Biografia di Severino Gazzelloni
“Il flauto è nella pelle mia, sangue mio, io soffio lì e esce quel suono che sono io.”
S. Gazzelloni
Severino Gazzelloni (il suo cognome vero era Gazzellone : con un decreto
firmato dal presidente della Repubblica, dove è scritto “per chiara fama”, cambiò la
E finale in I) nacque il 5 gennaio del 1919. Si è innamorato del flauto sentendo un
concerto alla radio nella cucina della casa dove è nato, a Roccasecca (un paesino
delle montagne ciociare, in provincia di Frosinone). Il padre suonava il flicorno
baritono nella banda del paese e insieme a suo figlio Severino ascoltava la radio per
sentire opere liriche e concerti. Una sera del 1925 avevano sintonizzato una stazione
tedesca, dove trasmettevano un concerto dei Berliner Philharmoniker. Il primo pezzo
in programma era il Concerto in Sol Maggiore per flauto e orchestra di W. A.
Mozart, che poi diventerebbe uno dei cavalli di battaglia di Gazzelloni. Il bambino
rimase affascinato, emozionato, quasi gli venivano le lacrime. Aveva solo 6 anni,
eppure era decisa la sua vita. Voleva fare il suonatore di flauto.
Due giorni dopo, il padre portò il piccolo Severino dal direttore della Banda di
Roccasecca, che si chiamava Giovanni Battista Creati ed era stato direttore nella
Banda della Marina Militare a La Spezia. I primi passi con la musica (il solfeggio
parlato e il flauto piccolo) li fece con lui. In capo ad un anno anche Severino entrò a
far parte della banda per suonare insieme al papà.
Più tardi Creati gli fece studiare un pezzo per flauto solista chiamato Il Pastore
Svizzero, e il piccolo Severino se la cavava piuttosto bene. Quando suonavano
“fuori sede” si era sparsa la voce che nella banda di Roccasecca c’era un’attrattiva
in più : un ragazzetto che suonava il flauto in piedi su una cassetta. Erano davvero
molto richiesti. Dopo che la banda avesse suonato un pezzo di Mozart e una
selezione da un opera di Verdi Severino montava su una specie di podio, sorrideva
in giro inchinandosi e suonava Il Pastore Svizzero con tutti i sentimenti. La gente lo
applaudiva dopo ogni variazione, alla fine gli gridava bravo e gli gettava dei confetti,
come si usava allora. Delle volte gli davano anche delle regalie.
Severino cominciava a sentirsi importante. Aveva la divisa da musicante. Pur
avendo 7 anni, ormai si sentiva qualcuno. All’epoca di quei primissimi successi nella
banda uno zio lo portò fino a Napoli per comprargli un flauto. Voleva che avessi il
migliore. Così gli regalò un flauto sistema Boehm. Nello stesso negozio di strumenti
trovò anche un libretto che comprendeva la teoria musicale, una tabella con le
corrette diteggiature e i disegni di tutte le regole per suonare bene il flauto : la
posizione delle mani, delle labbra, delle gambe, dei piedi, ecc.
Dopo questi fatti il ragazzo abitò per un certo periodo con lo zio a Santa Maria
Vico (Caserta). Nella bella stagione girava con la banda per mesi, da paese in
paese, da piazza in piazza. Suonavano le opere liriche: Verdi, Donizetti, Massenet,
ma anche Mozart e Bach. Le piazze erano sempre piene, la gente stava lì a sentirli
per ore e magari canticchiava i pezzi più conosciuti seguendo il suono degli strumenti.
Severino era orgoglioso di stare in una banda che si era fatta un nome in tutta l’Italia
centrale, ma anche meridionale, perchè una volta andarono a suonare perfino in
Puglia.
Con la banda si portava la musica dapertutto, anche nei piccoli paesi tra i
monti, in posti che magari sulla carta geografica nemmeno si trovavano e questa cosa
gli rimase da adulto a Severino. Con il suo flauto andò a suonare ovunque e quando
era diventato famoso e sentiva certe critiche : “Troppo Gazzelloni”, “C’è l’invasione
di Gazzelloni, non se ne può più, dovrebbe risparmiarsi”, Severino si diceva “Ma
come, ho questo dono, quello di soffiare dentro un tubicino di metallo per far
venire fuori musica, musica buona, musica bella, posso portare la gente in
paradiso, come una volta mi disse Ungaretti, e dovrei risparmiarmi ?”.
Allora erano tempi bellissimi per lui. Partivano tutti insieme, con i loro
strumenti, si stava in giro fino all’inverno. Si chiamavano appunto banda da giro.
Avevano anche i loro appassionati. Cioè gente che li seguiva di festività in festività,
da un paese all’altro.
A 7 anni e mezzo era solista nella Banda di Roccasecca, a 12 anni primo flauto
nella Banda di Taranto, con un compenso di 700 lire al mese, che nel 1931 era una
bella cifra. La Banda di Taranto era una delle bande più grandi e rinomate. Aveva
dunque fatto carriera, si era fatto un nome. Poi vennero le bande di Campobasso,
Avezzano, Sora e Lanciano.
Quintetto Strumentale di Roma
negli anni ‘40
Arrigo Tassinari (flauto)
Renzo Sabatini (viola d’amore)
Arturo Bonucci (violoncello)
Alberta Suriani (arpa)
Pina Carminelli (violino)
foto [omessa]
Ancora una volta lo zio si era bene informato e aveva saputo che a Napoi
insegnava Arrigo Tassinari, che era stato primo flauto nell’Orchestra del Teatro Alla
Scala sotto la direzione di Arturo Toscanini e aveva un’ottima reputazione. Ma
Tassinari non era a Napoli, si era trasferito a Roma. Quindi Gazzelloni andò alla
capitale, a casa del professore Tassinari, che lo preparò per fare un esame di
ammissione al Conservatorio. Gazzelloni ricorda Tassinari come un uomo
eccezionale, un emiliano simpatico, molto umano, nato a Cento (Ferrara) e sempre
attaccato alla sua terra ed al suo dialetto.
Entrato al Conservatorio di Roma fu inserito al quinto anno di flauto ma per
quanto riguarda il solfeggio lo inserirono nel terzo anno. Ricordiamo che lui aveva
imparato il solfeggio parlato, metodo diffuso a livello popolare.
Si diploma a 17 anni con 6 di votazione nell’esame finale di strumento. Nel
frattempo continuava a fare la stagione con le bande e suonava in qualche
orchestrina a Roma.
La guerra l’aveva passata a Gaeta nel complesso artistico chiamato Orchestra
del Corpo d’Armata, dove avevano riunito i più bravi musicisti capitati sotto le armi.
Facevano concerti per dare un po’ di sollievo ai compagni combattenti. Prima sono
stati decimati da un bombardamento mentre si trovavano sui camion che li
trasportavano negli spostamenti e più tardi, nella confusione dell’8 settembre 1943,
Severino scappa a Roccasecca, per poi andare a Roma.
Quell’inverno del 1943 va alla Galleria di Piazza Colonna, punto d’incontro di
suonatori, impresari, direttori e cantanti, e viene scritturato nell’orchestra ritmosinfonica di Alberto Semprini, nella quale cantava anche Rabagliati. Ma c’era ancora
di peggio, per “uno che si era diplomato flautista al Conservatorio di Santa Cecilia”:
suonare al teatro Odescalchi, con la compagnia di Erminio Macario, nell’orchestra
che accompagnava i trullalà delle ballerine in passerella. Severino era giovane, aveva
bisogno di guadagnare, c’era la guerra e si aveva i tedeschi in casa. Quelli della
classe sua erano quasi tutti finiti nelle steppe gelate del fronte russo. Lui invece stava
a Roma a fare due spettacoli a sera alternado le due orchestre summenzionate.
