n. 41 - maggio-agosto 2013
Rivista quadrimestrale di Feniarco
Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN
Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
TULLIO VISIOLI
UNA COMPLESSITÀ
RISOLTA
WAR REQUIEM
BENJAMIN BRITTEN
PER GUARDARE
LONTANO
INTERVISTA A CARLO PAVESE
DA MARIBOR A GORIZIA
CRONACHE
DAI CONCORSI
A COR LEGGERO
ALLA SCOPERTA DEL VOCAL POP
Editoriale
Anno XIV n. 41 - maggio-agosto 2013
Rivista quadrimestrale di Feniarco
Federazione Nazionale Italiana
Associazioni Regionali Corali
Presidente: Sante Fornasier
Direttore responsabile: Sandro Bergamo
Comitato di redazione: Efisio Blanc,
Walter Marzilli, Giorgio Morandi,
Puccio Pucci, Mauro Zuccante
Segretario di redazione: Pier Filippo Rendina
Hanno collaborato: Rogier IJmker, Alessandro
Tino, Krishna Nagaraja, Lorenzo Fattambrini,
Maria Grazia Bellia, Pier Paolo Scattolin,
Ettore Galvani, Marco Maiero, Mauro Marchetti,
Giulia Di Censi, Rossana Paliaga,
Giuseppe Calliari
Redazione: via Altan 49
33078 San Vito al Tagliamento Pn
tel. 0434 876724 - fax 0434 877554
[email protected]
In copertina: Roxorloops al Festival Europa
Cantat XVIII Torino 2012
Progetto grafico e impaginazione:
Interattiva, Spilimbergo Pn
Stampa:
Tipografia Menini, Spilimbergo Pn
Associato all’Uspi
Unione Stampa Periodica Italiana
ISSN 2035-4851
Poste Italiane SpA – Spedizione in
Abbonamento Postale – DL 353/2003
(conv. In L. 27/02/04 n. 46)
art. 1, comma 1 NE/PN
Abbonamento annuale: 25 €
5 abbonamenti: 100 €
c.c.p. 11139599 Feniarco - Via Altan 49
33078 San Vito al Tagliamento Pn
Il discorso tenuto da Malala Yousafzai, lo scorso 12
luglio, al palazzo della Nazioni Unite, davanti al
segretario generale, merita di entrare nella storia,
accanto ad altri come quello di Kennedy a Berlino
(«io sono un berlinese») o di Martin Luther King a
Washington («io ho un sogno»).
Il 9 ottobre del 2012, i talebani spararono in testa a
questa ragazza colpevole di proclamare, nel suo
blog, il diritto di tutti, anche delle bambine,
all’istruzione. Un diritto fortemente contrastato dai
suoi attentatori che, dove ne hanno il potere, limitano il diritto all’istruzione a tutti
e lo precludono totalmente alle donne.
Curata e salvata, Malala ha potuto parlare, nel giorno del suo sedicesimo
compleanno, indossando lo scialle che fu di Benazir Bhutto, durante l’Assemblea
della Gioventù, alla presenza del Segretario Generale. È stato un appello ai governi
perché garantiscano un’istruzione gratuita e obbligatoria in tutto il mondo per ogni
bambino. «Contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare
i libri e le penne, perché sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un
libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione.
L’istruzione è la prima cosa».
Ci siamo riconosciuti nelle parole di Malala Yousafzai. Ci siamo riconosciuti
anzitutto come cittadini democratici, convinti da sempre che una convivenza civile
si fonda sulla conoscenza, mentre dall’ignoranza nascono i razzismi, le
discriminazioni, le violenze.
Ma ci siamo riconosciuti anche come parte di un movimento corale che si sente,
ed è, libro e penna a disposizione degli uomini di tutte le età e di tutte le culture.
Un movimento inclusivo, che non respinge nessuno e che per tutti sa trovare il
canto giusto. In tante situazioni difficili il coro è la via attraverso la quale può
passare un segnale di pace dove c’è conflitto, di integrazione dove c’è
emarginazione, di speranza dove rischia di insediarsi la disperazione. Troppo
raramente raccontata dalla letteratura e dal cinema (tra i pochi esempi, il film
Les choristes), questa scuola di convivenza e di tolleranza, questa palestra di
formazione personale e collettiva è l’aspetto più profondo e affascinante del
cantare in coro.
Credo che Malala possa essere contenta di noi, se mai ha avuto occasione di
conoscere il mondo corale. Da parte nostra terremo sempre presente le sue parole,
perché il canto corale possa aiutare bambini e adulti a realizzare se stessi e i loro
sogni.
Sandro Bergamo
direttore responsabile
n. 41 - maggio-agosto 2013
Rivista quadrimestrale di Feniarco
Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
DOSSIER
Alla scoperta del vocal pop
2
UN SECOLO DI MUSICA VOCALE
BREVE STORIA DEL VOCAL POP & JAZZ
Rogier IJmker
6
LA MUSICA È GIOCO
COME TRASCORSI DUE ORE
CON CIRO CARAVANO
Alessandro Tino
8
PORTRAIT
41
UN MONDO TUTTO DA SCOPRIRE
SPACCATO SEMISERIO SULLA VITA QUOTIDIANA
DI UN PERCUSSIONISTA VOCALE
Efisio Blanc
Krishna Nagaraja
11
FRAGMENTA
A COR LEGGERO
IDEE SPARSE RIGUARDO IL POP CORALE
Lorenzo Fattambrini
PER GUARDARE LONTANO
INTERVISTA A CARLO PAVESE
46 L’IMPORTANZA DI CHIAMARLO TESTO
Marco Maiero
DOSSIER COMPOSITORE
Tullio Visioli
14
LA SEMPLICITÀ È UNA COMPLESSITÀ RISOLTA
INTERVISTA A TULLIO VISIOLI
ATTIVITÀ DELL’ASSOCIAZIONE
48 SFORTUNATO CHI NON CANTA
CRONACHE DAL FESTIVAL DI PRIMAVERA
Sandro Bergamo, Mauro Marchetti e Giulia Di Censi
Alvaro Vatri
20 LA PIGRIZIA DI TULLIO VISIOLI
UN’ANALISI E ALCUNE PROPOSTE OPERATIVE
PER UN’ESECUZIONE SCENICA
CRONACA
Maria Grazia Bellia
53
NOVA ET VETERA
A LEZIONE DALLA GIURIA
IL XII CONCORSO INTERNAZIONALE DI MARIBOR
Rossana Paliaga
56 VINCE IL MODERN STYLE
CORI GIOVANILI ALLA RISCOSSA
Giuseppe Calliari
24 DIES IRAE DIES ILLA
IL WAR REQUIEM DI BENJAMIN BRITTEN
58 QUANDO LA TECNICA INCONTRA IL CUORE
52° CONCORSO INTERNAZIONALE
DI CANTO CORALE SEGHIZZI
Pier Paolo Scattolin
INDICE
Rossana Paliaga
62
CANTO POPOLARE
LES ITALIENNES À TOURS
IL SUCCESSO DEL CORO FEMMINILE VOX CORDIS
RACCONTATO DAL DIRETTORE LORENZO DONATI
Rossana Paliaga
34 LA TRADIZIONE PIEMONTESE
IN CONTINUA EVOLUZIONE
NENIA DI GESÙ BAMBINO…
CONFRONTO TRA DUE SECOLI
Ettore Galvani
RUBRICHE
64 Discografia
66 Mondocoro
UN SECOLO DI
MUSICA VOCALE
BREVE STORIA DEL VOCAL POP & JAZZ
di Rogier IJmker
ARRANGIATORE E DOCENTE DI
WORKSHOPS SULLA MUSICA
VOCAL POP
La musica vocale c’è sempre stata. Il suo sviluppo ha attraversato secoli di storia, dal Medievo
(e anche prima), quando diverse pratiche polifoniche si svilupparono a partire dal canto
gregoriano, passando per il Rinascimento e attraversando l’intera evoluzione della musica
occidentale. Ma di sicuro altri conoscono questa storia meglio di me! È per questo che io
partirò dal momento in cui ha inziato a diffondersi la musica pop & jazz.
UN SEC
Al giorno d’oggi, l’universo del pop & jazz è composto da gruppi e musica vocale dai “sapori”
molto diversi; ma da dove viene tutto ciò? Erano gli anni attorno al 1900 quando Scott Joplin
comparve sulla scena del Ragtime. Pur non trattandosi in realtà di musica vocale, è stato
comunque l’inizio di tutta la musica per così dire ragged, con il suo ingrediente principale: il
forte stile sincopato.
Traduzione dall’inglese
a cura della redazione
Gli anni Venti e Trenta
Andando avanti nel tempo, negli anni ’20 e ’30 troviamo alcuni gruppi molto importanti per lo
sviluppo della musica vocale come la conosciamo oggi. Mi vengono in mente due gruppi in
particolare.
Il primo è quello delle famose Andrew Sisters: tre donne che cantavano per lo più in stile
omofonico, utilizzando nella loro musica strutture armoniche semplici. La melodia era sempre
affidata alla voce centrale, arricchita da una voce superiore e da una inferiore.
Il secondo gruppo vocale è meno conosciuto: mi riferisco a The Ink Spots. Si trattava di un
gruppo di quattro ragazzi che eseguivano armonizzazioni con la melodia affidata al tenore
principale; si esibivano con accompagnamento strumentale, per lo più di chitarra, e
presentavano un sacco di canzoni in stile jive. Basta fare una ricerca su YouTube per capire cosa
intendo.
Nelle immagini:
gruppi vocal pop presenti
al Festival di Torino
La rinascita del barbershop: gli anni Quaranta
Gli anni ’40 vengono ricordati per la rinascita del barbershop (dal 1940 a oggi). Il barbershop si
distingue per un suono molto particolare che deriva da uno stile di arrangiamento a quattro voci
DOSSIER
3
maschili (o quattro voci femminili; i gruppi misti sono rari). La
melodia è affidata alla voce principale; il tenore canta la parte
superiore e il basso le note più gravi. Sotto alla voce
principale si trova il baritono, che completa l’armonia.
Molti sono i brani famosi, e talvolta può anche capitare di
trovare un folto gruppo barbershop che canta al termine di
un concerto. Non importa se sei di un altro gruppo,
l’importante è partecipare e cantare insieme!
Lo stile barbershop è legato a regole molto rigide che si
possono trovare su numerosi siti web di associazioni. Con
l’aiuto di Google le potrete trovare facilmente.
Doo-wop: gli anni Cinquanta
Si tratta di uno stile di musica vocale rhythm & blues
sviluppatosi nelle comunità afroamericane negli anni
Quaranta, ma divenuto popolare negli anni Cinquanta e nei
primi anni Sessanta. Come genere musicale, il doo-wop si
caratterizza per l’utilizzo di molteplici parti vocali, di sillabe
nonsense, di un beat semplice, con strumentazione ridotta o
assente, e con musica e testi semplici.
Alcuni buoni esempi di questo stile si possono trovare in
Randy & The Rainbows (Denise), The Crows (Gee) e The
Jaguars (Thinking of you), dove troviamo la voce principale
sostenuta dai cori.
In questo periodo si formò anche un gruppo chiamato The
Hi-Lo’s, più legato al repertorio vocal jazz, spesso
accompagnato da una big band, ma molto apprezzabile anche
per gli arrangiamenti a cappella, scritti principalmente dal
talentuoso Gene Puerling. Teniamo presente
questo nome, poiché fu uno dei più
importanti arrangiatori di musica vocal jazz.
Londra dove reclutò nuovi membri per debuttare come
Swingle II. Il gruppo si è poi esibito e ha inciso con il nome di
The Swingles, The New Swingle Singers e infine,
semplicemente, The Swingle Singers. Dal momento della sua
rifondazione londinese, il gruppo non si è mai sciolto: quando
singoli membri hanno lasciato il gruppo, i rimanenti hanno
indetto audizioni per la loro sostituzione.
Il gruppo si caratterizza per una sonorità molto particolare,
riconoscibile in pochi secondi. Mentre il gruppo francese era
COLO DI
L’universo del pop & jazz
è composto da gruppi e musica
vocale dai “sapori” molto diversi.
The Swingle: gli anni Sessanta
Nel 1959, a Parigi, Mimi Perrin fondò un
gruppo vocale chiamato Les Double Six, la
cui attività iniziale era principalmente quella
di accompagnare cantanti come Charles
Aznavour e Edith Piaf.
Quando gli otto coristi del gruppo
eseguirono il Clavicembalo ben temperato di Bach come
esercizio di lettura a prima vista, vi scoprirono un certo
intrinseco swing. Fu così che il loro primo album, Jazz
Sébastien Bach, registrato come regalo per gli amici e i
parenti, fu trasmesso da molte emittenti radiofoniche, il che
portò il gruppo a registrare molti altri album e a vincere in
tutto cinque Grammy Awards. Il gruppo però non durò a
lungo: a causa di problemi di salute di Perrin, Les Double Six
si sciolsero nel 1966.
Uno degli otto componenti originari de Les Double Six fu
Ward Swingle, il quale nel 1962 a Parigi diede vita a un
proprio gruppo chiamato The Swingle Singers, anch’esso
formato da otto voci di cui diverse provenienti da Les Double
Six. Ai loro esordi, i Swingle Singers cominciarono eseguendo
opere di Bach in stile vocal jazz.
Nel 1973, il gruppo si sciolse e Ward Swingle si trasferì a
in genere accompagnato da basso e batteria, il gruppo
attuale esegue e registra esclusivamente a cappella. Fino a
oggi, hanno fatto cose davvero notevoli e da due anni
organizzano un proprio festival a Londra nel mese di gennaio.
Opzioni “Unlimited”
Nel 1971 accadde qualcos’altro nel mondo vocale: Gene
Puerling – lo dicevo io, di tenere a mente questo nome! –
formò un gruppo chiamato The Singers Unlimited.
The Singers Unlimited si costituirono all’origine per registrare
alcuni spot pubblicitari negli Stati Uniti, ma con il tempo si
convinsero a entrare in studio di registrazione per incidere
una serie di album.
Il gruppo ne produsse in tutto quindici, di cui probabilmente il
più noto è Christmas. Gli altri quattordici, incisi tra il 1971 e il
1982, sono racchiusi nel cofanetto di sette CD intitolato Magic
4
di canzoni pop come Happy together dei The Turtles, Na na
hey hey kiss him goodbye degli Steam e la versione dei The
Tokens del tradizionale The lion sleeps tonight.
Nel 1980 nacque un gruppo anche negli Stati Uniti. Partendo
da una università avventista di Huntsville, Alabama, e
integrando nella loro musica influenze R&B e jazz, si
presentarono con il nome di Alliance, ma poiché esisteva già
dovettero cambiarlo in Take 6 nel 1987, quando ottennero il
loro primo contratto.
Il suono dei Take 6 è indiscutibilmente riconoscibile: i sei
uomini cantano armonie jazz così incredibilmente close e con
una sincronia semplicemente superba. In alcune delle loro
canzoni si percepisce l’anima religiosa che pervade i membri
del gruppo: brani come If you ever needed the Lord before,
Get away Jordan e Mary don’t you weep sono basati sullo stile
gospel.
Tanto per avere un’idea di come costruiscono le loro armonie,
guardate questo video su YouTube: http://urly.nl/take6.
È molto divertente sia da vedere che da ascoltare!
Voices. Se ne avete la possibilità, ve lo raccomando: vale il
costo e vi offrirà un ampio spaccato della storia della musica
vocale!
Gli arrangiamenti di Puerling per The Singers Unlimited gli
valsero la reputazione di essere uno dei migliori autori di
musica vocale al mondo. I componenti del celebre gruppo
vocal-jazz-gospel Take 6 hanno spesso fatto riferimento a
Puerling e ai Singers Unlimited come innovatori nel mondo
della musica a cappella, affermando di aver imparato dagli
arrangiamenti di Puerling.
Puerling fece uso di tecniche multitraccia all’avanguardia,
appoggiandosi all’ingegnere tedesco Hans Georg BrunnerSchwer, per ricreare le sue
avanzate idee armoniche che
costituiscono la “firma sonora”
del gruppo.
Nel processo di sovraincisione,
il baritono Puerling e il tenore
Shelton avrebbero spesso
aggiunto due parti centrali
supplementari, dopo di che tutte
le parti venivano “raddoppiate”
e “triplicate”. La creazione di
queste tracce aggiuntive ha permesso di ottenere un suono
più pieno e più ricco, distintivo delle incisioni del gruppo,
dando origine a una pratica di registrazione ormai comune.
E cosa accade oggi?
So che il salto dagli anni Ottanta a oggi è molto, molto
grande, ma quello di cui voglio parlare è un po’ difficile da
suddividere in decenni. Ecco perché.
Sono entrato in conservatorio nel 2000 e il mio interesse per
la musica vocale era in crescita. Internet era in piena
espansione, e allo stesso modo servizi come Napster. Per caso
mi trovai a scaricare alcune canzoni di un gruppo a me
sconosciuto; più tardi scoprii che quel gruppo si chiamava The
Real Group.
Fu la mia prima esperienza di musica a cappella concepita in
Al giorno d’oggi i paesi del Nord Europa
sono protagonisti di una vera e propria
“magia vocale”.
Gli anni Ottanta
Quando parliamo degli anni ’80, ci viene in mente un gruppo:
The Nylons. Fondato nel 1978 a Toronto, in Canada, il gruppo
si contraddistinse per le sonorità tipiche degli anni Ottanta,
caratterizzate da suoni elettronici puliti. E vi prego di scusarmi
se esprimo il mio parere, ma tutto ciò non era particolarmente
innovativo, semmai un po’ noioso. Ma questo è il mio parere e
il mio gusto personale!
Il gruppo è conosciuto soprattutto per aver interpretato cover
un modo che non avevo mai sentito prima. Non avrei mai
pensato che questo gruppo sarebbe stato per me il primo di
molti, molti altri gruppi e che sarebbe stato la mia fonte di
ispirazione per molti anni fino a oggi.
Le soluzioni armoniche e le dinamiche dei loro arrangiamenti
sono davvero fantastiche! All’inizio della loro carriera si
concentrarono principalmente sulla musica jazz (ed è da qui
che viene il nome del gruppo). Più tardi Anders Edenroth,
tenore del gruppo, iniziò a scrivere lui stesso le canzoni,
seguito da altri membri del gruppo. Alcuni dei brani sono
sorprendenti e spaziano soprattutto dal jazz al pop, con
incursioni nella musica folk nordica.
Solamente nel 2008 ebbi finalmente l’occasione di andare in
DOSSIER
5
Svezia e incontrare così i componenti di questo gruppo in occasione del loro stesso festival, alla
sua prima edizione. Ed è stato fantastico!
Sul sito web del festival lessi che un coro di trenta elementi avrebbe partecipato a uno dei
concerti. Prima ancora di conoscerli, ordinai online tutti i loro CD! Si trattava del Vocal Line dalla
Danimarca: un gruppo fenomenale!
Non ho mai sentito un gruppo così numeroso cantare in un modo così naturale e avvolgente,
con arrangiamenti dal suono incredibilmente ampio. Questo era quello che volevo fare anch’io e
seguendo il loro esempio nacque l’idea del mio coro!
Probabilmente a questo punto vi sarete fatti un’idea su dove voglio arrivare con questo articolo.
A mio parere, al giorno d’oggi sono i paesi del Nord Europa ad essere protagonisti di una vera e
propria “magia vocale”. Mi riferisco ad altri gruppi come i Pust – che eseguono sia musica
propria che interpretazioni di brani tradizionali provenienti dai paesi scandinavi in nuovi
arrangiamenti ispirati al jazz, alla
musica etnica e alla musica folk – e,
naturalmente, i Rajaton dalla Finlandia,
che eseguono tutto, dalla musica
classica agli ABBA (“Rajaton” significa
“senza limiti” in finlandese, a indicare
l’ampiezza del loro repertorio).
Ma la vera novità al giorno d’oggi è il
gruppo danese Postyr Project. Essi utilizzano l’elettronica in modo tale da controllare tutti gli
effetti dal vivo direttamente sul palco. Il loro tecnico del suono è lì solo per assicurare
l’equilibrio tra le voci, tutto il resto di ciò che eseguono dal vivo sul palco, anche se sembra
impossibile, lo fanno loro stessi!
La musica vocale
c’è sempre stata.
Conclusioni
Questo articolo non vuole di certo essere esauriente. Naturalmente ci sono molti altri gruppi
importanti per la crescita della musica vocale come lo è oggi, ma la mia intenzione era quella di
fornire un elenco di gruppi che avessero un ruolo particolarmente significativo per questo
sviluppo. Ognuno di essi mi ha ispirato e mi ha reso quello che sono oggi, sia artisticamente
che come essere umano. Spero che questo articolo possa spingervi ad andare oltre e ad
approfondire la ricerca su altri gruppi e altra musica, facendo pulsare il Vocal Pop & Jazz nelle
vostre vene!
LA MUSICA È GIOCO
COME TRASCORSI DUE ORE
CON CIRO CARAVANO
LA MUS
di Alessandro Tino
MANAGER DELL’ORCHESTRA
VOCALE NUMERI PRIMI
In alto:
il Coro Pop Unisa
a Salerno Festival
A pagina 7:
Ciro Caravano
Entro in casa Caravano e la prima cosa che Ciro mi dice è «Alessà, la musica è gioco». La
avverto come una sorta di “regola numero uno” eppure dal tono con cui la declamava non
sembrava niente che potesse ricordare un insegnamento, una lezione; più che altro era una cosa
del tipo: «Per me è così e mi sono sempre trovato bene! Perché non provi pure tu?». Una
prospettiva che condivido in pieno e che mi mette così a mio agio da trasformare l’intervista di
dieci minuti in una chiacchierata di due ore comprensiva di una discussione su Amore
Psicologico del 2002 (per lui bruttissima, per me fantastica!) e qualche amichevole parentesi su
come sia possibile conciliare la vita da musicista e quella sentimentale.
Dopo un po’ di discussioni sull’argomento arriviamo a un accordo: si può amare da morire ma
morire d’amore no e l’accordo in questione era il re maggiore. A ogni modo insisto per avere la
partitura di Amore Psicologico ma niente da fare («Guarda, te le do tutte… ma quella proprio
non mi piace!»). Gli chiedo il perché l’avesse messa nel repertorio e mi risponde che ogni tanto
qualcosa di demenziale va fatta nella vita. Adorabile.
Il repertorio dei Neri per Caso è infatti un insieme vastissimo di inediti e cover di ogni genere,
impreziosito dalla collaborazione di artisti eccezionali: da Mina a Ornella Vanoni, da Lucio Dalla
a Baglioni passando per Mario Biondi e per un’impensabile Mia Martini. Nell’album Donne
(2010) i Neri eseguono un’arrangiamento di Almeno tu nell’universo in cui è stata inserita la
traccia della sola voce dell’indimenticata Mimì. «La scelta di un brano», spiega Ciro, «è
strettamente connessa al tipo di arrangiamento che vogliamo realizzare. Ogni canzone infatti è il
terreno fertile per alcuni spunti di partenza che poi trasformiamo in prodotto finito». Un abito
che calza a pennello sull’originale. «Per esempio: ascolto un brano pop ma magari lo immagino
bossanova. Mi piace, faccio sentire l’idea di base agli altri. Ci piace… è fatta!».
Quello che cerca Ciro è una musica nuova, divertente e con cui possa divertirsi lui in primis
perché, appunto, «la musica è gioco». Tra un messaggio terroristico della mia ex ragazza («Per
te io non esisto! Per te esiste solo il coro! Muori!») e un consiglio di Ciro («Ale, la musica è
qualcosa che hai dentro di te e da cui non puoi staccarti. Se una ragazza non accetta che la
DOSSIER
musica sia la maggior parte della tua vita allora non ti ama».
Saggezza: livello 10 su 10) passiamo quindi a discutere del
mondo della coralità amatoriale italiana, mondo che Ciro,
direttore e arrangiatore del Coro Pop Unisa (Università di
Salerno), ben conosce e di cui ha un’ottima opinione.
