NewsMagazine n. 24 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro

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Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano
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Interstizi & Intersezioni
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Mi lego il cappello – ripiego lo scialle – le piccole incombenze della vita compio –
precisamente come se la più insignificante fosse per me – infinita –
(Emily Dickinson)
Cari destinatari,
vorrei offrire una breve riflessione sull’Università ponendo una domanda esplicita: ha ancora un’anima l’Università italiana? Mi
chiedo cioè se a fronte delle assillanti incombenze burocratiche assegnate al corpo docente, così come della visione
efficientistico-valutativa del genere ‘bastone e carota’ indotta dalla recente legge di riforma, sia possibile oggi portare avanti in
termini creativi e sufficientemente sereni un lavoro di ricerca oltre che di didattica. Quanto alle scienze umane e sociali, credo
che senza una motivazione profonda e ‘gratuita’ alla ricerca – e alla docenza, che ne dovrebbe essere un aspetto integrativo –
cada l’idea stessa di professione universitaria rispetto a quella di insegnante o di generico operatore culturale. Vorrei
aggiungere, ricordando il Gai saber inventato dai poeti provenzali, che per ridare un’anima all’Università si potrebbe riprendere
e adattare oggi quella felice intuizione di una scienza e di una conoscenza gioiosa, senza dimenticare certo i vincoli e le fatiche
inerenti: gioia di fare ricerca per scoprire nuovi continenti, gioia di insegnare e di apprendere. Le motivazioni strumentali sono
importanti ma non bastano, né per i docenti né per gli studenti: la stessa durezza e gravità della situazione economico-sociale in
Europa ci spinge paradossalmente a trovare antidoti alla morsa dell’economia in termini di gratuità ed espressività, di
convivialità non disgiunta dalla sobrietà. Perché non cercare allora di fare delle università, iniziando da quegli atenei che godono
di condizioni privilegiate di tipo logistico-ambientale o di carattere storico-culturale, un laboratorio per rilanciare la creatività?
Perché non puntare ad iniziative didattiche e culturali che siano nel segno della formazione umanistica degli studenti? Mi rendo
conto della carica utopica di queste proposte, ma senza una visione coraggiosa orientata al futuro, l’università italiana – che fu
la prima, con Bologna, nel mondo – è destinata a diventare un luogo triste e burocratico, ansiogeno e meramente efficiente,
omologato a tanti altri ambiti organizzativi. Forse, è tempo di dare ascolto ai poeti e ai profeti. Ammesso che ve ne siano ancora.
Gianni Gasparini
SOMMARIO
1. Incontri
-
Forum “L’Islam in Italia: verso quali direzioni?”, a cura di Francesco Mazzucotelli
(Francesco Mazzucotelli, Massimo Rizzi, Randa Ghazy)
Gaetano Oliva, Convegno Artisticamente
2. Libri & Scritti
-
Alida Airaghi, Memoria del limite di Luciano Manicardi
Luca Pesenti, Uscire dalle crisi, a cura di Giancarlo Rovati
3. Arte & Comunicazione
-
Gianni Gasparini, Decalogo, 1-10 di Krzystztof Kieslowski
4. Vita quotidiana
-
Gianni Gasparini, Montserrat Figueras: in memoriam
Rubrica “Città (e luoghi) interstiziali”
-
Giampaolo Nuvolati, Alla ricerca del silenzio: interstizi a New York
Giampiero Comolli, Canarie: l’arcipelago interstiziale
Pubblicazioni recenti
1. Incontri
Forum “L’Islam in Italia: verso quali
direzioni?” a cura di Francesco Mazzucotelli
 Islam, interstizi e intersezioni
Essenzialismo ed eccezionalismo: pare proprio
che le due sponde mediterranee non riescano a
uscire da queste due categorie nel rappresentare
l’Altro. Un anno dopo le cosiddette primavere
arabe, i giudizi europei sui fermenti e sulle grandi
trasformazioni in corso nel Nordafrica e nel
Medio Oriente rimangono schiacciati da
stereotipi e semplificazioni deprimenti, non solo
nei mezzi di comunicazione di massa, ma anche
tra quegli intellettuali che dovrebbero disporre di
strumenti di analisi più raffinati. Eccezionalismo:
pensare che le società musulmane (e le persone
che le creano) siano così antropologicamente
differenti dal resto del mondo da meritare schemi
concettuali, modelli analitici e approcci relazionali
totalmente differenti dal resto dell’umanità.
Essenzialismo: pensare che le società musulmane
(e l’Occidente) siano realtà monolitiche, prive di
evoluzioni e varianze geografiche e storiche.
Rimangono così sempre fuori dalla cornice le
varietà individuali, le simmetrie, le incoerenze
individuali e collettive (che pure contano), le
sovrapposizioni, e le molteplici possibilità di cui
ciascuno, avendo risorse e mezzi adeguati,
dispone per poter salvare, selezionare e scartare
elementi delle proprie culture di origine ed
elementi di altre culture. Peccato, perché, con
buona pace dei soloni e dei fondamentalisti di
entrambe le parti, è proprio tra queste pieghe
sinuose che si osservano declinazioni e giochi di
identità, appartenenze e comportamenti. Chi, in
Europa, ha sentito parlare del fenomeno dei
telepredicatori islamici (ispirati agli evangelici
d’America) e dei modelli di etica sociale e delle
esperienze di fede che essi promuovono, perlopiù
in contrapposizione a una religiosità di tipo
tradizionale? Che cosa sta dietro alla “Barbie
islamica”, che, seppur vestita in modo
islamicamente corretto, veicola molti degli stessi
ideali di consumismo, successo economico e
performatività dell’originale Barbie californiana?
