteratura Tedesca
all’Università Ca’ Foscari di Venezia
• Gualtiero Bertelli (pp. 45-46)
Cantautore
• Enrico Bettinello (p. 20 e p. 44)
Giornalista – Critico musicale
Direttore artistico
del Teatro Fondamenta Nuove
• Oreste Bossini (pp. 30-31)
Giornalista – Conduttore radiofonico
• Giorgio Brunetti (p.66)
Vicepresidente Fondazione Teatro La Fenice
• Alberto Castelli (p. 35)
Musicologo
• Stefano Cecchetto (p. 59)
Critico d’arte
• Massimo Contiero (p. 11)
Musicologo
Direttore del Conservatorio
«Benedetto Marcello» di Venezia
• Denis Curti (p. 55)
Direttore scientifico della Casa dei Tre Oci
(Venezia)
• Gianni De Luigi (p. 60)
Regista
Fondatore dell’Istituto
per la Commedia dell’Arte Internazionale
• Vitale Fano (pp. 12-13 e p. 23)
Musicologo (Università di Padova)
• Mario Gamba (pp. 28-29)
Critico musicale
• Fiamma Nicolodi (pp. 74-79)
Università di Firenze
• Giuliano Gargano (p. 39)
Giornalista
• Marina Pellanda (p. 62)
iuav di Venezia
• Tommaso Gastaldi (p. 38 e p. 41)
Giornalista freelance
• Jacopo Pellegrini (p. 73)
Critico musicale
• Margherita Gianola (p. 24)
Organista titolare della Basilica dei Frari
di Venezia
• Giorgio Pestelli (p. 14)
Critico musicale
Già Ordinario di Storia della musica
all’Università di Torino
• Giovanni Greto (p. 64)
Critico musicale – Musicista
• Giuseppina La Face Bianconi (p. 63)
Università di Bologna
• Fernando Marchiori (pp. 48-49)
Critico teatrale
• Manuela Pivato (p. 72)
Giornalista
• Roberta Reeder (p. 43)
Direttore artistico dell’Associazione
culturale MusicaVenezia
• Andrea Oddone Martin (p. 26)
Critico musicale
• Enzo Restagno (p. 21)
Musicologo – Direttore artistico
del Festival MiTo SettembreMusica
• Mario Messinis (p. 27)
Critico musicale
• Eva Rico (p. 56 e p. 57)
Storica dell’arte
• Guido Michelone (p. 34 e p. 40)
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Conservatorio di Musica «Antonio
Vivaldi» di Alessandria
Critico musicale
• Alberto Sabatini (p. 25)
Organista della Basilica del Santo
di Padova
• Letizia Michielon (p. 36)
Musicista – Critico musicale
• Gabriella Minarini (pp. 70-71)
Musicologa
• Giordano Montecchi (pp. 32-33)
Critico musicale
Conservatorio di Parma
• Mirko Schipilliti (pp. 18-19)
Musicista – Critico musicale
• Arianna Silvestrini (p. 22)
Giornalista freelance
• Marianna Zannoni (pp. 68-69)
Dottoranda a Ca’ Foscari (Venezia)