Freschissima la sua partecipazione a Cantagiovani, nel
maggio 2013, in cui Ciro e il Coro
Pop sono stati ospiti speciali
nonché autori di un concerto
divertentissimo e coinvolgente.
Dopo il concerto ho avuto modo
di ascoltare il parere entusiasta di
Silvana Noschese, direttore
artistico della manifestazione e
grande ammiratrice di Ciro:
«Caravano è innovativo e può
permetterselo! Ha degli spunti ritmici che sono assolutamente
fuori dalla norma». Ciro infatti viene da una famiglia di
musicisti in cui spicca la figura dello zio Salvatore “Jimmy”
Caravano (e padre di Gonzalò e Mimì, altri due esponenti dei
Neri), storica voce degli anni ’50 e ’60 da cui il nipote afferma,
con fierezza, di «aver ricevuto in eredità una grande cosa: lo
Swing!». Swing appassionante che ritroviamo
nell’arrangiamento per coro di un classico come I wish e che
in generale è rintracciabile in tutti e sei i Neri per Caso.
Gli chiedo allora un paragone tra la sua esperienza nel
gruppo vocale e quella nel coro. «Rispetto al gruppo vocale
cambia la visuale; nei Neri, siamo in sei e ognuno di noi è, a
modo suo, un leader. Nel coro invece il direttore è il punto di
riferimento e ciò che cambia non è tanto la prospettiva da cui
vedo gli altri componenti, ma quella da cui gli altri
componenti vedono me. È una bella responsabilità».
Un parere infine sui suoi colleghi: «Ce ne sono tanti che stimo
moltissimo; tuttavia in Italia siamo ancora un po’ ancorati alla
dicotomia musica non leggera “seria” e musica leggera
“canzonette”. Conosco molti professoroni d’accademia un po’
ingessati su queste posizioni. Per loro sembra quasi che la
vera musica necessiti di una seriosità e di una austerità che
facciano da garanzia di qualità. Ripeto: la musica è gioco!
7
Forse qualche direttore dovrebbe liberarsi di certe
sovrastrutture sui propri metodi e poi, perché no, rinnovarsi
anche nel repertorio».
A questo proposito faccio un inciso. Ciro è autore di un
arrangiamento inedito dal titolo Astronomia corale e la cui
introduzione è tratta da un monologo di Ettore Petrolini che
termina con un eloquente «Sono tutte palle che girano…»,
frase che è poi il leit motiv del pezzo. Una presa in giro verso
molti dei brani ormai notissimi della coralità italiana (non
sfuggono alla sua ironia Il bianco e dolce cigno e Vecchie
letrose) e anche verso un suo collega, docente di direzione
corale al Conservatorio di Salerno, il maestro Antonello
Mercurio («Venere è un corpo celeste, Saturno è un grosso
pianeta… Mercurio è una palla!») che, intervistato in merito,
tuttavia dichiara di non essersi per niente offeso! «Io offeso?!
Ma dai… è molto carina Astronomia corale, mi ha fatto
divertire parecchio, anche se preferisco Albachiara».
Albachiara è un altro dei brani corali che testimoniano
l’eclettismo di Ciro: sul celebre motivo di Vasco si posa un
arrangiamento in chiave tardo rinascimentale. Ciro prosegue
parlando di Feniarco: «Feniarco si sta muovendo
egregiamente, fa un’opera di diffusione e propaganda
La scelta di un brano è strettamente
connessa al tipo di arrangiamento
che vogliamo realizzare.
SICA È
impressionante! È con altri che invece», e qui si toglie un
sassolino dalla scarpa, «ho avuto rapporti più difficili. In
generale, tramite i Neri per Caso, avrei potuto dare tanto alla
coralità, ma in passato non abbiamo trovato grande apertura
nei nostri confronti da parte di alcune realtà. Eppure noi la
disponibilità l’abbiamo data più volte». Gli chiedo un
aneddoto sull’argomento; me lo serve subito. «Ti faccio un
esempio: mi ricordo di una rivista musicale italiana di un bel
po’ di anni fa al cui interno vi era una rubrica in cui si
discettava dei gruppi vocali italiani. Bene, dopo
sedicinumerisedici decisero di fare un articolo anche sui Neri
per Caso e mi chiamarono per un’intervista».
Ci penso un attimo e gli chiedo: «Sedici numeri? Ma negli altri
numeri… che hanno scritto?!». Ciro che, credetemi, è una
persona piacevolissima, molto autoironica e con un fortissimo
senso dell’umorismo, alla mia domanda sorride, fa spallucce e
mi regala un eloquente e apodittico: «Boh».
Entrambi stiamo ancora cercando la risposta. Magari ci
facciamo il prossimo articolo. Magari insieme. Magari!
8
UN MONDO TUTTO DA SCOPRIRE
SPACCATO SEMISERIO SULLA VITA QUOTIDIANA
DI UN PERCUSSIONISTA VOCALE
di Krishna Nagaraja
PERCUSSIONISTA VOCALE
Se state leggendo questo articolo e siete cantanti, direttori,
aspiranti percussionisti vocali, compositori, arrangiatori ecc.,
questo articolo fa per voi! Scoprirete molte cose sulla
percussione vocale che forse non sospettavate. Se invece
siete percussionisti vocali già esperti, questo articolo fa per
voi! Vi ritroverete in molte delle cose narrate e leggendole
probabilmente annuirete con veemenza. E non vi sentirete più
soli…
La percussione vocale può essere definita come l’arte di
creare suoni usando l’apparato fonatorio allo scopo di
riprodurre, imitare o comunque “impersonare” uno strumento
a percussione. I percussionisti indiani ben conoscono questa
disciplina, poiché prima ancora di mettere le mani sulle loro
Tabla (se abitano a Nord) o Mridangam (se vengono dal Sud)
studiano approfonditamente i complicati ritmi della loro
musica servendosi di un vero e proprio “alfabeto percussivo”
in cui ogni colpo delle dita sulla pelle dello strumento
corrisponde a una sillaba: tha, dha, din, tin e così via.
Accostando due o più di queste sillabe si ottengono delle
“parole percussive”; più parole danno origine a un periodo,
più periodi a una frase, più frasi a un intero discorso. Questo
“linguaggio percussivo” è noto come Konnakol.
Simili tracce della percussione vocale
nelle tradizioni e nei generi musicali più
disparati e apparentemente lontani
dall’odierna beatbox si possono trovare
anche nel Lilting irlandese, nelle
Puirt-a-Beul scozzesi, e persino nello
Scat Singing.
Per scoprire come tutto questo si
inserisce all’interno della musica corale,
caliamoci nei panni di un/una
percussionista vocale e seguiamone i
passi durante una ipotetica prova con il suo coro.
Il nostro Vocal Percussionist (VP) si reca alla sala prove dove
lo attende il coro e il suo direttore: il coro sta scaldando o
ha già scaldato la voce. Ecco già un primo motivo per cui
taluni decidono di diventare VP: puoi aver festeggiato la
notte prima fino alle 3.00, o esserti preso un raffreddore
epocale, e comunque presentarti alle prove del coro dopo
che gli altri hanno già fatto i vocalizzi senza che nessuno ti
dica niente.
Mentre i cantori si siedono, il VP prende possesso del suo
microfono, accende l’impianto, sistema le casse, controlla i
livelli, fa il suo soundcheck in 15 secondi e si siede tranquillo.
Tutto questo, ovviamente, se in sala prove ci sono
effettivamente un impianto e delle casse. In tal caso
generalmente non c’è però un tecnico del suono. Se arrivate
in sala prove e c’è un soundman che ha già preparato
impianto, casse e livelli, e vi fa lui il soundcheck in 15
secondi, molto probabilmente vi trovate in un altro paese,
tipo in Germania. O state sognando. O state sognando di
trovarvi in Germania.
A questo punto il direttore annuncia il pezzo che sta per
essere provato, e mentre tutti scartabellano freneticamente
cercando partiture che non ricordano dove hanno messo, il VP
sta tranquillamente seduto e osserva divertito. Ed ecco un
secondo motivo che spinge taluni a diventare VP: non corri il
pericolo di dimenticarti partiture, perché semplicemente non
ne hai! La tua linea in genere te la sei arrangiata tu, e te la
ricordi benone.
Il pezzo parte: il VP comincia il suo groove, muovendosi a
tempo per darsi un tono e si ispira facendo strani ghirigori
– incomprensibili ai più – con la mano libera dal microfono.
Dopo circa 40 secondi tuttavia il direttore ha già fermato
tutto, dicendo che il volume della VP è troppo alto e
chiedendo al VP (o al soundman tedesco) di abbassarlo.
La percussione vocale è l’arte di
usare l’apparato fonatorio allo scopo
di “impersonare” uno strumento a
percussione.
Il VP è costretto come tante altre volte a obbedire, e
sospirando abbassa i suoi livelli mentre tra sé e sé si chiede
che senso ha fare quello che fa se poi alla fine nessuno lo
sente.
Il pezzo riparte: stavolta i livelli sono soddisfacenti (per il
direttore, ovviamente; il quale sorridendo innocente e
compiaciuto rivolge il pollice alzato al VP), e si arriva al
ritornello, poi alla seconda strofa, e così via. Solitamente,
ancora prima del secondo ritornello il direttore ha già fermato
il brano ancora una volta perché «il coro non va a tempo:
ascoltate il VP!». Al che il VP si chiede, sempre fra sé, come
fanno a sentirlo con i livelli così bassi e senza monitors…
DOSSIER
Si ripete il passaggio: stesso problema. Il direttore decide
allora di far provare i bassi con il VP, per stabilizzare bene il
ritmo (saggia mossa). Dopo qualche aggiustamento, tutto
funziona, e si aggiungono le altre voci di accompagnamento.
Se il pezzo è piuttosto complicato però, la questione non è di
così facile soluzione: c’è scollamento tra VP e voci intermedie,
che o non sentono il loro amico microfonato, o semplicemente
non lo ascoltano. Ma ecco che il direttore ha un lampo di
genio: prova lo stesso passaggio senza il VP, finché il coro
non sta incollato al suo gesto. Nella speranza che il suo gesto
sia effettivamente a tempo…
Finalmente si aggiungono il VP e il/la solista e ora sì, il pezzo
decolla! Il VP si sbizzarrisce in variazioni sul suo groove, in
fills (formule ritmiche di chiusura di frase) nei quali può far
bella mostra del suo arsenale di fantastici suoni appena
imparati, e prodursi in virtuosismi che effettua mantenendo
un’aria di grande nonchalance, con l’evidente intento di
accattivarsi gli sguardi di ammirazione dei suoi poveri e
limitati colleghi cantori, occupati semplicemente a “cantare”.
Il che è forse uno dei motivi principali che spinge taluni a
diventare VP.
Passati un certo numero di strofe e ritornelli (in genere più di
due e meno di quattro) è molto probabile che si arrivi a una
regione chiamata bridge in cui prima della parte finale della
canzone si cambia improvvisamente atmosfera, solitamente
alleggerendola. Il direttore ferma tutto e rivolge al VP la
fatidica domanda: «Non è che qui potresti fare… non so…
qualcosa?».
L’eroico VP capisce che è arrivato il momento clou: si trova a
dover arrangiare la propria linea in tempo reale. Qui si gioca
la reputazione: nella sua mente si susseguono rapidissime le
opzioni possibili. Continuo semplicemente con il groove ma
più “morbido”? Ossia, a metà tempo? No, troppo scontato.
Ok, allora faccio cose supervirtuosistiche di cui forse non
sono capace ma che impressioneranno tutti? Forse, ma
meglio non rischiare figuracce. Potrei provare a sperimentare
degli effetti speciali, tipo quei suoni
elettronici che ho sentito fare a quel
beatboxer su YouTube… oppure…
potrei… hmm… forse è meglio che…
vabbè, dai, mi arrendo: «Scusa, cosa
vuoi che faccia nel bridge?»…
Da questo spaccato della semiseria vita
quotidiana di un VP si evincono molte
delle caratteristiche di questa rara
specie di musicista. Vediamone alcune.
Il VP non è uno “scimmiottatore di batteria”: anche se
tentasse di imitarla pedissequamente, tanto vincerebbe la
batteria. Meglio invece sfruttare le specifiche “umane”,
organiche della percussione vocale, per creare qualcosa di
unico e diverso da una linea che potrebbe tranquillamente
venir suonata da una drum machine o una batteria vera.
Tali specifiche sono in primis sonore: la percussione vocale si
fonde per sua natura meglio con le voci di un coro. Inoltre,
avendo la percussione vocale una “soglia minima di suono”
9
molto più flessibile rispetto agli strumenti a percussione (per
farli suonare, devi colpirli con una certa forza…), ha in questo
senso più possibilità dinamiche rispetto a essi.
Il ventaglio di comunissimi suoni umani che possono essere
usati in senso ritmico è inoltre molto vasto: ad esempio, la
necessità di respirare di un VP può essere usata come
vantaggio se si usa il suono di un’inspirazione incorporandolo
in un ritmo. Così si fa veramente di necessità virtù.
Inoltre nella percussione vocale possono essere utilizzati
estemporanemente tutta una serie di effetti (scratch, lip
buzzing, throat bass, ecc.) che con strumenti reali
richiederebbero una strumentazione sterminata. Consideriamo
tutti i possibili rullanti che un VP può emettere: sono tutti
prodotti dalla sua bocca, e sono intercambiabili in una
frazione di secondo. Con un vero drumkit invece il rullante è
solo uno anche se si può percuotere in vari modi: ma da un
rullante acustico non uscirà mai un suono elettronico o
La linea di percussione vocale, per essere
interessante, non può riprodurre solo ciò
che fa la batteria.
filtrato, ad esempio, a meno che non si usino ulteriori
apparecchiature.
Una conseguenza immediata di questo principio è che la linea
di percussione vocale, per essere interessante, non può a mio
avviso riprodurre sempre e solo ciò che la batteria fa nel
pezzo originale.
Ogni arrangiamento traspone il brano in un altro mondo, ne
esalta alcune caratteristiche e – perché no – ne inventa altre.
Ha senso dunque che la percussione vocale segua questa
10
direzione e sia trattata alla stessa stregua delle altre voci
corali. La percussione vocale può aiutare significativamente a
cambiare dinamiche, atmosfera, panorama sonoro e dunque
significato a un brano o a una sua parte. Chi la scrive o
improvvisa, che sia il percussionista vocale, il direttore,
l’arrangiatore, può utilizzarla in tal senso come uno strumento
potente.
Se si sceglie di utilizzare la percussione vocale in
un brano corale, dunque, credo sia opportuno
farne un uso integrante e non accessorio. Anche
perché altrimenti il gioco non vale la candela:
partendo dal presupposto che la percussione
vocale per esprimersi al meglio dovrebbe essere
amplificata, sarebbe bene che lo fosse anche il
coro, onde evitare il sovrapporsi di due immagini
sonore piuttosto distanti tra loro (quella analogica
e tridimensionale del coro contro quella
processata elettronicamente del VP: il suono reale del coro
contro quello proveniente dagli amplificatori della percussione
vocale). Si rende necessario allora un trattamento del coro
diverso da quello acustico tradizionale; senza contare che
bisogna inoltre investire tempo e risorse per munirsi
dell’attrezzatura necessaria. Se ci si prende la briga di andare
in questa direzione, tanto vale andarci fino in fondo e
sfruttare la percussione vocale come uno strumento speciale.
Un’altra caratteristica del VP è il suo essere in fondo un
arrangiatore “in tempo reale”: deve costantemente tenere le
orecchie aperte per poter inserire i suoi suoni in una fascia di
frequenze che non sia già occupata dalle voci del coro, da cui
altrimenti rischierebbero di venire inghiottiti. Deve quindi
sapere come fare il suono che vuole, quando farlo, e perché
(quale effetto suscita nel brano, in termini di dinamica, spinta
ecc.). Deve costruire la sua linea in modo che impreziosisca
l’arrangiamento, e non ne sia semplicemente una traccia
metronomica.
È interessante peraltro notare come il timing non sia esclusiva
responsabilità del VP, specie in arrangiamenti complessi e
pop-contrappuntistici. Non è necessariamente colpa del VP se
il tempo non è stabile: il saper tenere il tempo dovrebbe
essere prerogativa di tutti i cantori, come prerogativa di ogni
buon coro pop il saper tenere il pezzo insieme anche senza il
percussionista vocale.
Infine, il VP deve essere anche un po’ tecnico del suono:
sapere come equalizzarsi in assenza di personale al mixer è
questione di pura sopravvivenza.
Il ruolo del VP dunque richiede pratica e preparazione: se si
limita a fare un ritmo qualunque e andare a tempo assomiglia
a un cantore che abbia l’estensione di un’ottava e canti in una
sola tonalità…
Ciò detto, è naturale che esistano tante declinazioni della
percussione vocale quanti sono i VP. Ed è ciò che rende
quest’arte così speciale: in un coro c’è in genere un solo
percussionista vocale e questa unicità ha un’impronta
irripetibile che è opportuno evidenziare in tutti i suoi aspetti.
Soprattutto è opportuno considerarla come strettamente
collegata a tutti gli altri elementi di un brano corale: in una
vera sinergia tutto e tutti, dal direttore, ai cantori,
all’arrangiamento, al VP, al tecnico del suono,
all’apparecchiatura, concorrono in maniera indispensabile alla
resa della musica che viene eseguita.
Quello della percussione vocale è un mondo tutto da scoprire,
in costante evoluzione, suscita immancabilmente la curiosità
La percussione vocale
si fonde meglio per sua natura
con le voci di un coro.
di molti e lo stupore di tutti. È forse l’ingrediente più nuovo
nella musica corale, e usarlo non più come semplice
“fenomeno” ma come risorsa musicale può fare la differenza.
Chiunque cominci a praticarla, presto o tardi sperimenta la
bellissima sensazione di produrre l’elemento più ancestrale in
musica – il ritmo – con l’elemento più terreno dell’essere
umano – il proprio corpo.
E questo, a ben vedere, è il motivo più vero per cui taluni
decidono di diventare VP.
DOSSIER
11
A COR LEGGERO
IDEE SPARSE RIGUARDO IL POP CORALE
di Lorenzo Fattambrini
DIRETTORE DELL’IMT VOCAL PROJECT
«È tutta musica leggera (ma la dobbiamo imparare)…»
I. Fossati, Una notte in Italia
Nel mondo anglosassone è molto diffusa la pratica delle voice
band modellate sull’esperienza dei barbershop quartets,
formazioni corali abituate a rileggere senza troppe remore
stilistiche qualsiasi genere musicale dall’antico fino al pop
contemporaneo, da Beyoncé a Lady Gaga, passando dal jazz
e dagli evergreen portati al successo da gruppi quali Four
Freshmen, Mills Brothers, The Platters, Beach Boys e altri.
In Italia l’interesse per questa forma particolare di musica
corale è abbastanza giovane ma non privo di esempi illustri,
dal pionierismo a tratti surreale del Quartetto Cetra negli anni
’50-’70, fino ai più recenti Neri per Caso o Clusters, dove l’uso
della voce è divenuto anche pretesto per ricreare raffinati
effetti groove tipici della strumentazione ritmica della
cosiddetta “musica leggera”, dando origine a un particolare
stile corale denominato vocal-pop.
Innanzitutto un problema terminologico: invece che di
vocal-pop preferirei parlare di pop corale, meglio ancora di
popular music corale.
Il centro di questo intervento rimane
senza dubbio l’uso del coro come
strumento per realizzare popular
music, sia essa in forma originale o
nelle varie riletture o arrangiamenti di
canzoni di tipo pop.
Quali possono essere le caratteristiche
per un coro che esegue una rilettura di
una canzone sanremese rispetto a uno
che canta repertorio tradizionale o di
tipo polifonico in senso stretto, da Palestrina in poi?
Esistono realmente delle ragioni tali da impedire la
coesistenza in un programma concertistico corale di brani di
Monteverdi accanto a canzoni dei New Trolls, di mottetti di
Bach accanto ad arrangiamenti in stile afroamericano del
Messiah di Händel, di ballate tradizionali accanto alle songs
dei Coldplay?
Le differenze ci sono, certo. E dovrebbero essere più di
carattere tecnico che culturali. Anche in questo ambito il resto
del mondo ha molto da insegnarci (vedi le incursioni da uno
stile all’altro di King’s Singers, Swingle Singers e simili).
La vocalità del pop corale, per essere credibile, deve adottare
modalità timbriche il più possibile naturali, con colori non
troppo scuri o impostati, laddove le estensioni spesso risultano
abbastanza compresse e centrate sul medium della voce.
Spesso i suoni nel cantare pop risultano un po’ schiacciati,
nasalizzati: tenuto conto di ciò non vanno dimenticate le
richieste legate a una tecnica vocale che possa garantire
sostegno nel rispetto dello strumento vocale!
Questo comporta alcune difficoltà relativamente
all’omogeneità timbrica di una sezione, peraltro risolvibili con
una costante attenzione durante le vocalizzazioni e con un
ascolto attivo all’interno della sezione stessa.
Rimangono certamente requisiti necessari l’intonazione, il
senso del ritmo, lo swing, una corretta pronuncia, un
fraseggio compreso e comune, l’intenzione interpretativa.
Vi è poi da considerare, in certi casi, l’uso di adeguati sistemi
di amplificazione e di microfoni (individuali, panoramici,
dinamici, a condensatore, omnidirezionali, bidirezionali, ecc…).
Il mondo dei microfoni è davvero molto vasto, essendoci
costruttori di ogni tipo, modello, categoria, tipo di ripresa e
prezzo.
Fondamentalmente esistono due tipologie di microfoni:
dinamici e a condensatore. Quelli dinamici, più adatti per la
ripresa di voci singole e a una situazione live, generalmente
hanno buone caratteristiche di solidità, funzionalità e basso
La vocalità del pop corale
deve adottare modalità timbriche
il più possibile naturali.
prezzo. La loro mancanza principale riguarda la scarsa
sensibilità che li rende poco adatti a percepire suoni lievi e a
basso volume; di conseguenza possono essere ideali per
situazioni nelle quali ogni singola voce sia dotata di
microfono.
I microfoni a condensatore invece hanno una capacità di
ripresa molto chiara e precisa, fedele nel catturare la maggior
parte delle caratteristiche di un suono. Sono i microfoni
utilizzati normalmente negli studi di registrazione; il loro
punto debole sta nel fatto che abbisognano di alimentazione
elettrica, cosa che comunemente viene fornita da una scheda
audio molto buona o da un mixer; inoltre sono generalmente
microfoni molto costosi e un po’ fragili.
Se l’ambiente acustico lo permette a mio parere un assetto
senza microfoni sarebbe preferibile. Il più delle volte però per
12
il genere pop corale diventa necessaria una amplificazione
della voce, anche se minima. Quando addirittura l’uso del
microfono non diventi strumentale per alcune effettistiche
timbriche realizzabili con efficacia solo con questo strumento,
volendo gestire ad esempio le linee del basso e ritmica.
Inoltre il pop corale può anche essere accompagnato da
strumenti: in questo caso va tenuto conto dei problemi legati
ai volumi e al feedback delle voci sul palco.
Ma con il microfono allora, come si canta?
Tralasciando le situazioni di ripresa panoramica, dove di fatto
il coro utilizzerà lo stesso assetto acustico come se non fosse
microfonato, prendiamo in considerazione la circostanza nella
quale a ogni voce (o a ogni due, meno efficace) sia assegnato
un microfono.
I microfoni a condensatore, come già
abbiamo detto, sono molto sensibili e
dovrebbero essere comunque
utilizzati da persone esperte e in un
ambiente insonorizzato, proprio per
evitare altre interferenze sonore con
la voce del cantante: quindi non si
prestano agilmente all’uso in
situazioni live.
I microfoni per cantare dal vivo più
frequentemente usati sono quindi quelli di tipo dinamico che
essendo stati costruiti per percepire solo i suoni molto vicini
al microfono risultano di conseguenza meno sensibili dei
condensatori. Se così non fosse nel microfono, oltre alla voce
del cantante, entrerebbe anche il suono degli strumenti sul
palco, del pubblico in sala ecc. ecc.
Alcuni accorgimenti sono necessari.