Come e perché aspirazioni, frustrazioni e sogni
vengono espressi attraverso l’appropriazione
selettiva del genere hip-hop, molto spesso con
contenuti politici e identitari, e talvolta anche
religiosi? Cosa spiega il mercato dei prodotti halal
(leciti dal punto di vista religioso) o il fenomeno
del turismo islamico? In che modo la
globalizzazione e la postmodernità, con il suo
sbriciolamento delle grandi categorie di senso e il
diffondersi di modelli individualisti, impatta con
le ortoprassi delle società musulmane
tradizionali? L’approccio alle questioni afferenti
all’islam in termini puramente emergenziali e
securitari (o solo per strumentalizzazioni
elettorali) impedisce di cogliere questi fenomeni.
Sarebbe invece probabilmente più interessante
partire proprio da qui per decostruire le immagini
ingigantite dell’Altro, senza con ciò scadere né in
un ingenuo irenismo né in una visione idealizzata,
dunque simmetricamente falsata. Sarebbe
opportuno partire dalla conoscenza di persone in
carne e ossa, magari iniziando proprio dai
musulmani che ci sono più prossimi, disegnando
terre di mezzo nelle quali sia possibile esprimere
senza timori le proprie identità, ma allo stesso
tempo con la disponibilità a metterle
continuamente in gioco.
Francesco Mazzucotelli, Università Cattolica –
Milano, [email protected]
Buone prassi: prassi formate e informate
Da tempo si parla di buone prassi attorno al tema
del multiculturalismo e della variegata presenza
di etnie e culture sul territorio italiano. Anche
l’ambito religioso è stato investito da questa
novità. Il mondo italiano, abituato ad una sorta di
unitarismo egualitario nella prassi religiosa, si è
risvegliato invece con un pluralismo al suo
interno segnato dalla presenza musulmana in
modo particolare. Tale presa di coscienza ha
avuto un risvolto ulteriore nell’attivazione di
alcune
buone
prassi
finalizzate
all’implementazione di incontri tra culture e
religioni: è infatti evidente che il fattore religioso
ha un potenziale enorme in ambito integrativo.
Ciò attraverso eventi simbolo, come è stato lo
scorso anno con l’incontro di Assisi, ma anche con
piccoli e grandi esperienze di donne e uomini che
hanno il desiderio di costruire “terre di mezzo”.
Ritengo che tali vicende vadano sempre più
narrate, come volano ulteriore di mutue
relazioni. La mia personale esperienza mi porta
ad affermare la necessità di tali buone prassi, per
la creazione di occasioni di incontro che creano
dialogo. È tuttavia essenziale una duplice
puntualizzazione: buone prassi, ovvero prassi
informate e prassi formate. È evidente la
diffusione di un’ignoranza religiosa: basti pensare
all’imbarazzo dei concorrenti del quiz televisivo
serale quando si trova di fronte ad una domanda
di ambito religioso. Non si tratta però di additare
tale o tal altra agenzia incapace di trasmettere
l’abc della religione. È piuttosto necessario
trovare occasioni per approfondire la conoscenza
delle religioni, elemento essenziale “per capire e
affrontare razionalmente le sfide che vengono
poste sia dagli avvenimenti tragici […] sia dalla
convivenza tra gruppi etnici e religiosi
profondamente differenti che generano tensioni
e chiusure”. Questo vale per la propria religione
(o presunta tale), ma anche quella dell’altro. È
innegabile, oggi, che la conoscenza dell’altro
religioso si limita ancora troppo a informazioni
esigue e stereotipate, desunte spesso dai mass
media. Oppure ci si lascia guidare dalla
percezione immediata, imprescindibile, ma non
sempre capace di fornire strumenti per un
giudizio sereno. È dunque il tempo di assumere la
sfida che il mondo religioso ci propone, anche nel
suo volto pluralista, sostenendo progetti che
promuovano una conoscenza obiettiva del
mondo religioso, obiettiva e possibilmente
mutua, laddove si parla di mondi religiosi
diversificati. Ciò ci apre le porte a un secondo
aspetto di questi buone prassi: la questione della
formazione. Una prassi che si basi su una buona
conoscenza della propria religione e quella
dell’altro ha le premesse di buona riuscita, ma
non certo la certificazione di qualità. Fuor
dall’immagine, oltre a una competenza cognitiva
è necessario sviluppare anche progetti
laboratoriali che formino all’incontro con l’altro
attraverso esperienze di condivisione della vita, e,
perché no, del proprio vissuto religioso.
L’educazione al pluralismo religioso non passa
infatti unicamente dalla conoscenza dell’altro
religioso, ma chiede un’educazione paziente alla
diversità. Solo tali esperienze possono aiutare a
sperimentare percorsi possibili di dialogo, che
prevedano anche il fatto di lavorare insieme in
alcuni
settori
specifici,
affrontando
problematiche sociali. Questo proprio perché chi
dialoga non sono le religioni in quanto entità
astratte, quanto piuttosto uomini e donne con
una storia personale inserita nella storia della
propria comunità, del proprio paese. Così
potremo formare mentalità capaci di dialogo, per
imparare a vivere insieme nella diversità, nel
reciproco rispetto, con la certezza che una
reciproca
fermentazione
(piuttosto
che
contaminazione) non potrà altro che aiutarci a
raggiungere più profondamente la nostra
autenticità.
