Dottorato di Ricerca in Musica e Spettacolo Curriculum “Storia e Analisi delle Culture Musicali” Decimo Seminario Annuale dei Dottorandi 16 e 17 febbraio 2016 Aula di Storia della Musica “Nino Pirrotta” IV Piano, Edificio di Lettere e Filosofia Come ogni anno l’attività dei dottorandi in Storia e Analisi delle Culture Musicali trova uno spazio di confronto all’interno della programmazione accademica. Gli iscritti al terzo anno e i dottorandi in consegna propongono una relazione su alcuni risultati o nodi teoricometodologici della loro ricerca. Il convegno, aperto a tutti, è introdotto da una lezione magistrale dell’illustre musicologo Reinhard Strohm, insignito del Premio Balzan nel 2012, sul vasto progetto di ricerca collegato al premio che attualmente coordina, intitolato Towards a global history of music. Programma Martedì 16 febbraio 11:30 Lezione magistrale Reinhard Strohm (University of Oxford) “Towards a global history of music”: un progetto interculturale Pausa pranzo 14:30 Raffaele Pinelli La rinascita dell’organetto (accordéon diatonique) tra Francia e Italia: genesi e sviluppo di un nuovo strumento 15:00 Ortensia Giovannini Padre Komitas, una figura chiave nel re-inventare la musica armena 15:30 Giuseppe Giordano Sulla prevalenza del modello di canto monodico per la Settimana Santa in un’area della Sicilia: una ipotesi filogenetica 2 16:00 Maria Rizzuto I Copti ortodossi in Italia: il canto Gholghotha come simbolo dell’identità cristianoegiziana Pausa 17:00 Alexandros Hatzikiriakos Lo “Chansonnier du Roi”, Napoli e la geografia musicale del Duecento 17:30 Daniele Mastrangelo Il ruolo della musicologia nell’attività di Brahms come direttore del Wiener Singverein (1872-1875) 18:00 Renata Scognamiglio Atmosfera ed “embodiment” al cinema: il contributo dell’analisi filmico-musicale Mercoledì 17 febbraio 9:30 Alessandro Maras “L'adieu” di Apollinaire nelle musiche di Honegger, Kurtág e Ferré 10:00 Antonella Napoli Le donne compositrici durante il fascismo: il caso di Giulia Recli 10:30 Marinella Acerra Bill Russo e l'Italia 11:00 Monika Prusak Tra evasione e impegno: i “Nonsense” e il “Sesto Non-Senso” all’interno della produzione corale di Goffredo Petrassi Pausa 12:00 Discussione generale 3 ABSTRACTS Raffaele Pinelli La rinascita dell’organetto (accordéon diatonique) tra Francia e Italia: genesi e sviluppo di un nuovo strumento L’organetto (accordéon diatonique), antenato degli aerofoni meccanici a mantice, è uno strumento popolare dell’era industriale ampiamente diffuso nella maggior parte dei Paesi occidentali, soprattutto in Europa. Attualmente esso è oggetto di un nuovo interesse da parte dei musicisti, del pubblico e degli addetti ai lavori del settore dell’industria culturale, specialmente in Francia e in Italia. Punto di incontro tra le civiltà contadina e urbana, esso ha non solo assicurato durante quasi due secoli la continuità di specifici repertori tradizionali che altrimenti sarebbero potuti scomparire, ma è anche riuscito, nel corso degli ultimi decenni, a favorire la diffusione di repertori moderni, grazie allo sviluppo di nuove tendenze creative che comprovano la sua autonomia in quanto strumento musicale della civiltà urbana. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, e all’interno del movimento del folk-revival, il “piccolo mantice sonoro” ha suscitato un ritorno di interesse da parte dei musicisti: da prototipo rudimentale destinato a un uso preminentemente in contesti di tradizione orale, esso è stato via via considerato quale strumento musicale veritable, attraverso e per cui comporre musica originale. Il cammino percorso dall’organetto sino ai nostri giorni, con particolare attenzione a quanto accaduto nelle ultime quatto decadi, è dunque il principale oggetto dell’intervento. Una volta accennato alle tappe principali dell’evoluzione organologica degli organetti nel quadro degli aerofoni meccani a mantice, la relazione intende esaminare il complesso “sistema organetto” sviluppatosi in Francia e in Italia, proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. L’analisi, che interessa gli assi musicologico, storico e culturale e che