Nella tarda primavera del 1944, mentre a Roma si aspettavano gli alleati da un
momento all’altro, aveva sentito dire che si sarebbe costituita l’Orchestra Sinfonica
dell’Eiar, che negli anni prima della guerra aveva già raggiunto una buona notorietà
nei concerti alla radio. Dice Gazzelloni al riguardo : “Io dovevo entrarci, a tutti i
costi.” Era per suonare in un’orchestra così, bella, grande, famosa, che aveva voluto
diventare flautista. Ce l’aveva in testa fin dalla sera in cui aveva scoperto il flauto
ascoltando Mozart nella cucina della sua casa natale a Roccasecca.
Gli occorreva “un’entratura”, cioè qualcuno che gli desse una mano. Un giorno
il suo amico Arturo Abbà, che suonava il clarinetto in quell’orchestra, lo mandò a
cercare al teatro Odescalchi per comunicargli che nel nuovo complesso musicale
mancava un flauto. Abbà gli disse : “Fatti sotto, Severino, il maestro Previtali ti vuole
sentire.” Il maestro Previtali lo aveva ascoltato un pomeriggio nell’orchestra
Semprini, e adesso che gli serviva il flauto per la sua orchestra si era ricordato di
“quel ragazzo con tutto quel fiato che non va niente male.”
A quell’epoca il direttore Previtali era il nume tutelare della musica sinfonica
alla radio. Si trattava, dunque, di una vera e propria audizione. Portò, in via Asiago a
Roma, il Concerto in Re maggiore per flauto di Mozart ed entrò nella nuova
orchestra di Radio Roma (che alla fine della guerra avrebbe preso il nome di Rai).
Aveva 25 anni circa e non poteva mai immaginare che in quell’orchestra sarebbe
rimasto 30 anni, suonando in tutto il mondo e persino davanti due papi.
foto [omessa]
Severino Gazzelloni tra i leggii dell’Orchestra Sinfonica di Roma della Radio Italiana
A Gazzelloni piaceva molto suonare in orchestra, forse perchè aveva
cominciato con la banda e si era formato alla grande gioia che dà la comunità di vita,
di progetti, di lavoro. L’Orchestra della Rai è stata, dopo la banda, la sua seconda
scuola musicale, la sua seconda palestra. E’ stata anche una gran parte della sua vita,
con gli alti e i bassi e con gli inevitabili momenti di malumore e di incomprensione,
perfino anche di liti e di porte sbattute. Ma l’ha anche amata “la sua orchestra”.
Gazzelloni afferma : “Fare un a solo di flauto in orchestra, quando oltre il
pubblico ti stanno a sentire con la massima attenzione tutti i colleghi e sul
podio c’è magari uno di quei monumenti della musica come sono stati
Furtwängler o Bruno Walter sempre mi ha dato un’emozione inebriante.”
Parliamo un po’ del suo famoso flauto d’oro. Ci ha suonato per decenni, ma
molti lo hanno accusato di megalomania e di esibizionismo, hanno detto che era un
capriccio da divo, la dimostrazione che Gazzelloni voleva fare a tutti i costi il
personaggio. Una volta uno spettatore nel bel mezzo di un concerto a Cagliari si è
messo ad urlare : “Gazzelloni, ma la pianti. Perchè non suona in un flauto normale.”
Quella volta si è proprio arrabbiato, ha buttato il flauto in mezzo al palcoscenico, ha
strappato lo strumento al primo flauto dell’orchestra che lo accompagnava ed ha
eseguito il concerto con quello. Alla fine, nel silenzio di tutto il teatro, ha spiegato che
il flauto d’oro, per lui, non era una posa da gigione ma una necessità professionale.
Nessuno si era meravigliato del grande Arthur Rubinstein che esigeva uno Steinway
e nessuno ha mai protestato se il famoso David Oistrakh usava uno Stradivarius.
Perchè se la prendevano tanto con il suo flauto ? Anche lui trovava indispensabile
avere uno strumento particolare che gli consentisse una maggiore stabilità di suono.
Non è completamente d’oro ma di una lega speciale. Il costruttore, Hammig, era un
tedesco che faceva tutti i flauti artigianalmente, a mano, insieme a suo figlio. Il
risultato era un vero gioiello, soprattutto di perfezione tecnica. D’accordo, era un
oggeto prezioso ma per Gazzelloni contava soprattutto il fatto che nessun altro flauto,
neppure quello costosissimo di platino che aveva provato in America, gli desse la
stessa purezza, quasi assoluta, di certe note.
Johannes Hammig
costruttore della marca
di flauti preferita da Gazzelloni
dal 1956 in poi.
foto [omessa]
Finchè suo zio Umberto non lo aveva portato a Napoli a comprare un vero
flauto, le sue primissime esperienze le aveva fatte su un flauto piccolo a sistema
semplice prestatogli dal direttore della banda di Roccasecca. Il flauto d’oro è stato
una conquista arrivata molto tempo dopo, nel 1956, quando erano già più di 10 anni
che dava concerti come solista.
La sua carriera di solista è cominciata nel 1945 nelle famose “serate in casa”
della signora Pacifico, in via della Croce a Roma. Per un suo trattenimento
Gazzelloni aveva preparato Boccherini, Vivaldi e il suo portafortuna Mozart. Quella
volta fece anche un pezzo insieme a un’altra giovane speranza, il liutista Mario Gangi.
Ancora dopo molti anni si ricordava gli applausi, tanti, lunghi, belli. Erano la
conferma di quello che aveva sempre immaginato: il concerto era sempre un
momento magico, una festa. Da allora è sempre stato così. Concerto, per lui, ha
sempre significato proprio festa, contentezza, qualcosa che lo faceva sentire bene
anche fisicamente. E’ per questo che si presentava con un sorriso. Cominciava a
sorridere in camerino mentre faceva i preparativi. Continuava a sorridere entrando in
sala e mentre alzava il flauto per l’inizio. Non era una posa. Era davvero felice in quel
momento, quasi in stato di grazia. Ogni volta che stava per dare l’avvio alle prime
note riprovava la stessa gioiosa esaltazione, come un leggero stato di euforia, per un
attimo sentiva una specie di meraviglioso capogiro.
Chiese anche un permesso di 6 mesi al direttore d’orchestra Previtali per
andare a suonare a Belgrado insieme al violista veneziano Ludovico Coccon, che
come lui, doveva farsi conoscere. Severino suonò Bach per Tito in un concerto nella
sua residenza.
foto [omessa]
Severino Gazzelloni e Ludovico Coccon negli anni ‘50
Tornato a Roma nella primavera del 1946, era rientrato nella sua orchestra di
via Asiago e in più cominciò a fare sincronizzazioni per le musiche da film. Stava
nascendo il cinema neorealista e Roberto Rossellini aveva scoperto che il flauto,
“con quel suono così puro”, come diceva, era lo strumento adatto per
accompagnare musicalmente le sue storie. Lo cercavano anche altri registi. Con
Federico Fellini e Nino Rota, che poi avvrebbe scritto le musiche per tutti i films di
Fellini, era nata una grande amicizia. Rota addirittura dedicò a Gazzelloni alcune delle
sue composizioni, che Severino suonò grande piacere. C’era anche Eduardo De
Filippo che lo chiamava “o’ guaglione col piffaro”. A Gazzelloni piaceva lavorare per
il cinema. In più allora c’era il gusto di partecipare a qualcosa di nuovo che il cinema
italiano stava realizzando. L’esperienza diversa solleticava il suo spirito d’avventura.