In linea di massima quando si canta con una bassa intensità il
microfono va tenuto accostato alle labbra. Cantando una nota
grave a un basso volume o medio è efficace avvicinare
ancora di più il microfono alla bocca, fin quasi toccarlo:
questo permetterà di ottenere dei bassi più corposi e
timbricamente corretti.
Man mano che il volume aumenta ci si deve allontanare
lievemente e proporzionalmente dal microfono. La distanza
massima della bocca dal microfono infine non dovrebbe
superare un palmo, a seconda del tipo di voce e di microfono.
Per cui se ci si allontana troppo dal microfono la voce non si
sentirà. Non solo, anche se non ci si allontana così tanto da
non sentirsi, potrebbe essere sempre troppo rispetto alla
corretta distanza di esercizio. In questo caso si potrà anche
percepire qualche suono della nostra voce, ma sicuramente
non tutti.
E dopo tutta la fatica fatta durante le prove e il training
formativo per ottenere una voce timbricamente ottimale il
tutto si vanifica facendo arrivare al microfono solo alcune
delle frequenze che compongono la nostra voce, con effetti
disastrosi.
Altra cosa importantissima, come la distanza, è l’angolazione
con la quale si utilizza il microfono. Il microfono, e la capsula
ivi contenuta, deve essere tenuto dritto davanti alla bocca, in
modo che la parte tondeggiante del microfono (se è
tondeggiante ovviamente) dovrà stare proprio di fronte alle
labbra. Se si inclina il microfono, il suono prodotto dalla
nostra voce, non andando più a impattare sul fronte della
membrana della capsula microfonica, risulterà molto diverso
da quello desiderato.
Microfono o no, per quando riguarda il tipo di vocalità
utilizzata nel contesto del pop corale, e non solo, va
premesso che il timbro e lo stile sono le caratteristiche
intrinseche più importanti in qualsiasi tipo di canto dal
momento che ne definiscono una precisa ambientazione
culturale, sociale e musicale. Caratteristiche che sarebbe bene
salvaguardare il più possibile, per non snaturare i repertori
proposti: una voce più rotonda e larga nel grave, come nel
Altra cosa importantissima, come la
distanza, è l’angolazione con la quale si
utilizza il microfono.
jazz ad esempio, piuttosto che suoni rauchi e poco vibrati
tipici del rock, o voci quasi prive di impostazione per il genere
più specificatamente popular…
Non sono un sostenitore della filologia a oltranza ma ritengo
che una simile attenzione andrebbe adottata davvero per tutti
i generi musicali, ponendoci in atteggiamento il più possibile
rispettoso dei vari stili al fine di risaltarne i migliori contenuti
estetici e culturali. Quante volte ci capita di sentire artisti o
cori che proponendo generi diversi da quello maggiormente
frequentato tendono a forzarne l’interpretazione rischiando
spesso di impoverirne la sostanza! Certamente c’è lo spazio
DOSSIER
per la sperimentazione e la personalizzazione ma è opportuno
muoversi con gusto poiché, citando Duke Ellington, «non
esiste musica bella o brutta: esiste musica suonata (cantata)
bene o male!…».
Talvolta ascoltare una versione di Imagine di John Lennon
come se fosse La Montanara fa un po’ tenerezza… qualche
volta invece è proprio insopportabile!
Spesso il problema deriva anche da una scelta poco attenta
dell’arrangiamento o rilettura corale del brano di carattere
popular: un capitolo a parte andrebbe affrontato riguardo alle
partiture utilizzabili.
L’adattamento corale di un brano pop infatti non è cosa da
trascurare: bisogna essere consapevoli che il prodotto finale
potrebbe risultare diverso, nuovo rispetto all’originale. I brani
possono essere arrangiati mettendo bene in evidenza la
melodia principale mentre il resto del coro si limita a gestire
l’accompagnamento armonico-ritmico;
oppure si possono avere delle vere e
proprie riletture, quasi una nuova
composizione, basate sui temi originari
delle canzoni. In questo caso va
decisamente esteso il concetto di
polifonia anche al settore “moderno”:
non sono infatti infrequenti riletture corali
suggestive, realizzate con scritture degne
di valore contrappuntistico e polifonico
appunto, in linea con un buon artigianato della composizione
polifonica.
Nella musica pop – anche se non sempre – risulta inoltre
forte la componente ritmica che nella trasposizione corale a
cappella potrebbe diventare un ulteriore pretesto
caratterizzante per l’arrangiamento o potrebbe essere
sostenuta da un capace percussionista vocale: non va
trascurata questa risorsa, dal momento che una buona linea
ritmica, associata a una valida gestione della linea del basso
vocale, potrebbe risolvere le sorti di brani apparentemente
privi di verve o personalità!
Inoltre una intelligente gestione scenica con opportune
coreografie, non invadenti o distraenti ma efficaci sul piano
interpretativo, porterà di certo un valore aggiunto alla
performance musicale.
Ci si può chiedere anche, avendo valanghe di musica corale
classica e popolare, di tradizione e d’autore italiana
apprezzabilissima, perché mai si debbano emulare i repertori
stranieri anziché valorizzare le perle nostrane.
Il repertorio “popular” italiano merita certamente di essere
riletto anche in modalità corale. Non mancano esempi degni
di nota (basta ascoltare qualcosa del repertorio già citato di
Neri per Caso e Cluster).
I giovani cantori possono essere “catturati” più facilmente
proponendo ciò che è più vicino al loro gusto (peraltro
influenzato dal mercato), ma la conoscenza dei vari stili vocali
dovrebbe essere funzionale anche a quella che è una nostra
identità storica di tutto rispetto, a partire dal canto monodico
gregoriano, per passare alla musica rinascimentale,
13
madrigalistica, operistica, liederistica fino ai nostri giorni.
In generale, mettendo a confronto le difficoltà ritmicomelodiche di brani pop contemporanei con le esigenze di
controllo dello swing e con il fraseggio della canzone
d’autore, vi può essere quindi un’intenzione “a rovescio”:
partendo dal repertorio attuale, rivisitato in maniera mai
scontata, con arrangiamenti scelti che mettano a dura prova
le capacità musicali e vocali dei giovani coristi, è possibile
recuperare alcune prassi del contrappunto storico
(dall’imitazione, al canone e via fino a strutture più
complesse…) nella speranza che vi possa essere un graduale
appassionarsi al repertorio antico, che personalmente ritengo
irrinunciabile.
Il mezzo (melodie e ritmi accattivanti, coinvolgimento della
mimica e del movimento corporeo, esterofilia forse un po’
ostentata…) potrà essere discutibile ma è solo uno dei tanti
Se l’ambiente acustico lo permette
un assetto senza microfoni sarebbe
preferibile.
tentativi che devono essere messi in atto per una visione più
completa e realistica possibile della musica, in particolare
quella corale.
Il canto pop corale oggi è certamente una delle frontiere della
musica per coro, soprattutto per creare interesse nelle nuove
generazioni che avrebbero così la possibilità di avvicinarsi alla
polifonia attraverso linguaggi più fruibili da parte loro.
Brani orecchiabili? Commerciali? Perché no! Pop sì, ma di un
certo livello.
Canzoni allegre o malinconiche, ritmate o melodiche, non
importa: purché possano riuscire a veicolare l’intero progetto
formativo, catturando l’attenzione dei giovani (ma non solo
giovani anagraficamente) coristi, come corsari a bordo di una
meravigliosa nave, motivandoli quindi a considerare nuovi
mezzi tecnico-analitici, per una maggior comprensione della
scelta dei materiali musicali prima e per una più consapevole
esecuzione e interpretazione poi. Il tutto in un’ottica
certamente non esclusiva per genere (non solo popular music
per intenderci), ma utilizzando quando possibile tutte le
occasioni per approfondimenti nel campo della polifonia
anche storica, grazie ad arrangiamenti che non rinuncino a
utilizzare espedienti contrappuntistici utili ad affrontare la più
completa esperienza di pratica corale.
LA SEMPLICITÀ È
UNA COMPLESSITÀ
RISOLTA
INTERVISTA A TULLIO VISIOLI
a cura di Alvaro Vatri
L’home page del tuo sito reca, sotto il tuo nome,
le seguenti “qualifiche”: compositore, flautista
“dolce”, cantante e didatta. Sono in ordine
“gerarchico” nella definizione della tua
personalità di musicista?
È una bella domanda e cercherò di rispondere.
Per molto tempo si è trattato di “qualifiche”
comunicanti e parallele, che esprimono i miei
principali interessi in campo musicale (e in
pratica il mio lavoro): le immagino sempre come
disposte in una mappa di territori attivi e in
costante trasformazione. Quando, qualche anno
fa, abbiamo progettato il sito, pensavo di mettere
liberamente a disposizione di chi fosse
interessato alcuni materiali e di condividere le
mie composizioni musicali e qualche riflessione
pedagogica. Per questo, ho scelto un ordine che
indicasse immediatamente quanto di
concretamente utile si potesse trarre da queste
pagine elettroniche.
Roma è stato anzitutto per formare una famiglia,
ma al tempo stesso ebbi l’occasione di lavorare
come tenore nel Coro polifonico della Rai di
Roma, diretto allora da Giovanni Acciai. Di questo
periodo trascorso in Rai conservo un piacevole
ricordo, ma anche il dispiacere di aver assistito
– poco dopo e in prima persona – allo
smantellamento e alla chiusura ingiustificata di
queste importanti e vitali istituzioni musicali.
Fu la prima di tante occasioni alla quale
s’intrecciarono e seguirono tante utili possibilità
di esperienza e di crescita personale che, altrove,
ben difficilmente si sarebbero presentate.
TULLIO
Partiamo da una curiosità biografica. Sei nato a
Cremona, vivi a Roma: è stata una scelta o un
caso?
Personalmente, non credo al caso, penso
piuttosto che nella vita di ciascuno ci sia
un’orchestrazione di fondo, una “partitura” di
possibilità. Quando da Parma sono venuto a
Il tuo percorso formativo è molto articolato:
diploma in didattica della musica, studio del
flauto dolce, canto, pianoforte, armonia jazz,
musica elettronica, musicoterapia. Perché, come
compositore, hai scelto di dedicarti alla musica
per l’infanzia?
Il mio prevalente impegno nella musica per
l’infanzia ha le sue premesse. A Parma prendevo
lezioni di composizione da Giorgio Branchi e
questo maestro incoraggiava tutti gli allievi a
comporre da subito, senza esitazione. Un giorno,
correggendo alcuni esercizi di contrappunto, mi
chiese: «Ma non mi porti niente di tuo?». Ricordo
che gli risposi: «Sì, ho scritto qualcosa, ma si
COMPOSITORE
tratta di canzoncine per i bambini della scuola elementare!».
Al che mi rispose: «Ottimo, la prossima volta ci lavoriamo
insieme, sai, scrivere per bambini è una delle cose più difficili
che io conosca!». All’inizio, la mia motivazione è stata dettata
(siamo negli anni ’80 e già insegnavo nella scuola elementare)
dalla scarsità di composizioni musicali dedicate ai bambini.
Si trovavano poche cose e molto, se non si voleva cedere alle
suggestioni commerciali, derivava dal repertorio dei canti
scout, dal canto popolare e dall’eccellente lavoro di Roberto
Goitre. In seguito, qui a Roma ho sviluppato meglio la mia
motivazione e ho messo a fuoco i miei intenti, grazie a un
ambiente ricco di possibilità, di educatori appassionati alle
novità e all’incoraggiamento di personalità come quella di
Bruna Liguori Valenti, che tutti conoscono come direttrice di
coro, ma è anche un’infaticabile promotrice di nuovi repertori
per il settore delle voci bianche. Per ciò che riguarda gli altri
percorsi di studio (jazz, musica elettronica…) ho approfittato
della competenza degli ottimi insegnanti che animano a Roma
la Scuola Popolare di Musica di Testaccio, dove insegno dal
’90 flauto dolce e coro di bambini. La musicoterapia ha preso
avvio su invito della dottoressa Annamaria Palmieri, psicologa
e responsabile dell’Asl di Centocelle, che, dopo aver ascoltato
un mio intervento su arte e disabilità, mi chiese se desideravo
formare nel quartiere un coro integrato, che ancora oggi
seguo regolarmente e dal quale ho avuto positive conferme
sulle applicazioni terapeutiche della musica.
Scrivere per l’infanzia è facile o difficile? Quanto si riesce a
intercettare l’interesse, la curiosità dei bambini e quanto
invece si sovrappone l’immagine o l’idea che abbiamo
dell’infanzia da adulti?
Scrivere per l’infanzia è difficile e impegnativo. Anche se il
risultato, il prodotto finale è
all’apparenza semplice, a questo
proposito amerei citare una celebre
massima dello scultore rumeno
Costantin Brâncuşi: «La semplicità è
una complessità risolta». Comporre
per bambini è un po’ come imparare
a muoversi su un’imbarcazione a
vela, dove troviamo tutto quello che
ci può servire, a condizione di
armonizzare e gestire le nostre azioni (che devono diventare
necessariamente più “piccole”) in un costante e attento
rapporto con quelle degli altri membri dell’equipaggio.
Interessare i bambini? Come tutti forse sanno, si tratta del
pubblico più esigente e critico in assoluto. Nel mio caso, ho
sempre continuato – e per scelta – a lavorare nella scuola (da
quella dell’infanzia alla primaria) così posso verificare
direttamente le reazioni alle mie proposte compositive e
rispondere in tempo reale alle possibili necessità della
programmazione scolastica. Lavorare a contatto con i bambini
è il migliore antidoto al rischio di fabbricarsi un’idea
dell’infanzia falsata e distante e mantiene una relazione viva
con un ambiente in rapidissima trasformazione, mai come in
15
quest’epoca. In particolare, ho avuto la fortuna di lavorare per
quindici anni, in una scuola dell’infanzia, con Maria Letizia
Volpicelli, straordinaria attrice, burattinaia, pedagogista e
protagonista di spettacoli per numerose stagioni al teatro per
bambini più popolare di Roma: il Teatro Verde. È stata
un’occasione unica per capire cosa sia la vera passione per
l’educativo. Inoltre, con Maria Grazia Bellia mi occupo del
Coro di bambini presso la Scuola Popolare di Musica di
Testaccio, dove la sperimentazione e l’interazione creativa
non possono di certo mancare. Il test più affidabile per
verificare l’apprezzamento di una composizione da parte dei
bambini? Quando ovviamente mi viene chiesto di ricantarla e
quando, come direbbero gli etnomusicologi, si “oralizza”
naturalmente, cioè i bambini la cantano spontaneamente
(tutta o in parte) durante le loro attività, i loro giochi o a casa
davanti ai genitori.
Il repertorio per bambini negli ultimi anni si è molto
rinnovato e arricchito. Un’esigenza espressa da molti
operatori è quella prestare attenzione ai testi dei brani che
molto spesso sono poco interessanti e avulsi dall’interesse e
dall’esperienza degli attuali bambini. La tua opinione e come
scegli i testi dei tuoi brani.
Come ho espresso in altre occasioni, negli ultimi anni, grazie
a molte iniziative formative e editoriali (come quelle promosse
da Feniarco), abbiamo assistito a una renaissance compositiva
per il settore voci bianche che sta andando a colmare un
vuoto enorme, documentato dall’assenza nelle antologie dei
libri scolastici di educazione musicale di autori contemporanei
che non siano musica degli anni ’60, cantautori o gruppi di
musica pop-rock. I testi delle canzoni? Fino a non molto
tempo fa eravamo fermi a idee molto obsolete di ciò che
Comporre per bambini è un po’
come imparare a muoversi
su un’imbarcazione a vela.
potesse piacere ai bambini, persi tra Vispe Terese e Macchine
del capo. Fortunatamente, a partire dal ’60 con Gianni Rodari,
abbiamo un’ottima letteratura per l’infanzia dalla quale
attingere testi da mettere in musica e valenti e riconosciuti
poeti. Per ciò che mi riguarda, in qualche caso scrivo io
stesso i testi, ma abitualmente ho i miei autori, come Franca
Renzini, Ambretta Vernata, Antonella Abbatiello, la bolognese
Sabrina Giarratana e il “gettonatissimo” Rodari. Qualche
volta, in seguito alle mie necessità didattiche, ho
commissionato testi con precise indicazioni di contenuto,
d’immagini ed emozioni. Di recente, ho aperto una
collaborazione con Elio Pecora, del quale ho messo in musica
diverse poesie inedite per bambini. Alcune di queste
16
composizioni le ho eseguite accompagnandomi al pianoforte il 4 marzo di
quest’anno, in un simposio di studi dal titolo Quando la musica incontra la poesia
qui all’Università La Sapienza, confrontandomi con musicisti e poeti ciprioti e
greci. L’iniziativa ha avuto molto successo e, da parte mia, la scelta di introdurre
canzoni per bambini in una rassegna di questo genere, l’ho vissuta come un
positivo segnale di attenzione verso un mondo musicale (il repertorio per bambini)
in sorprendente crescita e valorizzabile nelle sue potenzialità artistiche.
Tullio Visioli________
Didatta, compositore, flautista dolce
e cantante, insegna flauto dolce e
coro di bambini presso la Scuola
popolare di musica di Testaccio
(Roma), educazione al suono e alla
musica alla Libera Università Maria
SS. Assunta di Roma, esperienza del
canto per la Scuola di Artiterapie
diretta da Vezio Ruggeri, arteterapia
musicale alla S.I.P.E.A. e al corso di
counseling della Fondazione
Fatebenefratelli.
La sua attività compositiva è diretta
alla coralità (voci bianche, cori
giovanili e di adulti), al flauto dolce,
allo strumentario didattico, a
orchestre e gruppi musicali, mentre
quella di formatore è indirizzata alla
vocalità e al flauto dolce.
Svolge stages – con cori di adulti e
gruppi di ricerca – sull’espressione
vocale, per rendere concreto il
legame tra psiche, emozioni e
musica, facilitare lo studio e lo
sviluppo delle proprie potenzialità e
della “voce personale”.
Collabora con MimesisLab,
laboratorio di pedagogia
dell’espressione dell’Università di
Roma 3, coordinato da Gilberto
Scaramuzzo, e il master “Educazione
e terapia della voce in età evolutiva”
presso l’Università di Roma Tor
Vergata. Come John Cage è un
grande appassionato di funghi e
studioso di culture orientali.
Nel comporre brani per l’infanzia quanto badi alla didattica, quanto alla
pedagogia e quanto alla poesia?
La risposta ideale a questa domanda sarebbe di preoccuparsi che la musica che si
compone e prende forma sia un po’ come un’alimentazione completa e naturale,
che comprenda tutte le sue proprietà. Quando nella musica l’aspetto didattico
prevale, fa assomigliare il risultato a una medicina amara. Sono convinto che tutto
ciò sia in declino e, com’è avvenuto per la letteratura e l’illustrazione per
l’infanzia, si tratta solo di intraprendere un serio e appassionato cammino di
ricerca. Il mio intento è di avvicinarmi il più possibile all’ideale greco della paideia.
Il termine deriva dal verbo greco paideuo che significa “nutrire” e il suo risultato
ideale è un oggetto o, in senso più esteso una pratica, nella quale poesia,
pedagogia e didattica convivono armoniosamente. Tra le mie composizioni, se
dovessi indicarne una nella quale ho toccato questo equilibrio ideale, citerei
senz’altro Sotto la luna o Amico Vero: laddove il testo poetico collabora in
perfetta simbiosi con l’interpretazione e il carattere del testo musicale.
“Ispirazione” e “committenza”: quanto agiscono questi due fattori nella tua
attività di compositore?
La committenza è una sfida che spesso mi coinvolge e mi motiva a fare;
l’ispirazione è un allinearsi improvviso di pianeti, una specie di energia
consapevole che ti attraversa e ti spinge a comporre come se tutto scaturisse per
incanto. La prima richiede applicazione e solido artigianato e la seconda è il fiore
che ogni tanto sboccia da una pratica costante e assidua. Potrà sembrare
contraddittorio, ma spesso trovo molta più ispirazione attraverso la committenza
che nella libera attività. Una delle recenti committenze, che mi ha molto coinvolto,
è stata espressa da un coro di adulti, le voci maschili de Le penne nere di Aosta,
per il quale ho scritto Confini (testo e musica) occupandomi del delicato tema
dell’appartenenza. E anche per le scuole o per gruppi di istituti comprensivi ho
ricevuto commissioni su temi ispirati alla convivenza, al rispetto, alla nostra
Costituzione o ad esempio, da parte del coro Le cinque note di Vedelago (Treviso),
diretto da Chiara Cattapan, mi è stato richiesto un brano musicale a due voci e
pianoforte ispirato alla tragedia della Shoah, sul quale si sta ora montando un
video interpretato dai bambini e prodotto con criteri assolutamente professionali.
Sul piano più strettamente musicale, quali sono gli elementi del tuo linguaggio
musicale, hai cercato (o sei alla ricerca) un tuo stile personale “riconoscibile” e
che t’identifichi oppure…
Posso identificare alcuni tratti del mio stile: interesse per l’invenzione armonica,
prevalenza di suggestioni e interferenze modali, attrazione per il ritmo e il
rapporto col movimento e la danza, melodie cantabili che utilizzano raramente
ampi intervalli, cura dei dettagli, umorismo e gusto della citazione divertente…
Credo di avere uno stile personale o un’identità, ma come conseguenza del mio
bagaglio di ascolti e di esperienze, perché sono convinto che, come le inflessioni
del nostro discorrere quotidiano o le nostre frasi ricorrenti, anche nella musica
questi tratti distintivi affiorino naturalmente e non abbiano necessità di forzature.
Allo stesso modo, nella musica che scriviamo (ed è inevitabile) affiorano anche
tutte le nostre passioni: siamo una generazione che ha studiato in conservatorio,
COMPOSITORE
17
Sì, come accade un po’ a tutti i compositori ci sono brani ai
quali sono affezionato e che non hanno incontrato il riscontro
che avrei desiderato come Il vento, Erano in sette, Quattro
gatti, C’è un treno che corre. Per esperienza so anche che,
prima che una proposta musicale si affermi, in un mondo
artigianale (vivaddio) e lontano dall’universo mediatico dei
Ti lascio una canzone come quello della coralità, dove vige la
diffusione “porta a porta”, ci vuole tempo e qualche buona
occasione di scambio. Le stroncature arrivano per tutti e, se
non ne avessi ricevute, credo che dovrei preoccuparmi! Le
stroncature servono a riflettere sul proprio operato o, al
contrario, a rafforzare la nostra determinazione. Un grande
maestro di canto del secolo XVIII, Francesco Mancini, così
consigliava: «Imparate soprattutto dalle critiche: ci aiutano a
migliorare e non costano niente!».
ma è cresciuta ascoltando i Beatles e (nel mio caso) anche il
jazz di Miles Davis, il rock progressivo e tanta musica
cosiddetta “antica”. Ad esempio, in Goccia dopo goccia,
alcune successioni di accordi richiamano le sonorità tipiche
dei Genesis e Cantare ci fa bene utilizza i voicing ricchi di
tensioni armoniche della bossa nova ibridata col jazz.
La tua musica è eseguita moltissimo: quali sono i brani di cui
hai riscontro che hanno maggiore successo e perché,
secondo la tua opinione e secondo la critica?
Credo che i brani di maggiore successo siano
Sotto la luna, Filastrocca dell’altro ieri, Goccia
dopo goccia, Il verme, Cantare ci fa bene, La
casetta degli gnomi, Cielo di città, Voce bella,
I mari della luna e, tra le altre cose, una mia
armonizzazione e rielaborazione (SATB) di Puer
Natus. Si tratta di brani diffusi attraverso Giro
Giro Canto o altre pubblicazioni, molto graditi dai
bambini per l’aspetto musicale, per la richiesta di
un impegno più interpretativo che tecnico e
l’impiego di testi suggestivi e non privi di un umorismo che
approda, nel caso di Cantare ci fa bene, anche al nonsense,
tanto amato dal pubblico infantile. La critica, oltre a diversi
riconoscimenti, mi riporta soprattutto le impressioni positive
dei bambini o i consensi del pubblico. Tra le cose che mi sono
state dette a proposito de Il verme, una delle cose più
divertenti è di Giorgio Monari, direttore di coro e musicologo:
«In quel brano c’è tutta la storia della musica!». Anche se non
c’è niente come l’entusiasmo dei bambini di tre anni della
scuola dell’infanzia che alla fine di ogni incontro mi chiedono di
cantare “Sciom bom bom”, cioè le sillabe ritmiche iniziali di
Dinosauri. È la buona sensazione di aver centrato un obiettivo:
quello di far compiere esperienze musicali formative e al tempo
stesso gioiose.
