Intervista
domenica 29 maggio 2011
13
La musica “onnivora”
Da Michael Jackson
ai Police, da Battisti
ai Muse: classici pop
riletti e brani inediti
dal più eclettico
quartetto d’archi
italiano nel nuovo
disco “Something
Gnu”. Un’operazione in
bilico tra virtuosismo
e ironia, di cui ci parla
con passione la viola
Raffaele Rebaudengo
del Gnu Quartet
accademica, ma siamo accomunati dall’insofferenza per il blocco
impomatato di nozioni che uno
deve semplicemente apprendere
ed eseguire. Successivamente, abbiamo tutti avuto una formazione
sul campo in rami musicali non
previsti dagli studi, e poi ci siamo
trovati grazie alla Pfm, che ci ha
contattato per una serata al Teatro nazionale di Milano dedicata a
Fabrizio De André. È in quell’occasione che si è formato il quartetto
per la prima volta: insomma, non
abbiamo iniziato a suonare nelle cantine. Magari, molti, dopo il
Conservatorio, non avrebbero gradito, ma noi eravamo entusiasti. E
da quell’esordio incredibile, con
colpi di fortuna e tanto lavoro, siamo andati avanti.
Una scelta comunque confortata da una preparazione alta.
Siamo tutti diplomati, o addirittura pluridiplomati, al Conservatorio. Abbiamo una formazione
Vi siete formati solo nel 2006 e,
fino ad oggi, avete collaborato
con tutti i più significativi artisti italiani: Afterhours, Subsonica, Gino Paoli, Baustelle, etc.
È stata un’impresa adattarsi a
musicisti così differenti?
Non è stato difficile: il nostro
aspetto onnivoro non ci fa sentire queste differenze specifiche.
C’è un tratto comune, dal punto
di vista professionale e passionale, che teniamo sempre presente:
quello della preparazione, nel
momento di scrivere e di provare in studio, che vale sia se lavori
Quali sono i vostri prossimi
impegni?
L’appuntamento live di Roma è
stato quello centrale, ora ci dedichiamo alle presentazioni nelle
librerie e agli house concert, dove
si suona in una casa a sorpresa
per un gruppo ristretto di persone, mentre in autunno Something
Gnu uscirà anche in Giappone e
in altri Paesi europei. Ieri abbiamo inoltre suonato all’European
Jazz Expo di Cagliari, dove abbiamo avuto l’onore di esibirci insieme al sassofonista Francesco
Bearzatti, con cui forse nasceranno altri progetti. Rispetto alle
collaborazioni precedenti, a questo punto, possiamo permetterci
di lavorare con certe tipologie di
musicisti, scollandoci dalla parola cantata. In Italia c’è un equilibrio difficile con cui vivere, perché il ruolo del cantante finisce
per adombrare tutto quello che
c’è intorno. E per noi è il momento di fare quel passo in più.
landese. Così cornamuse, violini,
fiddle e banjo iniziarono a girare
a cento all’ora, in un vortice di
racconti di bevute, inni alla patria,
lotte di classe e sana sanguigna
ebbrezza. Suggestioni che, se funzionano a casa propria, si elevano
all’ennesima potenza quando si è
oltre confine, nostalgici dei propri
colori. È con queste intenzioni
che, nel 1997, il cantante Dan King,
emigrato dall’Irlanda alla California, mise su una band, chiamandola Flogging Molly, in omaggio
al pub losangelino Molly Malone,
che ospitò le loro prime riuscite e
ballatissime esibizioni. Da allora,
la cifra artistica e la spontaneità
del sestetto è rimasta intatta nel
corso di cinque dischi in studio e
due dal vivo, come mostra chiaramente l’ultima produzione Speed
of Darkness (il primo album per
l’etichetta fondata dagli stessi
Flogging Molly, la Borstal Beat records, dopo il lungo trascorso con
la Side One Dummy), freschissimo di stampa e catapulta ideale
per una serie di esibizioni dal vivo
che toccheranno anche l’Italia, il
15 giugno al festival Rock in IdRho
di Milano.
La cornice che ha ospitato la registrazione delle dodici tracce si
chiama Echo Mountain, una chiesa situata ad Ashville, in North
Carolina, e convertita in studio.
Qui è nato il nuovo viaggio a tutta
velocità, diretto dal producer
Ryan Hewitt, già collaboratore dei Red Hot Chili Peppers, e
proiettato su una dimensione
più ampia, quasi un concept
album militante, pensato dai
vivaci rampolli d’Irlanda come
antidoto per esorcizzare le tante paure che serpeggiano nella
terra dove abitano, gli Stati Uniti d’America, avvolti da una profonda crisi economica, sociale
e politica. E la missione, compiuta, è diventata: superare in
accelerazione questa Speed of
Darkness, cioè la “velocità delle
tenebre”. Naturalmente a raffiche poderose di celtic punk.
d.c.