foto [omessa]
Con Eduardo De Filippo, Giancarlo Menotti e Bruno Maderna a Venezia nel 1963
Grazie al cinema proprio in quel 1946 fece uno degli incontri più importanti
della sua vita : Bruno Maderna, grande musicista e grande in tutto, anche nella
corporatura da gigante, compositore d’avanguardia conosciuto poi ovunque nel
mondo. Anche nella vita privata era un uomo eccezionale, di grande simpatia e
sempre di buon umore. Allora lavoravano tutti e due per le musiche da film e sul far
della notte, finita la giornata nella sala di sincronizzazione, se ne andavamo in giro per
Roma.
foto [omessa]
Severino Gazzelloni con Bruno Maderna a Darmstadt (1958)
Maderna a quel tempo aveva già scelto la strada dell’avanguardia in cui poi
doveva diventare uno dei più grandi, e aveva già composto un paio di quei pezzi di
musica nuovissima per i quali sarebbe stato celebrato in tutto il mondo. Con lui
Gazzelloni ha diviso l’esperienza esaltante della musica d’avanguardia, tappa molto
importante della sua formazione musicale. Si è anche molto divertito con lui, erano
come fratelli: concerti, studio, vita, hanno continuato insieme tutto. Quando Maderna
è morto, nel 1966, Severino si è sentito molto solo.
Orchestra, registrazioni per il cinema, studio, prove : le sue giornate erano
pienissime, quasi non aveva tempo per tutto. Ma voleva ancora di più. C’era ancora
una meta da raggiungere, un sogno da realizzare. Suonare il flauto era comunque una
gioia, ma era sicuro che lo sarebbe stato ancora di più se fosse riuscito a farlo come
solista. Le serate in casa della signora Pacifico continuavano ma erano più che altro
esibizioni in famiglia. Lui, invece, voleva il palcoscenico, il grande pubblico. Cercava
la consacrazione, il suo nome sui cartelloni e nei giornali. Altrimenti che gusto c’era
ad aver faticato tanto ? Il solito colpo di bacchetta magica arriva nel 1947 al teatro
Eliseo con il concerto per flauto e arpa di Mozart. L’arpista era Alberta Soriani. Il
giorno dopo, finalmente, il suo nome era su tutti i giornali. Nello stesso mese,
novembre del 1947, una telefonata di Mario Peragallo (musicista che insieme a
Maderna, Dallapiccola e Petrassi, militava in quello che poi il filosofo tedesco
Theodor W. Adorno avrebbe ufficialmente battezzato Neue Musik) lo invitava a
prendere parte ad una tournée straordinaria del Pierrot Lunaire di A. Schönberg.
Composto nel 1925, c’era stata subito una prima tournée del Pierrot
Lunaire, di cui si era molto scritto e molto parlato, con lo stesso autore al pianoforte
insieme ad altri giovani musicisti viennesi. Era stato un grandissimo avvenimento. E
poi, a distanza di 20 anni, certi impresari tedeschi si proponevano di ripeterlo,
affidando la parte vocale a Marya Freud, che ne era stata la prima interprete. Fatto
eccezionale perchè Marya Freud aveva quasi 70 anni. Altro fatto eccezionale era
che la tourné era organizzata da un italiano, il compositore Peragallo.
Nel Pierrot Lunaire c’è una pagina in cui il flauto accompagna, senza altri
strumenti, il soliloquio della solista, rivolto alla luna malata : Der kranke Mond. Non
aveva mai eseguito niente del genere : soltanto Sprechgesange e flauto. Si innamorò
perdutamente e per sempre della sconvolgente musica di Schönberg. Cominciò di lì
la sua avventura nell’avanguardia. Dopo la tournée tornò a Roma completamente
cambiato. Iniziò a frequentare l’Accademia di Francia e quella d’America dove
poteva incontrare i nuovi compositori e cimentarsi con quel nuovo metodo di fare
musica che lo entusiasmava. E’ stata una rinascita per lui. Ha imparato allora a usare
il flauto come uno strumento rivoluzionario. E ha dato sfogo alla passione che ormai
lo aveva completamente conquistato per quei nomi straordinari e insoliti, per lui
altrettanto suggestivi ed emozionanti come le armonie classiche in cui aveva mosso i
primi passi. La nuova musica è stata veramente la sua seconda anima.
Tutto preso da questa scoperta per 3 anni non pensò ad altro che a
perfezionare la sua tecnica. Qualche compositore dell’avanguardia già cominciava a
scrivere partiture per il suo flauto e questo fatto, oltre a riempirlo di orgoglio, lo
spronava a fare sempre di più. Di giorno continuava le prove con l’orchestra della
radio ma la sera era immancabilmente in una delle due accademie a studiare quegli
spartiti a prima vista incomprensibili, come la Sonatina per flauto di Dutilleux, che
poi è diventata un classico tanto che è finita come testo di esame nei concorsi. La
prima volta che l’ha eseguita, nel grande salone dell’Accademia di Francia, con tutta
la Roma musicale di allora schierata in prima fila, era come in trance. Il direttore
Bernardino Molinari (all’epoca era come dire il Re Sole della musica sinfonica) gli
disse : “Debbo confessarti che un altro flauto così l’ho sentito solo una volta nella mia
vita, quando ho diretto in America la New York Philarmonic Orchestra”.
Il fatto più straordinario era che, un po’ per merito suo, anche il flauto stava
uscendo dal guscio, uno strumento fino ad allora relegato a un ruolo subordinato
nell’orchestra e che brano dopo brano, invenzione dopo invenzione, stava invece
diventando a poco a poco uno dei protagonisti della grande musica da concerto. Un
critico di fama, Mario Bortolotti, definì quello straordinario periodo di rinascita del
flauto, il tempo della Gazzelloni Musik. I pezzi, infatti erano dedicati a lui.
Portavano firme prestigiose : Petrassi, Boulez, Stockhausen, Nono, Brown,
Kotonski, Penderecki, Messiaen. E poi Hengelmann, Maderna, Clementi, Berio,
Leibowitz, Pousseur, Denisov, Fukushima, Szöllösy, Peragallo, ed altri. Fino al 1984
le musiche scritte per lui erano 155. La prima di queste è il Concerto per flauto e
orchestra di Mario Zafred, che risale al 1952.
Gazzelloni ricorda i tre anni che vanno dal 1949 al 1952 come un unico, lungo,
estenuante periodo di studio. Ore ed ore a provare, a far note lunghe ed esercizi per
il suono. Flauto, poi flauto e poi ancora flauto. Aveva in mente un programma
preciso. Doveva arrivare ad essere il primo, il più bravo flauto della musica moderna.
Aveva capito che il suo strumento poteva trasformarsi in qualche cosa che non era
mai esistito prima. Si potevano tentare esperimenti affascinanti, percorrere strade mai
esplorate. Era una sfida eccitante, suonare non solo note ma anche segni, riuscire a
tradurre in musica dei geroglifici all’apparenza incomprensibili. Viveva tutto questo
intensamente, completamente, con grande zelo ed emozione. Ma era anche molto
allegro, gli pareva di dare un senso nuovo, inebriante, a tutta la sua vita.
Nel 1952 accadde qualcosa di eccezionale, il suo amico Maderna gli telefonò
per un invito : “Severino perchè non vieni con me a Darmstadt ?”. Di Darmstadt,
piccola città tedesca vicino a Franckfurt, sapeva si e no soltanto il nome. Non
poteva certo prevedere che ci sarebbe andato, durante i corsi estivi, per ben 10 anni:
una esperienza indimenticabile. Darmstadt gli sarebbe diventata familiare quasi come
il suo paese natale.
