di Daniele Garbuglia e Tommaso Soldini

22
Voci
sabato 24 gennaio 2015
Piccolo sillabario
di Daniele Garbuglia e Tommaso Soldini
Due scrittori, uno italiano e l’altro svizzero,
un’amicizia che è un confronto continuo,
in presa diretta, sui motivi, gli ostacoli,
le sfide dello scrivere oggi. Un oggi
di continuo provocato da cambiamenti
geografici, conflitti, trionfo della tecnologia.
Un confronto che prosegue nelle voci di
questo ‘Piccolo Sillabario per Sarajevo’,
nato per la Settimana italiana della lingua
nel mondo, sotto la stella protettiva
e in onore dei Sillabari di Goffredo Parise,
immensa passione comune.
scrittore. La maggior parte di noi, ne sono sicuro, ha ancora voglia di sentire la carta sotto i
polpastrelli, di odorarla, di sentirsi rassicurato
dalla presenza dei dorsi tanto amati nelle variopinte librerie delle proprie case. Basta lanciare un occhio e subito una storia letta attraversa il campo visivo e scatena ricordi. Allo
stesso modo gli scrittori penso che desiderino
ancora vedere la propria storia reificata, diventata oggetto vero e proprio, pezzo di realtà sensibile e tangibile. Si potrà rinunciare a tutto
questo? Il libro digitale riuscirà a cambiare
queste nostre pluricentenarie abitudini? No.
Ne sono sicuro. Noi potremo ancora comperare i nostri libri preferiti, in edizione tascabile o,
quando ce lo possiamo permettere, in quelle
belle vesti cartonate, con il nome dell’autore
che spicca in nero sopra il titolo, occupa spazio, fette di mondo. Possiamo fare finta di niente, dunque. Ma l’attacco, in questo caso, è già
stato sferzato. Molti miei allievi posseggono
già un e-reader e lo riempiono di libri scaricati
o comperati per pochi euro. Libri che compaiono in una qualche interfaccia sotto forma di
nota bibliografica, lista o elenco di ciò che è
possibile leggere. E fino a qui tutto bene. Queste persone daranno forma a nuove esperienze, disegneranno nuovi riti, nuovi universi percettivi. Pagando meno, molto meno. Quello che
ci dobbiamo chiedere è se cambierà anche il
modo di produrre letteratura, di distribuirla, di
scriverla. È questa, secondo me, l’unica domanda.
A come Amicizia
Una volta portava gli occhiali, spessi e un po’
vintage, come quelli di uno scrittore che sembra uscito da un cinematografo, da un oratorio
o da una casa di piacere degli anni 20. Il naso
da esule fiorentino, i baffi neri neri. Io non sono
mai stato bravo a ringraziare le persone, forse
nemmeno a volermi un poco di bene.
Garbuglia è la parte buona della nostra amicizia, ve ne renderete conto tutti entro poco. I
personaggi come lui cominciano a entrare nei
romanzi di Musil e di Thomas Mann, di Walser
e di Bernhard. Ecco perché mi vuole bene, forse, per tutti i Thomas della Mitteleuropa, per
tutti quelli che riescono a vedere, nel foro di un
proiettile in una casa, la guerra di religione, lo
scontro tra popoli, la violenza della natura
umana, ma anche la tristezza del cecchino per
la prematura scomparsa del figlio, malato di
tubercolosi e appassionato di sassi lisci a forma di stella, che cercava tutti i giovedì pomeriggio nel letto del fiume a pochi metri da casa
sua. E ancora la piccola pallottola di carta
bianca quadrettata, inumidita nella bocca e infilata in una cerbottana ricavata da un cancellino rinsecchito, infine soffiata da un ragazzino proprio in quel buco, al settimo tentativo,
sotto gli occhi di una sua compagna di scuola,
che mentre lui cercava di farsi bello, in cuor
suo, sperava che ce la facesse, che ci riuscisse a
sentirsi bello, perché per lei lui lo era già.
Gli autori sono quello che cerco e che, credo,
cercano tutti quelli che amano la letteratura.