Massimo Rizzi 1
Yalla Italia: l’islam e l’Italia visti dalle seconde
generazioni
L’ immaginario ricorrente riguardo i musulmani in
Italia è stato contaminato da episodiche
rappresentazioni mediatiche bipolari: da una
parte, l’elemento estraneo che crea disturbo con
richieste inaccettabili – una moschea, la
rimozione di un crocifisso, una visione della
convivenza sociale profondamente permeata di
dogmi e liturgia - dall’altra, l’elemento ribelle che,
ormai occidentalizzato per bene, porta avanti
critiche in chiave di rottura nei confronti della
tradizione o della comunità di origine o denuncia
strumentalmente tragici casi di cronaca nera
ammantandoli di significati religiosi. Esiste, deve
esistere una terza via. È stata proprio
l’insoddisfazione
nei
confronti
di
una
rappresentazione
mediatica
falsata,
manipolatrice e pericolosamente manicheista a
stimolare la formazione di reti associative che
potessero permettere alle seconde generazioni
musulmane
di
creare
una
propria
autorappresentazione
poliedrica,
multisfaccettata e più vicina alla realtà. Yalla Italia
è un prodotto editoriale che nasce nel 2006 con
questo obiettivo, e da subito raggruppa storie
variegate: ragazzi e ragazze migrati in Italia in
tenera età, nati in Italia, figli di coppie miste, per
poi arrivare ad includere persino arabi copti e
arabi ebrei. Le motivazioni profonde che
spingono a scrivere di sé e dei propri dubbi
identitari sono diverse per ognuno, ma la chiave
con la quale questa complessità viene formulata
è per tutti una sorta di ironia catartica che per
prima contraddice la visione “seriosa”, greve con
cui l’Islam viene raccontato in Italia. E allora il
dubbio se mettere o meno il velo, i rapporti
interconfessionali, il divario generazionale e
culturale con i propri genitori, la misura entro la
1
Sacerdote, direttore del Segretariato migranti della
diocesi di Bergamo, docente di islam contemporaneo
presso il PISAI. È autore di "Per un discernimento
cristiano dell’islam" (Marietti 2008) e co-autore
(insieme a Chiara Brambilla) di "Migrazioni e religioni.
Un’esperienza locale di dialogo tra cristiani e
musulmani" (FrancoAngeli 2011).
[email protected]
3
quale essere “italiani” senza perdere le proprie
radici, vengono osservati nelle loro sfumature
comiche (o tragicomiche, a seconda dei casi)
senza mai offrire risposte definitive ma piuttosto
mettendo in campo dubbi e proposte che
veicolino una importante verità: la realtà è
dinamica, la contaminazione culturale ha tante
declinazioni possibili, e le definizioni sociologiche
difficilmente rendono giustizia a tale dinamicità.
Le criticità maggiori rimangono tre: la prima,
trovare il modo di dipingere in maniera
convincente un’italianità diversa, che sfidi la
concezione uniconfessionale tanto cara al
famigerato “immaginario comune” italiano.
Le seconde generazioni lottano in quest’ottica
persino con la stessa definizione scelta per loro,
che contiene in sé una falsità: si tratta spesso di
giovani nati sul territorio italiano ma trattati
come seconde generazioni di “immigrati”,
sebbene per loro non abbia avuto luogo alcuna
migrazione fisica. Ne deriva piuttosto una
migrazione mentale che rende i confini della
propria identita’ aperti, un mare a cui possono
affluire diverse sorgenti. E’ importante quindi che
sia chiara la differenza tra prime e seconde
generazioni, anche in termini di esigenze ed
istanze. La seconda criticità é la “dittatura del
velo”: cosi’ come la struttura patriarcale di molte
societa’ musulmane le spinge ad utilizzare l’onore
femminile come criterio di misura dello stato di
salute morale dell’intera società, anche in Italia
utilizziamo ossessivamente il corpo femminile, e
nello specifico il tema velo/“burqa” come terreno
di scontro il cui esito si presuppone abbia valenza
risolutiva dell’incontro tra culture e religioni. Il
tema è trattato in maniera ossessiva ma
superficiale, senza cognizione di causa e in una
commistione poco onesta con questioni che
andrebbero piuttosto raggruppate alle voci
“violenze
domestiche”,
“problemi
socioculturali”, e via dicendo. Per giunta, si parla di
donne musulmane, e raramente CON le donne
musulmane. L’ultima criticità è molto pratica, ma
fondamentale: la galassia musulmana nel
territorio milanese è frammentata, riottosa e
poco lungimirante. Si parla di una comunità che
ha vissuto almeno tre diverse scissioni dagli anni
settanta ad oggi e che presenta svariati luoghi di
culto che rappresentano piccoli potentati, con
famiglie che controllano centri culturali e hanno
una presunzione di rappresentanza quantomeno
discutibile. Ecco spiegato perché il nome “Yalla
Italia”, ovvero in arabo “forza, Italia!”: davanti a
sfide così complicate e ad un panorama che
presenta problemi tanto interni quanto esterni
alla “comunità”, servono una buona dose di
incoscienza, e soprattutto di sano ottimismo.
Randa Ghazy2i
E ora dove andiamo?
Dopo il delizioso “Caramel” (storie di donne nel
microcosmo rappresentato da un salone di
bellezza di Beirut), la regista libanese Nadine
Labaki ritorna nei cinema italiani col secondo
lungometraggio “E ora dove andiamo?”. Il film è
ambientato in un isolato villaggio tra i monti del
Libano, dove la chiesa e la moschea sorgono
fianco a fianco, e dove le donne del posto
cercano in tutti i modi di impedire che si estenda
il contagio della guerra civile. Rispetto al primo
film, la regista spinge ancora di più sul pedale del
grottesco e del surreale, soprattutto nella
sequenza iniziale con il corteo danzante di donne
sulla via verso il cimitero, e nella scena della
preparazione di stupefacenti dolcetti che forse
porteranno un po’ di pace. È probabilmente in
chiave surreale che il film deve essere
inquadrato: non ha, né potrebbe avere, le
pretese per essere una ricostruzione storica o un
manifesto di protesta di tipo politico. Le
differenze di genere tra le donne protagoniste
(attive ed emotivamente complesse, ciascuna con
le sue quasi almodóvariane nevrosi) e gli uomini
(aggressivi ma fondamentalmente tutti un po’
tonti) possono lasciare perplessi se non si prende
in considerazione la voluta esasperazione
grottesca. In realtà, basta vedere un
documentario come “To See If I’m Smiling” di
Tamar Yarom (con le interviste a sei ex-soldatesse
israeliane nei Territori palestinesi occupati) per
comprendere come le donne possano essere al
medesimo tempo vittime e corresponsabili di
modelli comportamentali violenti e conflittuali.