abbraccia uno dei principali ambiti di studio dell’etnomusicologia contemporanea, dal punto di vista epistemologico si estenderà attraverso analisi pluridisciplinari che hanno come obiettivo la realizzazione di un metodo di analisi che, qualora fosse ritenuto coerente, potrà essere applicato allo studio di ulteriori strumenti musicali. ***** Ortensia Giovannini Padre Komitas, una figura chiave nel re-inventare la musica armena Padre Komitas (Soghomon Sognomonian, Kütaya 26 settembre 1869 - Parigi 22 ottobre 1935), è stato un sacerdote, musicologo, compositore, cantore e direttore di coro armeno. Oggi dagli armeni è considerato all’unanimità come “il padre della musica armena”. Le sue produzioni basate sulla musica tradizionale dell’Anatolia e del Caucaso, costituiscono infatti la risorsa principale per la produzione di musiche ibride, le quali mischiano elementi ‘tradizionali’ con la musica classica, pop e rock. Nonostante ciò, il forte legame che gli armeni sembrano avere con Komitas e il processo di ibridizzazione che riguarda le sue raccolte, non sono stati investigati con la dovuta attenzione. Con la volontà di contribuire a colmare questa lacuna analizzerò in che modo la figura di Komitas venga utilizzata come emblema dell’identità armena, esaminando come 4 la sua biografia, spesso più mitizzata che realmente conosciuta, sia diventata un simbolo indispensabile della memoria del genocidio. Indagherò inoltre la sua musica, oramai diventata icona dell’armenità in musica, e il suo approccio, spesso sottovalutato, nell’analisi della musica di tradizione orale armena. Presentando diversi casi studio dimostrerò come la maggior parte dei musicisti, che fanno uso delle musiche di Komitas, affermino di voler produrre qualcosa di nuovo, senza però abbandonare il legame con ciò che è sentito come tradizionale. Esso è indispensabile per mantenere un’identità culturale armena al di fuori delle cerchie armene; infatti gli armeni, come tante altre comunità diasporiche, hanno subito una modificazione del gusto musicale dovuta al loro cosmopolitismo, mantenendo però sullo sfondo la memoria della loro storia. In conclusione sottolineerò dunque come nel processo di riappropriazione e riattualizzazione della propria cultura, le diaspore necessitino di figure chiave come quella di Komitas, anche se del tutto mitizzate e ‘immaginate’. ***** Giuseppe Giordano Sulla prevalenza del modello di canto monodico per la Settimana Santa in un’area della Sicilia: una ipotesi filogenetica Nell’ampio e articolato panorama festivo della Settimana Santa siciliana, musiche e canti tradizionali assumono particolare rilevanza nell’accompagnare i più importanti momenti rituali connessi alla Passione di Cristo: suoni di campane, marce eseguiti dai complessi bandistici, ritmi di tamburo, squilli di trombe e frastuoni prodotti con raganelle e crepitacoli (tròcculi) si alternano a un ricco corpus di canti popolari intonati in prevalenza da gruppi maschili, con modalità e stili diversi. Alla più estesa affermazione della polivocalità in quasi tutto il territorio isolano, si contrappone, in un’area circoscritta del Palermitano, la prevalenza del modello di canto monodico di competenza maschile. Partendo da questa osservazione è stata avviata una indagine orientata anzitutto verso una più puntuale precisazione dei confini odierni di questa pratica monodica, formulando ipotesi sui presupposti storico-antropologici che ne avrebbero circoscritto la presenza a quest’area della Sicilia. I diversi sincronismi che accomunano questo repertorio, sia riguardo al materiale poetico sia in relazione agli stili vocali e alle modalità di esecuzione, tenderebbero, inoltre, a definire un’area stilistica che si diversifica dal restante panorama musicale osservabile nel medesimo periodo festivo. ***** Maria Rizzuto I Copti ortodossi in Italia: il canto Gholghotha come simbolo dell’identità cristianoegiziana I Copti, i cristiani egiziani, riconoscono la propria identità nei riti ecclesiali interamente cantati e trasmessi oralmente da secoli. Spazi e forme della ritualità permettono loro di affermare la propria identità culturale e