La band Gnu Quartet
Diego Carmignani
C
on il vostro ultimo lavoro, Something Gnu, confermate di poter fare
vostro ogni genere musicale.
Come è avvenuta la selezione
dei brani?
I brani scelti ci davano tutti la
possibilità di esprimere qualcosa
che ci stava a cuore, le nostre tante anime. Sono tracce dal sapore
vario e stilisticamente differenti
l’una dall’altra. Metterle insieme, e
dare ad esse un aspetto congruo,
fa parte del gioco che ci caratterizza anche dal vivo: intrattenere
l’appassionato di jazz, il ragazzino
che ascolta il rock e l’intenditore di
musica classica (che magari viene
al concerto tradito dai nostri strumenti...). Alla fine, secondo noi,
facciamo tutti contenti, sia nei live
che nell’ascolto del cd.
Immagino che la scelta delle cover, da “Beat it” a “Misread”, da
“Mègu Megùn” a “Una giornata
uggiosa”, sia una sintesi dei gusti di ciascuno dei membri.
Mettendo insieme le preferenze
musicali di tutti e quattro, possiamo dire che siamo una formazione decisamente onnivora. Ci sono brani che a me non
sarebbe mai venuto in mente di
vestire col nostro abito, ma che
invece funzionano a meraviglia.
Per la versione che siamo riusciti a tirare fuori, il mio preferito
è “Message in a bottle”, mentre
forse, nell’originale, prediligo
“Norwegian wood”. Ma è la canzone dei Police che ha convinto
tutti: abbiamo preso la bottiglia,
l’abbiamo messa dentro a una
botticella, poi dentro a un termosifone, per ributtarla di nuovo in mare.
Rimedi irish per tempi bui
Tradizioni irlandesi e carica rock. Con Speed of
Darkness, si rinnova la formula magica dei re
del celtic punk: i losangelini Flogging Molly
Tra i virus più resistenti nel
mondo della musica c’è quell’attitudine chiamata punk che,
da che è stata inventata, si accoppia felicemente con qualsiasi altro genere, fungendo da
potente detonatore esplosivo.
La miccia più lunga negli ultimi tempi è senz’altro quella
del gipsy punk, con fenomeni
come i Gogol Bordello a farla
da padroni sui palchi di mezzo
mondo, ma se di contaminazione
con tradizione folk bisogna parlare, è l’irish punk, detto anche
celtic punk, il mix più longevo e
storicamente significativo, a partire dai padri scavezzacollo Pogues,
guidati da Shane MacGowan dal
1982 e ancora sulla breccia.
L’intuizione fu di declinare secondo le esagitate nuove leggi
del punk rock le già forsennate
antiche proprietà della musica ir-
Con l’acquisizione di un’identità sintetizzata dal vostro nome:
Gnu Quartet...
È nato come calembour che poi
abbiamo mantenuto e più andavamo avanti più somigliavamo a
uno gnu, animale indefinito per
eccellenza. Un anno fa è successo che un assessore sardo, nel
presentarci al pubblico, ci ha “rivelato” perché ci chiamiamo Gnu
Quartet. Ci descrisse così: «Hanno il corpo del musicista classico,
il cervello del jazzista e le zampe
del rockettaro».
con Paoli che con gli Afterhours.
Quel che conta, nei singoli artisti,
è la cognizione di armonia e, nel
tempo, abbiamo risucchiato da
loro le capacità di gestire il palco
e di trattare il repertorio. Manuel
Agnelli, ad esempio, è uno che
non ha preparazione accademica, ma canta serenamente in re
maggiore facendo un accordo di
mi maggiore sotto, mentre Rita
Marcotulli ti mette in imbarazzo
per la sua incredibile padronanza dell’armonia, ma che magari
non ha la comunicazione fisica
di Agnelli. Se prendi da ogni artista quello che a te piace di più, ti
arricchisci. La musica si chiama
così perché tiene dentro tutto,
come uno scaffale di cd può contenere da Sofija Asgatovna Gubajdulina a Bill Evans. La differenza
tra pop e classica è in quale modo
li fai: bene o male. E noi siamo
stati fortunati a lavorare con gente che fa tutto bene.
Mi sembra che la vostra carta
vincente sia un sapiente uso
dell’ironia, presente in ogni episodio del disco.
È una delle nostre cifre stilistiche
trattare l’argomento musica con
ironia e leggerezza. L’aspetto serio è quello che coltiviamo a casa,
quando prepariamo le cose dal
punto di vista tecnico. A noi piace che si fruisca la musica divertendosi. Quando si percepisce da
parte del pubblico una difficoltà
di comprensione, significa che
qualcosa non va. Se si eccede nel
virtuosismo, allora si perde l’ironia
e la musica finisce per diventare
una questione personale.