Anche tu puoi scrivere un haiku LIBRO

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Iris Armeni
Iris Armeni
“Anche tu puoi scrivere un tanka o un haiku…”
Proprietà letteraria riservata
© 2014 Iris Armeni
© Kion Editrice, Terni
Prima Edizione maggio 2014
ISBN: 978-88-97355-60-1
Immagini di copertina e all’interno:
Foto di Aldo Mazzaccheri e Iris Armeni
Stampa: Universal Book, Rende (CS)
www.kioneditrice.it
[email protected]
Chiunque può scrivere un tanka o un haihu;
provateci.
Un breve riassunto su come sono nate
queste due forme poetiche,
con alcuni esempi
di buoni haiku giapponesi,
può servirvi da guida.
Cenni storici e connotazione
Dicono gli studiosi della poesia giapponese che
noi non la conosciamo quanto merita per due motivi:
la complessità della lingua con la conseguente difficoltà di una buona traduzione, ed il preconcetto che la
letteratura giapponese sia in buona parte un'imitazione di quella cinese: ed è un peccato, perché secondo
lo storico moderno Kato Shuichi la poesia per i giapponesi ha lo stesso valore che la filosofia per il
mondo occidentale. Conoscere la filosofia di un popolo ne agevola certamente la conoscenza, quindi, attraverso la lettura della poesia giapponese, noi potremmo capire senz'altro meglio l'animo di questi figli del
Sol levante.
A differenza della poesia cinese, che generalmente è rimata, nelle poesie nipponiche non c'è l'uso
della rima. Nell'alto medioevo esse erano composte
da versi aventi un numero irregolare di sillabe, ma a
partire dal VII secolo i poeti cominciarono ad adottare versi, quasi sempre alternati, di 5 e 7 sillabe per
dare ai loro componimenti quel ritmo che in altre lingue viene ottenuto sia con le rime che con l'accentua7
zione. Questo sistema di metrica fu adottato anche
per drammi teatrali. Le poesie più antiche che si conoscano con la metrica dei Tanka (5-7-5-7- 7, l'Haiku
doveva ancora nascere) risalgono a Shotoku Taishi
(574-622), secondogenito dell'imperatore Yomei.
Oltre che con la metrica, la bellezza poetica è ottenuta
con assonanze, onomatopee, giochi di parole, allitterazioni, pleonasmi, ecc…
Donald Keene ci riferisce quanto scritto nel 905
d.C. da Kino Tsurayuki: "La poesia giapponese ha per
seme il cuore umano, e si espande in innumerevoli foglie di parole... chi mai fra gli uomini non compone poesia ascoltando l'usignolo che canta tra i fiori, o il gracidare della rana che vive nell'acqua? È poesia ciò che
senza sforzo alcuno commuove terra e cielo: ciò che
muove a pietà gli dei ed i demoni invisibili, che ingentilisce i legami tra uomo e donna e può confortare il
cuore dei guerrieri". Secondo D. Keene, Tsurayuki afferma qui che è la poesia a muovere gli esseri soprannaturali e non che siano questi a parlare per voce del
poeta. Niente Muse ispiratrici quindi, vivaddio.
A questa opinione si contrappone quella di Mario
Riccò e Paolo Lagazzi, secondo i quali la poesia, per i
giapponesi, è un dono degli dei: ed a convalida di ciò
riferiscono una credenza contenuta negli antichi testi
sacri giapponesi: il dio Izanagi e la dea Izanami, dopo
aver girato intorno ad una larga colonna, s'incontra8
no per la prima volta, si riconoscono con meraviglia
e si lasciano andare a frasi di reciproco complimento
per la loro bellezza: questo dialogo simboleggerebbe
il Kami (il divino), cioè l'Altro che si manifesta a noi
non direttamente, ma come il rimando di uno specchio in cui si riflette tutto il creato in quanto il divino
è ovunque, e quindi anche in noi.