trasmetterla alle nuove generazioni sia in Egitto sia nelle diaspore. In Italia sono presenti numerose comunità copte. Esse sono organizzate in due diocesi nate a partire dagli anni Ottanta. Dal 2012 si assiste inoltre alla nascita di 5 nuove piccole comunità in Sicilia, Calabria e Puglia, che costituiscono uno degli esiti della Rivoluzione egiziana del 2011, poiché sono primariamente formate da rifugiati religiosi. Il panorama italiano è pertanto complesso: vi sono infatti comunità strutturate, come quella di Roma, e altre che rispondono allo stato di emergenza conseguente agli sbarchi degli immigrati in Sicilia. Un elemento che accomuna tutte le chiese copte, sia in diaspora sia in Egitto, è il canto. Tra le varie cerimonie che scandiscono l’anno liturgico, emerge, per importanza rituale e per il valore simbolico attribuito dalla tradizione copta, l’inno Gholghotha, cantato in lingua copta durante l’ora dodicesima del Venerdì Santo all’interno dell’Ufficio della Sepoltura. Questo inno costituisce un unicum nell’ampio e complesso repertorio liturgico copto. Secondo la tradizione tramandata in Egitto, infatti, la melodia risalirebbe ai riti per la sepoltura dei faraoni. Questo canto assolve, pertanto, a una fortissima funzione identitaria, ricollegando l’intero universo simbolico copto all’antichità faraonica dell’Egitto e riabilitando i Copti, piuttosto che come minoranza cristiana, come gli “autentici padroni di casa” della Nazione. Sotto il profilo strettamente etnomusicologico, significativa appare la comparazione tra la versione eseguita dal coro dell’Istituto di Studi copti in Egitto e la versione attualmente eseguita presso la chiesa copto-ortodossa di San Giorgio Megalomartire a Roma. Sebbene, infatti, a un primo ascolto le due versione risultino diverse, a una più attenta analisi e sulla base della trascrizione musicale, si mostrerà come esse siano invece sostanzialmente identiche. ***** Alexandros Hatzikiriakos Lo “Chansonnier du Roi”, Napoli e la geografia musicale del Duecento Il canzoniere francese noto come Chansonnier du Roi (Parigi, BNF f. fr. 844), rappresenta una delle fonti più antiche e autorevoli della lirica medievale, nonché un’importante collezione di mottetti antichi. Compilato attorno al 1250 nella Francia del Nord, il codice è stato successivamente ampliato da refrains francesi, danze strumentali, contrafacta latini, canzoni da ballo occitane e altri generi alieni alla canzone strofica, genere dominante nel corpus principale. Dopo i primi studi fondativi di Jean Beck, Pierre Aubry e Hans Spanke agli inizi dello scorso secolo, la letteratura sul Roi si è sostanzialmente arrestata fino agli anni Novanta, quando si è riscontrata una nuova fortuna critica sia musicologica che filologica. Il mio intervento si concentrerà specificatamente sulle aggiunte successive del canzoniere, cercando di far dialogare per la prima volta le due diverse prospettive. Fornendo nuove prove paleografiche e linguistiche, potrò ricondurre queste addizioni con maggior sicurezza all’ambiente napoletano durante il regno di Carlo I (12661285). Ritengo che questo milieu, caratterizzato fino alla morte di Carlo dalla presenza di artisti e intellettuali, provenienti dalla Francia, dalla Provenza e dal Regno d’Aragona, rappresenti il luogo più plausibile dove il canzoniere possa essere stato esposto a nuovi generi musicali e poetici. Inoltre, al confronto con altre fonti simili, la predilezione dei compilatori delle aggiunte per generi letterari più marcatamente coreutici e musicali, così come l’uso della notazione mensurale ma anche la presenza di irregolarità metriche e formali e peculiari strategie di mise en texte, rilevano un interesse inusuale per la dimensione sonora e performativa della lirica medievale. Con attenzione particolare ai brani provenzali, spiegherò la particolarità di queste addizioni, offrendo nuove riflessioni sul rapporto tra cultura manoscritta e musica intesa come evento sonoro. Proporrò inoltre 6 di ripensare la geografia musicale duecentesca, includendo Napoli come centro della monodia profana. ***** Daniele Mastrangelo Il ruolo della musicologia nell’attività