Vogliamo che le storie, lunghe o brevi che siano, riescano a raggiungere la profondità del
nostro essere, riescano a raccontarci ciò che
siamo o ciò che potremmo essere, magari anche quello che non vorremmo mai diventare, o
ancora quello che saremmo potuti diventare.
Può fare male, la letteratura, può e forse dovrebbe certe volte avere il coraggio di dirci proprio quello che molti, il più delle volte, preferirebbero scordare. È come un’amicizia, la letteratura, tutti ne parlano, tutti la elogiano, quanti
hanno davvero lo stomaco per sopportarla?
B come Biblioteca di Sarajevo
È il simbolo di quanto vorremmo che ci fosse
in Europa in questo momento. Ma che cos’è un
simbolo? Simbolo, tra gli altri significati, deriva dal greco συμβάλλω e significa proprio
“mettere insieme, far coincidere” (comp. di
σύν “insieme” e βάλλω “gettare”).
Da una parte la memoria di quanto è accaduto –
anche di drammatico e crudele – nel recente
passato. Guardare al passato con gli occhi rivolti al presente e al futuro, in un movimento
polare continuo e mai pacificato.
Dall’altra è il simbolo della partecipazione alla
creazione di un presente e di un futuro. Per
giorni centinaia di cittadini (bosniaci, serbi,
croati e molti altri) hanno lavorato per salvare
i libri salvabili. Molti ne hanno portati fuori e
nascosti nelle cantine. “Sarajevo cuore d’Europa”, si chiamava un progetto di solidarietà lanciato in quei giorni dall’Associazione per la
Pace. L’Università di Siena e centinaia di intellettuali lanciarono una campagna di sostegno
per ricostruire la Biblioteca di Sarajevo. Iniziative analoghe si organizzarono in tutto il
mondo.
La cerimonia ufficiale d’apertura si è tenuta il
9 maggio, una data che coincide con la “Festa
dell’Europa”, quella che ricorda la Dichiara-
F come Fantasy
Largo all’immaginazione
zione Schuman e celebra l’unità dell’Europa.
Sarebbe facile ricordare gli incendi di altre
grandi biblioteche, come quella di Alessandria,
e trovare in quella chiave di lettura segni e presagi che gettano una oscura luce sui grandi
cambiamenti del nostro tempo. C’è della polvere in quel fascio di luce, piccole particelle che si
mescolano ai residui dei bombardamenti, ai
sassi sbriciolati dalle detonazioni, la forfora e il
sudore dei bibliotecari, dei volontari che hanno trattenuto il pianto per salvare piccole macchie d’inchiostro tutte uguali tra loro, eppure
così potenti accostate in milioni di modi differenti.
So che qui, oggi, tutti siamo d’accordo, pensiamo che quelle donne e quegli uomini siano degli eroi. Siamo contenti che si siano trovati i
fondi per ristrutturare l’edificio, per riordinare
i libri e noi stessi, metterli al loro posto sugli
scaffali. Io provo sentimenti diversi per i libri
sugli scaffali. Se alzo lo sguardo proprio adesso, vedo nella mia memoria le copertine dei libri che ho già letto, riconosco subito quelli che
mi hanno segnato, che avrei voglia di rileggere,
quelli che ho faticato a concludere, quelli che
non so se ne sia valsa la pena, ma soprattutto
vedo quelli che ancora non ho letto, accatastati
in mille posti, silenziosi eppure giustamente
arrabbiati con me. “Cosa mi hai comperato a
fare, se poi non mi leggi?” sembra mi dicano. Io
provo a spiegarglielo, che ce la metto tutta, ma
sono fatto così. Più di un libro alla volta non
riesco. Ci sono quelli che mi servono per il lavoro, di cui non posso fare a meno, quelli di autori
italiani contemporanei, che devo leggere per
restare informato, per confrontarmi, quelli del
passato, delle altre culture, i classici, i saggi, le
raccolte di poesia, i libri degli amici, o i manoscritti, che vanno letti subito, il più presto possibile. Lo sai quanto è difficile aspettare, ci sei
passato e ci ripasserai. Piano, mi viene da urla-
TI-PRESS/DAVIDE AGOSTA
re, piano! Le storie non vanno consumate, vanno assaporate, gustate, centellinate, godute,
sofferte. Ci vuole tempo per tutto questo, ci
vuole pazienza, ci vuole coraggio.