Parlare di Darmstadt, oggi, significa ricordare una rivoluzione culturale di
portata storica, un grande movimento d’avanguardia, qualcosa che ha cambiato il
modo di fare musica, che ha addirittura dato alla parola musica un significato diverso.
Ma per Gazzelloni era, prima di tutto, un lungo, meraviglioso momento di festa.
A Darmstadt la sua vita è stata felice. Ha conosciuto nuovi amici, allora tutti
giovani ed entusiasti come lui, in preda ad una sorta di esaltazione creativa. Quei
giovani sono poi diventati in gran parte nomi di illustri della musica in tutto il mondo.
Si chiamavano Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Luigi Nono, Franco Donatoni,
Olivier Messiaen, Luciano Berio, David Tudor, John Cage. Allora potevano
sembrare una banda di esaltati ma sono quei nomi che tra il 1952 e il 1960 hanno
costruito nella musica il futuro, e l’hanno fatto a Darmstadt. “C’ero anch’io”, diceva
Gazzelloni con orgoglio.
foto [omessa]
Bruno Maderna, Earle Brown, Wolfgang Steinecke, Severino Gazzelloni e Pierre Boulez
(Internationales Musikinstitut Darmstadt, 1961)
A Darmstadt si teneva ogni anno, d’estate, dei cicli di lezioni chiamate
Ferienkurse für Neue Musik, cioè Corso-Vacanza per la Nuova Musica.
Gazzelloni ha sempre pensato che anche nella dicitura era implicito quel concetto di
gioia, di vera letizia, che era per tutti loro il ritrovarsi un anno dopo l’altro al loro
appuntamento in Germania. I corsi erano sovvenzionati dall’amministrazione della
città. Per la durata dei corsi si ritiravano nella periferia, a Marie Neue, in una specie
di castello-convento in mezzo ai boschi, luogo di una quiete e di una bellezza naturale
incantevoli, adibito nel resto dell’anno alle riunioni di una congrega religiosa di
avventisti. Gli studenti arrivavano da tutte le parti d’Europa, poi cominciarono a
venire anche gli americani e gli australiani. Su tutto vegliava un personaggio
straordinario di nome Wolfgang Steinecke, un misto di mecenate di altri tempi, di
manager moderno e di spregiudicato interprete del progresso culturale. A lui piaceva
la musica e gli piaceva tutto quello che si poteva definire nuovo, mai visto, mai
sentito. Una sua frase diventò lo slogan provocatorio del gruppo di giovani scatenati
di cui Gazzelloni faceva parte : “Giacchè si deve ricostruire il mondo, perchè non
cominciamo noi da qui, con la musica ?” Era un modo per riaffermare il diritto alla
gioia dopo la devastante esperienza della guerra. Molti anni più tardi Ungaretti,
parlando dell’avanguardia, usò la parola “rifare” dicendo : “Gazzelloni ha rifatto la
musica”. Se questo è vero, è proprio a Darmstadt che lui ha cominciato, nel 1952.
Gli sembrava di stare in una fucina, o meglio in un laboratorio. Gli esperimenti
sui nuovi suoni si succedevano a ritmo crescente e con grande entusiamo. Erano
impegnati allo spasimo, ma sempre allegri. Andavano continuamente in cerca di
nuovi adepti e si spostavano tutti in gruppo : a Baden Baden, Monaco, Düsseldorf,
Franckfurt, Göttingen. In quegli anni Gazzelloni ha visto rinascere la Germania a
poco a poco, ricostruendo le case, rifacendo le piazze, tirando su gli ospedalil, le
scuole e i cinematografi. Ha assistito al fatto straordinario della nascita di una nuova
cultura. Ha conosciuto Theodor Adorno, che con la Philosophie der neuen Musik
diventò subito il teorico di quel movimento di pazzi, convinti che tutto può essere
musica, persino la vibrazione dell’aria o una formula elettronica. Heinrich Streubel a
Baden Baden, Karl Amadeus Artman e il giovane Otto Tomek a Monaco,
portarono avanti con il loro talento musicale i loro esperimenti d’avanguardia tra
accanite discussioni e grandi bevute di birra. Incontravano scrittori, pittori, persone
di spettacolo, intellettuali, tutta gente molto eterogenea nelle idee e nei programmi,
ma accomunata dal fatto di essere nati ebrei e tedeschi. Erano rimasti per anni
emarginati o addirittura uscivano da esperienze allucinanti e da terribili sofferenze.
Gazzelloni li ha subito trovati straordinari. C’era tra tutti loro un patto non detto: del
passato non si parla. Erano troppo presi da quello che si doveva fare l’indomani, non
pensavano che a quello, non discutevano che di quello. Passavano notti intere a fare
programmi.
Darmstadt è stata importante per Gazzelloni, anche per un altro motivo. E lì
che ha cominciato ad insegnare. In Italia, allora non c’era nemmeno da pensarci.
Prima di tutto per la sua età. Aveva poco più di 30 anni, un bambino rispetto ai
parrucconi che sedevano in cattedra e poi i posti per l’insegnamento di flauto nei
Conservatori erano così pochi che ancora se li tenevano ben stretti i vecchi
insegnanti di anteguerra, che andavano avanti imperterriti secondo i canoni antichi e
le vecchie regole, come se non fosse successo niente. Darmstadt, invece, era dei
giovani : allievi e insegnanti. E Severino aggiungeva : “In più, senza falsa modestia,
debbo dire che allora, a saper interpretare con il flauto la nuova musica, c’ero
proprio soltanto io.”
Era lui, a dire il vero, che spingeva i suoi amici compositori a cimentarsi in
sempre nuove imprese. Poi con la sua faccia da “impunito” (come si dice dalle sue
parti) e con il coraggio e la testardaggine che facevano parte delle sue virtù, andava
a dar vita a quelle straordinarie creazioni su e giù per le città della nuova Germania.
Usava il meraviglioso pubblico tedesco, da sempre appassionato di musica, e in quel
momento particolarmente assetato di cose nuove e diverse, come cavia. Le sale da
concerto erano per lo più improvvisate, spesso già verso la fine dell’estate ci faceva
un freddo cane, e qualche volta era costretto a suonare con addosso il cappotto. Ma
la gente ci andava lo stesso. E ci andava tanta, tantissima, nonostante il disagio dei
luoghi e l’assoluta novità delle composizioni proposte, con quei suoni allora non
catalogabili tra nessuna delle musiche conosciute. Capiva che erano disorientati, ma
avvertiva anche un’attenzione che andava oltre la semplice curiosità. Fatto sta che
rimanevano intrepidi ai loro posti, nonostante il freddo e la pazza pretesa, da parte
dell’esecutore, di far passare per musica i sibili, i singulti e gli scoppi che uscivano dal
suo flauto. Gli applausi erano scarsi, lo ammetteva, ma almeno nessuno protestava. E
lui poteva tornare trionfante dai suoi amici per proclamare: “Ce l’ho fatta.” Che poi
voleva dire: hanno capito, possiamo andare avanti.
Qualche volta questi concerti eccezionali li facevano in gruppo: Maderna o
Tudor al pianoforte, lui al flauto, Stockhausen con il suo vocione a dirigerli tutti, e,
all’ultimo, anche un ragazzo che si divertiva come un matto: Sylvano Bussotti.