Molto spesso la tua musica viene “arricchita” dagli
insegnanti e dai direttori con strumenti, percussioni, effetti
vari: come giudichi queste operazioni e quali sono secondo te
i limiti in cui dovrebbero essere contenute?
In genere indico sempre in partitura o nelle premesse di una
raccolta (come nel caso dei 10 Indovinelli) le possibilità
interpretative e di “espansione” e, quando non ci sono, è
chiaro che la partitura andrebbe rispettata. Però, si tratta
anche di musica che ha una larga e nobile utilizzazione in
campo didattico e allora sono sempre bene disposto ad
accogliere le ragioni e le motivazioni di questi arricchimenti,
Negli ultimi anni abbiamo assistito
a una renaissance compositiva
per il settore voci bianche.
Ci sono dei brani a cui tieni che però sono “incompresi” dagli
operatori e dal pubblico? Come reagisci alle critiche e alle
“stroncature” (se mai ne hai ricevute)?
anzi li accolgo con curiosità e interesse. L’importante è che
non si perda il senso musicale e che si mantenga un rispetto
sostanziale verso la musica che scrivo, lo stesso che io ho per
gli esecutori.
La pedagogia musicale offre tante vie d’approccio alla musica
e alla pratica corale, tante metodologie che spesso si
presentano con caratteri di esclusività. Sappiamo che molti
operatori nelle nostre scuole provengono non solo dal mondo
accademico: come orientarsi?
L’esclusività è quasi sempre un fatto commerciale e dietro un
«il nostro è il metodo dei metodi» si nasconde facilmente
un’operazione di marketing. Le scuole “esclusive” sono in
genere più attente all’applicazione ortodossa del metodo da
parte degli operatori che alla relazione con i bambini.
Da parte mia preferisco le operazioni di scambio e di
arricchimento tra scuole di pensiero e diffido delle pretese di
chi dichiara di possedere “soltanto lui” il meglio. Per ciò che
18
COMPOSIZIONI CORALI DI TULLIO VISIOLI
Su testi di Gianni Rodari, per la scuola
elementare
Il gioco dei se (v. e pf.)
Pesci! Pesci! (v. e pf.)
Domande (2 v. e pf.)
La galleria (v. e pf.)
Stelle senza nome (v. e pf.)
Il treno dei bambini (1 o 2 voci e pf.)
Per il secondo ciclo scuola elementare
e scuola media
I tre dottori di Salamanca (2 v. e pf)
I mari della luna (3 v. e pf.)
Stracci! Stracci! (2 v., 2 fl.d.s., pf. e
perc.)
I mari della luna (versione per 3 v., fl.,
vl., cl., pf.)
Quanti pesci ci sono nel mare (v. e pf.)
Per la scuola dell’infanzia e il primo
ciclo scuola elementare
La casetta degli gnomi (11 canti per
voce, pf. e piccoli strumenti)
Domani è festa (v. e pf.)
Goccia dopo goccia (v. e pf.)
Bolli, bolli pentolino (2 v. e pf.)
Pecorella (v. e pf.)
Aiutiamo Babbo Natale! (v. e pf.)
Case colorate (v. e pf.)
Dinosauri (v. e pf.)
La strada che suona (v. e pf.)
Filastrocca del mare (v. e pf.), su testo
di S. Giarratana
Per la scuola elementare
Voce bella (v. e pf.)
Venite ad ascoltare (v. e pf.)
Girotondo (v. e pf.), su testo di
E. Pecora
Sotto la luna (v. e pf.), su testo di
A. Vernata
Filastrocca dell’altro ieri (v. e pf.), su
testo di F. Renzini
Il verme (v. e pf.), su testo di F. Renzini
Canta Canta (v. e pf.), su testo di
F. Renzini
Quadretto (v. e pf.)
C’è un professore (v. e pf.), su testo di
F. Renzini
Erano in sette (v. e pf.), su testo di
F. Renzini
Il misterioso maramà (v. e pf.)
La gallina che… (v. e pf.)
Il dentro e il fuori (v. e pf.), su testo di
N. Raffone
Marcetta (v. e pf.)
Cometa Rock (v. e pf.)
Nell’alto più alto (v. e pf.)
Nina nanéta (ninna nanna popolare
valdostana, per v., fl.d.s. e pf.)
Per il secondo ciclo scuola elementare
e scuola media
Poesie bambine (10 canti per o 2 voci e
pf.), su testi di E. Pecora
Canzone per gli uomini da salvare (v. e
pf.), su testo di E. Pecora
C’è una barca che va per il mare (10
indovinelli popolari per v. b. e pf.)
Acqua (v. e pf.), su testo di
G. D’Annunzio
Una voce (v. e pf.)
S’io potessi (2 v. e pf.), per i 150 anni
dell’unità d’Italia
Cantare ci fa bene (v. e pf.), su testo di
F. Renzini
Il vento (v. e pf.), su testo di F. Renzini
A stan blan (2 v. e pf.)
La pigrizia (2 v. e pf.)
Quattro gatti (2 v. e pf.), su testo di
A. Abbatiello
I tre giovani d’Antraime (1 + 1 v. e pf.)
L’amico vero (2 v., fl. dolci, percussioni,
pf. a 4 mani), su testo di A. Vernata
L’amico vero (versione ridotta) (2 v.
e pf.)
Gesù Bambino (2 v. e pf.)
Coro a colori (2 v., perc., pf.), su testo
di F. Renzini
Ninna nanna ninna mamma (v. e pf.),
su testo di A. Abbatiello
Marina Cocò (v. e pf.), su testo di
A. Abbatiello
Eco e Narciso (v. e pf.)
Il giorno della notte (2 v. e pf.)
Una voce (v. e pf.)
Strasèr (Stracciarolo) (v., fl.d.b. e pf.)
Brani corali a 2 voci
Gatti al sole (SSA), su testo di F. Renzini
Il Gatto gioca (SS), su testo di F. Renzini
Tu scendi dalle stelle (armonizz. SA/TB)
Tu scendi dalle stelle (versione in fa
magg. a 2/3 voci)
Brani corali a 3 voci pari
C’è un treno che corre, su testo di
F. Renzini
L’infinito, su testo di G. Leopardi
Brani corali a 4 voci maschili (ATBrB)
Confini
La ballata dei tesori
Brani corali a 4 voci miste (SATB)
Armonizzazioni
Ai preat
Bella ciao
Fischia il vento
La bella Gigogin
Camicia rossa
Addio mia bella addio
O Venezia che sei la più bella
Gli scariolanti
Tu scendi dalle stelle
La ballata dell’eroe (F. De André)
Astro del ciel (F. Gruber)
Mottetti
Hodie Christus natus est
Puer Natus in Bethleem
Gloria in cielo
Et venerunt festinantes (Luca 2, 16-19;
2,14)
“Madrigali”
Tempo Lontano, su versi di
G. D’Annunzio
Aurea Aura d’arie
Zuppa d’ovoli, su testo di P. Artusi
La galleria, su testo di G. Rodari
Da sempre, su testo di E. Pecora
Pubblicazioni a carattere musicale
C’è una barca che va per il mare, Lapis,
Roma, 1999
La casetta degli gnomi, Anicia, Roma,
2002
Cantare ci fa bene, (con G. Sellari e
M. G. Bellia), Universitalia, Roma, 2011
Pubblicazioni a carattere pedagogico
VariAzioni, elementi per la didattica
musicale, Anicia, Roma, 2004
Il baule dei suoni, Multidea, Roma, 2011
COMPOSITORE
19
riguarda la formazione, il conservatorio non ha sempre portato la dovuta
attenzione alla pedagogia, occupandosi prevalentemente delle “tecniche” e
perdendo talvolta di vista il senso profondo dell’agire musicale. Ciò era
inevitabile perché il conservatorio nasce storicamente come una scuola di
formazione professionale. Ultimamente siamo in crisi e allo stesso tempo in
piena fase di recupero. La crisi ha aperto percorsi di formazione alternativi,
come quello della scuola presso la quale insegno qui a Roma, dove puoi
praticare e comprendere anche discipline come il canto polifonico di tradizione
orale con Giovanna Marini. Si tratta quindi di percorsi d’eccellenza che entrano
per forza di cose in competizione col mondo accademico. Questo ci porterà a
rivedere i nostri criteri di valutazione e giudizio. Siamo in piena e necessaria
trasformazione.
La tua musica è apprezzata anche all’estero: quali sono le maggiori
soddisfazioni che hai avuto in questo senso?
La soddisfazione di sapere che si eseguono le composizioni che scrivo per
organici adulti, le mie proposte polifoniche. E questo è avvenuto in Europa, in
particolare in Francia, Spagna e Germania, negli Stati Uniti e nell’America del
Sud. Ogni tanto qualcuno mi scrive e mi chiede informazioni o m’invia una
registrazione. Non mancano anche le esecuzioni delle mie composizioni per
bambini, ma c’è il limite della lingua italiana, tanto da farmi seriamente pensare
a tradurre i brani più richiesti.
Come dicevamo all’inizio la tua attività in ambito musicale è poliedrica:
brevemente quali sono i progetti, al di fuori di quelli compositivi, a cui ti stai
dedicando?
Sto pensando a un testo di studio che condensi le mie riflessioni pedagogiche, i
miei studi sulla vocalità infantile e che li organizzi in un modello riconoscibile. In
seguito a questo vorrei organizzare insieme ai miei collaboratori un progetto di
formazione itinerante a
diffusione nazionale. Penso
comunque anche a una
scuola o a un centro didattico
nel quale realizzare a tutto
tondo il mio modo di vedere
la musica nel mondo dei
bambini e poter formare
anche giovani insegnanti alla maniera delle botteghe d’arte rinascimentali, ma
senza trascurare nulla dei mezzi del nostro tempo.
Penso che nella vita di ciascuno
ci sia un’orchestrazione di fondo.
Sempre nella home page del tuo sito si legge, a chiusura del tuo profilo:
«Come John Cage sono un grande appassionato di funghi e studioso di culture
orientali…». E con la musica di Cage hai tratti in comune?
Certamente, l’umorismo, il gusto del nonsense, l’attrazione per il silenzio e i
“paesaggi sonori” (soundscape) e – anche se non riguarda la musica – una
spiccata simpatia per il genere umano e una grande prontezza di spirito, come
quando, rispondendo a un giornalista che criticando negativamente la sua
musica gli disse che anche lui avrebbe potuto scrivere musica simile, replicò:
«Ho detto niente che le faccia pensare che la ritenga stupido?».
E sapeva anche vedere “avanti” quando nel ’59, anticipando l’idea di
globalizzazione affermava: «Il mondo, ormai, è un unico mondo».
20
LA PIGRIZIA DI TULLIO VISIOLI
UN’ANALISI E ALCUNE PROPOSTE OPERATIVE
PER UN’ESECUZIONE SCENICA
di Maria Grazia Bellia
DIRETTRICE DI CORO E DIDATTA
La Pigrizia è una delle più diffuse filastrocche della tradizione
popolare italiana. La troviamo contenuta in una raccolta di
poesie per bambini di Ettori Berni (Ettori Berni [a cura di],
Poesie per Bambini, canti, versi d’occasione, filastrocche,
dialoghi, indovinelli, scelti e riordinati da Maria Bersani, ed.
G.B. Paravia, Torino 1939) in una versione leggermente
diversa da quella messa in musica da Tullio Visioli, che qui
riportiamo, che dichiara di averla appresa in famiglia.
La Pigrizia
La Pigrizia andò al mercato
ed un cavolo comprò;
mezzogiorno era suonato
quando a casa ritornò.
Mise l’acqua, accese il fuoco,
si sedette, riposò,
ed intanto a poco a poco
anche il sole tramontò.
Così, persa ormai la lena,
sola, al buio, ella restò,
ed a letto senza cena
la Pigrizia se ne andò.
prima e la seconda sezione (bb. 24-29). La terza sezione è
caratterizzata da un intensificazione agogica (più veloce, alla
‘Ridolini’).
L’idea musicale che abbiamo contraddistinto con a si presenta
alla seguenti battute:
- (bb. 7-10): ben scandito, sulle parole “La pigrizia andò al
mercato e un cavolo comprò mezzogiorno era suonato
quando a casa ritornò”.
- (bb. 30-33): ben scandito, sulle parole “Così, persa ormai la
lena, sola al buio, ella restò, ed a letto senza cena la Pigrizia
se ne andò”.
- (bb. 43-46): più veloce, alla ‘Ridolini’, sulle parole “Così,
persa ormai la lena, sola al buio, ella restò, ed a letto senza
cena la Pigrizia se ne andò”.
Visioli caratterizza da subito la composizione utilizzando una
stretta alternanza di terze maggiori (re-fa#) e minori (re-fa
naturale). In questa sezione le due voci corrono all’unisono.
All’idea musicale b sono riservati i segmenti della partitura di
seguito citati:
- (bb. 11-14): più cantabile, sulle parole “mise l’acqua accese il
fuoco tchsssch!, si sedette, riposò tchsssch”.
- (bb. 34-37): più cantabile, sulle parole “ed a letto senza
Personaggi, situazioni, anche singole
parole, possono suscitare le associazioni
più diverse nei giovani coristi.
Il brano, per coro di voci bianche a
due voci con accompagnamento di
pianoforte, ha una forma tripartita
(AA’A). All’interno di ogni sezione la
struttura è contraddistinta da
quattro segmenti musicali (a, b, a’,
c) chiaramente riconoscibili, dove il terzo (a’) è derivato dal
primo (a). È dunque possibile enucleare tre idee musicali (a,
b, c) ben distinte. La sezione A (bb. 7-23) copre le prime due
strofe della filastrocca. Nella sezione A’ (bb. 30-42) è
musicata solo la terza strofa: in questo caso sono tralasciate
le ultime quattro battute che corrispondono al segmento c.
Nella terza sezione (bb. 43-60) è ripetuto il testo della terza
strofa utilizzando la medesima costruzione musicale della
prima sezione (a, b, a’, c). Questa singolare struttura
determina una ricercata asimmetria fra testo poetico e testo
musicale volta a superare l’eccessiva prevedibilità della forma
strofica. Il brano si apre con una breve introduzione
strumentale di sei battute, riproposta come interludio fra la
cena ahhhh! la Pigrizia se ne andò ahhhhh!”.
- (bb. 47-50): più cantabile, sulle parole “ed a letto senza
cena oohhhh! la Pigrizia se ne andò oohhhhh!”.
Il tema presenta le azioni che la Pigrizia, tornata dal mercato,
compie a casa: l’intenzione è quella di cucinare il cavolo. A tal
fine, mette l’acqua in una pentola e accende il fuoco. La fatica
è tale da costringere la Pigrizia a sedersi e riposare fino ad
addormentarsi senza aver cenato. Le azioni della Pigrizia –
metter l’acqua, sedersi e riposare e andare a letto senza cena
– vengono rispettivamente sottolineate da suoni onomatopeici
che i cori sono invitati a produrre per sottolineare le azioni
(bb. 12 e 14 “tchssssch”; bb. 35 e 37 “ahhhh”; bb. 48 e 50
“oohhhh”).
COMPOSITORE
L’idea musicale a ritorna modificata (a’) alle battute di seguito
indicate:
- (bb. 15-19): suoni ben tenuti… allargando poco a poco, sulla
parola “riposò”.
- (bb. 38-42): allargando poco a poco, sulle parole “se ne
andò”.
- (bb. 51-55): allargando poco a poco, nuovamente sulle
parole “se ne andò”.
Qui le due voci dialogano facendo echeggiare la stanchezza
della Pigrizia nel momento del suo riposo. In questo caso
l’alternanza di fa# e fa naturale, già udita alle bb. 7-10, si fa
talmente serrata da determinare una sovrapposizione dei due
suoni. Le voci producono un continuum sonoro che sembra
non avere soluzione di continuità fra le due parti, con un
effetto di staticità che rende palpabile la stanchezza della
Pigrizia.
Infine, l’idea musicale c si sviluppa nei seguenti momenti:
(bb. 20-23): espressivo, allargando, sulle parole “ed intanto a
poco a poco anche il sole tramontò”.
(bb. 56-60): espressivo, allargando,
sulle parole “ed a letto senza cena la
Pigrizia se ne andò”.
La Pigrizia è un brano che in apparenza
potrebbe sembrare costruito sulla
tonalità di re maggiore. La partitura
tuttavia non presenta mai la sensibile
(do#), e anche per tale motivo appare
più pertinente una definizione modale
del brano, costruito su una scala
misolidia trasportata sul re. Le prime quattro battute
dell’introduzione strumentale sono basate su una pura
alternanza di maggiore e minore (la definizione tonale è
ancora ambigua). A b. 5 appare un accordo di settima di
seconda specie sul sesto grado di re maggiore, e nella
battuta successiva un accordo di settima sul sesto grado
abbassato che risolve sulla dominante di re con la quarta e la
sesta (minore) non risolte; quest’ultima armonia a sua volta
cadenza sull’accordo di re maggiore di b. 7, nel momento in
21
cui entrano le voci. Immediatamente dopo (bb. 8-9), appare
una cadenza modale misolidia (do naturale VII - re I). Da
sottolineare anche l’armonia che appare sul terzo e quarto
tempo della b. 10, un accordo di nona di quarta specie usato
sul secondo grado abbassato della scala di re (mi b) che
dovrebbe normalmente risolvere sul primo grado, ma che a
sorpresa modula, diventando il quarto grado di si b. Si tratta
di un si b lidio (quindi con il mi naturale), mantenuto fino a
b. 14, dove riappare la cadenza VII-I che riconduce al re
misolidio d’impianto. A b. 19 c’è ancora un accordo sul
secondo grado abbassato (mi b) che, questa volta, risolve
naturalmente sulla tonica. Il carattere modale del brano è
ribadito dall’impiego di accordi per quarte sovrapposte nelle
bb. 20-23.
Il brano rappresenta bene la poetica di Visioli. Nelle sue
composizioni per coro di bambini è sintetizzato un pensiero
musicale intriso di curiosità, ironia e ricerca. Nulla è lasciato
al caso e le idee si intrecciano tra loro in un discorso
musicale fluido e avvincente e per l’ascoltatore e per
l’esecutore. Visioli ha il coraggio e la forza di scrivere non per
i bambini ma con i bambini. Ogni sua composizione è un
acquerello in cui ciascuno può specchiarsi e far vibrare con la
voce il proprio mondo reale e fantastico.
La Pigrizia, dalla partitura alla scena
Accanto a un’analisi di tipo tradizionale mi sembra utile
proporre qui una lettura della partitura che la esamina in
funzione della sua messa in scena. Nel caso preso in esame il
brano non è destinato a un’esecuzione di tipo teatrale. Per
analisi scenica intendo quindi lo studio che direttore e coristi
affrontano interrogando la partitura al fine di costruire
un’esecuzione teatrale del brano che vada anche oltre le
esplicite intenzioni dell’autore. Si tratta di esplorare le
potenzialità drammaturgiche di testo e musica per approdare
dunque a una convincente rielaborazione scenica.
Come avviene questo processo? L’idea è quella di interrogare
Visioli ha il coraggio
e la forza di scrivere
non per i bambini ma con i bambini.
il testo letterario in una prospettiva per l’appunto teatrale. La
tematica e le situazioni presentate dalla poesia messa in
musica vengono sviscerate nel corso di incontri preliminari
volti a individuare le situazioni che più stimolano la fantasia
dei coristi da un punto di vista narrativo. Si procede per
evocazioni: personaggi, situazioni, anche singole parole,
possono suscitare le associazioni più diverse nei giovani
coristi. Compito del direttore è quello di accogliere le proposte
e mettere nelle condizioni i coristi di incorporarle in varie
22
forme – testuali, musicali, mimiche – nell’interpretazione del
brano. A questo punto interviene l’analisi della partitura; lo
scopo è quello di verificare quali degli spunti proposti già
intrinseci alla partitura e cosa invece va aggiunto all’atto
dell’esecuzione. Le aggiunte possono manifestarsi come
amplificazione di alcuni episodi musicali oppure come vere e
proprie interpolazioni.
Ma perché mettere in atto un intervento di questo genere
sulla partitura, intervento che potrebbe a prima vista apparire
arbitrario e gratuito? L’idea di fondo è quella che i coristi sono
in grado di giungere a un apprendimento significativo del
brano e a un’esecuzione vocale realmente espressiva di esso
se la motivazione al fare implica anche un forte
coinvolgimento emotivo. La sollecitazione di una efficace
risposta emozionale nei coristi riposa sulla possibilità di
attivare la loro attitudine al fantastico. Questo è il motivo
dell’importanza di una lettura del testo che non si limiti ai
contenuti esplicitamente espressi, ma cerchi di mettere questi
ultimi in rapporto col mondo immaginativo dei coristi. In
questo modo essi saranno in grado di
comprendere le soluzioni compositive
messe in campo dall’autore per
esprimere determinati contenuti del
testo. Si vuole così offrire in primo
luogo ai coristi un’opportunità di
lavoro che li coinvolga attivamente.
L’esperienza ci conforta nel sostenere
che un coro che utilizza la voce
muovendosi all’interno di uno spazio
scenico migliora le capacità di ascolto,
di relazione, di attenzione e concentrazione. L’emissione
vocale risulta più rilassata e il livello di partecipazione del
gruppo corale è sostenuto da una forte motivazione al fare
che coinvolge non solo la voce ma il corpo nella sua globalità.
La proposta di utilizzare la partitura corale per andare in
scena ridefinisce anche i ruoli di ciascuno all’interno della
relazione. Il direttore non è solo colui che istruisce e i coristi
non sono solo coloro che apprendono; tra di loro si attiva un
nuovo processo basato sulla cooperazione che coinvolge tutti,
ciascuno con le proprie conoscenze e competenze, in un
lavoro progettuale attorno alla partitura, che diventa al tempo
stesso copione e canovaccio.
Il repertorio di Visioli si presta particolarmente a essere
utilizzato per operazioni di messa in scena corale, e per la
scelta dei testi e per il tipo di scrittura utilizzata. Non
mancano infatti nelle sue composizioni momenti in cui il coro
e il direttore possono “agire”. La lunga collaborazione con
Visioli nella conduzione del coro di bambini della Scuola
Popolare di Musica di Testaccio di Roma ha permesso di
verificare insieme al compositore l’efficacia del processo qui
presentato.
L’analisi scenica de La Pigrizia che di seguito presento è una
sintesi delle proposte avanzate dai bambini in diversi contesti
scolastici ed extrascolastici durante le attività di coro scenico
che nel tempo ho condotto.
Come primo passo per avviare il processo di
drammatizzazione introduco i coristi a una lettura del testo
per approfondirne gli aspetti narrativi e, successivamente,
sollecito una comparazione delle osservazioni rilevate con le
soluzioni musicali elaborate dal compositore. Chi sono i
personaggi? Dove si muovono? Come si muovono? Dove si
svolge la vicenda? Cosa dice la Pigrizia? Come lo dice? Al
mercato la Pigrizia interagisce con qualcuno? Sono sufficienti
alcune di queste domande per attivare una discussione di
gruppo. Si prende nota delle risposte, delle idee, delle
soluzioni avanzate. Ciascuna proposta sarà oggetto di studio
e ricerca da parte del gruppo: dei coristi tra loro e tra questi
e il direttore. Lo studio del testo narrativo in funzione teatrale
mette in evidenza l’opportunità di definire in maniera efficace
da un punto di vista scenico i luoghi che fanno da sfondo alle
azioni della Pigrizia: il mercato e la cucina. Dalla
comparazione fra la prospettiva scenica del testo agita dai
bambini e le soluzioni adottate nella partitura dal compositore
si evince infatti come la musica contenga momenti funzionali
Nelle composizioni di Visioli
per coro di bambini è sintetizzato
un pensiero musicale intriso di curiosità,
ironia e ricerca.
a costruire il personaggio della Pigrizia, mentre non sono
presenti sezioni o spunti musicali che esplicitamente evochino
i luoghi.