Il film di Labaki rimane comunque assai gradevole
e intelligemente provocatorio, giocando in modo
continuo con le identità confessionali e con le
diverse modalità con cui i personaggi vivono e
declinano il rapporto con la fede e l’appartenenza
al proprio gruppo. Labaki riesce a maneggiare
questi argomenti con delicatezza e grande
2
Laureata in Scienze internazionali ed istituzioni
europee, specializzata in Economics and Political
Science, redattrice di Yalla Italia, scrittrice. È autrice di
Oggi forse non ammazzo nessuno (RCS 2007).
[email protected]
4
rispetto, pur non lesinando ironia e sarcasmo. Il
film non offre soluzioni: il suo interrogativo finale
è già espresso nel titolo, e troppo complessi sono
i nodi del quadro confessionalista per pretendere
di immaginare un finale idilliaco. Ma la regista
sembra voler dire che il parlarsi e le convivialità
delle piccole cose sono già un prezioso, possibile
passo in avanti. E la lezione finale, con uno
sviluppo sorprendente e spiazzante della trama e
la frase “adesso vivi con il tuo nemico”, è una di
quelle da incidere a lettere cubitali sulla spalliera
del letto.
Francesco Mazzucotelli
Convegno Artisticamente – 17-18 febbraio
2012
Il Master “Creatività e crescita personale
attraverso la teatralità”, Facoltà di Scienze della
Formazione e Facoltà di Psicologia dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha realizzato
insieme al CRT Teatro-Educazione di Fagnano
Olona (Va), il 17 e il 18 febbraio 2012, presso il
Piccolo Teatro Nuovo di Abbiate GuazzoneTradate (VA), un importante convegno dal titolo:
Artisticamente. Le arti espressive come veicolo di
crescita e sviluppo della persona, della famiglia e
dell'ambiente. Si tratta di un’iniziativa che tende
all’aggiornamento e alla formazione di insegnanti,
educatori, formatori, studenti, operatori psicosociali e didattici e operatori del settore
educativo e culturale, artisti, danzatori e
insegnanti di danza, ma è aperta a tutta la
popolazione, in particolare ai genitori. L’iniziativa
è nata dalla consapevolezza che l’arte scenica,
che utilizza e comprende tutti i linguaggi artistici,
è un potente fattore educativo che riesce ad
offrirsi nella sua interezza di potenzialità
espressiva ad ogni singolo individuo. La crescita
della persona non solo non può prescindere da
una concezione globale dell’uomo, non può
neppure trascurare la relazione del singolo
all’interno della comunità. Questo presuppone la
necessità di progetti culturali ed educativi fondati
sull’integrazione e sul confronto. La vita e la
crescita dell’individuo maturano all’interno di una
rete, costituita innanzitutto dalla famiglia, la
quale, nonostante la crisi più volte annunciata,
continua ad essere il luogo della socializzazione
primaria, centro nevralgico per un’educazione
morale, sociale e culturale. Il nucleo familiare a
sua volta si incontra con la società civile; la
trasmissione di norme e valori, di diritti e doveri,
lo sviluppo di un senso di appartenenza e di
legalità a cui la società si propone di educare
devono trovarsi al centro di un progetto
condiviso e unitario. Dare forma al processo di
crescita personale e sociale dell’uomo è, dunque,
una priorità che può avvalersi delle arti
espressive come prezioso strumento per
contribuire a una formazione integrale. In questo
senso, la finalità del convegno è quella di offrire
spunti di riflessione e proposte operative sulle
arti espressive, con particolare attenzione a
quelle del corpo e della danza, in una prospettiva
teorico – pratica. Le arti, infatti, mediante la
molteplicità di linguaggi, consentono di
comunicare in modo efficace valori e idee e
permettono a ciascuno di sperimentare soluzioni
innovative. La disciplina della danza, inoltre, trova
oggigiorno un interesse e uno sviluppo
trasversale, dalla scuola al territorio, e merita
particolare attenzione per il contributo che può
dare in tale ottica. Il convegno s’inserisce in un
ampio panorama di ricerca all’interno della
scienza dell’Educazione alla Teatralità. Le arti
espressive vengono concepite come un veicolo
per favorire la consapevolezza individuale e
sociale. Questo concetto fondamentale consiste
nel superamento dell’idea di arte come
spettacolo, per una concezione di arte come
strumento per la conoscenza di se stessi. Il
percorso pedagogico che sta alla base dell’attività
artistica, inoltre, non trascura la necessità di
vivere il proprio tempo e i cambiamenti sociali,
rafforzando contemporaneamente il legame con
la tradizione e il territorio. Il coordinamento
scientifico delle giornate è stato affidato a
Gaetano Oliva, docente di Storia del Teatro e
dello Spettacolo, Drammaturgia, Teatro di
Animazione, Organizzazione ed economia dello
Spettacolo, della Facoltà di Scienze della
Formazione dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano.