Nei corsi di Darmstadt all’inizio erano partiti in sordina, riproponendo
Stravinsky e Hindemith, cioè le voci della prima avanguardia soffocate dal nazismo e
dalla guerra. Ma presto si accorsero che non bastava, i loro giovani allievi volevano
di più. Soprattutto gli americani, che sbarcavano in Europa convinti di trovare
proprio nella Germania in via di ricostruzione, “novità elettrizzanti”, come ci
spiegavano. Secondo il loro costume, distribuivano subito gran pacche sulle spalle a
tutti, non facevano differenza tra allievi e insegnanti e furono i primi a frequentare i
professori (più grandi di loro), al di fuori delle lezioni, instaurando a Darmstadt negli
anni 50’ l’atmosfera da campus universitario americano di un decennio dopo. Erano
loro a chiedere sempre più spesso innovation and unlikeness, novità e diversità.
Così saltarono il fosso. Niente più Stravinsky, niente più Hindemith, niente più
nessuno che non fosse uno dei giovani della squadra di Darmstadt lanciata alla
conquista delle nuove frontiere della musica. Ogni anno il corso-vacanza in Germania
cresceva di importanza e attirava un numero sempre più grande di allievi. La fama
del gruppo di pazzi che teneva seminario tra i boschi nella periferia di Marie Neue
inventando ogni giorno qualche nuova diavoleria musicale aveva, come si dice,
varcato gli oceani e dilagava nel mondo. Di Darmstadt, ormai, si parlava
dappertutto.
Se ne parlava anche in Italia, ma con prudenza e circospezione. E anche con
una certa diffidenza, soprattutto da parte di quegli altri musicisti di avanguardia, la
generazione precedente alla guerra, che avevano aspettato con la comprensibile
ansia la fine della catastrofe per tirare fuori dai cassetti le opere boicottate dal
fascismo. Quando credevano di essere finalmente arrivati alla meta si erano
improvvisamente trovati affiancati, se non addirittura scavalcati, da una nuova ondata
di superavanguardisti che avevano l’aria di voler conquistare tutti gli spazi. E ci
stavano riuscendo. La cosa, ovviamente, li infastidiva. Anche Gazzelloni, quando
tornava in Italia dai suoi trionfi teutonici, non riscuoteva tra i colleghi che pallidi e
stentati sorrisi.
Ad esempio alla fine degli anni 50’, Mario Labroca, grande personaggio della
radio di allora, aveva avuto un’idea davvero provocatoria: organizzare una settimana
di musica contemporanea, la più nuova, al Conservatorio di Napoli. Come dire la
roccaforte della tradizione musicale italiana. Portare a Napoli Maderna, Berio, Nono
e Bussotti era, Gazzelloni e compagni, come darli in pasto ai lupi. Proprio per questo
accettarono subito l’invito e partirono tutti contenti, pronti alla battaglia.
Nel quotidiano partenopeo Il Mattino, si lesse il titolo “Il flauto che
cammina”. Malipiero era il più prestigioso dei compositori a Napoli, le sue musiche
erano note anche all’estero. Con lui avevano studiato Maderna, Nono, il pianista
Sergio Lorenzi e il direttore d’orchestra Nino Sanzogno, tutti amici di Gazzelloni che
adoravano il “vecchio” Malipiero. Gazzelloni lo conobbe molti anni dopo, nel 1966.
Il compositore aveva sentito suonare Gazzelloni a Venezia in un festival di musica
contemporanea. Scrisse un Concerto per flauto e orchestra “per Severino
Gazzelloni”. Il flautista lo eseguì a Roma sotto la bacchetta di Nino Sanzogno e con il
compositore in sala.
foto [omessa]
Severino Gazzelloni con Gian Francesco Malipiero
Anche Petrassi scrisse musiche per Gazzelloni, la prima nel 1960 : il suo
Concerto per flauto, eseguito dal dedicatario con l’Orchestra della Radio di
Hamburg diretta da Hisserstedt.
foto [omessa]
Severino Gazzelloni con Goffredo Petrassi (1969)
Che anni gli anni di Darmstadt ! Gli avevano dato una specie di carica che in
parte Severino si portò dentro per tutta la vita. Una carica di energia, di volontà, di
amore per la vita, di allegria. A Darmstadt era nato un altro Gazzelloni, uno che
conosceva davvero ogni possibilità del flauto, capace di “far diventare musica anche
il teorema di Pitagora”, come si diceva allora. Severino era elettrizzato e in più si
divertiva. Non conosceva ostacoli, niente lo fermava, accettava qualsiasi sfida. Si
diceva : “Io posso suonare tutto.” E dava continue dimostrazioni che non barava.
Nel 1954 aveva persino eseguito la Sonatine per flauto e pianoforte di Pierre
Boulez, che i flautisti francesi dell’epoca avevano rifiutato. Avevano detto che era
impossibile da eseguire, che Boulez aveva composto una cosa che non ha niente a
che vedere con la musica. Un unico tentativo di esecuzione fatta a Parigi per
insistenza dell’autore si era risolto in un disastro.
Gazzelloni chiese a Boulez di mandargli quella diavoleria, perchè voleva
provarla anche lui. Nell’estate del 1954 andò al solito appuntamento di Darmstadt,
dove insieme a tutti gli altri avrebbe ritrovato anche Pierre Boulez. Per la parte di
pianoforte, che non era uno scherzo, si mise d’accordo con David Tudor, grande
pianista dotato pure lui di quella vena di follia mista a testardaggine che accomunava
tutto il gruppo. Quando arrivò l’amico Boulez per il suo corso, gli fecero la sorpresa.
Nella saletta dei concerti dell’eremo di Marie Neue gli eseguirono la sua impossibile
Sonatine per flauto e pianoforte, tutta filata che pareva Mozart. “Hai visto ? non è
poi così terribile, si può suonare benissimo”, disse Gazzelloni a Boulez, che
sbalordito gli rispose sussurrando: “A patto di essere Gazzelloni.”
Portarono la Sonatine di Boulez a un concerto a Hamburg, insieme a Density
21,5 di Edgar Varèse, un pezzo che metteva a dura prova la sonorità del flauto, più
un’altra pagina altrettanto impervia di René Leibowitz. Boulez era preoccupatissimo,
temeva che, obbligato per l’intera serata a sforzi inumani di fiato e fantasia, non
avrebbe retto fino in fondo. “Ti vuoi ammazzare, dillo che ti vuoi ammazzare”,
ripeteva a Gazzelloni. E questi lo rassicurò spiegandogli che madre natura gli aveva
regalato due polmoni speciali, capacità 6 1/2 litri (il leggendario Coppi, che scalava
le montagne in bicicletta senza quasi far fatica aveva poco di più, 7 litri). Fu un
trionfo. Il successo internazionale Gazzelloni lo raggiunse così, in concerto a
Hamburg, dando l’anima e i polmoni per una musica che nessuno pensava si potesse
mai suonare.
Il 1954 fu per lui un anno straordinario. Di colpo era diventato re. Tutti lo
volevano, piaceva al pubblico e molti compositori gli dedicavano musiche. La fama
delle spericolate invenzioni che si permetteva con quel semplice tubo di metallo
chiamato flauto era ormai dilagata dappertutto. Tutti sapevano che Gazzelloni era
andato al di là della famosa scuola francese di flauto e che, usando una nuova tecnica
per “impostare” il suono, riusciva a dare al flauto un suono più robusto e una grande
varietà di timbro e di dinamica.