Parallelamente al lavoro musicale di analisi e comparazione si
attiva fra i coristi il reperimento di oggetti e costumi che
possono essere utili per andare in scena.
La proposta dei coristi di caratterizzare efficacemente il
personaggio della Pigrizia implica un lavoro di costruzione
dello stesso personaggio. Una possibile soluzione è quella di
mettere in scena la Pigrizia come personaggio muto,
affidandone la definizione drammatica alle sole azioni
mimiche. In partitura tuttavia troviamo indicazioni che, pur
non essendo esplicitamente assegnate a una voce solista,
possono costituire un primo materiale utile alla costruzione di
una parte vocale che possa accompagnare le azioni della
Pigrizia. Ci riferiamo alle onomatopee presenti alle battute 12,
14, 48 e 50 che, estrapolate dal loro contesto dell’esecuzione
corale, si prestano a essere elaborate per essere affidate a
una voce solista che impersonerà il protagonista della
filastrocca. Le elaborazioni più “riuscite” sono state quelle
che hanno lasciato libero il personaggio di improvvisare, con
la voce parlata, commenti alle azioni cantate dal coro. In
questo caso la partitura si è arricchita dunque di una linea di
parlato che accompagna liberamente il canto. La Pigrizia va in
scena e improvvisa declamando la sua indolenza, la lentezza
COMPOSITORE
delle proprie azioni, la noia che prova, ecc. con l’obbligo di
eseguire, nei tempi previsti dalla partitura, le onomatopee.
Un lavoro attento sulla postura e sull’andatura del
personaggio facilita l’improvvisazione vocale, supportata da
riflessioni collettive sulle caratteristiche proprie dell’essere
pigro. In adesione alle indicazioni della partitura, dalla b. 43
in poi la Pigrizia potrebbe amplificare la sua lentezza
attraverso il parlato e con movimenti del corpo, creando un
forte contrasto con l’esecuzione del canto che, per indicazione
del compositore, dovrà essere più veloce, alla ‘Ridolini’.
Infine, in tutti i segmenti a’ (bb. 15-19, “riposò”; bb. 38-42,
“se ne andò”; bb. 51-55, “se ne andò”) il coro potrebbe unirsi
alla lentezza della Pigrizia
accompagnando il canto con
movimenti sostenuti del corpo
che esplora i diversi livelli dello
spazio.
I coristi hanno talvolta avanzato
la proposta di realizzare una
scena di mercato come
introduzione del brano; ciò offre
lo spunto per realizzare
un’improvvisazione vocale e strumentale. Un ipotetico lavoro
di ricerca è quello che potrebbe dar luogo a una visita
individuale o di gruppo a uno dei mercati diffusi sul territorio
allo scopo di “catturare” suoni, rumori, atteggiamenti dei
venditori, ecc. Si può prendere nota su un taccuino o per
mezzo di registrazioni. I coristi acquisiscono così un ampio
vocabolario durante l’esperienza diretta o attraverso altri
mezzi predisposti dal direttore anche grazie alla
collaborazione delle famiglie (video, interviste, film, ecc.).
Laddove fossero a disposizione mezzi tecnologici adeguati, il
repertorio dei richiami dei venditori può essere elaborato al
computer utilizzando semplici programmi di editing. In questo
caso si lavorerà a costruire una “colonna sonora”, realizzata
assemblando le voci e i suoni del mercato, da utilizzare come
introduzione al brano. Il lavoro di ricerca può coinvolgere gli
insegnanti dell’area letteraria che potrebbero prendere spunto
del tema per approfondimenti storici e di costume.
23
Uno spazio all’interno della scena dovrebbe essere ben
riconoscibile come la cucina, il luogo in cui la Pigrizia svolge
le sue lente azioni. Le bb. 11-14 offrono la possibilità di
inserire un momento strumentale (libero o strutturato)
realizzato utilizzando gli utensili della cucina (mestoli, pentole,
tazzine, cucchiaini, sveglie, ecc.). Abbiamo a disposizione
quattro battute? sono sufficienti? Il coro e il direttore possono
decidere di ampliare la sezione inserendo uno o più ritornelli.
Il brano strumentale può accompagnare la linea del canto e
può alternarsi a esso.
Mi piace ricordare la proposta di una delle mie coriste più
riservate di aggiungere nella composizione i dodici rintocchi di
campana scanditi della chiesa del mercato. L’idea, accolta con
grande entusiasmo dal gruppo, dopo una serie di tentativi, si
concretizzò eseguendo i rintocchi sulle sei battute di introduzione
strumentale (due colpi di campana per ciascuna battuta).
Le proposte di messa in scena realizzate in classe coi i
bambini non si sono limitate a quelle qui sinteticamente
descritte. Lo scopo di questa analisi non è dunque quella di
fornire un copione a chi intende proporre una versione
scenica de La Pigrizia di Tullio Visioli ma offrire alcuni stimoli
operativi, fra i tanti in grado di incoraggiare direttori e gruppi
corali ad affrontare una lettura scenica del testo.
Un’impostazione di questo tipo offre la possibilità di
affrontare col coro, parallelamente a un attento e consapevole
lavoro sulla vocalità (respirazione, emissione, risonanza,
intonazione) una ricerca personale e di gruppo che possa
favorire la consapevolezza dell’espressione corporea, tale da
Il repertorio di Visioli si presta
particolarmente a essere utilizzato per
operazioni di messa in scena corale.
facilitare l’azione narrativa attraverso l’uso del corpo in
movimento. Il clima di ricerca e collaborazione connaturato al
processo favorisce un’azione sinergica del gruppo che
migliora la qualità e l’espressività del suono corale in
autonomia dalle indicazioni del direttore: l’autonomia che il
direttore lascia ai coristi contribuisce a sviluppare
quell’intelligenza di gruppo che nel caso del coro si manifesta
in una coesione vocale e in una partecipazione globale del
corpo che canta.
Per tentativi ed errori, grazie alla distribuzione dei ruoli
condivisa dal coro, si va in scena. La lezione diventa quindi
un laboratorio scenico in cui ciascuno “nei panni di”
interpreta il proprio personaggio nel dialogo vocale con gli
altri; un ambiente di apprendimento in cui ciascuno coopera
alla costruzione della scena sonora. Infine, l’uso di costumi e
oggetti di travestimento risulta di fondamentale importanza
per attivare il gioco simbolico.
24
DIES IRAE
DIES ILLA
IL WAR REQUIEM DI BENJAMIN BRITTEN
di Pier Paolo Scattolin
DOCENTE DI MUSICA CORALE
E DIREZIONE DI CORO AL
CONSERVATORIO DI BOLOGNA
E DIRETTORE DEL CORO
EURIDICE
Il War Requiem (op. 66) fu composto da Britten
per la cerimonia di riconsacrazione (30 maggio
1962) della restaurata Cattedrale di San Michele
a Coventry che era stata distrutta durante un
bombardamento della Lutwaffe: undici ore
ininterrotte di distruzione e terrore, dalle sette di
sera alle sei di mattina del 14-15 novembre 1940
ridussero la cittadina di Coventry a un cumulo di
macerie; il nome in codice dell’operazione era
quello di una pièce popolarissima di Beethoven,
“Sonata al chiaro di luna”, il cui romantico nome
contrasta in maniera truculenta con il risultato
dell’azione bellica: opposte atmosfere
costituiscono anche la trama di quest’opera di
Britten.
La scelta del compositore di inframezzare il testo
latino della messa di Requiem e dell’Officio della
sepoltura con alcune poesie intensamente liriche
del poeta-soldato Wilfred Owen, morto al fronte il
4 novembre 1918 a venticinque anni (una
settimana prima della firma dell’armistizio),
proietta la composizione del War Requiem al di
fuori dell’occasione per cui fu scritta. Il pacifismo
di Britten trova la sua più precisa estrinsecazione
in queste poesie fondamentali della letteratura
inglese sulla Grande Guerra, dove il senso della
pietà verso i caduti e del dolore cocente e mai
pacificato rappresentano la più aspra denuncia
dell’assurda inutilità di ogni attività bellica: il
famoso Anthem for Doomed Youth (Inno per la
gioventù condannata), o The Parable of the Old
Man and the Young (La parabola del vecchio e il
giovane, sconcertante sovvertimento dell’epilogo
del sacrificio di Isacco), o ancora lo straordinario
e incompleto Strange Meeting (Strano incontro,
in cui è descritto un allucinato e commovente
incontro con un soldato nemico) sono liriche che
ben rappresentano al riguardo il pensiero anche
del compositore. Il dualismo dei testi in cui la
rappresentazione apocalittica e catartica di
quello religioso si compenetra perfettamente
nella pietas è risolto da Britten con una dialettica
affascinante che conduce per mano l’ascoltatore
in un percorso verso una rappacificazione
impossibile ma realizzata attraverso una visione
onirica.1
Anche la dislocazione spazializzata dell’organico
vocale, corale e strumentale doveva dare un
segnale di un messaggio non monolitico, ma
frammentato come lo erano le fonti sonore.
L’alternanza tra il testo latino e quello delle
poesie inglesi2 assume un valore dialettico
creando una fortissima tensione espressiva a tal
punto che qualche critico musicale ha perfino
intravvisto la volontà di Britten di assumere un
atteggiamento fortemente ironico se non
DIES IRA
DIES ILL
La cattedrale
di Coventry
NOVA ET VETERA
sardonico nei confronti di chi detiene il potere e decide le
sorti degli uomini.
Al pubblico degli ascoltatori fu offerta non una semplice pièce
musicale d’occasione, ma un momento di profonda riflessione,
un lungo sermone vischiosamente architettato durante tutto il
tragitto della composizione in cui il rito religioso è piegato a
una denuncia che non avrà soddisfazione, a una speranza che
trova corrispondenza solo nella pietà, all’amara constatazione
di un’umanità che non cambia.3
Un Requiem che ha una componente “teatrale” non solo per
la magniloquenza del linguaggio musicale ma anche per una
visione di una realtà simbolica e nascosta quale per esempio
l’incontro irreale dei due soldati che analizzano freddamente
ma lucidamente in che cosa consista la guerra, con l’alito della
morte sempre incombente ma con cui si può sedere a fianco
convivialmente (Out there nel Dies Irae).
La strumentazione si caratterizza con tre diversi assetti: il
soprano e il coro misto con grande orchestra4, il tenore e il
baritono con orchestra da camera5, il coro di voci bianche con
organo.
Nella prima esecuzione per le parti delle voci soliste maschili
furono chiamati due cantanti, Peter Pears e Dietrich Fischer
Dieskau, che appunto simboleggiassero la riconciliazione fra
le nazioni belligeranti Inghilterra e Germania.6
A confermare quest’ideale aspirazione, nel film col quale
Derek Jarman ha realizzato un immaginario accompagnamento
al War Requiem, c’è una scena in cui due soldati si incontrano
intorno a un pianoforte rimasto miracolosamente intatto dopo
un bombardamento: la guerra è un ineliminabile frutto di un
potere di un’umanità che non riesce a coltivare la speranza
della fede ma che ne mostra un disperato bisogno.
AE
LA
1. Requiem Aeternam
Questa prima sezione della composizione è divisa in tre parti:
1. L’Introito della Messa da Requiem è distribuito e alternato
fra il coro che canta “Requiem aeternam dona eis Domine” e
il coro di bambini che cantano “Te decet hymnus”.
Il suo esordio comporta una prima fase lentamente solenne
ma dall’incedere un po’ strascinato e singhiozzante a causa
dell’acciaccatura di tutta l’orchestra misurata da una
semicroma inserita nella figurazione ritmica della quintina che
si contrappunta con greve suono di timpani, tuba, piatto
sospeso e pianoforte; la costruzione gradualmente prende
forma con frasi sempre più lunghe che si raddensano
sostenute da un’orchestrazione magniloquente: si intravvede
qui tutta la ricchezza del linguaggio e la monumentalità della
composizione di Britten.
25
Tutto questo fa da cornice alla ieratica staticità del coro che
intona una sorta di trenodia con due note che melodicante e
armonicamente formano il sigillo espressivo della
composizione: il tritono.
Conclusosi quest’avvio con un diminuendo, segue la sezione
affidata solamente alla voce dei bambini e dell’organo (Te
decet hymnus) il cui suono crea, contrastante, un’immagine di
lontananza, come parlassero dei fantasmi in una dimensione
di allucinazione onirica. Il metro della battuta si fa
maggiormente vario per rendere più agile la scansione del
testo rispetto al metro latino (dimetri trocaici acatalettici) e a
cancellare parzialmente l’idea della misura del tempo
creandone sostanzialmente una sospensione.
Ritorna poi il testo del Requiem aeternam con coro e
orchestra che chiude questa prima parte.
Il tritono fa#-do, nel quale sono associati il coro e le campane,
domina questa fase introduttiva della composizione: il tritono
è l’enblema simbolico del War Requiem per la sua vacuità
tonale in un rapporto espressivo con il testo che il
compositore vuole forgiare musicalmente per dare spazio
all’idea della inutilità della guerra e dell’irrimediabilità
dell’errore umano; ma proprio questa sua inafferrabilità e
instabilità tonale lo rende paradossalmente efficace a
rappresentare il riposo eterno guadagnato dal soldato caduto
in guerra.
26
della forma compositiva impressa da Britten alla prima
sezione del War Requiem è il segnale premonitore del
significato che il testo poetico di Owen sovrapposto al testo
latino avrà nell’arco di tutta la composizione.
2. Successivamente il tenore dà voce all’Anthem for Doomed
Youth (Inno per la gioventù condannata), un canto di
struggenti immagini e strazianti sentimenti sulla bara di un
giovane caduto.
Quali campane a morto per costoro che muoiono come
bestie?
Solo la furia orrenda dei cannoni,
solo il rapido balbettio crepitante dei fucili
possono biascicare in fretta le preghiere.
Per essi non orazioni o campane irridenti,
non voci di cordoglio. Solo i cori,
i folli cori striduli di granate gementi
e un richiamo di trombe da terre di dolore.
Quali candele per l’ultimo saluto?
Non in mano ai ragazzi, cui negli occhi
brillerà il santo lume fioco degli addii,
loro sudario sarà il pallore in fronte alle ragazze,
sarà un fiore la tenerezza di cuori silenziosi;
ogni lento crepuscolo sarà un calare di tende alle finestre.7
Gli elementi tematici e ritmici di questa seconda parte sono
tratti sia dal Requiem aeternam dona eis Domine sia dal
successivo e conclusivo Kyrie; musicalmente esprimono quella
cucitura musicale che rende esplicita l’intenzione di Britten di
collegare il testo inglese e con quello latino per dimensionare
globalmente il Requiem come un grande sermone musicale di
condanna dell’ideologia bellica. Si affacciano qui elementi
sonori (campane, squilli di trombe) e accompagnamenti
orchestrali onomatopeici di alcune parole simbolo o di spari o
lamenti: spesso il compositore farà ricorso a un realismo
sonoro che fa da contrappunto al suo pensiero filosofico sulla
guerra che trova spazio oltre che negli interventi del testo di
Owen specialmente nel trattamento sonoro del coro dei
bambini.
3. Come un breve commiato il coro chiude il Kyrie
accompagnato solamente da due rintocchi di due campane
accordate sul tritono. La dimensione innodicamente
omoritmica di lenta processione e strumentalmente
scarnificata contribuisce a proiettare l’ascoltatore verso un
suono smaterializzato, come fosse il commento del coro della
tragedia greca atto a dare rilievo alle precedenti immagini del
più ampio Anthem cantato dal tenore; questo atteggiamento
2. Dies irae
Il Dies irae con le sue nove sezioni è la parte più lunga del
War Requiem e può essere considerato come il momento
“filosoficamente” centrale nell’opera.
Quattro sono le poesie di Owen che si mescolano con il testo
della sequenza e si collegano intimamente col suo senso
apocalittico.
1. Nella prima sezione un breve squillo di fanfara nel tempo di
4/4 introduce il Dies irae: questa immagine musicale annuncia
teatralmente il giorno del giudizio e si svilupperà funzionando
da interpunzione ai versi della sequenza. Quando il coro, che
è sempre accompagnato dagli archi e dai “legni”, intona con
scale ascendenti e discendenti il testo liturgico, il metro si
sposta a un ritmo “asimmetrico” di 7/4; Britten usa questo
ritmo per evitare che i tetrametri trocaici del testo latino siano
suonati in maniera litanicamente ripetitiva: si crea quella
sensazione che il critico musicale Palmer definì una “marcia
azzoppata” dal costante cambiamento dell’accento musicale.
Ne nasce una sconvolgente atmosfera di ancestrale paura e
sconvolgente incertezza.
2. Nella seconda sezione gli “ottoni”, che nel testo latino e
nella musica che lo sottende, diffondono il loro evocativo e
suggestivo suono (“tuba mirum spargens sonum”) fra i
sepolcri per sospingere tutti i morti davanti al trono del
Giudice: successivamente quando il baritono intona “Bugles
sang owen saddening the evening air” il loro suono si
annichilisce e con un andamento nostalgicamente lento si
riduce all’espressione di un unico corno che diffonde il suo
suono malinconico nell’aria della sera quando i giovani soldati
si riposano sulla riva del fiume aspettando l’oscura incertezza
NOVA ET VETERA
del domani. I “legni” si sostituiscono agli “ottoni” e con il
risultato di ottenere un impallidito ricordo della smagliantezza
timbrica della fanfara per esprimere le voci dimesse dei
soldati e del sonno crepuscolare.
Le trombe hanno suonato, rattristando l’aria della sera,
hanno risposto le trombe, con suono doloroso.
Sulla riva del fiume si udivano voci di ragazzi.
Il sonno li copriva lasciando triste il crepuscolo.
Sugli uomini pesava l’ombra del domani.
Voci del vecchio sconforto tacevano,
piegate dall’ombra del domani, dormivano.
27
Gli occhi ci lacrimavano ma non mancava il coraggio.
Ci ha coperto di sputi di proiettili e ha vomitato
Shrapnel. Ci siamo uniti in coro al suo alto canto,
fischiettando quando ci ha mietuti con la falce.
Oh, la morte non ci è stata mai nemica!
Ne abbiamo riso, ce la siamo fatta alleata, la vecchia amica.
Non si paga un soldato perché combatta il suo potere.
Ridevamo, sapendo che sarebbero venuti uomini migliori
e più nobili guerre, quando si è orgogliosi di combattere
la morte per la vita, non degli uomini per una bandiera.
5. Nella quinta sezione il coro si divide e i versi del Recordare
Jesu pie sono eseguiti dalla sezione femminile con
atteggiamento orante che si convoglia in un graduale e
fiammeggiante crescendo nella sezione maschile del
Confutatis maledictis.
3. Nella terza sezione l’aria del soprano (Liber scriptus
proferetur) ha un andamento maestoso in cui il ritmo di
Marcia lenta – allusivo all’inciso ritmico del Requiem
aeternam – sottolinea la regalità del “Dio Giudice” a cui il
coro (Quid sum miser e Salva me), che si alterna col soprano,
rivolge l’accorata richiesta di salvezza sottolineata da due
episodi musicali contrappuntati da una linea melodicamente
più distesa.
4. Il contrasto quasi sarcastico si crea con la successiva
quarta sezione. Nel testo intonato dal baritono e dal tenore si
eleva vibrante la denuncia per l’assurdità della vita spezzata
in combattimento: nella poesia (“Out there, we’ve walked
quite friendly up to Death”) si raccoglie preponderante il riso
amaro e sardonico dell’immagine della morte che va a
braccetto con i soldati e della speranza che uomini migliori si
contrapporranno a quel tipo di guerra che non difende la vita,
ma soltanto l’interesse delle bandiere simbolo del potere.
Da buoni amici siamo andati là, verso la morte,
ci siamo seduti a tavola con lei, fredda e cortese,
scusandola per averci versato la gavetta sulle mani;
abbiamo annusato lo stesso odore verde del suo alito.
6. Nella sesta sezione il baritono, contrappuntato da
frammentari interventi dell’arpa con voce perentoria intona
un’ironica e repulsiva declamazione della poesia Be slowly
lifted up, è espressivamente congiunto con il corale Confutatis
maledictis: predomina un’atmosfera di dogmatica invettiva in
cui si chiede la vendetta di Dio verso i peccatori maledetti
rappresentati nella poesia dal cannone puntato contro il cielo.
Squilli di tromba e timpano (con un ritmo ostinato di quintina)
fanno da sfondo onomatopeicamente drammatico all’invettiva
del sonetto di Owen la cui violenza ricorda quelle del poeta
greco Ipponatte.
Lèvati adagio, lungo braccio nero,
grande cannone puntato contro il Cielo per bestemmia;
colpisci l’arroganza che ha bisogno della tua punizione,
28
distruggila prima che le sue colpe si aggravino;
ma quando il tuo incantesimo sarà esaurito,
Dio ti maledica e ti strappi dall’anima nostra!
7. Il clima apocalittico riappare nella settima sezione con la
ripresa del Dies irae in cui il coro marciando a tempo di
guerra è chiamato a sottolineare la forza di questa
maledizione che fa riapparire il Dio del vecchio testamento
chiamato a esorcizzare la forza del cannone simbolo della
forza irrazionale della guerra.
8. Nell’ottava sezione il soprano e il coro che cantano in un
clima di lamentoso rimpianto Lacrimosa dies illa e si alternano
con il tenore che canta il testo poetico Move him into the Sun
(Spostatelo al sole), in cui il sole, che seppure faticosamente
ogni giorno desta dal sonno gli uomini, appare impotente nel
ridare ancora vita al corpo del soldato morto. Il coro e il
soprano si ergono nella levità della trascendenza quasi
danzando sulle note e sul ritmo in 7/4 del Lacrimosa: una
lenta ed eterea danza che a contatto con la poesia di Owen
ha quasi una funzione sublimante e retoricamente
preparatoria alla conclusione.
Spostatelo al sole
con tocco lieve un tempo lo destava
nella sua patria, mormorando di campi inseminati
lo ha sempre risvegliato, anche in Francia,
fino a questo mattino e a questa neve.
Se qualcosa ora potesse ridestarlo
il caro vecchio sole lo saprebbe.
Pensa a come desta le sementi
a come un tempo risvegliò l’argilla di una fredda stella.
Le membra ottenute a caro prezzo, i fianchi
vigorosi ancora caldi è dunque così duro rianimarli?
Forse per questo è cresciuta l’argilla?
Forse per questo è cresciuta l’argilla?
Perché il fatuo sole ha faticato
a disperdere coi raggi il sonno della terra?
9. Nella nona breve sezione il coro contrappuntato dalle
campane chiude questa lunga parte del Requiem con la
preghiera “Pie Iesu Domine, Dona eis Requiem, Amen”: come
nel Requiem aeternam le voci sembrano smaterializzarsi in
un’orazione catartica che trascende nell’aldilà.
3. Offertorium
L’offertorio si divide in tre momenti:
1. Inizia il coro dei bambini che cantano “Domine Jesu
Christe”. Successivamente il coro misto intona il corale Sed
signifer sanctus Michael seguito dal magniloquente fugato
Quam olim Abrahae che introduce la parabola del vecchio e
del giovane col tragico finale concepito da Owen.
La forza del ritmo che alterna battute di 6/8 e 9/8 e nella
emiola sillabica nella battuta del 9/8 offre un impatto che dà
a tutto il fugato un’espressione quasi trascendentale e
premonitore dell’intervento dell’angelo.
NOVA ET VETERA
2. Il momento centrale è costituito dall’inserimento dei due
solisti che intonano la poesia di Owen. Come sempre quando
sono i solisti a cantare, l’accompagnamento si sposta
dall’orchestra principale all’orchestra da camera, ma in
quest’occasione la tecnica strumentale è tipicamente di
origine teatrale per adeguarsi alla drammaticità del testo
poetico.