Comunque sia, io trovo che la poesia giapponese
è così bella nella sua ricerca mai astratta, ma sempre
intuitiva e concreta, dei misteri di tutto ciò che è "esistente", sia animato che inanimato, da avere una sua
propria vita e giustificazione, indipendentemente
dalle sue radici.
I temi principali trattati dai poeti giapponesi sono
generalmente sei: un evento normale della natura
che ne sottolinei la bellezza, un danno alla natura provocato da qualche fenomeno inatteso, l'invecchiamento dell'essere umano, la brevità della vita, il decadimento da una condizione di fortuna e rispetto ad una
di miseria, ed infine l'abbandono nella solitudine
dopo aver conosciuto l'amore. Già dalla materia trattata si capisce come la poesia giapponese sia prevalentemente sentimentale. Essa serviva altresì per i
colloqui tra amanti molto più di quanto accadesse
nella società occidentale, e questo si spiega con la situazione della società giapponese fin dai secoli in cui
si stava mettendo a punto la tecnica poetica, cioè fin
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dal IX, X, XI secolo. Il formalismo nei rapporti sociali
era estremo, e così pure nei rapporti amorosi: la
sposa veniva quasi sempre scelta dalle famiglie in
base a considerazioni ben lontane dall'amore: perfino poco prima del matrimonio il fidanzato poteva incontrare la futura sposa senza che gli fosse permesso
vederla, ma solo parlandole attraverso un paravento:
è quindi comprensibile come per tutta la fase precedente, che era ancor più rigida, i due si scambiassero
bigliettini con poesie d'amore che esprimevano messaggi non solo nel contenuto, ma anche nella "veste
grafica", cioè gli amanti cercavano di capire il carattere ed i sentimenti dell'altro anche in base alla scelta della carta, al tipo d'inchiostro, alla pressione
della penna, alla forma e all'eleganza degli ideogrammi: in un certo senso esercitavano la grafologia.
Non solo gli innamorati, ma tutte le persone
colte scrivevano poesie, corte imperiale compresa:
il poetare era inteso come gioco letterario di società. I Renga, la poesia iniziante con un Hokku di tre
versi (introduzione) a cui a giro si dovevano agganciare i vari partecipanti, in auge soprattutto nel
tardo medioevo nipponico, continuarono la tradizione dialogica dei Katauta, antiche nenie recitate
durante i riti propiziatori della fertilità. Questa impronta ludico-corale è andata man mano evolvendosi fino a trasformarsi prima in poesie a catena più
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brevi, poi nel più individualistico moderno Haiku.
Va precisato che se anche la poesia giapponese fu
adottata e perfezionata inizialmente dalle classi socialmente più elevate, che erano anche le più colte,
oggi essa è diffusa in tutti gli strati sociali (come del
resto anche in occidente).
La lingua giapponese è priva di accento tonico ed
ha suoni molto semplici. Le sillabe sono formate normalmente da una consonante seguita da una vocale,
e non ci sono gruppi di consonanti: sarebbe quindi
estremamente facile scrivere rime: queste però darebbero alla poesia una cadenza fonetica troppo uguale, e quindi monotona: per questo motivo i giapponesi hanno preferito ottenere la musicalità poetica servendosi di una particolare metrica. Pur essendo una
lingua polisillabica (la cinese è monosillabica), la brevità delle sillabe, l'assenza di accenti tonici, l'ambiguità della grammatica fanno sì che il giapponese abbia
molti sinonimi come pure molte parole intere, o parti
di esse, con significati ben diversi tra di loro (da cui
nacque l'uso delle kakekotoba, le cosiddette paroleperno), e tutto ciò rende questa lingua abbastanza difficile per noi occidentali. Le difficoltà sono aumentate
dal fatto che non c'è analogia tra i vocaboli poetici occidentali e quelli giapponesi; ad esempio, per dire
"vento" essi hanno tanti di quei nomi che ci battezzerebbero tutte le barche del lago di Biwa.
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