Nello stesso anno, a ottobre, Olivier Messiaen aggiunge a posteriori una
dedica per lui nel brano Le Merle Noir, per flauto e pianoforte, composto nel 1951
in occasione del Prix di flauto del Conservatorio di Parigi. A novembre, con la
Südwestfunk Orchester a Baden Baden, eseguì un pezzo di Luigi Nono per flauto,
archi e percussione intitolato Y su sangre viene cantando, epitafio per Federico
Garcia Lorca, una delle composizioni più note di quel periodo, con una grande linea
musicale, una cosa eccezionale che fece acclamare il compositore. Il risultato :
almeno 15 minuti ininterrotti di applausi e primo grande successo di Luigi Nono in
Germania.
Poi vennero Honeyrêves di Maderna, dedicato “ai sogni di miele di Severino”,
Proposizioni di Evangelisti, che a vederlo sullo spartito sembra un disegno astratto,
Studio per flauto solo, scritto appositamente per lui dal compositore iugoslavo
Kelemen, un piccolo pezzo che porta, in inizio di pagina, la “spiegazione dei segni”.
Luciano Berio compose una Serenata per flauto e 14 strumenti in cui c’era un po’ di
tutto, persino della musica tradizionale; poi gli dedicò la Sequenza per flauto solo, in
cui certe note sono tenute così lunghe che per farle occorrono giusto dei polmoni
fuori serie. Nella dedica c’è scritto, alla romanesca, “ A Severi’ ”.
Questi suoi cari amici erano ormai convinti che davvero lui potesse suonare
tutto, e scrivendo per il suo flauto si sbizzarrivano in ogni modo. Nel Puppenspiel
n°2 di Franco Donatoni la prima riga dello spartito porta come unica indicazione il
numero 44. Niccolò Castiglioni, nel Gymel per flauto e piano (e citiamo opere che
sono state composte per Gazzelloni) ha messo una serie di note che a un profano
possono sembrare piuttosto lische di pesce, alcune con la loro brava testa in cima e
altre invece con un corpo centrale da cui partono sottilismi tentacoli e che
assomigliano molto a dei ragni !
Le sue erano prestazioni eccezionali, poteva reggere i suoni fissi di certa
musica d’avanguardia, i superacuti della quarta ottava in cui bisogna portare lo
strumento fino al suo limite massimo e le doppie note, da fare con una emissione
speciale del flusso d’aria che permetta che si sentano contemporaneamente due
suoni armonici vicini. Trucchi, se volete, magia, certo roba che prima non esisteva. E
quando diciamo prima, vogliamo dire prima di Severino Gazzelloni.
L’allora giovanissimo compositore giapponese Matsudaira gli consegnava
pagine dove bisognava leggere le note in verticale anzichè orizzontale. E il suo
connazionale Fukushima, quando scrisse Ekagra (per flauto in Sol e pianoforte),
certo lo doveva immaginare dotato di qualità pressochè soprannaturali; musicalmente
parlando più vicino a un extraterrestre che a un normale, umanissimo suonatore di
flauto. In questo suo pezzo a strida rauche e strazianti da bestia ferita seguono
immediatamente bisbigli, sussurri e sospiri dolcissimi, appena intelligibili. Il flauto in
Sol vibra in continuazione, e anche Severino vibrava insieme ad esso nel suonarlo. Ci
sono salti improvvisi, interruzioni mozzafiato, acuti che più acuti non si può. La
musica di Fukushima è come una scarica elettrica nella quale l’esecutore può
rimanere fulminato.
E ben vero che nelle loro dediche tutti questi signori scrivevano al riguardo di
Gazzelloni cose molto gentili come “mago del flauto”, oppure “grandissimo”,
“inarrivabile”. Uno lo definì addirittura “maestà”. Stockhausen lo chiamava “il mio
alfiere”. Gazzelloni ne era molto lusingato, ma che fatica ! Non gli bastavano più i
soliti esercizi di respirazione, non doveva soltanto mantenere i polmoni elastici e la
cassa toracica in forma, per quella “non musica”, come la chiamavano i detrattori (e
ce n’erano molti allora), ci voleva ben altro. La sua preparazione per i concerti finì
con l’assomigliare più all’allenamento di un atleta in vista di un campionato che non il
normale training di un musicista. Faceva molto moto tutti i giorni. La sua dieta era
su per giù quella di un corridore o di un asso del pallone.
A chi diceva che era un egocentrico o cose del genere lui rispondeva :
“Egoista? ... almeno 200 sere all’anno su 365, io mi consegno totalmente a un
pubblico che nemmeno conosco, e proprio mi do, nel senso letterale del
termine.” Mentre suonava sentiva persino di volere bene tutta quella gente che stava
lì per sentirlo. Altro che egoismo, lui era uno che voleva bene all’umanità intera; un
altruista puro. Uno che a ogni concerto perdeva, per fare contento il suo pubblico,
almeno due chili di peso, come un centometrista. Suonare il flauto era bellissimo, ma
gli costava anche tanta fatica. Fatica fisica voleva dire lui, come scalare una
montagna di chilometri e chilometri.
A metà degli anni 50’ faceva lunghi viaggi in macchina, aveva ottenuto il suo
primo incarico come insegnante di flauto nei Conservatori italiani. A Darmstadt
insegnava già da tempo, e anche a Darlington (Inghilterra) e in Finlandia. Ma in Italia
fino al 1955 nessuno si era sognato di affidargli una cattedra di flauto. La prima fu a
Pesaro.
L’arte per lui significava libertà totale assoluta. A modo suo faceva anche
politica. Portava la musica nelle fabbriche, nelle piazze. Il suo impegno verso la
società si chiamava musica e quindi la portava dove non era mai stata a tutti quelli
che non avevano mai avuto la possibilità di entrare in una sala da concerto. Suonava
per gli operai, per i diseredati, per i poveri e per i giovani. Dava concerti gratis o per
poche lire correndo su e giù per l’Italia. Era soddisfatto, perchè aveva dato molto
alla gente, la possibilità di sentire almeno una volta nella vita Mozart e Vivaldi. I
concerti in piazza gli davano sempre emozioni bellissime. E là che sentiva nascere, fra
lui e il pubblico, un qualche cosa che difficilmente avvertiva nel chiuso di una sala.
C’era un contatto diverso, una rispondenza che lo esaltava.
Da allora tutta la sua vita è stato un periodo fortunato. Ha seguitato a
mettercela tutta, ogni giorno, con gli esercizi, con l’allenamento che non trascurava
mai, e in ogni concerto cercava sempre di fare il meglio nell’esecuzione e nella scelta
del programma, senza importargli dove suonava e per chi suonava. Grandi sale
internazionali, studi televisivi con milioni di ascoltatori, teatri famosi come la Scala o
piccoli teatrini di paese, cinema di periferia, aule scolastiche o anonime piazzette di
sperduti villaggi.
Nel 1957 William Block, direttore della BBC crea anche lui un corso di
musica di avanguardia a Darlington, vicino Newcastle. E chiama la gente di
Darmstadt per formare il corpo insegnante : un bel successo. L’anno prima avevano
proposto a Gazzelloni di tenere un corso sulle opere per flauto di Mozart e Bach a
Köln, dopo avergli sentito suonare il Concerto in Sol maggiore di Mozart. Nel 1957
ricevette anche un invito dall’Accademia Sibelius di Helsinki, dove per 5 anni
insegnò le nuove tecniche del flauto appplicate alla musica d’avanguardia.
“Mentre insegnavo a Darlington trovavo modo, come sempre, di fare
anche il mio vero mestiere. Suonavo nei famosi concerti Promenades davanti a
migliaia di persone.”, dice Gazzelloni, non nascondendo le sue preferenze rispetto
all’insegnamento.