La poesia è una versione della conosciuta storia di Abramo e
Isacco in cui Abramo sacrifica suo figlio malgrado le offerte
fatte da un angelo mandato dal cielo per salvare il figlio.
Il rovesciamento tragico del finale della storia si realizza
nell’ultimo verso della poesia esprime in maniera sarcastica
tutta l’amarezza del poeta verso i responsabili della morte
dei propri figli in guerra.
29
I gesti di Abramo che accompagnano la preparazione del
figlio al sacrificio fino al gesto di brandire il coltello sono
accompagnati da drammatiche movenze ritmiche.
Poi i due solisti perdono il proprio ruolo drammatico e si
uniscono nella descrizione dell’angelo che dal cielo invoca
Abramo di risparmiare quel sacrificio umano: ne nasce
musicalmente una delle pagine più espressivamente intense
del Requiem.
Allora Abramo si alzò, spaccò la legna e se ne andò
prendendo con sé il fuoco e un coltello.
E mentre erano insieme,
Isacco, il primogenito, parlò e disse: Padre mio,
ecco che tutto è pronto, il fuoco e il ferro,
ma dov’è l’agnello da immolare?
Allora Abramo con cinghie e corregge legò il giovane
e fece parapetti e scavò fossi
e brandì il coltello per uccidere il figlio.
Quand’ecco, un angelo lo chiamò dal cielo
dicendo: Non calare la mano sul ragazzo.
Non fargli nulla. Ecco
un ariete impigliato con le corna in un cespuglio;
offri l’Ariete dell’Orgoglio in vece sua.
Ma il vecchio non lo fece, e uccise il figlio
e metà dei figli d’Europa, a uno a uno.
Commovente è il dialogo fra il baritono che impersona
Abramo (la cui intonazione deriva dal tema del fugato
precedente) e il tenore che dà voce a Isacco. Mentre il figlio,
vittima inconsapevole, si rivolge al padre per chiedere dove
sia l’agnello sacrificale, il tremolo degli archi e gli accordi
dell’arpa creano un’atmosfera di incombente tragedia.
Poi il baritono assume il ruolo di narratore e intona “Then
Abram bound the youth with belts and straps (Allora Abramo
con cinghie e corregge legò il giovane) […] but the old man
would not so, but slew his son (ma il vecchio non vorrebbe,
ma uccide suo figlio)”, mentre l’accompagnamento
orchestrale utilizza un pesante martellato.
Il testo latino dialetticamente si alterna nel finale con il canto
dei solisti. Britten riesce ad adattare musicalmente in maniera
perfetta i due testi entrambi riferiti al sacrificio: mentre i
solisti ripetono l’ultimo verso “…and half the seed of Europe,
one by one (e [uccise] metà dei figli d’Europa a uno a uno)”, il
coro dei bambini, distante e apparentemente avulso
dall’immediatezza espressiva dei soli, asceticamente offre
vittime e preghiere in lode del Signore dicendo: “Hostias et
preces (…accettali in favore di quelle anime che oggi noi
30
ricordiamo: fa’, o Signore, che passino dalla morte alla vita
che un tempo promettesti ad Abramo e alla sua
discendenza)”. Sembra davvero di assistere a una pièce
teatrale in cui il coro sigilla la chiusura della parte centrale
dell’Offertorium.
3. Una ripresa del fugato del coro Quam olim Abrahae chiude
questa sezione con un diminuendo fino all’estinzione con un
simbolico sprofondamento del suono nelle sezioni più basse
dell’orchestra.
I temi musicali di questa sezione sono presi in prestito da una
precedente opera per voce sola di Britten (il Cantico II
Abramo e Isacco, op. 51 del 1952), che, diversamente dal War
Requiem, si richiama all’originale versione biblica della
parabola.
4. Sanctus
Nonostante l’assenza dei temi che caratterizzano
l’opposizione del compositore alla guerra cioè il cardine
poetico-musicale del War Requiem, Britten filtra il Sanctus Benedictus, tradizionalmente inseriti nella messa per i defunti
come un religioso messaggio di serenità e di speranza, con la
mestizia della presenza costantemente immanente del testo di
Owen che è intonato dal baritono alla chiusura di questa
quarta sezione (“After the blast of lightning from the East”).
Dopo il balenare del lampo da oriente,
la squillante fanfara delle nuvole, il Trono del Carro,
dopo il rullo e il silenzio dei tamburi del Tempo,
quando a lungo gli ottoni d’occidente avranno suonato la
ritirata,
la vita rianimerà questi corpi? Davvero
egli sconfiggerà la morte, asciugherà tutte le lacrime?
Di giovinezza ancora colmerà le vene vuote della vita
e laverà con acqua eterna la vecchiaia?
Quando interrogo la canuta Vecchiaia, questa non dice:
«Pende il mio capo, pesante per la neve».
E quando ascolto la terra, questa dice:
«Il mio cuore ardente ha uno spasimo, e soffre. È la morte».
Alle mie antiche cicatrici non sarà resa gloria,
non sarà prosciugato il mare delle mie lacrime di titano.
2. Successivamente il coro con recitazione intonata (“Pleni
sunt caeli et terra Gloria tua”) e l’orchestra si avviluppano in
un crescendo della “dinamica” e delle entrate graduali delle
sezioni vocali/strumentali: oltre a sottendere “retoricamente”
il testo (“pleni”), essi caratterizzano la materializzazione
sonora di voci di morti in un vortice in cui gli eventi descritti
della fine del mondo nella poesia di Owen sembrano
precipitare verso una prevista catastrofe.
3. Segue con l’Hosanna una fase musicale in cui la
rappresentazione del giudizio universale grazie alla sequenza
responsoriale della fanfara ha un effetto icastico e
onomatopeico. Il coro sovrappone in forma imitativa il testo
dell’Hosanna (SAT) a quello del Sanctus, che è affidato alla
sezione dei bassi, assume la funzione di “tenor”; questo
artificio è indice di un esplicito riferimento alla tecnica
contrappuntistica della musica medievale e rinascimentale cui
Britten è particolarmenta legato. Un particolare che rivela la
grande cura dei particolari nel rapporto testo-musica è la
triplicazione delle parti all’interno della medesima sezione
vocale sulla sillaba accentata “-san-” dell’esclamazione
“Hosanna”.
Dunque fin dall’inizio il Sanctus si muove come un commento
della visione apocalittica del testo poetico. Le fasi della
sezione sono sei.
1. Uno scampanìo allusivo di una sveglia per un’adunata di
carattere militaresco si trasforma in un sincronico ritmo
percussivo che rievoca la marcia e si contrappunta con le
parole intonate dal soprano (“Sanctus, Dominus Deus
Sabaoth”).
4. Poi il soprano intona il Benedictus non appena il coro e
l’orchestra si sono estinti sfumando come in una sequenza
filmica; qui il responsorio fra soprano e coro sembra allentare
il clima da fine del mondo: le quinte parallele del coro
ispirano il carattere processionale dell’accoglienza fatta a
Cristo nella sua entrata a Gerusalemme come l’aspirazione ad
accedere a una quiete e alla riconciliazione fra i belligeranti;
qui il tritono abbandona il suo carattere simbolico di
oppressione e smarrimento.
NOVA ET VETERA
5. Il brano prosegue con la ripetizione dell’Hosanna in cui il
compositore apporta alcuni cambiamenti fra i quali la
chiusura secca e non sfumata, perentoriamente trionfante in
un’intensa sonorità.
6. Infine il baritono intona come un recitativo “After the blast
of lightning from the East (Dopo il balenare del lampo da
oriente)”: la poesia collocata nella posizione finale del brano
assume come un ruolo di coronamento del carattere profetico
del Sanctus; gli ultimi tre versi sussurrati dal baritono
sembrano aggiungere una chiosa che rende ombroso il testo
del Sanctus-giubileo obnubilandone parzialmente il carattere
gioioso.
31
Il coro, condotto responsorialmente assieme all’intonazione
del tenore, implora la pace eterna; si crea così un quieto e
sussurrato accostamento tra Cristo come Agnello sacrificale e
i soldati che danno la propria vita: è per loro che si richiede
un meritato riposo eterno.
Il tritono risalta qui in maniera più evidente che nelle altre
parti del War Requiem.
La struttura musicale subisce una semplificazione che assume
i toni di morbido alleggerimento del tessuto polifonico volto a
sottolineare l’arrendevolezza della volontà di Cristo
identificato nell’Agnello, come quello dei soldati di fronte al
proprio destino.
Gli archi accompagnano raddoppiando il coro che ha una linea
melodica dal carattere di ostinato e costituita con una
successione in cui si ripetono dieci suoni, cinque discendenti
nella scala di si minore e cinque ascendenti nella scala di do
maggiore inseriti dall’inizio alla fine del brano in battute di
cinque sedicesimi che alternano accenti distribuiti ogni 3+2 e
2+3 semicrome.
Il tritono campeggia nel rapporto fra le prime due note iniziali
delle due scale, rispettivamente fa# e do naturale.
5. Agnus Dei
In questa che è la quinta sezione, la più breve del Requiem e
l’ultima della missa pro defunctis, Britten costruisce
un’atmosfera di pacata rassegnazione: nella prima delle tre
strofe del testo poetico affidato alla voce del tenore (“One
ever hangs where shelled roads part”) i soldati morti sono
paragonati al sacrificio di Cristo. Nella seconda (“Near
Golgatha strolls many a priest”) la desolazione del calvario è
rimarcata dalla raffigurazione di sacerdoti che passeggiano
orgogliosi di avere rinnegato Cristo e dalla dispersione dei
discepoli.
Infine nella terza strofa (“The scribes on all the people
shove”) agli scribi che attestano la loro fedeltà allo Stato
sono contrapposti coloro che muoiono per la patria e non
portano odio.
Un crocifisso c’è sempre agli incroci colpiti dalle bombe.
In questa guerra anch’Egli ha perso un arto,
ma i Suoi discepoli stanno nascosti
e ora sono i soldati a soffrire con Lui.
Nella zona del Golgota girano molti preti,
sui loro volti l’orgoglio perché nella carne
recano il marchio di Satana la Bestia
che ha rinnegato il dolce Cristo.
Gli scribi incitano la folla
e proclamano a gran voce fedeltà allo stato,
ma chi ama di un amore più grande
non odia, ma rinuncia alla sua vita.
Questi accostamenti fra segmenti di tonalità così diverse
simboleggiano congiungendo il sacrificio di Cristo a quello dei
soldati innocenti perché consapevolmente “costretti” a morire
per il bene comune. Ma l’accostamento degli elementi
musicali provoca la presenza di tritoni che, rendendo il
contesto indefinito tonalmente, corrispondono all’idea di
Britten di un’assenza di riscatto per l’uomo quando si fa
coinvolgere da forze ineluttabili e non constrastabili come la
guerra e la morte: ai soldati si può solo implorare il riposo
eterno contenuto nell’Agnus Dei che come un responsorio
corale si inserisce nella recitazione del testo poetico di Owen.
In chiusura Britten aggiunge le parole “Dona nobis pacem” ed
è l’unica volta che uno dei solisti cui è affidata la recitazione
delle poesie di Owen canta il testo liturgico latino.
32
Alla conclusione del brano delle undici note che costituiscono
la melodia le prime cinque sono costruite sulla scala di fa# e
le successive cinque in do minore; l’undicesima scende da sol
a fa# come l’accordo su cui chiude il coro.
6. Libera me
È la sezione conclusiva in cui il modo di collegare il testo
latino e le poesie di Owen diventa in maniera fortemente
teatrale una metafora emblematica del pensiero di Britten e
del suo sviluppo musicale: l’abbandono della speranza, la
fraternità fra i soldati come spiraglio di una luce che riscatti
l’umanità, l’impotenza della natura davanti alla morte, il
sarcastico rapporto di amicizia dei soldati con la morte e la
perdita d’identità dei sopravvissuti sono un corridoio d’idee
che trovano qui l’ultimo e definitivo approccio.8
Il testo latino Libera me è tratto dalla liturgia della sepoltura
(In exequiis - Absolutio super tumulum), diversamente da
altre parti del Requiem (oltre alla sequenza Dies Irae gli altri
testi latini provengono dall’ufficio dei morti) e si riferisce alla
liberazione dalla morte eterna: il suo carattere è ancora più
minaccioso che il Dies Irae perché è incentrato sulla paura
delle conseguenze della condanna definitiva. Questo brano si
divide in tre fasi.
1. Nella prima la preghiera del coro Libera me musicato con
carattere greve e lugubre comincia con un movimento lento e
stentato che gradualmente accelera diventando
progressivamente più sonoro e insistentemente marcato.
Il soprano intona in maniera lacerante i versi del Tremens
factus dialogando con il coro (“dum discussio veneris”)
mantenendo un ritmo binario, mentre contemporaneamente
l’orchestra assume un macabro ritmo ternario che sfocia nella
successive ripetizione del Libera me. Al termine di
quest’episodio l’orchestra e coro (Dies Irae e Coget omnes)
riprendono la scala discendente (ma in 2/2 anziché il 7/4) di
segmenti tematici simili a quelli della seconda sezione (Dies
irae) del War Requiem. L’intervento corale si esprime con
terribili interezioni di panico: c’è un apice apocalittico che
collassa alla fine dell’episodio quando l’orchestra e le voci si
affievoliscono rapidamente; l’atmosfera ricorda quella del Dies
Irae del Requiem verdiano.
Il silenzio oscura questa visione apocalittica e prepara il
concetto emblematico del Requiem; le parole pronunciate dai
due soldati sono un flebile segnale di pietas: essi nel
riconoscersi si chiamando “amici”.
Questo che è l’unico atto di conciliazione presente nel
Requiem riconduce alla ragione dell’esistenza di questa
composizione scritta per una cerimonia inaugurativa che è
stata lo spunto per questo percorso musicale in bilico fra la
liturgia religiosa e il realistico orrore della guerra e condanna
senza appello per l’umanità.
2. Il tenore (“It seems that out of battle I escaped”)
accompagnato dall’orchestra da camera canta la più famosa
poesia di Owen, Strange Meeting (Strano incontro).
Tenore: Mi sembrava di essere sfuggito alla battaglia
per un’oscura, profonda galleria scavata da tempo
in rocce di granito segnate da guerre di titani.
Ma anche lì corpi oppressi gemevano nel sonno,
troppo presi in pensieri, o morti, per essere riscossi.
Poi quando li toccai uno balzò in piedi, mi fissò
con occhi immobili e accettò la mia pietà
levando le mani miserande come a benedire.
Non tuonavano i cannoni né gemevano lungo le condotte.
«Ignoto amico», dissi, «qui non c’è motivo di pianto».
Immerso in un’atmosfera oniricamente irreale egli riferisce di
un incontro con un soldato tedesco. I suoni tenuti
dell’orchestra fanno da sfondo a questo recitativo “lento e
tranquillo” in cui i brevi interventi di strumenti a fiato fanno
da interpunzione.
Baritono: «Non c’è ragione» fece lui
«se non per gli anni buttati,
perché non c’è speranza. Quale che sia la tua speranza,
lo è stata anche la mia vita; folle ho rincorso
la più folle bellezza del mondo.
Forse la mia allegria ha indotto molti al riso
e del mio pianto qualcosa è rimasto
che adesso deve morire. La verità taciuta, intendo,
la pietà della guerra, la pietà che la guerra ha distillato.
Ora la gente si contenterà di quanto abbiamo rovinato,
ma se è scontenta, il sangue che ribolle sarà sparso.
Rapido come è rapida la tigre, nessuno uscirà dai ranghi
NOVA ET VETERA
33
Note
anche se le nazioni rinunciano al progresso.
Non marceremo con un mondo in ritirata
verso vane cittadelle senza mura. Quando poi
molto sangue avrà bloccato le ruote di quei carri
io salirò a lavarle con l’acqua pura delle fonti,
anche delle fonti quasi prosciugate per la guerra,
delle fonti più pure mai esistite.
Io sono il nemico che tu hai ucciso, amico mio.
In questo buio ti ho riconosciuto perché anche ieri
mi squadravi così accigliato,
mentre mi colpivi e mi uccidevi.
Mi sono difeso, ma le mani erano fredde e riluttanti».
Successivamente il baritono pronuncia nel più assoluto
silenzio la struggente dichiarazione: “I am the enemy you
killed, my friend. I knew you in this dark; for so you
frowned. Yesterday through me as you jabbed and killed. I
parried; but my hands were loath and cold”.
3. L’ultima sezione vede uniti coro di bambini, coro, solisti,
e le due orchestre. Mentre i due solisti con l’accorata
richiesta “Let us sleep now (Lasciateci dormire)” segnano la
fine dell’onirico dialogo dei due soldati, il coro dei bambini
con suono diafano e a distanza cantano “In paradisum
deducant te Angeli”. È il congedo, un mesto
accompagnamento del loro ultimo viaggio cui le voci
bianche, simbolo di un’innocenza primordiale opposta
all’insensatezza bellica, fungono da processionale
conclusivo.
Il coro a cappella inframezzato dal simbolico tritono delle
campane finisce estinguendosi nel nulla nella stessa
maniera della prima sezione (Kyrie eleison) con le parole
“Requiescant in pace. Amen”.
Questa mesta, greve e contemporaneamente vaporosa
chiusura allontana in parte la sacralità e la trascendenza
della messa da Requiem tradizionalmente intesa come
accompagnamento liturgico del defunto, ma realizza
l’immanenza dello stupore umano di fronte al mistero non
risolto della morte e alla sua sarcastica irrazionalità quando
a provocarla sia l’uomo stesso attraverso l’esplosione del
potere divenuto espressione dell’egoismo nazionale.
1. Il concetto è ben sintetizzato da Stefano Catucci in Il War
Requiem di Britten, Una preghiera di fratellanza contro l’orrore
della Guerra: «Difficile trovare un’altra partitura che esprima
con altrettanta forza una posizione di pacifismo così coerente
e radicale. La dimensione religiosa del testo liturgico,
inframmezzata com’è dalle parole di Owen, non promette
salvezza, ma scava per contrasto il solco di una solitudine
nella quale c’è solo spazio per la disperazione o, al limite, per
una preghiera che non confida in alcun premio ultraterreno,
ma solo nella possibilità di un sentimento fraterno fra soldati
che si riconoscano reciprocamente come uomini, cioè come
fratelli».
2. L’uso del doppio testo è una prassi compositiva medievale
che Britten riprende anche in una delle prime composizioni per
coro, l’Anthem A hymn to the Virgen (1930, rev. 1934).
3. «Io parlo di guerra, e della pietà della guerra. La poesia è
nella pietà. Un poeta può solo allertare», queste sono le parole
di Owen scritte sul frontespizio della partitura del War
Requiem.
4. Grande orchestra: 3 flauti (fl.III anche ottavino), 3 oboi,
corno inglese, 3 clarinetti (cl.III anche cl. in Eb cl. basso), 2
fagotti, controfagotto, 6 corni, 4 trombe in do, 3 tromboni,
tuba, pianoforte, organo o armonium, timpani, percussioni
(4 esecutori), archi.
5. Orchestra da camera: flauto (anche ottavino), oboe (anche
corno inglese), clarinetto (in sib e la), fagotto, corno, timpani e
percussioni, arpa, due violini, viola, violoncello, contrabbasso.
6. Nell’esecuzione di Coventry gli intepreti furono il soprano
Heather Harper, il tenore grande amico di Britten Peter Pears,
il baritono Dietrich Fischer-Dieskau, il Covent Chorus, la City of
Birmingham Symphony Orchestra, il Melos Ensemble, and The
Boys of Holy Trinity, Leamington and Holy Trinity, Stratford.
Il coro, il soprano e la grande orchestra furono diretti da
Meredith Davies, il tenore, il baritono e l’orchestra da camera
dal compositore.
La prima esecuzione londinese fu diretta da Britten nel 1963
alla Kingsway Hall con solisti Galina Vishnevskaya (cui era
stato impedito di partecipare all’esecuzione inaugurale a
Coventry dal ministro della cultura sovietico), Peter Pears e
Dietrich Fischer-Dieskau e la London Symphony.
La prima esecuzione italiana si ebbe nel 1963, a Perugia, nella
Chiesa di San Filippo Neri e fu Britten a dirigere l’orchestra
ridotta, le voci bianche con l’organo, il tenore (Peter Pears) e
il baritono. Britten dirigeva la parte del Requiem che musica
i versi di Owen, cioè quel che di estraneo al Requiem latino
aveva aggiunto nella partitura, come a sottolineare quale fosse
davvero il suo pensiero poetico-musicale; David Willcocks
diresse la parte del Requiem liturgico.
7. Traduzione a cura di Sergio Rufini, WILFRED OWEN, Poesie di
guerra, Einaudi, Torino, 1985.
8. A confermare l’idea che la pièce di Britten abbia una
configurazione e uno sviluppo in senso teatrale, in un articolo
di Pietro Lanzara (Corriere della sera, 14 maggio 2011) il
direttore d’orchestra Semyon Bychkov fa un illuminante
collegamento con il concetto teatrale di Wagner: «…Nell’ultimo
dei sei movimenti, il Libera Me, tutte le forze musicali e vocali
si uniscono. Questa possente architettura si regge su un’idea
wagneriana, quasi fisica, del tempo e dello spazio; basta
pensare al Parsifal…».
34
LA TRADIZIONE PIEMONTESE IN CONTINUA EVOLUZIONE
NENIA DI GESÙ BAMBINO… CONFRONTO TRA DUE SECOLI
di Ettore Galvani
ETNOMUSICOLOGO, DIRETTORE DELL’ASSOCIAZIONE CORALE CARIGNANESE
«La letteratura popolare italiana non è fino a oggi nota che in
piccola parte. A raccogliere le narrazioni del nostro popolo
non si è pensato fin qui che da pochissimi, e anche questi
pochi non hanno dato in luce che poco o nulla; più assai si è
fatto pei Canti popolari, ma vaste lacune per più provincie
importanti impediscono tuttora lo studio generale e
complessivo di questo ricco e vario prodotto dell’animo
italiano. Intanto la nostra grande opera nazionale unifica,
uguaglia e innalza il pensiero dei nostri volghi, ogni giorno
meno divisi, spingendolo in una via di tramutamento, per la
quale dovrà avvenire che tanto si distacchi da taluni prodotti
del suo passato da obbliarli affatto. È d’uopo adunque
affrettarsi a colmare le lacune in un campo di ricerche di
ormai troppo nota importanza, perché sia qui necessario
dimostrarla».1
Domenico Comparetti, Alessandro D’Ancona
Nell’aprile di quest’anno, durante una cena, un amico si
avvicinò e mi regalò un libro incentrato sulle tradizioni
popolari di Poirino, un paese alle porte di Torino, al quale il
padre aveva collaborato in gioventù.
Tra le mani mi trovai un bel volume, praticamente intonso,
rilegato in brossura, 24 x 17 cm, illustrato in bianco e nero, di
773 pagine.
Viva ën sër chér (viva sul carro), così il titolo del volume finito
di stampare nell’ottobre del 1981 a cura del periodico Cioche
’d Poirin (Campane di Poirino) a opera di Silvano de Pizzol.
Lo misi sul solito scaffale dei libri da sfogliare
prima di dargli una posizione in libreria e lì
rimase per un paio di mesi. Una sera che
riuscii a ritagliarmi un paio d’ore di tranquillità
lo sfogliai e rimasi piacevolmente sorpreso per
la scoperta fatta. All’interno dei suoi
quattordici capitoli, a parte l’introduzione, la
mia attenzione venne catturata dal sezione di
pagina 591: La Tradizione Orale.
Feci scivolare velocemente le pagine e mi
ritrovai davanti a una articolata e meticolosa
ricerca etnofonica che si estendeva per 151 pagine e che
andava a scandagliare tutto il territorio poirinese e le sue
frazioni con testi dei canti, relative varianti e traduzioni in
italiano, trascrizioni melodiche, riferimenti dell’informatore,
luogo di ritrovamento e in alcuni casi brevi introduzioni
esplicative. Da La Martina a Giaco Tross – pronunciato “Giacu
Truss” – Giacomo Torsolo, da La bevanda sonnifera a La
scelta felice: 104 testi e 48 melodie accuratamente riportate…
ma la mia attenzione si posò su testo e melodia di una
versione di Gesù Bambin l’è nato.