Per informazioni:
[email protected]
tel. 0331.616550
Gaetano Oliva, Università Cattolica – Milano,
[email protected]
5
2. Libri & Scritti
Luciano Manicardi, Memoria del limite, Vita e
Pensiero, 2011.
Il limite di cui si parla in questo libro sapiente e
documentatissimo di Luciano Manicardi è,
ovviamente, “il limite invalicabile e ineludibile
della condizione umana”, la morte. Nel mondo
contemporaneo la morte, come la malattia e
l'invecchiamento, è divenuta fenomeno da
esorcizzare o addirittura negare, usando
stratagemmi di rimozione ( chi si veste a lutto,
oggi? Chi scrive la parola morte nei necrologi? E i
funerali vengono trasformati in happenings di
celebrata
individualizzazione,
i
corpi
igienicamente cremati, le agonie vissute
asetticamente e solitariamente negli ospedali..),
o demandando alla scienza -nelle sue branche
della farmacologia, della biotecnologia, della
genetica- il compito faustiano di prolungare la
vita indefinitamente, oltre la sua conclusione
naturale. Un sogno di immortalità che assolutizza
il presente, nella ricerca narcisistica di vivere
sempre, e sempre giovani e sani, con la
convinzione egoistica della propria insostituibilità.
Se nel corso del XX secolo il mondo occidentale
ha guadagnato circa trent'anni di speranza di vita
alla nascita, l'ha fatto anche a discapito di quella
parte del mondo che muore di fame, epidemie,
guerre e catastrofi naturali senza possibilità di
progettarsi un futuro; se da noi si rincorre il mito
della prestanza estetica, della vitalità sessuale,
del successo economico fino alla vecchiaia, in un'
assurda negazione del concetto di limite, altrove
la morte continua a imperare come livellante
ingiustizia. Manicardi, ricordando che in ogni
società primitiva esistevano riti e tecniche
funerarie, e che da sempre l'umanità ha messo in
atto strategie di immortalità (religiose,
politiche,generazionali) nel tentativo di vincere la
morte, stigmatizza l'ottusità della società
postmortale in cui viviamo, sottolineando che
l'uomo è molto più che la sua dimensione
biologica, e deve pertanto ritrovare la concezione
del corpo come relazionalità, “disponibilità a
lasciarsi alterare nell'incontro con il prossimo e
con il mondo”, accettazione del confine, e quindi
della fine. Il richiamo conclusivo alla pagine della
Scrittura che introducono il concetto di limite
come fondamento della condizione umana è un
invito a pensare alla resurrezione “non come
eliminazione, ma come assunzione della morte”,
laddove “l'unica eternità umana è quella che può
essere dischiusa dall'amore: l'amore all'interno di
una vita finita”.
Alida Airaghi, scrittrice
[email protected]
Giancarlo Rovati (a cura di), Uscire dalle crisi,
Vita e Pensiero, 2011.
L’uscita in libreria nel volume curato da Giancarlo
Rovati Uscire dalle crisi (ed. Vita e Pensiero,
2011), frutto della più recente ondata informativa
prodotta dalla componente italiana della
progetto di ricerca European Values Study,
rappresenta una preziosa miniera di informazioni
sul cambiamento valoriale e degli orientamenti
morali avvenuti nel nostro Paese in questi difficili
anni di transizione. Senza pretese di dar conto
della complessità e articolazione presente nel
volume, traspare in modo nitido una sorta di
costitutiva ambivalenza tra senso e non senso, tra
oggettivo e soggettivo, ovvero l’ambivalenza che
caratterizza fino in fondo il nostro tempo. I temi
specifici in cui si articola il volume riescono a
documentare efficacemente questa tensione (o
sconnessione) dinamica, in cui in gioco sono
come sempre le relazioni tra motivi della libera
autodeterminazione dell’individuo e richiami
all’oggettivarsi del valore dentro il richiamo di
un’autorità dirimente. Scegliamo “fior da fiore”
alcuni esempi che documentano quanto detto fin
qui. Innanzitutto rispetto al tema religioso: gli
italiani si mostrano sempre più interessati a
cogliere la “convenienza esistenziale” della
religione, sperimentandone nella vita la portata e
sottomettendo a questa opera di verifica il tema
della verità. Si denota così la presenza di una
sorta di mosaico, composito e sconnesso, in cui il
gioco lineare delle premesse e delle conseguenze
non sempre risulta perfettamente allineato
secondo un piano sequenziale di tipo logico e
razionale. Alla Chiesa resta accordata una fiducia
ampia da parte della larga maggioranza degli
italiani (circa il 60%), ma si rafforza la spinta
all’individualizzazione e alla relativizzazione etica
e pratica. Questa individualizzazione non fa però
venir meno la diffusione dei sentimenti di
solidarietà sociale. Smentendo una diffusa
percezione culturale, gli italiani confermano di
condividere ampiamente una cultura orientata
all’altruismo, spesso vissuta anche in forme
associative e volontarie. Su un altro versante, il
matrimonio non perde di centralità anche a
fronte del crescente infragilimento della famiglia,
6
ma si assesta sempre di più un giudizio di
rilevanza per il matrimonio come relazione a
discapito del matrimonio come istituzione. Fuori
dal mondo delle relazioni tra morale e
comportamenti pratici, la profonda crisi che ha
investito le economie occidentali rimette in
discussione
il
valore
del
lavoro,
essenzializzandolo: il lavoro torna ad essere un
valore in sé, legato alla sua effettiva disponibilità,
facendo diminuire l’approccio espressivo e
identitario. Si sperimenta insomma una nuova
“voglia di lavorare”, un primo segnale al ritorno di
una cultura della responsabilità dopo i lunghi anni
della dissipazione consumista.