In America aveva incontrato anche Luciano Berio, che era amico suo dei
tempi di Darmstadt. La tournée era dedicata alla musica d’avanguardia, e gli
americani, che avevano già John Cage ma lo consideravano più che altro una
stravaganza, si erano interessati ai suoi nuovi esperimenti, alla tecnica rivoluzionaria
che riusciva a tirare fuori dal flauto, ai suoni prima di allora mai sentiti : aveva
naturalmente in programma anche un pezzo di Berio e una sera lo vide seduto tra il
pubblico. Dopo il concerto Berio lo portò in uno strano ristorante, i proprietari erano
due armeni, i genitori di Caty Berberian, la grande cantante di musica d’avanguardia,
che riusciva a fare della sua voce un perfetto strumento per questa dannata musica
nuova. Una volta si trovarono insieme nello stesso concerto, in una prima esecuzione
della loro pazza musica d’avanguardia. Qualcosa di straordinario, con l’orchestra
che si divideva su due palchi, una parte diretta da Maderna e l’altra da Berio.
Suonò anche il Concerto per flauto di Ghedini a Venezia. Il vecchio critico
Alois Moser scrisse due giorni dopo su “La Suisse” : “Ho sentito a Venezia il più
grande flautista dei nostri tempi”. Ed era certo uno che se ne intedeva perchè, data
l’età così tarda, aveva fatto in tempo a sentire i flautisti della famosa scuola francese
e quelli della scuola svizzera, le più importanti fino ad allora nel mondo del flauto.
Qualche tempo dopo, per una esibizione a Parigi, un altro grande critico, Claude
Rostand, confermava il giudizio di Moser scrivendo : “Gazzelloni ha portato via il
successo del flauto alla Francia.”
Nella serata finale del Premio Internazionale Marzotto per la musica a
Valdagno, nel 1963, lui suonò con l’orchestra della Fenice di Venezia un pezzo che
Donatoni aveva scritto per lui : Puppenspiel n° 2. Questo brano poi lo ha portato in
tournée in tutta Europa, al Festival di Musica Contemporanea a Palermo, al Maggio
Musicale Fiorentino e a Roma. Lo metteva in programma con il Concerto per flauto
che Petrassi gli aveva dedicato e con un altro pezzo scritto per lui da Mario
Peragallo : Fasi, in cui oltre al flauto suonava un po’ di tutto, anche oggetti strani.
Ma questo non era una novità per Gazzelloni. Al Festival dell’Avanguardia a Venezia
si era già cimentato con il tiptofono, un nuovo strumento a percussione, che va
colpito con una certa forza.
Riportiamo le stesse parole di Gazzelloni che parla di se stesso : “Vorrei
spiegare cosa significa essere Gazzelloni e tentare anche di far capire perchè
mai questo Gazzelloni continua a restare in cima alla classifica. Da principio a
soffiare dentro questo benedetto tubo di metallo eravamo veramente in pochi,
la battaglia era dunque meno dura e bastava avere grinta e darci dentrto con
il fiato più degli altri. Non credo che ci siano sulla piazza molti giovani flautisti
pronti ad alzarsi ogni mattina alle sei come facevo io da ragazzo per andare al
Conservatorio, in tempi in cui anche solo prendere i mezzi di trasporto era
veramente un allenamento da atleta. E neppure ne conosco tanti che dopo
questa faticata hanno ancora voglia di fare solfeggio in piedi davanti al leggio
prima di passare agli studi con il flauto, magari un quarto d’ora o 20 minuti
sempre sulla stessa nota finchè non esce così buona e intonata da sembrare
suonata senza sforzo.”
Dopo anni di esperienza aveva imparato a dominare il panico e ad andare
avanti come se niente fosse, e nessuno se ne accorgeva : un altro suo segreto era che
durante il concerto, qualunque cosa accadessse, riusciva a rimanere calmo, a seguire
soltanto la musica. Diceva : “Credo che potrebbe crollare il mondo e continuerei
a suonare senza scompormi.”
Bruno Canino, suo grande amico, fu per anni suo perfetto pianista e
clavicembalista. Prima di lui altri pianisti che avevano suonato con Gazzelloni sono
stati i fratelli Alois e Alfonso Contavski e David Tudor, tutti cari amici. Ma il
sodalizio con Bruno Canino è stato un’altra cosa. Insieme avevano fatto un’infinità di
concerti nel mondo e vissuto tante avventure e tante emozioni (compreso il Vivaldi
che suonarono in piazza San Giovanni a Roma per una grande folla, dopo le elezioni
del 1976, in occasione del grande successo elettorale del PCI, che aveva raggiunto
più del 34 % di voti).
Nino Rota è stato un suo amico carissimo. Dopo la sua morte gli aveva
dedicato interi concerti, aveva suonato molte volte tutto quello che aveva scritto per i
films di Federico Fellini, ripensandolo con il suo flauto. Per esempio il Rondò di 8 e
1/2, quella musichetta che tutti conoscono perchè accompagna la sfilata finale dei
personaggi sullo sfondo di un tendone da circo : è uno dei pezzi che faceva più
spesso per i suoi bis.
Non aveva un programma ideale ma se ne avesse avuto uno il concerto
avrebbe dovuto durare tre giorni di seguito : avrebbe voluto suonare tutto, da Bach a
Boulez, passando naturalmente per Vivaldi, Mozart e Debussy.
Nelle interviste gli è stato chiesto più volte quale era il suo pubblico ideale. E
ogni volta gli tornava in mente la definizione del pittore Montagnani (un suo amico
delle estati di Siena) : “Il pubblico è diversamente uguale. In tutto il mondo chi va ad
ascoltare un concerto vuole una cosa sola e sempre quella : sentire della buona
musica suonata bene.” e proseguiva Gazzelloni : “Naturalmente ci sono, a
seconda della latitudini, varie sfumature. Io, comunque suono volentieri
dappertutto, il pubblico lo considero il mio grande alleato nel costruire,
insieme a me, il mio successo. Penso sia dovuta a questo la mia disponibilità a
cercare di accontentare il pubblico il più possibile, cosa che più volte mi è stata
rimproverata dai soliti critici parrucconi.” Era infatti uno dei concertisti meno
capricciosi, difficilmente perdeva la pazienza, anche davanti a certe intemperanze e
era sempre pronto al bis, anzi a tutti i bis che gli ascoltatori chiedevano, anche
quando si faceva tardi e magari si sentiva veramente stanco. In questo senso forse lui
ha aperto una strada nuova. Il concertista tradizionale è una specie di nume lontano,
solitario e altezzoso che al pubblico concede ben poco. Lui, invece, gli andava
incontro sorridendo. Non amava il musicista divo, il concertista egoista che non si
concede, il direttore d’orchestra che lascia il podio di scatto, quasi che gli applausi lo
infastidissero. Ha suonato molte volte con Karajan. Lo trovava bravo, un grande
direttore, ma non certo sbalorditivo, niente di eccezionale. Almeno non per uno
come lui che aveva suonato con Furtwängler e con Bruno Walter. Nell’epoca in cui
in Austria c’era Bruno Walter, in Italia si contavano un paio di bravissimi direttori :
Bernardino Molinari, del quale si diceva che per La Sacre du Printemps di
Stravinsky aveva fatto 35 prove, e Nino Sanzongno, dotato di un istinto
impressionante e per questo capace di aprire una partitura mai letta prima e di farne
su due piedi un’esecuzione perfetta. Si ricordava bene di Vittorio Gui, che aveva per
la sua orchestra le stesse affettuose sollecitudini che si usano con le persone di
famiglia. Per sdrammatizzare le prove Gui raccontava in continuazione barzellette e
riusciva sempre a mettere di buon umore tutta l’orchestra. Essere diretti da lui era
davvero un divertimento, si suonava volentieri e bene. E Guarnieri ? Lo chiamavano
“parolaccia” perchè, oltre a fabbricare battute caustiche per tutto e per tutti aveva la
parolaccia facile e la diceva a gran voce, prendendola quasi sempre tra le più
fantasiose del repertorio del dialetto di Venezia, sua città natale. Siccome però era
anche una brava persona ogni volta prima di pronunciarla invitava le donne che
suonavano in orchestra a tapparsi le orecchie, a “serar i oci”, a chiudere gli occhi.