Questa antica lauda piemontese è sicuramente uno dei canti
rituali più eseguiti dai cori della nostra penisola ed è uno tra
quelli che annoverano il più alto numero di elaborazioni
musicali e corali nella più ampia accezione del termine.
Secondo gli studi del Leydi2, in relazione alle versioni di
Oreste Pizio e Rosa Barbero, informatori diretti del Sinigaglia,
«[…] diverse sono le canzoni che hanno come incipt “Gesù
Bambino è nato”. Con questo incipit abbiamo una lauda di
fattura colta che ha avuto grande diffusione anche attraverso
varie stampe popolari. Per restare in ambito piemontese
questa lauda era stampata (con il titolo Per la Natività del
Bambino Gesù) in appendice alla rappresentazione sacra
popolare Il pastore Gelindo, ossia La Natività di Gesù Cristo
che un tempo era recitata in molti paesi del Piemonte anche
nelle stalle nel periodo invernale e messa in scena dai
marionettisti. Nell’uso popolare orale il testo della lauda è
stato ritrovato, ma, ovviamente, con drastici tagli e
modificazioni semplificanti […]».
La ballata del Pastore Gelindo, pur avendo tradizioni antiche e
radicate sul territorio piemontese, non può essere associata
in alcun modo alla lauda in esame in quanto già proposta nei
Fogli Volanti3 dell’epoca in lingua italiana. Tale documento
dunque in relazione agli indirizzi etnomusicali moderni ci dà
conferma di quanto precedentemente esposto in quanto
l’evoluzione di un canto tende, col tempo e con l’ampiezza
L’evoluzione di un canto
tende alla lingua più moderna
e non viceversa.
dell’area di diffusione, alla lingua più moderna e non
viceversa.
A ulteriore conferma di ciò troviamo nelle raccolte di Amerigo
Vigliermo del 19744 e del 19865, e della quale riportiamo la
melodia, una ballata rituale che ripropone l’impianto narrativo
del Gelindo con alcune modificazioni dovute all’oralità e,
interessante, all’eliminazione della parola “Satàn”, che la
tradizione popolare non gradisce in un contesto quale la
CANTO POPOLARE
35
nascita del Cristo, e la sua modificazione con la prosecuzione
dell’azione di Maria nell’atto di sospirare: momento di estasi
materna per la visione del figlio e segno premonitore per ciò
che dovrà sopportare.
A’s sent na vos ant l’aira, a’s sent a vnì ciantan.
L’è San Giüsep, so pàire, lo pia ’nt i so brass.
S’a i cianta la cansun: “Larin, larin lareta”
S’a i tucia la barbeta: “Basemi se vi pias”.
Gesù bambin l’è nato in tanta povertà
senza pesse né fasse e né fuoco da riscaldar
Maria lo ammira, setà chila sospira (seduta ella sospira)
perché l’è nato al mondo chi vuoi tutti salvar.
Ognun faccia l’ebrezza
a che è nato il Redentor (Creator)
il fior d’ogni bellezza
al è tutto pien d’amor.
Vigliermo 1974
La trascrizione musicale originale del 1927 è estesa per tutte
le due strofe e riporta anche la traduzione in lingua francese
con metrica giusta sulla scansione ritmico-melodica. È
presente un accompagnamento di pianoforte in sol maggiore
con un’estensione della parte cantata racchiusa in un’ottava
giusta, dal re sotto il primo rigo a quello sul quarto. Lo
schema della melodia ripropone come in un ostinato le prime
quattro battute per tre volte intervallandole da fraseggi
semplici allineati come struttura e andamento alle battute
analizzate. Lo stesso schema ritmico viene utilizzato, un poco
contratto, nelle frasi di risposta. Perno del tema è l’intervallo
di terza sol-si, come frequentemente accade nelle nenie e
nelle filastrocche, ma con una resa elegante derivata
dall’impiego di semplici note di passaggio e di volta.
Gesù Bambino nasce in tanta povertà
senza pezze né fasce né fuoco da scaldar.
Maria lo mira, Satàn lo sospira
che egli è nato al mondo per tutti noi salvar.
Ognun faccia allegrezza
che è nato il Creator
il fior d’ogni bellezza
è tutto pien d’amor.
Il pastore Gelindo 1842
Fatte queste premesse la nostra attenzione dunque verrà
posta nel mettere in relazione e confrontare, per quanto ci
sarà possibile, e in funzione delle informazioni in nostro
possesso, la versione più nota della lauda, ritrovata da Leone
Sinigaglia e pubblicata per la prima volta nel 1927 in Vecchie
canzoni popolari del Piemonte vol. VI6, ed. Breitkopf, e quella
ritrovata nel volume delle tradizioni poirinesi del 1981.
Partiamo dalla lezione, come solitamente Costantino Nigra
usava chiamare le varie versioni ritrovate di un dato canto,
più nota del Sinigaglia:
Gesù Bambin è nato, è nato in Betelem.
L’è sopra un po’ di paja, l’è sopra un po’ di fien.
L’è sopra un po’ fien. S’a j’è ’l bambin ch’à piura,
sua mama ch’a lo adura, l’è sopra un po’ di fien.
L’impianto narrativo articolato come già esposto su due
strofe, ci propone un testo già contaminato dall’idioma italico
che va a snaturare per alcune caratteristiche fonetiche, e non
di scansione ritmica, il testo che probabilmente poteva avere
tutta la sua articolazione narrativa in lingua piemontese.
Gesù Bambin è nato, è nato in Betelem.
L’è sopra un po’ di paja, l’è sopra un po’ di fien.
L’è sopra un po’ fien. S’a j’è ’l bambin ch’à piura,
sua mama ch’a lo adura, l’è sopra un po’ di fien.
Analizzando il testo della prima strofa si può notare come la
differenza tra il corsivo e il grassetto dei lemmi in lingua
piemontese rispetto a quelli in italiano sia sbilanciata verso i
secondi. Nei canti di origine popolare in “dialetto” la matrice
autoctona rimane sempre fortemente presente tranne che per
alcune evoluzioni linguistiche riferite solitamente agli articoli,
come ad esempio ëd che facilmente lo si trova trasformato in
di non foss’altro che per una facilita di pronuncia e di
36
frazionamento della scansione metrica del testo. Ma gli “italianismi” all’interno di un testo
in lingua autoctona sono limitati e solitamente la commistione tra le lingue esiste nei canti
recenti o in quelli che hanno avuto una larga area di diffusione, caso non calzante con
quello considerato. Per ulteriore chiarezza vi sono espressioni di canti popolari in cui le due
lingue sono presenti in modo equivalente e corrispondono principalmente ai canti di
questua a impianto dialogico, domanda e risposta, e nel quale gli attori sono ben
identificabili in quanto ognuno si rivolge al suo interlocutore sempre con la stessa lingua,
non mutando mai l’alternanza e lo schema del gioco delle parti: per esempio le domande
sempre in italiano e le risposte sempre in lingua piemontese.
Cosa rimiri Tu, oh bel marinaio, cosa rimiri oh bel marinar?
Mi ’m rimiro dl’a vostra fijëtta, che per amor la veuj sposè.
(traduzione: Io ammiro/guardo la vostra figliola che per amore la voglio sposare)
Leone Sinigaglia
Sostanzialmente diverso il costrutto della seconda strofa, la quale rimane coerente
nell’idioma piemontese senza nessun tipo di contaminazione italica.
A’s sent na vos ant l’aira, a’s sent a vnì ciantan.
L’è San Giüsep, so pàire, lo pia ’nt i so brass.
S’a i cianta la cansun: “Larin, larin lareta”
S’a i tucia la barbeta: “Basemi se vi pias”.
Per un confronto più efficacie e filologico il testo di tutto il canto non è stato corretto
secondo i nuovi parametri di scrittura della lingua autoctona ma è stata riportata la grafia
utilizzata nella pubblicazione del Sinigaglia del 1927 (op.cit.).
Questa metodologia ha più di una valenza ma soprattutto quella di evitare di fare analisi e
supposizioni su di un testo non originale che potrebbe fuorviare il confronto letterario con
altre forme linguistiche pedemontane.
Ed è sicuramente il confronto con altre lingue minoritarie presenti in Piemonte il passo
successivo per poter ipotizzare un’area di origine, una successiva di diffusione nonché la
possibile contaminazione del testo originario.
Alla lettura attenta del testo della strofa presa in esame si nota come la trascrizione già
all’epoca non fosse stata attenta nella differenziazione tra vocali in italiano e in
piemontese. La prima strofa, se così si può dire, scorre via liscia: le “o” e le “u” nelle due
lingue sono differenziate e non si possono creare equivoci di interpretazione.
Nella seconda strofa la lettura potrebbe diventare un po’ più complicata: tenendo conto di
alcune regole di base nella scrittura e lettura del Piemontese7 troviamo degli errori di
grafia abbastanza evidenti.
Le regole moderne impongono che se all’interno di uno scritto vi sono lingue differenti,
quella percentualmente in minoranza andrebbe scritta con un carattere diverso, esempio
corsivo, per avvisare il lettore di un cambio di lettura dei simboli alfabetici. Coerentemente
con quanto affermato e dato che nella trascrizione originale non si denotano indicazioni di
questo genere, la seconda strofa sarebbe dovuta essere scritta nel seguente modo (in
grassetto i cambiamenti):
A’s sent na vus ant l’aira, a’s sent a vnì ciantan.
L’è San Giüsep, so pàire, lu pia ’nt i so brass.
S’a i cianta la cansun: “Larin, larin lareta”
S’a i tucia la barbeta: “Basemi se vi pias”.
Con queste due variazioni si può affermare che la lettura della seconda strofa diventa
omologa alla prima senza neanche la possibilità di sbagliare l’interpretazione della “u” di
Giüsep dato che, secondo le interpretazioni del tempo la “u” chiusa veniva erroneamente
indicata col segno grafico della dieresi.
La lettura diventa scorrevole e come già detto si adegua alle caratteristiche della prima e
CANTO POPOLARE
allora ci si accorge che alcuni lemmi non appartengono alle
varianti linguistiche riconosciute come piemontesi ma bensì
sono di derivazione diretta dell’occitano8 presente nella aree
montane del Piemonte occidentale:
Aira (Aria): in alcune trascrizioni Aire per ingentilire e stringere
il suono
Ciantan (Cantando): attuale Chantand o Zhantant, più arcaico
Pàire (Padre): attuale Pàire
Cianta (Canta): attuale Chanta
Tucia (Tocca): attuale Toucha, non più in uso
I cinque lemmi elencati hanno chiara derivazione dalla lingua
occitana e anche se con la corretta scrittura moderna, che si
rifà al modello francofono utilizzato da Tullio Telmon9,
possono dare adito a qualche dubbio la pronuncia è
inequivocabile, indipendentemente da come il ricercatore
dotto riproduca con i caratteri scritti il suono della parola.
Tenendo conto altresì che la lingua occitana è caratterizzata da
una notevole frammentazione vernacolare con una conseguente
ampia differenziazione in relazione alle regioni geografiche di
bacino, quindi una varianza linguistica di notevoli proporzioni,
non si può con assoluta certezza capire la derivazione
linguistica originale dei lemmi presenti nel testo.
Rileggendo velocemente le considerazioni fatte finora, pur
tenendo conto delle probabili contaminazioni e modificazioni
che il canto ha subito nell’arco della sua diffusione temporale
e geografica testimoniate altresì dalla consistente presenza
dell’idioma nazionale nella prima strofa, si può affermare che
la lezione di Sinigaglia è di sicura origine piemontese per la
compresenza di lingua autoctona e occitana.
Ma confrontando la versione del musicista piemontese con
quella di Poirino scopriamo alcune sfumature che rendono
l’ultima lezione particolarmente interessante da un punto di
vista etnomusicale.
37
«Questo antico testo natalizio, era cantato un tempo come
canzone di questua, poi fu usato andando alla messa di
mezzanotte della vigilia di Natale. Infine passò nell’uso
domestico e di tessitura. Oggi il canto ha ripreso la sua
antica funzione ed è tuttora eseguito nella vigilia di Natale,
accompagnato dalla zampogna.
Sebbene il testo sia conosciuto in tutto il nostro territorio,
molti non rammentavano che la prima strofa; quello qui
trascritto è stato ricordato da due mie collaboratrici, una di
Poirino, l’altra della frazione Marocchi».
Il tesoro ritrovato, se così possiamo definirlo, avviene nel
testo ricordato da Pierina Brossa di Poirino, tessitrice:
Gesù Bambìn l’è nato, l’è nato in Betelém
l’è zura ën po’ di paija, l’è zura ën po’ di fién.
L’è zura ën po’ di fién sa iè ël Bambin cha piura
sua Mama cha lu adura l’è zura ën po’ di fién.
E l’hai sentì na vus dant’eira (1) cha emnisia giù cantand
San Giùsèp sa l’è so paire lu pija en ti so bras.
Sa i cianta na cansùn larìn larìn lareta
sa i tuca la barbeta, baseme se vi pias.
Sa iè barba Marciò e barba Gaspaire
e barba Baldasaire tùti aduré l’infànt.
(2) Sa fiiisa nen ëd Vost Fiöl cha a l’è venù a rangé l’affaire
sariu tiiti danaire për ël pecà d’Adam.
E le sue varianti ricordate da Felicita Burzio della frazione dei
Marocchi, contadina, (forse con qualche sovrapposizione di
strofa):
(1) …amnisia giù ciantand
amnisia da la Giudèa, Gloria in Eccelsis Dea
(2) Vui Maria Vergìn nui vi ringrassierem
sa fiiisa nen per Vost Fiòl cha a l’è amnii a rangé l’affaire
sariu tiiti danaire per il pecà d’Adam.
Eseguito in mib maggiore ma trascritto nella tonalità di sol la
linea melodica muta completamente sia come ritmica che
come impianto melodico: spariscono le quattro battute che
abbiamo definito di ostinato per svilupparsi su una melodia
semplice e lineare racchiusa all’interno di una sesta, il 2/4
passa al 6/8, più vicino alle ballate epico liriche piemontesi,
più vicino alle pastorali natalizie.
La semplice introduzione dell’autore ci introduce uno spaccato
del territorio e della cultura contadina dello scorso secolo
nelle campagna a ridosso di Torino, metropoli metalmeccanica
dal cuore cavalleresco:
Traduzione: Gesù Bambino è nato / è nato a Betlemme / e
sopra un po’ di paglia / è sopra un po’ di fieno / è sopra un
po’ di fieno / c’è il Bambino che piange / sua Mamma che
l’adora / e sopra un po’ di fieno. // Ho sentito una voce
nell’aria / che veniva giù cantando / San Giuseppe, suo padre
/ lo prende fra le sue braccia. / Gli canta una canzone / gli
tocca la barbetta / baciatemi se vi piace. // C’è zio Melchiorre
/ e zio Gaspare / e zio Baldassarre / tutti adorate l’Infante. /
Se non fosse per Vostro figlio che è venuto ad aggiustare la
faccenda / saremmo tutti dannati / per il peccato d’Adamo.
Variante: Veniva giù cantando / veniva dalla Giudea / Gloria
in excelsis Deo. // Voi Maria Vergine / noi vi ringrazieremo /
se non fosse per Vostro Figlio / che è venuto ad aggiustare la
faccenda / saremmo tutti dannati / per il peccato d’Adamo.
38
La trascrizione originale del testo operata dall’autore con una
trascrizione di suoni più che di grammatica ci permette in parte di
comprendere l’essenza del recuperato canto.
Innanzi tutto ritroviamo la completa stesura in lingua piemontese
che a un confronto attento si scopre non così discosto ritmicamente
dalla lezione del Sinigaglia. L’impianto narrativo si articola su tre
strofe e non più su due, inserendo nella scena della Natività i tre
Re Magi sotto le spoglie di zii adottivi: di fatto sia nel canto più
famoso che in quest’ultimo gli attori chiamati per nome sono tutti
al maschile, a partire da Adamo, riferimento assai singolare nella
scena della Natività, e non si fa menzione del nome della Madre di
Dio.
In ultimo le contaminazioni di influenza occitana spariscono
dall’impianto narrativo per essere completamente sostituite dalla
parlata della zona a eccezione del lemma cianta che rimane
incastonato nel testo come a testimone di una tradizione più
antica.
Concludo riprendendo parte dell’introduzione che feci al volume dei
Canti Natalizi della Tradizione Popolare10 che risponde
perfettamente all’analisi fatta delle due versioni del canto
presentato e nello stesso tempo accomuna tutta la produzione dei
canti rituali della nostro penisola:
«Riprendendo la teoria formulata da alcuni dei padri della ricerca
etno-musicale dei primi anni del Novecento, tra i quali Antonio Ive
e Ireneo Sanesi, in cui si affermava che: “ogni uomo che si trovi
colpito da eguali sensazioni e che sottostia a egual vicenda,
riproduce i medesimi atti e li esprime più o meno analogamente”;
tenendo conto inoltre che i canti rituali, proprio per la loro
tipologia di narrazione, non rispondono alle leggi dei canti
popolari tradizionali in fatto di migrazioni, contaminazioni e
modificazioni dovute al tempo e ai vari dialetti con cui si vedono
rimodellati i testi, possiamo dire che alcuni di questi si calano nella
concezione di “migrazione” come se fossero dei veri e propri canti
“epico-lirici” e di conseguenza le comunanze visibili nella
narrazione diventano metro inequivocabile di paragone.
Ragionando in termini correnti si può affermare perciò che un
canto rituale, […] pur avendo temi e personaggi comuni a tutta
l’area cosiddetta “mitteleuropea”, in alcuni casi sottostà alle regole
del canto popolare tradizionale».
CANTO POPOLARE
39
Note
1. D. COMPARETTI - A. D’ANCONA, Canti e racconti del popolo
italiano. Introduzione alla raccolta di G. FERRARO, Canti popolari
monferrini, Ermanno Loescher, 1870.
2. R. LEYDI, Canzoni popolari del Piemonte - La raccolta inedita di
Leone Sinigaglia, Diakronia, Vigevano 1998.
3. Il pastore Gelindo, ossia La Natività di Gesù Cristo, Torino
presso Tipografia Giovanni Binelli e Figlio, s.d., ma del 1842.
4. A. VIGLIERMO, Canti e tradizioni popolari - indagine sul
Canavese, Priuli e Verlucca, Romano Canavese 1974.
5. A. VIGLIERMO, Canavese che canta, Priuli e Verlucca, Romano
Canavese 1986.
6. Vecchie canzoni popolari del Piemonte. Raccolte vol. VI,
ed. Breitkopf, Lipsia 1927, conosciute successivamente come
36 Vecchie canzoni popolari del Piemonte (1914-1927).
7. Glossario piemontese: C. BRERO, Gramàtica piemontèisa,
Edission, A l’ansëgna dij Brandé, Editor Mario Gros, Turin 1987.
Riproponiamo come già fatto in Voci & Tradizione Piemonte un
compendio sulla corretta lettura della grafia della lingua
piemontese ricordando che il valore della maggior parte dei
segni è quello che essi hanno in italiano.
Si noti tuttavia quanto segue:
e
senza accento, si pronuncia di regola aperta in sillaba
chiusa (mercà) e chiusa in sillaba aperta (pera), ma vi sono
alcune eccezioni. é simile alla e chiusa italiana, ma più
aperta (caté, lassé). è simile alla e aperta italiana, ma più
aperta (cafè, përchè).
ë
detta e semimuta, simile a quella francese di le (fërté,
viëtta).
eu simile al francese eu (cheuse, reuse).
o
simile alla u italiana (conté, mon).
u
simile al francese u o al tedesco ü (bur, muraja).
ua dopo q (e in pochi casi isolati) vale ua di quando (quand,
quel).
ùa si pronuncia bisillabo üa (crùa, lesùa).
j
simile alla i iniziale di ieri e alla i di mai (braje, cavej); nella
grafia piemontese, tuttavia, la j ha talora solo valore
etimologico e nella pronuncia non si sente o si sente
appena (ciò è vero specialmente dopo la i: es. fija<lat.
volg. filija<lat. class. filia; si trova di solito in
corrispondenza con un gl italiano).
n
n velare o faucale, senza corrispondente preciso in italiano,
ma simile alla n di fango (lun-a, sman-a).
s
iniziale di parola o postconsonantica suona s sorda (sapa,
batse), tra vocali o in fine di parola dopo una vocale è
sempre sonora (lese, posé, pas = it. pace).
ss
si usa tra vocali o in fine di parola dopo una vocale per
indicare la s sorda (lassé, possé, pas = it. passo).
s-c si usa per indicare il suono di s come in scatola, seguito da
c palatale come in cena (s-ciapé, ras-cé).
V
z
si usa solo in posizione iniziale o postconsonantica per
indicare la s sonora (zanziva, monze).
v
in posizione finale di parola si pronuncia simile alla u di
paura (ativ, luv “lupo”) e così avviene anche nel corpo di
una parola quando non corrisponda a una v italiana (gavte,
luva “lupa”); negli altri casi ha il suono della v italiana
(lavé, savej).
Accentazione: si segna l’accento tonico sulle sdrucciole
(stiribàcola), sulle tronche uscenti in vocale (parlé, pagà, cafè),
sulle piane uscenti in consonante (quàder, nùmer), sul dittongo ei
se la e è aperta (piemontèis, mèis), sul gruppo ua quando la u
vale ü (batùa), e su gruppi di i più vocale alla fine di una parola
(finìa, podrìo, ferìe). L’accento si segna anche in pochi altri casi
isolati dove non occorrerebbe per regola o per indicare eccezioni
(tèra, amèra dove la è di sillaba aperta dovrebbe essere chiusa
mentre è aperta) e può facoltativamente segnarsi sulla e delle
finali, -et, -el per indicare il grado di apertura (bochèt, lét).
L’accento serve inoltre a distinguere alcune coppie di omografi
(sà = verbo, sa = questa; là = avverbio, la = articolo).
8. La parlata piemontese e le sue varianti di Ettore Galvani, in
Voci & Tradizione, canti della tradizione orale armonizzati o
elaborati per coro a cura di Ettore Galvani e Alessandro Ruo Rui.
9. Dal 1994 è professore ordinario presso l’Università di Torino,
dove insegna Dialettologia e Dialettologia italiana. Ricopre gli
incarichi di direttore del Dipartimento di Scienze del linguaggio e
letterature moderne e comparate (1994-2000 e 2006-) e della
Scuola di dottorato in Scienze del linguaggio e della
comunicazione (2006-), nonché di membro del Senato
accademico (2003-). Fa parte dei comitati editoriali e scientifici di
riviste nazionali e internazionali come Bollettino dell’Atlante
Linguistico Italiano, Rivista Italiana di Dialettologia, Nouvelle
Revue d’Onomastique e La France latine. Revue d’études d’oc e
partecipa all’Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte
occidentale (ALEPO), all’Atlante linguistico italiano (ALI) e al Centre
d’etudes francoprovençales René Willien. Dall’ottobre 2007 è
presidente della Società di Linguistica Italiana.
10. E. GALVANI, Canti Popolari Piemontesi, Dal Piemonte all’Europa
vol. II, Son Tre Re, Canti Natalizi della Tradizione Popolare,
Daniela Piazza Editore, 2004.
in collaborazione con
Di fronte al mare, vicino alla meravigliosa Venezia e alla suggestiva Trieste,
questa settimana internazionale di canto corale, che giunge nel 2014 alla sua
sedicesima edizione, ospiterà 6 atelier e 3 discovery atelier (della durata di un
pomeriggio), aperti a cori, direttori, singoli cantori e amanti della musica!
Ogni sera ci saranno dei concerti, introdotti da un open singing, e tutti i
partecipanti sono invitati a unirsi a questa magica atmosfera e vivere la musica.