di Brahms come direttore del Wiener Singverein (1872-1875) Gli studi dedicati all’attività di Brahms come interprete sono sparuti e divisi, spesso senza mediazione, fra i poli estremi della cronaca agiografica e i problemi ‘tecnici’ della prassi esecutiva; qualcosa in più si può dire attraverso un’analisi della logica immanente alle sue scelte di programmazione e un’interpretazione del significato culturale di queste. Attraverso l’indagine su fonti diverse, come ad esempio programmi, recensioni, testimonianze epistolari, cercherò nel mio contributo di ricostruire i tratti specificamente moderni di quest’attività, limitandomi al periodo in cui essa giunse al suo culmine: il triennio in cui Brahms fu direttore artistico della Gesellschaft der Musikfreunde. Il compositore lavorava in un contesto in cui non esisteva ancora un repertorio stabile di musica sinfonico-corale: la modernità del suo contributo derivò dal fatto, apparentemente paradossale, che egli perseguì la costruzione di una tradizione, quest’ultima fondata sulla riscoperta della musica antica. Per comprendere il significato storico di quest’attività ritengo sia decisivo far emergere il contributo fondamentale dato ad essa dalla ricerca musicologica coeva. Seguendo questa traccia vedremo comparire dietro alla riscoperta di Beethoven, Mozart, Händel, Bach, le figure di studiosi quali ad esempio Nottebohm, Chrysander, Spitta, in costante dialogo con Brahms. In particolare ci si soffermerà sulla scelta da parte del compositore di far conoscere alcune cantate sacre di J.S.Bach proprio nel momento in cui esse venivano poste al centro della ricostruzione storiografica attraverso la celebre monografia di Spitta del 1873. Fino a che punto le ragioni del compositore concordavano con quelle del musicologo? Esisteva una corrispondenza nelle implicazioni artistiche, politiche e religiose? Cercare di definire il ruolo della musicologia nell’attività di Brahms come interprete può aiutare a comprendere il rapporto che egli ebbe con la tradizione musicale, ad acquisire nuovi strumenti di lettura per capire le sue scelte come compositore e, più in generale, fa riflettere sui vari livelli in cui storia della musica e attività compositiva si sollecitano reciprocamente. ***** Renata Scognamiglio Atmosfera ed “embodiment” al cinema: il contributo dell’analisi filmico-musicale Nell’intervento presentato durante il seminario dottorale 2015 avevo introdotto lo sfondo teorico del mio progetto, in particolare la Nuova Fenomenologia di Hermann Schmitz e la sua definizione dell’atmosfera come «sentimento effuso nello spazio», dotato di uno status «quasi-oggettivo» per la sua capacità di afferrarci nel nostro «corpo vivo» (Leib). Avevo poi illustrato le feconde applicazioni che, secondo Gernot Böhme, la concezione schmitziana del Leib e dell’atmosfera può trovare in un ripensamento dell’estetica come 7 teoria generale della conoscenza sensibile (Aisthetik). Il paper di quest’anno offrirà alcuni esempi di “atmosfere filmico-musicali”, mostrando come lo studio musicologico della colonna sonora possa rappresentare per la neo-estetica fenomenologica un arricchimento interdisciplinare. Il corpus principale di frammenti audiovisivi proposti è tratto da Witness (Il testimone, r. Peter Weir, 1985). In questo film, relativamente poco trattato in sede accademica, la musica originale di Maurice Jarre e il sound-design di Cecelia Hall assumono un ruolo determinante nel modulare plasticamente lo «spazio vissuto» dell’ascoltatore attraverso suggestioni bottom-up, facendo avvertire “sotto pelle” la reciproca estraneità fra i due ambienti in cui si svolge la vicenda e cui appartengono i protagonisti: quello rurale, protetto e sospeso nel tempo di una comunità Amish e quello urbano della Philadelphia contemporanea, caratterizzato da un labile discrimine fra protezione e minaccia, criminali e tutori dell’ordine. Verranno brevemente discusse le soluzioni timbriche e di scrittura adottate da Maurice Jarre, evidenziando il suo contributo all’embodiment delle singole scene, ovvero alla percezione multimodale del mondo attraverso la mediazione del “corpo filmico”. Si