Luca Pesenti, Università Cattolica – Milano,
[email protected]
3. Arte & Comunicazione
Decalogo, 1-10 di Krzystztof Kieslowski
(Polonia, 1987-1989)
Grazie alla cineteca dello Spazio Oberdan di
Milano, ho rivisto nella sua interezza una delle
opere più originali e impegnative del cinema del
Novecento, quel Decalogo di Kieslowski che
venne realizzato per la Tv polacca in dieci episodi
di un’ora ciascuno, dedicati con un approccio
laico e indiretto alle “dieci parole” del messaggio
ebraico-cristiano. L’impressione ripetuta è stata
quella di trovarmi davanti a un classico che dopo
oltre vent’anni continua a colpire e persino ad
essere scioccante, come nell’episodio di Decalogo
5, “Non uccidere”, dove un giovane sbandato
strangola un tassista e subisce la pena di morte
per impiccagione, nella Polonia di soltanto due
decenni fa. Altrettanto forte è l’episodio di
Decalogo 1, dove il tenero rapporto tra un padre
che crede nella scienza e un bambino che
fidandosi di lui va a pattinare su un infido
laghetto ghiacciato rappresenta una parabola
perfetta sul dolore, sull’amore frustrato dal
dolore. Ogni opera classica si offre a nuove
angolature interpretative: per questo, vorrei
indicare alcuni elementi di interesse in una
prospettiva sensibile agli “interstizi” e alle piccole
cose. Anzitutto, il linguaggio fotografico è
straordinariamente attento ai giochi di vetri e
specchi, ai rimandi delle immagini, alle messe a
fuoco e sfocature, agli spiragli da cui appaiono in
lontananza persone e oggetti, ai pertugi da cui
qualcuno spia qualcun altro (come in Decalogo 9,
“Non desiderare la donna d’altri”, e in Decalogo
6, “Non fornicare”). I dettagli e le piccole cose
della quotidianità ricevono una evidenza
singolare e appaiono nella loro enigmatica
imperfezione:
come
il
quadro
storto
nell’appartamento della professoressa di filosofia
(Decalogo 8, “Non dire falsa testimonianza”), o il
cruscotto dell’automobile che si apre e offre un
indizio importante (Decalogo 9). C’è anche un
misterioso personaggio impersonato sempre
dallo stesso attore – “l’uomo del destino” - che
appare brevemente in quasi tutti gli episodi nella
scena cruciale, senza dire una parola. E’ come se
Kieslowski avesse voluto lasciare aperte le
interpretazioni allo spettatore, pur nel quadro di
una visione della contemporaneità pessimistica e
ben poco incline alla speranza. Per questo, le
situazioni interstiziali acquistano uno spessore
fuori del comune: sono quelle che esprimono tra
l’altro l’attendere, il sostare, il fumare, il restare
in silenzio come nella straordinaria scena della
folla che assiste al recupero del corpo del
bambino annegato nel laghetto e si mette in
ginocchio, senza una parola (Decalogo 1). Il
telefonare, con le sue incertezze di esiti, le
possibili finzioni e strategie a cui si presta tra i
due interlocutori, è uno dei fili conduttori del
Decalogo: naturalmente non è ancora presente il
telefono cellulare, che avrebbe cambiato il
racconto degli episodi o la loro trama; si telefona
dal fisso, da casa o da un telefono pubblico. In
Decalogo 9, ad esempio, è proprio una serie di
difficoltà a comunicare telefonicamente tra il
marito che si crede tradito e la moglie che non lo
tradisce più a innescare l’episodio del tentato
suicidio di lui: Roman viene salvato e
dall’ospedale, steso tutto fasciato su un lettino,
riuscirà attraverso la cornetta che l’infermiera gli
porge e gli regge a tranquillizzare Anna Kieslowski
è morto a 54 anni nel 1996, poco dopo aver
girato Film rosso, l’ultimo della trilogia dei Tre
colori. Chissà quali altre espressioni della sua
creatività, così impietosamente e discretamente
attenta alle contraddizioni della modernità, la sua
morte prematura ci ha purtroppo sottratto.
Gianni Gasparini, Università Cattolica – Milano,
[email protected]
4. Vita quotidiana
 Montserrat Figueras: in memoriam
In una struggente poesia che adotta il linguaggio
e i pensieri dei bambini, “Uccellino di carta”
7
(Pajarita de papel), Garcia Lorca esclama ad un
certo punto “Biancofiore non muore mai / né
muore Luisito. / Eterna è la mattina / eterna la
sorgente della brina”. Vi sono volti luminosi di cui
sembra impossibile credere che non siano eterni
e siano fuggiti altrove, tanto il segno della
permanenza si era impresso in loro e si era
comunicato a noi come una pacata certezza.
Montserrat Figueras, mancata nella sua
Barcelona il 23 novembre 2011 all’età di 69 anni
in seguito a un cancro che l’ha spenta in pochi
mesi, era uno di questi rarissimi volti: voce e
volto, presenza inconfondibile in ogni suo
concerto di musica antica, ideatrice di incisioni
singolari e ispirate come i cofanetti dedicati alla
Ninna-nanna nel mondo e alla presenza
femminile nelle diverse culture (Lux feminae). Ho
visto e ascoltato Montserrat molte volte dagli
anni Ottanta; da ultimo nel 2009 a Milano in
occasione del grandioso evento musicale e
teatrale dedicato a “Gerusalemme città delle due
paci”, ideato dal marito Jordi Savall, violista e
direttore d’orchestra con cui ha condiviso la
musica e la vita (v. Newsmagazine n.15, Autunno
2009). Montserrat era un volto dolce e intenso
che si esprimeva in una voce dai toni
inconfondibili (chi l’ha ascoltata una volta la
riconosce immediatamente tra cento soprano),
con una venatura sottile e profonda di
melanconia, con una gravità meditativa che si
intuiva dal suo portamento ma che non le
impediva di comunicarsi agli ascoltatori con una
naturalezza
straordinaria
e
disarmata.