I libri sugli scaffali non stanno bene, lo so. Vorrebbero sgualcirsi tra le mani di qualcuno, vorrebbero provocare o rallegrare o immalinconire, insegnare, ripugnare. Credo che anche per
questo si debba ammirare chi ha rischiato o
donato la propria vita per salvare dei libri sotto
il fuoco dei cecchini. Non hanno salvato solo i
volumi, la storia, la memoria, hanno curato anche le mie emozioni, il sentimento che ho di
me stesso, la speranza che posso provare
quando una storia ha cominciato a sfiorarmi
gli occhi e le orecchie.
C come Casagrande
È il nostro comune editore, una piccola casa
editrice svizzera, con sede a Bellinzona. La sua
scommessa, oltre a quella di raccontare il proprio territorio, è stata quella di mettere insieme un catalogo europeo, crocevia di lingue e
tradizioni letterarie diverse. Accanto ad autori
di lingua italiana, sia ticinesi che no, ci sono
autori francesi, tedeschi, di lingua inglese o appartenenti a lingue minoritarie.
L’altra scommessa è stata quella di unire grandi nomi del passato a esordienti; qualità letteraria e qualità tipografica poi, con libri raffinati ma popolari al contempo. Curati in ogni minimo particolare. Una casa editrice al confine
geografico tra lingue, una casa di confine.
D come Digitale
Il libro digitale c’è ma non si fa sentire, non ha
modificato di tanto il nostro modo di intendere
la lettura, la letteratura, ma soprattutto i modi
di produrre, editare, distribuire il lavoro dello
Ho sempre sperato che i miei figli riuscissero a
stabilire da subito un rapporto felice con la lettura. Perciò la mia compagna ed io abbiamo
dedicato molto tempo alla lettura con i bambini e tutte quelle cose sane che fanno i genitori
normali. Gettare le basi e poi vedere cosa succede.
È successo che mia figlia maggiore è diventata
una lettrice instancabile di fumetti, di Charlie
Brown, di Topolino, dei Barbapapà, dei Petzi.
Ma soprattutto di Tintin. Questo piccolo giornalista pettinato continua ad accompagnare le
sue giornate, le colazioni in modo particolare e
le sedute nella toilette, che da quando ha imparato a leggere hanno raggiunto una durata e
una frequenza al limite dell’insostenibile.
Già da un paio d’anni ho cercato di sviluppare
una strategia per aiutarla a compiere quello
che secondo me è il passaggio decisivo, dall’illustrazione su carta all’immaginazione. Ho
provato con libri a me cari, come la saga di
Sandokan, Il giornalino di Gianburrasca, senza
grossi risultati, sono passato allora a romanzi
più femminili, come Piccole donne. Leggeva e
si emozionava, però non scattava quel sacro
fuoco che è la sola garanzia, per me, che si sta
formando una lettrice. Fino a quando non ha
preso in mano prima lo Hobbit, ma soprattutto, ahimè, Harry Potter e la Pietra filosofale. È
da quel momento che viene a cercarti nello
studio per dirti che ha finito un capitolo, o per
raccontarti un dialogo, un episodio, per sottolineare la scelta di una parola.
Ogni tanto si chiude in camera a chiave e legge,
pancia sotto e mento sulle mani, la vedo dal
buco della serratura e mi ricordo delle mie prime passioni letterarie.
Non credo ci sia tanta qualità nella saga di Harry Potter, ho pregiudizi anche sul genere fantasy, già solo perché è una parola inglese. Però
mia figlia ha imparato ad amare le storie grazie a questa Rowling, ha conosciuto la potenza
dell’immagine e del ritmo mentale, prende
nota delle differenze tra il libro e il film, elabora ragionamenti, arricchisce il linguaggio. Insomma, non dico di amare il fantasy, però gli
sono grato.
(prima parte)