discuterà altresì dei rapporti di sovrapponibilità fra teoria dell’embodiment e atmosferologia. Le conclusioni evidenzieranno il contributo che l’alleanza fra atmosferologia e analisi filmico-musicale può offrire alle attuali indagini filmologiche sulla cognizione incarnata; infine, ci si domanderà in cosa cambi l’approccio del musicologo affrontando una pellicola in prospettiva aistetica. ***** Alessandro Maras “L'adieu” di Apollinaire nelle musiche di Honegger, Kurtág e Ferré Tra le poesie di Apollinaire, L'adieu (1912) è stata quella che ha ottenuto più musicazioni da parte dei compositori eurocolti: nell'arco di poco meno di un secolo ha attratto quindici musicisti, ai quali si aggiungono un artista popular e uno jazz. Inoltre, com'è lecito aspettarsi, i risultati degli incontri fra la componente poetica e quella musicale sono stati i più vari, sia a causa delle profonde diversità di epoca e di stile fra i compositori, sia per le molteplici opportunità di lettura offerte dalla stessa poesia. Il testo di Apollinaire, così come l'assoluta maggioranza della sua produzione poetica, non fu concepito per una successiva musicazione. Benché Honegger riporti l'approvazione del poeta nei confronti della sua intonazione – l'unica che Apollinaire abbia ascoltato – L'adieu è stata lasciata alla libera inventiva dei compositori senza alcuna ingerenza del poeta. Quest'involontaria apertura deve essere abbinata alla consapevole libertà ermeneutica proposta dalla poesia stessa, la quale, in virtù del suo contenuto e della sua forma, conduce a interpretazioni (testuali o artistiche) radicalmente diverse. Dall'ampia varietà di intonazioni occorse durante il Novecento, emergono tre casi particolari, e non solo per la rilevanza dei rispettivi autori. Si segnalano la mélodie di Arthur Honegger (1917), la prima in assoluto, che cerca di conciliare il testo apollinairiano con una musica di sapore tardo-ottocentesco; la composizione per pianoforte solo di György Kurtág (1984), che modifica la poesia stessa ed elimina la componente sonoroverbale; e la chanson di Léo Ferré (1986), il cui autore cerca di conciliare una personalissima interpretazione del testo con le opportunità intermediali interne alla musica popular. In questa relazione vorrei proporre una breve analisi delle modalità con le quali 8 poesia e musica si sono incontrate e mostrare delle possibili nuove interpretazioni del testo poetico a partire dalla musica. ***** Antonella Napoli Le donne compositrici durante il fascismo: il caso di Giulia Recli Il secolo scorso ha fondamentalmente superato pregiudizi e ostentata indifferenza verso la sfera della creatività musicale femminile, come in precedenza era avvenuto per l'ambito dell'interpretazione strumentale. Ciò nonostante le compositrici pagano il conto di un passato che relegava la donna, in ambito musicale, a uno spazio circoscritto all'intrattenimento degli ospiti, al diletto personale e all’insegnamento. Nel corso del XIX e XX secolo l'attività creativa spesso non è più circoscritta al gineceo del formativo passatempo femminile e nomi di donne figurano nell’elenco del corpo docente d’importanti istituzioni pubbliche musicali: inoltre esse organizzavano eventi culturali, e ancora, in casi limitati prime composizioni di donne furono eseguite da importanti enti internazionali. L’Archivio di Giulia Recli – compositrice e presidente della sezione musicale dell’associazione fascista “Donne artiste e laureate” – è testimonianza di uno spaccato del Novecento finora trascurato dagli studiosi: il ruolo delle compositrici italiane durante il ventennio fascista. Parte dei documenti si trovano in Brianza presso la villa di famiglia, oggi proprietà dell’unica erede della compositrice. Il Fondo, riordinato da Maria Grazia La Scala (insegnante di esercitazione corale presso il Conservatorio di Milano) non è stato riorganizzato seguendo un criterio scientifico; tuttavia il lavoro di riordino (si tratta di oltre 2000 documenti fra corrispondenza, materiale fotografico, schizzi a matita, bozze autobiografiche, autografi musicali, recensioni di giornali e altro) permette il recupero e lo studio del