Montserrat irradiava con la sua sola presenza,
prima ancora di cantare, una nobiltà d’animo e
una “eleganza morale e artistica”, come è stato
scritto, che non poteva lasciare indifferenti. La
sua tensione etica è testimoniata anche dalle
iniziative per fare della musica un luogo di
incontro tra culture, specie quelle di impronta
cristiana, ebraica e musulmana: insieme a Jordi
Savall nel 2007 venne nominata dall’Unesco
“artista per la pace” e “ambasciatrice di buona
volontà”.
Montserrat Figueras ha ricevuto – e credo abbia
meritato - il dono di mantenere fino all’ultimo la
sua voce profonda e fragrante, insieme alla
bellezza matura e armoniosa del suo viso
incorniciato dai lunghi capelli: forse, più ancora
che bellezza, la sua è stata grazia.
“La cantatrice cantava / cantava ed incantava /
dal pulpito / della chiesa gremita. /La musica le
fluiva / dagli occhi dal seno / dalle dita delle mani
/ quasi un respiro necessario / un ardente bramito
/ un parlare sulle note / del mistero. / Io ascoltavo
/ ascoltavo e contemplavo / ad occhi spalancati /
la fragile forza / della donna che cantava /
cantava ed incantava / accompagnata dall’arpa /
dalle viole antiche / e dal liuto.”
Gianni Gasparini, [email protected]
Rubrica “Città (e luoghi) interstiziali”
 Alla ricerca del silenzio: interstizi a New York
Qualche considerazione su New York, a mo’ di
flânerie, New York e il silenzio. Tema difficile da
trattarsi in una città viva 24 ore su 24, assordante
e con alcuni rumori che si impongono: le sirene
della polizia, dei vigili del fuoco, i clacson dei taxi.
Ed allora ecco alcuni versi di poeti che parlano di
questa città “infernale” da cui partire per poi
parlare del silenzio come ancora di salvezza,
luogo di riposo e riflessione. Iniziamo con
Cendrars, Blaise Cendrars, con la sua Pasqua a
New York del 1912. Prendo solo alcune strofe:
Signore, sono nel quartiere dei bravi ladri,
Dei vagabondi, dei mendicanti dei ricettatori.
Penso ai due ladroni che erano con te al Supplizio,
so che ti degni sorridere della loro miseria.
Signore, uno vorrebbe una corda con un nodo in
cima,
Ma non è gratis, la corda, costa venti soldi.
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Ragionava come un filosofo, quel vecchio bandito.
Gli ho dato un po’ d’oppio perché vada svelto
in paradiso.
Penso anche ai suonatori di strada,
Al violinista cieco, monco che suona l’organetto,
A quella che canta col cappello di paglia e rose di
carta;
So che sono loro che cantano nell’eternità.
Dà loro l’elemosina, Signore, non solo la luce dei
fanali a gas,
Signore, fa loro la carità di un po’ di soldi in questa
vita.
Dopo Cendrars in un sogno ad occhi aperti mi
viene incontro Federico García Lorca, Poeta a
New York (1929-1930), con le poesie intitolate
“Danza della morte”, “Paesaggio della folla che
vomita (Tramonto di Coney Island)”, “Paesaggio
della folla che orina (Notturno di Battery Place),
“Assassinio (Due voci all’alba in Riverside Drive)”,
solo per citarne alcune. C’è incubo, solitudine e
alienazione in questa New York di García Lorca.
Siamo così giunti alla fine di questo breve
percorso letterario nell’immensa e ossimorica
“folla solitaria” di New York, dove si perde anche
il Viaggio al termine della notte di LouisFerdinand Céline in una camminata angosciante,
spalla a spalla con la sconosciuto, stupefatto per
le reclames di Time Square e il triste presagio che
queste inghiottiranno l’essere umano. Nel mio
vagabondare a New York anziché assumere un
atteggiamento blasè, distaccato, necessario per
sopravvivere nell’ambiente urbano all’incessante
pressione degli innumerevoli stimoli, ho cercato
negli interstizi della città alcuni luoghi del silenzio.
Abbandonarsi
alla
serendipity
è
stato
fondamentale. Ne cito solo alcuni di questi luoghi
a cavallo tra pubblico e privato: una stanza al
sesto piano del Langone Medical Center dove ho
trascorso una notte per accertamenti; la Galerie
LeLong, al 528 della West 26th Street, dove si
trovava una installazione artistica di Yoko Ono –
sì, proprio lei, la moglie di John Lennon –
intitolata Uncursed e fatta da una serie porte
bianche in attesa che qualcuno venisse a bussare;
la chiesa di San Francesco di Assisi sulla 32nd
West, a pochi passi dalla Pennsylvania Station e
dal Madison Square Garden, tra i luoghi più
trafficati della città. In generale a New York le
chiese di varie confessioni non mancano. Spesso
sono ben visibili, a volte sono nascoste. Servono
non solo per pregare ma anche per trovare riparo
dal freddo e dal rumore, come in tutte le città del
mondo. A partire dalla Scuola di Chicago negli
anni ’20 del 900 si sono sperimentati tanti modi e
tanti approcci analitici per capire le città - metodi
quantitativi e qualitativi - ma a volte solo la più
erratica delle flânerie, la più fantasiosa delle
rêverie, nello spazio e nel tempo, ci consentono
di avvicinare l’anima recondita e vera delle città,
quella più silenziosa.