Poi c’erano gli stravaganti a tutti i costi. Si ricordava di Stokowski, il famoso
direttore che dirigeva senza bacchetta, solo muovendo nell’aria le sue lunghe mani
diafane. Persino Greta Garbo si era innamorata di lui. Era di quelli che fanno tutto,
anche Beethoven, “alla maniera di”, cioè la loro. Era bravissimo ma capriccioso. A
una prova ti diceva bene, benissimo, e alla fine ti chiamava perchè gli era venuto in
mente di farti cambiare un passaggio, ti teneva lì in piedi anche un’ora e al termine
del suo gran parlare della tua esecuzione non restava più niente, tutto era da rifare.
Oltre che per le sue capacità professionali e per il legame con Greta Garbo.
Stokowsky era noto in tutto il mondo per i capelli, aveva già una testa tutta bianca
anche se non era vecchio, una vera testa da artista, con quella specie di nuvola
candida che, mentre dirigeva, si muoveva tutta, gli ondeggiava intorno al viso pallido
e affilato sotto la grande fronte un po’ curva e gli occhi sempre spiritati. Davvero
quella incredibile zazzera bianca sembrava una nuvola gonfiata dal vento. Una sera
capì perchè : se la gonfiava davvero, a forza di soffi e di phon. Gazzelloni era andato
a cercarlo in camerino per una delle sue solite varianti che voleva facesse. Severino
era poco più che un ragazzo, considerava un grande privilegio l’essere diretto da
Stokowsky e cercava di accontentarlo. Dunque, va con il suo flauto nel camerino
dove si stava preparando per la prova generale, che era pubblica, una specie di
preconcerto. Mentre bussa sente il rumore dell’asciugacapelli in funzione, pensa
“Certo non mi ha sentito” e apre la porta. Ed ecco che vede il famoso Stokowsky, il
direttore divo con le più belle mani del mondo della musica seduto davanti allo
specchio, con la nuvola bianca tirata tutta in su, mentre un parrucchiere gliela sistema
gonfiandola con l’aria calda. Appoggiata sulla sedia la moglie che aveva allora, la
celebre e bellissima Gloria Vanderbilt, una delle ereditiere più ricche del globo,
dirigeva l’operazione stando attenta che i soffi caldi venissero distribuiti con
imparzialità, in modo da non provocare rigonfi anormali. Il suo sbalordimento doveva
essere così palese che la signora disse : “Cosa stai li sulla porta, entra, non hai mai
visto un phon ?”. Von Karajan, il più divo dei direttori, in confronto era nessuno.
Delle volte si trovava in orchestre del tutto diverse, le orchestre che registrano
le musiche per i films, di solito dirette dagli autori delle musiche. Aveva suonato con
Piero Piccioni sul podio, un altro che se non c’era Gazzelloni seduto al suo posto di
primo flauto, non avrebbe cominciato la prova.
Si era trovato più di una volta a suonare anche nell’orchestra di Giovanni
Fusco, che a prima vista era un romanaccio greve che parlava solo in dialetto e in
dialetto insultava tutti, con la voce basssa, impastata, resa ancora più roca da un
operazione alla gola. Fusco componeva musiche da film molto belle, e la cosa
curiosa e che con quel suo aspetto poco raffinato era il compositore preferito di
Michelangelo Antonioni.
Un grande letterato scrisse riferendosi a Gazzelloni : “Tu aiuti a scavalcare un
abisso: anche chi non capisce di musica (e siamo i più) sa che quando appari, appare
la musica.” Non c’è nemmeno da stupirsi, è una bella, semplice e doverosa
costatazione. D’altra parte sfidiamo chiunque a rimanere con i piedi per terra quando
uno come Paolo Grassi, nell’epoca in cui era sovrintendente Alla Scala di Milano,
dopo un concerto nel suo teatro manda a Gazzelloni una lettera con frasi di questo
genere: “Sei stato, come sempre, musicalmente splendido. Il tuo flauto è un emblema
di vita ed un invito a credere nella musica, ad amarci nella musica.”, oppure quando
Fedele D’amico, critico di fama internazionale, scrive, dopo averlo ascoltato in una
di quelle serate faticosissime all’aria aperta, con il vento malandrino che spazzava le
note : “Forse nessuno colse mai così direttamente la vocazione del flauto, quanto il
suo modo di disincarnarne il suono, riducendo il fraseggio a interiorità pura e quasi
illudendoci che il suono sia un’afflorescenza secondaria della musica, invece che la
sua base fisica.” Massimo Mila scrisse: ”Ma non è solo questione di tecnica. La dote
somma di Gazzelloni è la naturalezza d’una musicalità tutta istintiva, che gli permette
di entrare interamente nell’idea del compositore, sia questi Mozart o Boulez. Non
c’è sofisma seriale, non c’è complicazione cerebrale, non c’è intellettualistica
sottigliezza di dettato compositivo che resista al grimaldello della sua spontanea
natura musicale.” Per Gazzelloni queste parole erano come un attestato di laurea, si
sentiva davvero un “dottore in flauto” ante litteram.
A proposito di esami, Gazzelloni ha dovuto farne molti, ed e davvero
incredibile il fatto che nel 1971, quando era da 20 anni che girava il mondo con la
sua arte, va a fare l’esame per prendere un posto statale di insegnante in
Conservatorio. E ha dovuto farlo avendo come esaminatori colleghi bravissimi, ma
certamente meno noti di lui, e avendo come compagni concorrenti alla pari anche
flautisti che avevano studiato con lui. Ma così è la vita. E lui si è coscienziosamente
preparato per mesi a questa ennesima prova, studiando anche durante le varie
tournées.
Oltre all’esecuzione di alcuni pezzi, il programma di esame prevedeva,
ovviamente, la teoria, così ha dovuto rispolverare i vecchi libri di Conservatorio :
armonia, composizione e via dicendo. Si era portato i libri nella sua borsa, insieme ai
flauti, in molte città e paesi. La mattina, dovunque fosse, si alzava un’oretta prima del
previsto, e giù a leggere e a ripetere a voce alta come uno studentello qualsiasi.
Durante l’esame era un pochino emozionato. Anche perchè doveva stare alle
regole, era un Esame di Stato, mica poteva, come era ormai abituato, fare di testa
sua. Come prima di un concerto, lui era concentrato ma molto teso e con i nervi a
fior di pelle. C’erano cose che bisognava sapere per filo e per segno, ta-ta, e oltre ai
pezzi portati come programma suo, che andavano fatti alla perfezione, ce n’erano da
leggere a prima vista (e li strappò addirittura gli applausi) e altri ancora che erano
stati scelti dalla commissione d’esame. Fu, comunque un trionfo, se tale si può
definire il massimo della votazione, più i complimenti degli esaminatori. Ricordava
che era tornato a casa frastornato, ma con un’idea ben fissa in testa : finalmente
anche lo stato italiano si era deciso a dargli una cattedra di professore di flauto al
Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.