materiale. Oltre a testimoniare l’attività di una compositrice le cui musiche furono eseguite in importanti sale da concerto (come il Teatro alla Scala, l'Augusteo, il Metropolitan Opera, la Sala Vidagò a Budapest, la Royal Albert Hall di Londra), il fondo Recli è particolarmente interessante visti gli stretti rapporti di collaborazione – dimostrata da una ricchissima corrispondenza – con alcuni tra i più rinomati musicisti italiani del primo Novecento: De Sabata, Pizzetti, Casella, Serafin. ***** Marinella Acerra Bill Russo e l'Italia In Italia gli anni '50 sono tra i più fecondi per il jazz, e in particolare per le orchestre. Forte è infatti l'interesse per il jazz internazionale, soprattutto americano, considerato da molti modello e fonte di ispirazione. Nelle capitali d'Europa le star internazionali del jazz si esibiscono in lunghe tournées: un'occasione importante per sentire dal vivo tutte le voci del jazz, anche quelle più moderne. In Italia, un contatto ancora più diretto con questa musica viene favorito dalla presenza, soprattutto a Roma, di molti musicisti jazz che vi si trasferiscono grazie a borse di studio per la composizione di musica contemporanea. I musicisti che giungono in Italia fanno parte delle scuole più moderne, utilizzano nella 9 composizione jazzistica anche le tecniche complesse della tradizione classica, come nel cool jazz, e nella scrittura orchestrale ricercano nuove sonorità utilizzando anche tecniche mutuate dalla tradizione sinfonica europea. E' importante capire quali novità siano derivate dal contatto diretto con i compositori americani, e che tipo di influenza questi ultimi abbiano effettivamente avuto sulla formazione e produzione dei musicisti italiani. Bill Smith, ad esempio, costruisce rapporti solidi con le istituzioni, con l'azienda Rai, con le case discografiche (RCA), con i musicisti più importanti del jazz, della musica classica e di avanguardia, ma anche con i jazzisti romani con cui intrattiene rapporti di amicizia e professionali. Non sempre l’occasione viene colta al meglio però, come accade con Bill Russo, la cui presenza in Italia non viene messa abbastanza a frutto dai musicisti italiani e si risolve in un'occasione mancata. In questo studio si focalizza l'attenzione sulla figura di Bill Russo in Italia. L'attività di Russo, con la sua scrittura orchestrale per l'orchestra di Trovajoli, segna un arricchimento fondamentale, perché offre la possibilità a un'orchestra composta comunque da musicisti di prim'ordine, che non avevano nulla da invidiare agli americani, di poter valorizzare le loro qualità. Un'occasione anche per la Rai, che presenta la sua migliore produzione nel campo orchestrale jazz in Italia fino ad allora. ***** Monika Prusak Tra evasione e impegno: i “Nonsense” e il “Sesto Non-Senso” all’interno della produzione corale di Goffredo Petrassi La carriera di Goffredo Petrassi inizia nel 1932 con la prima rappresentazione dei Tre cori con orchestra durante un saggio del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, occasione dell’incontro con Alfredo Casella con il quale nascerà una grande amicizia di carattere professionale. Da quel momento le composizioni corali con o senza l’impiego degli strumenti musicali diventano per Petrassi la colonna portatrice di uno stile del tutto personale e di una inarrivabile fede religiosa, espressa sotto forma di «ansia nell’espressione artistica», una tensione spirituale irraggiungibile confinante con l’utopia (Petrassi, 1978). I cinque Nonsense e il Sesto Non-Senso, composti rispettivamente nel 1952 e nel 1964, costituiscono un anello fuori posto in questa catena spirituale, collocandosi in un momento particolare dal punto di vista storico e biografico: una sorta di saturazione stilistica che porta all’esplorazione della tecnica seriale senza mai assimilarla. Lo studio, partendo dalla situazione politica e culturale del momento, prende in esame gli studi esistenti, gli scritti, le interviste e l’epistolario di Petrassi, nonché la rassegna stampa dell’epoca, per ricostruire il percorso stilistico e ideologico che porta alla composizione dei Nonsense e del Sesto Non-Senso.