Giampaolo Nuvolati, Università degli studi di
Milano Bicocca,
[email protected]
Canarie: l’arcipelago interstiziale
Nell’immenso vuoto oceanico che separa il
Vecchio dal Nuovo Mondo, esiste un minuscolo
luogo interstiziale dove si connettono non solo
Europa, Africa e America Latina, ma anche le
epoche della preistoria, delle conquiste coloniali
e della contemporaneità, come pure il mondo
della natura vergine e quello delle urbanizzazioni
ipermoderne. Questo luogo in cui pare essere
rimasta aperta la soglia, il passaggio,
l’intersezione che s’insinua fino al “chissà dove”,
fino alle mitiche contrade dei Campi Elisi, è
l’arcipelago delle Canarie. Sette isole vulcaniche
poco più a nord del Tropico del Cancro, a qualche
centinaio di chilometri dalle coste marocchine, a
mille dalla Penisola Iberica e a migliaia dai Carabi:
ci troviamo dunque all’estremità sud-occidentale
della Spagna e di tutta l’Unione Europea; di qui
passava un tempo il Meridiano Zero, a indicare il
limite ultimo delle terre conosciute dagli antichi.
Quando si arriva alle Canarie, il senso di
spaesamento spaziale e temporale può far venire
le vertigini. Sembra di essere arrivati in un luogo
che ricorda tutti i luoghi e che, al tempo stesso,
non assomiglia a nulla. Vi sono immense distese
desertiche, con le dune, le oasi, le palme e i
dromedari, come nel Sahara marocchino;
scogliere altissime dove si frangono cavalloni
enormi, come lungo le coste del Portogallo; valli
verdeggianti, punteggiate di cactus, banani e
cespugli fioriti, con chiesette bianche, e case
pure bianche e basse, aperte su un atrio dai
balconi di legno, come in America Latina; foreste
vergini, con liane e tronchi marcescenti, come
nelle giungle tropicali; distese nerastre di magma
rappreso, come alle falde dell’Etna; villaggi
turistici con shopping centre, parchi acquatici e
villette a schiera, come in un qualsiasi centro
vacanze dell’Europa mediterranea… Così, puoi
avere volte l’impressione di non essere mai
9
partito, per continuare a muoverti in uno spazio
globalizzato della contemporaneità, con gli
identici prodotti commerciali, gli identici cibi
internazionali,
le
identiche
architetture
impersonali, tipiche di ogni luogo segnato dalla
mondializzazione. Ma molte altre volte, invece,
non appena giri l’angolo e lasci le urbanizzazioni
del turismo di massa, eccoti precipitato in
contrade dal sapore ancora coloniale, con le
haciendas, le piantagioni di banane, i corrales per
il bestiame, come ai tempi della colonizzazione
spagnola, cominciata nel Quattrocento, subito
prima di quella americana. E non basta: perché
qui ti confronti pure con il lascito degli antichi
aborigeni, rimasti fermi al tempo del Neolitico
fino all’arrivo dei Conquistadores: toponimi dai
suoni
misteriosi
(Tapahuga,
Guayedra,
Timanfaya…), abitacoli in pietra, geroglifici incisi
sulle rocce… E puoi finire più indietro ancora, fino
ai tempi primordiali delle silenti foreste di lauri,
che prima dell’ultima glaciazione ricoprivano
l’Europa meridionale, e che solo qui sono rimaste
intatte… Sono luoghi di una bellezza tale,
oltretutto immersi in un clima
di eterna
primavera, da meritare l’appellativo (reso celebre
da Torquato Tasso) di “Isole Fortunate”: come se
l’arcipelago corrispondesse davvero alle “Isole dei
Beati” vagheggiate nei miti dell’antichità classica;
come se qui ci fosse l’interstizio in cui la Terra si
affaccia sul Giardino delle Esperidi…
Giampiero Comolli, scrittore, [email protected]
Pubblicazioni recenti
 E.Coccia, La vita sensibile, Il Mulino,
Bologna 2011.
 H.Gardner, Verità, bellezza, bontà,
Feltrinelli, Milano 2011.
 F.Italiano e M.Mastronunzio, cur.,
Geopoetiche – Studi di geografia e
letteratura, Unicopli, Milano 2011.
 F.Morace, G.Lanzone, Verità e bellezza.
Una scommessa per il futuro dell’Italia,
Nomos, Busto A., 2010.
 F.Rella, Interstizi. Tra arte e filosofia,
Garzanti, Milano 2011.
 R.Scruton, la bellezza, Vita e Pensiero,
Milano 2011.
I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Il coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
Tel. 02.7234.2547
Cristina Pasqualini
(La segreteria)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
Tel. 02.7234.3976
Redazione:
Piermarco Aroldi, Giampaolo Azzoni, Giovanni Gasparini, Ivana Pais, Cristina Pasqualini
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I corrispondenti:
Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en
Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea);
Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo
Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro);
Domenico Bodega, Università Cattolica – Milano (Organizzazione aziendale); Gianantonio Borgonovo, Facoltà
Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino
(Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano
(Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano
(Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti,
Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Gabrio Forti,
Università Cattolica – Milano (Diritto penale e Criminologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica);
Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin, Università
Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann,
Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio);
Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo
(Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell,
University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli,
Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano
(Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of
Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana,
Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio
Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia);
Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa).
Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.ais-sociologia.it) e
sul
sito
del
Dipartimento
di
Sociologia
dell’Università
Cattolica
di
Milano
(http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524). Il contenuto degli articoli è
liberamente riproducibile citando la fonte.
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Numero chiuso il: 28 febbraio 2012
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