Alla fine della settimana, ogni atelier si esibirà in un concerto finale.
international
singing week
•ATELIER 1 Classical is young
voci bianche e corso per direttori
Docente Denis Monte (IT)
•ATELIER 2 Rinascimento italiano
Docente Walter Testolin (IT)
•ATELIER 3 African roots: singing spirituals and gospel
Docente André J. Thomas (US)
•ATELIER 4 Discovering a Romantic repertoire: Mendelssohn
and Schubert Lieder
Docente da confermare
ALPE
ADRIA
CANTAT
2014
Lignano Sabbiadoro
•ATELIER 5 Dop, ba duba dop… get into the groove!
Docente da confermare
24 »31 agosto
•ATELIER 6 A taste of world sounds
Docente Silvana Noschese (IT)
informazioni
Feniarco
Via Altan, 49 - 33078 San Vito al Tagliamento (Pn)
Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 - [email protected]
www.interattiva.it
con il sostegno di
Regione Friuli Venezia Giulia
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Fondazione CRUP
Iscrizioni entro il 31 maggio 2014
www .fen iar co.i t
PORTRAIT
41
PER GUARDARE LONTANO
INTERVISTA A CARLO PAVESE
a cura di Efisio Blanc
Che cosa ti ha portato a occuparti di musica corale?
Sono stato costretto! Frequentavo il secondo anno di
composizione in conservatorio, la segreteria mi convocò per
dirmi che avrei dovuto seguire il corso di esercitazioni corali
già dall’anno precedente e mi intimò di presentarmi al
maestro Dario Tabbia. Entrai timidamente in aula. Non avevo
mai cantato in coro, prima. Dario mi chiese: «sei tenore o
basso?». Io, che non potevo nemmeno concepire di fare il
tenore, risposi con voce cupa: «basso». «Ok,
tenore! Siediti là». Dopo questo inizio, pensai:
“quest’anno non mi passa più!”, e invece a
giugno ero così felice che entrai nel coro da
camera. Tre anni dopo fondavo il Coro 900 e
l’anno successivo mi iscrivevo al corso di
direzione corale. Devo dire che siamo in molti
ad avere un debito di riconoscenza con Dario
Tabbia per averci trasmesso questa passione.
preparazione storica e teorica, l’analisi, la prassi, la scrittura
di mottetti e madrigali, la trasferta svedese mi ha permesso
di confrontarmi con gli aspetti più pratici della direzione. I cori
erano formidabili e cantavano di tutto. Dovevo stare un anno.
Mi sono fermato sino al 2001.
Ai miei cantori amo raccontare come la domenica mattina un
drappello sempre diverso di coristi del St. Jacobs Kammarkör
o dello Stockholm Musikgymnasium Kammarkör (parliamo di
amatori e, nel secondo caso, di liceali) si trovasse presso la
chiesa di Sankt Jacob, prendesse tre o quattro composizioni
sacre, anche di una certa complessità, le leggesse e cantasse
splendidamente un’ora dopo a messa. Lo racconto perché
questo rappresenta bene per me il senso e il valore del saper
leggere la musica, una capacità che alleggerisce il lungo
lavoro di assemblaggio, e racconta della gioia e della
naturalezza con cui si può cantare un nuovo repertorio. Il
direttore può fare e dire l’essenziale, poiché ha costruito un
gruppo di persone sensibili che sa guidare nel piacere di far
musica, con reciproca fiducia.
La “lettura a prima vista” talvolta era richiesta anche al
direttore. Mi è capitato di arrivare in prova per cantare i
Requiem di Mozart e di Michael Haydn e dover invece dirigere
la prova. Oppure di ricevere una telefonata, mentre ceno con
amici, per tenere all’indomani una prova del Requiem di Verdi.
Ricordo il dialogo: «tanto tu sei italiano, l’avrai in repertorio»,
e io, mentendo spudoratamente: «certo, figurati, solo che per
combinazione non ho la partitura con me», e lui: «te la porto
Essere al servizio della musica vuol
dire permettere che nuovi germogli
spuntino sul suo tronco secolare.
Finita la tua formazione scolastica in Italia, hai
avuto modo di continuarla all’estero. Parlaci di questa
esperienza e di quanto ha inciso sulla tua formazione.
I corsi estivi Feniarco degli anni ’96 e ’97 hanno aperto una
finestra sul repertorio contemporaneo internazionale che i
programmi accademici non contemplavano. A Marino ho
conosciuto Gary Graden che mi ha invitato a Stoccolma e
sono partito nel 1998, dopo il diploma, diventando suo
assistente. Quest’esperienza ha inciso moltissimo sulla mia
vita. Dopo anni di studio passati principalmente a curare la
subito». Rapido congedo dagli amici, grande caffettiera e
studio notturno! Però si impara di più in situazioni del genere
che ciondolando nella routine per un mese.
Consiglieresti quindi a un giovane direttore di coro di
completare la sua formazione studiando anche in altri paesi?
Sì. A dire il vero, consiglierei a qualunque giovane, di
qualunque nazionalità, di completare qualsiasi formazione in
altri paesi! Questo non significa che non ci siano ottime
42
opportunità di imparare in Italia, in parte sviluppatesi proprio
negli ultimi anni.
Uno dei primi incarichi che hai avuto da parte di Feniarco è
stata la docenza del laboratorio corale del seminario per
compositori di Aosta. Parlaci di questa esperienza.
L’idea di un coro laboratorio che legge i lavori dei compositori
e permette loro di confrontarsi subito con l’efficacia pratica
delle loro idee mi è piaciuta moltissimo e ho svolto questo
incarico con entusiasmo. Forse ci ritrovo il senso di quelle
esperienze scandinave di cui ti ho detto prima: il coro e il
direttore devono concentrarsi nella lettura e nell’approccio per
raggiungere in poco tempo il cuore della musica, non la
perfezione ma un risultato sufficiente perché la “bottega” di
composizione possa ripartire da lì e andare avanti. E dopo
due giorni il pezzo ritorna, è cresciuto ed è pronto a
camminare sulle sue gambe. In questo modo passa un
concetto molto sano: la musica è arte ma anche artigianato,
saper scrivere bene per uno strumento è un valore
indispensabile e coro, direttore, compositore svolgono un
lavoro di bottega, costituiscono un laboratorio.
Tu sei considerato un esperto di musica corale
contemporanea. Perché questa predilezione e quale rapporto
con la polifonia classica?
Perché mi piace quello che ho appena descritto, il processo
creativo, ciò che nasce oggi e che ha bisogno di attenzioni
per crescere e camminare
domani. Parafrasando una frase
di Stravinsky, direi che essere al
servizio della musica vuol dire
permettere che nuovi germogli
spuntino sul suo tronco secolare.
Dopodiché non dimentichiamo
che senza tronco secolare i
germogli non ci sarebbero! La
musica del passato ha superato
la prova del tempo, e ne è
divenuta la voce. Come accadde
in tutte le epoche, la maggior parte della musica d’oggi sarà
dimenticata senza rimpianti, ma siccome il tempo è un giudice
migliore di ciascuno di noi, siamo chiamati a dare delle
possibilità ai compositori e alla loro voce, perché è la nostra
voce e parlerà di noi. Questo non vuole dire che direttori e
compositori non debbano essere esigenti gli uni con gli altri.
Esigenti e competenti. Come un direttore non deve accettare
di realizzare qualsiasi partitura solo perché è contemporanea,
così un compositore deve stimolare il coro a eseguire la sua
musica con cura. Lavorando opportunamente su questo
rapporto crescerà la qualità della musica e dei cori.
cominciato dirigendo cori di adulti specializzati in musica
contemporanea. Con il Torino Vocalensemble, che ho diretto
dal 2000 al 2012, abbiamo commissionato e tenuto a
battesimo molta musica italiana, sperimentato e imparato,
divertendoci. Poi mi è stato proposto di fondare un coro
giovanile ed è nato il Coro G che festeggia ora il suo
decennale. Infine, nel 2005, i Piccoli Cantori di Torino mi
hanno offerto la direzione della scuola di musica e del coro di
voci bianche, al quale si è aggiunto adesso un coro giovanile.
Accettando ho completato un percorso dagli adulti ai bambini
che oggi mi sembra molto giusto e fortunato. Mi ha insegnato
che chi ha un ruolo pedagogico non deve dimenticare di
guardare lontano. Mentre insegni a un bambino di sei anni il
ritmo puntato o a una classe un semplice canone, stai
percorrendo una linea nella grande rete del linguaggio della
musica. D’altronde mi piace immaginare che all’altro capo
della prima rima di un bambino ci sia la Divina Commedia,
che il filo che si dipana dalla sua prima moltiplicazione porti
al bosone di Higgs.
E così ogni anno scelgo fortemente di continuare a far musica
con i bambini e i giovani, perché questo lavoro mi stimola, mi
gratifica e mi sembra necessario.
Dalla musica contemporanea al coro di voci bianche: quali le
diverse competenze che devono essere messe in campo?
Non saprei, sinceramente. Non vedo alcuna limitazione nel
repertorio per le voci bianche né ritengo che ci sia un modo
Il nostro paese e la sua federazione sono
spesso citati, in ambito europeo, come
esempio di realtà dinamica e innovativa.
Una parte della tua attività come direttore di coro è rivolta ai
bambini. Si è trattato di un approccio occasionale o è stata
una tua scelta?
Come capita spesso, è stato un mix di occasioni e scelte. Ho
specifico di dirigere i bambini o la musica d’oggi. Certamente
al direttore di voci bianche conviene avere una tecnica molto
evoluta perché la musica passa essenzialmente dal gesto. Con
“i grandi” si può parlare, per supplire alle proprie carenze. Coi
bambini no, se ti connetti puoi raggiungere qualsiasi vetta,
ma se parli troppo, se la musica non è interessante, se il
gesto non funziona… li perdi: vanno per la loro strada o non
funziona più nulla. Sono quindi degli ottimi maestri, molto
esigenti e generosi al tempo stesso.
Ci sono purtroppo degli stereotipi: i bambini carini, teneri, che
cantano canzoncine allegre, che sono bravi per il semplice
fatto di essere piccoli… Io detesto tutto questo, detesto i
diminutivi e l’idea di una musica “da bambini”. Ho
recentemente eseguito con i Piccoli Cantori due pezzi
alquanto drammatici di Lorenzo Donati, Crudelmente e
Ponetemente, proposti con un intenso atteggiamento scenico.
PORTRAIT
43
Carlo Pavese_______
Carlo Pavese è un musicista torinese. Negli anni della formazione si è diplomato in
composizione e musica corale presso il Conservatorio G. Verdi di Torino, ha studiato
pianoforte e direzione d’orchestra, ha suonato reggae e rock. Alla fine degli anni ’90
ha conseguito una borsa di studio De Sono che gli ha permesso di approfondire il
suo interesse per la nuova musica corale a Stoccolma, dove è stato assistente di
Gary Graden per tre anni. Si è perfezionato inoltre con Eric Ericson, Tonu Kaljuste,
Frieder Bernius.
Carlo ha fondato e diretto numerose formazioni corali: il gruppo vocale Voiceandnoise
(1994-1998) del quale è stato arrangiatore, il Coro 900 di Torino (1995-2000),
l’ensemble vocale Siryn di Stoccolma (2002-2005), il Torino Vocalensemble (20002012). È direttore del Coro G, fondato nel 2003, e dal 2005 è direttore artistico
dell’associazione Piccoli Cantori di Torino, dove segue il coro di voci bianche, il coro
giovanile e la scuola di musica.
Con i suoi cori e come direttore ospite svolge attività concertistica in Italia e in
Europa ed è invitato da festival e corsi internazionali come docente di direzione,
interpretazione e improvvisazione, e come direttore d’atelier corali. Ha diretto alcuni
allestimenti di opere da camera presso il Piccolo Regio di Torino (tra i quali la prima
esecuzione assoluta di Un dragone in gabbia di Giulio Castagnoli e la prima italiana
di Man and Boy di Michael Nyman) e il Teatro Comunale di Bologna.
Le sue composizioni sono eseguite in Italia e all’estero. Ha arrangiato decine di
canzoni a cappella, inclusa una recente versione integrale de La buona novella di
Fabrizio De Andrè.
È stato Artistic Manager del Festival Europa Cantat XVIII svoltosi a Torino nell’estate
2012, ed è attualmente primo vicepresidente di European Choral Association - Europa
Cantat.
Il pubblico era emotivamente colpito e spiazzato, e io
pensavo: “questi bambini sono venuti a cantare un concerto,
a coinvolgervi musicalmente, a darvi tutto quello che hanno
dentro, non a intrattenervi; non ve l’aspettavate, eh?”.
Troppo spesso gli adulti utilizzano la categoria “da bambini”
per limitarli. Erkki Pohjola diceva che i bambini hanno i limiti
che gli poniamo noi adulti, e io aggiungerei che spesso i cori
hanno i limiti che gli poniamo noi direttori. Allora dobbiamo
ragionare bene sulle nostre scelte. Recentemente ho visto un
monologo del comico americano Bill Hicks che, parlando del
fenomeno delle boys-band, pulite e carine, costruite a
tavolino per sembrare ai genitori un buon esempio per i figli,
dice «da quando mediocrità e banalità sono un buon esempio
per i bambini?». Ne ho ricavato una bella domanda per il
direttore di coro di voci bianche e giovanili davanti alle sue
scelte: «È mediocre e banale?». Anzi, a pensarci bene, ecco
una bella domanda per qualsiasi direttore che lavora col suo
coro, per il compositore che rilegge il suo pezzo dopo averlo
finito, per l’organizzatore che chiude il cartellone di un
festival, per la giuria di un concorso che ascolta i partecipanti,
per il cantore che riflette sulla qualità della sua
partecipazione alla vita del coro, per l’insegnante di musica
che prepara il saggio di fine corso, per l’assessore che deve
finanziare una manifestazione, per il musicista che rilascia
un’intervista… «È mediocre e banale?»; e se lo è, «che cosa
posso fare?».
E questa domanda può porsela il più semplice dei cori come il
vincitore del Gran Premio, può porsela il gruppo di vocal pop
e quello madrigalistico, può porsela il professionista alla
ventesima replica e l’amatore al suo primo concerto. E
secondo me tutti, almeno ogni tanto, saremo costretti a porci
la seconda domanda: «Che cosa posso fare?». Forse, guardare
lontano?
Tu sei stato direttore artistico dell’edizione torinese del
Festival Europa Cantat, quanto ha inciso professionalmente
questa esperienza e in quali competenze?
Innanzitutto mi ha fatto riflettere sul significato che ha riunire
6000 persone in uno stesso luogo a fare musica per una
settimana. Senza competizione. Questa comunità, cantando,
44
convivendo e condividendo, esprime un messaggio molto forte, che
porta mille implicazioni sul senso del nostro lavoro che dovremo
sviluppare nei prossimi anni. Dal mio punto di vista è stato il
festival delle possibilità più che delle soluzioni, delle domande più
che delle risposte. Io lo considero un punto di partenza. Per
guardare lontano.
E poi per me si è trattato di un’acquisizione molto intensa di
competenze organizzative e gestionali, una situazione che mi ha
costretto continuamente a confrontarmi coi miei limiti e imparare in
fretta. Ricordi quando ti raccontavo della notte passata a studiare
Verdi? Ecco, è stata una situazione da “grande caffettiera e studio
notturno!”, che si è protratta però per un paio d’anni!
I tuoi posti di responsabilità all’interno di ECA-Europa Cantat
(prima il festival, ora la vicepresidenza) ti pongono una posizione
privilegiata per confrontare la coralità italiana a quella del resto
d’Europa: a che punto siamo?
Feniarco, già prima del festival e ancor più dopo Europa Cantat, ha
conquistato una credibilità e un apprezzamento a livello europeo
che si riverberano sulla percezione generale che gli altri paesi
hanno di noi e delle nostre capacità. Il nostro paese e la sua
federazione sono spesso citati, in ambito europeo, come esempio
di realtà dinamica e innovativa che ha saputo con il festival offrire
nuovi stimoli all’intero movimento corale internazionale.
L’Italia, conosciuta come paese di persone ospitali, appassionate,
capaci di godere della bellezza e dei piaceri della vita, ha
dimostrato che tutto
questo non è un
paravento dietro cui
nascondere inefficienze,
ma un quid che dà sapore
speciale a eventi
organizzati e gestiti
secondo standard molto
alti. Credo che nello
stesso modo la nostra coralità debba proseguire un cammino
intrapreso ormai da molti, dove il suono italiano, l’espressività
naturale del nostro temperamento, il piacere di condividere la
musica si coniugano al lavoro tecnico sullo strumento coro, alla
volontà dei direttori di aggiornarsi e sintonizzarsi con i colleghi di
tutto il mondo e alla capacità dei compositori di dare un nuovo
volto e un nuovo suono a tutto questo senza staccare i germogli
dal grande albero secolare della nostra tradizione.
Chi ha un ruolo pedagogico non deve
dimenticare di guardare lontano.
SUL PROSSIMO NUMERO n. 42 - dicembre 2013
DOSSIER
LA MUSICA NELLA LITURGIA
DOSSIER COMPOSITORE
ELENA CAMOLETTO
NOVA ET VETERA
IL REQUIEM DI VERDI
IN ALLEGATO IL NUOVO CD
DUM CLAMAREM
INVOCAZIONI DI DOLORE
E DI SPERANZA
MEDIAE AETATIS
SODALICIUM
DIRETTO DA
NINO ALBAROSA
PORTRAIT
MARTINA BATIČ
E MOLTO ALTRO ANCORA!
LA RIVISTA DEL CORISTA
Anche per il 2013
rinnova il tuo abbonamento
e fai abbonare anche i tuoi amici
CHORALITER + ITALIACORI.IT
Rivista quadrimestrale di FENIARCO
abbonamento annuo: 25 euro / 5 abbonamenti: 100 euro
Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
Via Altan, 49
33078 S. Vito al Tagliamento (Pn) Italia
Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554
www.feniarco.it - [email protected]
modalità di abbonamento:
• sottoscrizione on-line dal sito www.feniarco.it
• versamento sul c/c postale IT23T0760112500000011139599 intestato a Feniarco
• bonifico bancario sul conto IT90U063406501007404232339S intestato a Feniarco
46
L’IMPORTANZA DI CHIAMARLO TESTO
di Marco Maiero
COMPOSITORE
Tra speranze e difficoltà, tra fiammate di energia e periodi di
opaca ispirazione, la coralità continua, fortunatamente, a
vivere. Piace a molti cantare in coro, piace ancora ascoltare
chi canta in coro.
Nonostante il marcato e conformista disinteresse della
maggioranza dei media che spesso inibiscono la curiosità del
grande pubblico, la coralità riesce ancora oggi a brillare e ad
affascinare, anche col beneficio dei notevoli progressi
tecnico-vocali avvenuti nei decenni appena trascorsi. Sono
state spese le migliori energie e c’è voluta la creatività di tanti
per preparare il presente e il futuro del canto corale, il quale,
sia esso voce dell’ispirazione popolare oppure espressione di
un’élite artistica, punta, fino a prova contraria, ad allargare il
consenso e a coinvolgere un numero sempre maggiore di
persone.
Sempre più diffusamente si possono ascoltare esecuzioni di
incantevole levatura artistica, ma se si fa parte di un pubblico
poco numeroso durante il concerto di un coro che
meriterebbe l’attenzione riservata a una rockstar, si rimane
delusi. Non sempre la quantità è sinonimo di qualità, lo
sappiamo bene, ma (insomma) una sala o una chiesa affollate
infondono sicuramente più entusiasmo dei troppi vuoti di una
platea semideserta.
Certo, si può far musica anche per un essenziale
appagamento personale. Talvolta una prova è più esaltante di
un concerto, ma è vero anche che il calendario della sala
prove privo di appuntamenti mette tristezza e fiacca gli
entusiasmi. L’attività corale è un’arte e per quest’ultima la
ricerca di un consenso è implicita nel suo stesso compiersi e
manifestarsi.
L’arte è comunicazione. Alcune arti possono avvalersi di un
linguaggio universale, non hanno frontiere e sono largamente
condivise senza la mediazione di una traduzione. La musica
strumentale fa parte di queste, la musica vocale generalmente
no.
L’opera, ad esempio, si esprime, da secoli e in ogni parte del
mondo, nella lingua in cui è stata composta. Anche parte
della musica corale può trarre beneficio dall’universalità di
alcuni testi, specialmente quelli sacri. Ma, ovviamente, le
parole di un canto o canzone che dir si voglia, nella
maggioranza dei casi sono importanti e devono essere
perfettamente intesi e non possono ridursi a semplici suoni
vuoti di significato.
A mio avviso, la pratica corale, pur essendoci l’innegabile
necessità di favorirne la diffusione e aumentare verso di essa
l’attenzione e il consenso, non può avvalersi solo della ricerca
di una vocalità perfetta, o di una migliore efficacia
interpretativa, oppure accettare ogni volta le sfide insite
nell’esecuzione di brani di elevata difficoltà. Cantare in coro
può e deve ancora significare saper trasmettere messaggi ed
emozioni anche attraverso le parole. Il canto corale deve
rappresentare il presente anche con versi che vibrano di
emozioni appena vissute, presenti nelle stagioni che si
respira.
Probabilmente il punto debole della coralità attuale, o meglio
della produzione di nuovi canti per coro, sta proprio nella
superficiale attenzione al testo.
Ecco giustificata la parafrasi del titolo della commedia
dell’arguto Wilde. “L’importanza di chiamarlo testo”, appunto.
Il testo deve avere lo stesso valore della musica nello stretto
binomio che, vicendevolmente, fa scaturire e progredire una
composizione per coro. Le note contenute nella potenza di
parole a loro volta richiamate da una melodia che sta
prendendo il volo.
Il testo, insomma, non può trasformarsi – e scusate il fin
troppo scontato gioco di parole – in pretesto. Perché?
Perché il canto corale deve anche tradursi nella sintesi
dell’interpretazione, della figurazione, della rielaborazione del
presente. E meglio ancora se tutto ciò avviene con
un’efficacia poetica.
Ah, come sarebbe bello che anche su questo fronte si
potessero giocare le sfide di un percorso di rinnovamento. Dal punto di vista musicale si è fatto di tutto e di più per
l’evoluzione del mondo dei cori. Abbiamo apprezzato
l’apertura ai generi più disparati. È stato inventato o
reinventato il vocal pop o jazz che dir si voglia. Uno spasso
per le orecchie. C’è stato e c’è l’interesse diffuso per il
FRAGMENTA
47
gospel. Benissimo. C’è stata la rivisitazione filologica dei repertori più o meno antichi che
rivelano sublimi architetture ancora tutte da scoprire. Ma perché sono così pochi i compositori
che hanno qualcosa di nuovo da raccontare?
Perché così pochi pensano a un coro quando vogliono raccontare una storia, un fatto, un
sentimento, un dramma o la felicità dei nostri giorni, oppure l’intimità di un sogno o
l’inquietudine del mistero? Perché l’energia giovanile deve essere sempre rappresentata con la
stereotipata icona del rock? Perché l’energia di un coro non può affrontare i sentieri che
percorrono i nostri giorni con le parole dei nostri giorni?
Eppure, in passato, è successo: le storie delle contrade, i mestieri, gli amori, le guerre, hanno
colorato per secoli la musica. Oggi ancora si evoca quel passato, anche se ormai racconta un
mondo che non ci appartiene più.
Da quando frequento l’ambiente corale, sono venuto a conoscenza di decine e decine di bandi
di concorso per la composizione di nuovi canti. Puntualmente sono stati prodotti dei lavori che,
dal punto di vista musicale, sono stati frutto di una ricerca compositiva approfondita, ma in cui i
testi, praticamente sempre, sono stati trascurati.
Tralasciando i testi sacri che costituiscono un capitolo a sé, per comporre un canto profano il
più delle volte è stato usato il testo di una poesia di qualche poeta più o meno importante. Ma
le poesie raramente possono far nascere canti con la “c” maiuscola: sono poesie e tali devono
restare. Possono costituire una palestra compositiva, ma non possono sostituirsi alla libertà
descrittiva di quell’insieme creativo che l’atto compositivo richiede.
A meno che non si punti a fare di un coro un’orchestra, è necessario che chi vuole scrivere per
una formazione corale trovi un suo linguaggio personale anche nel testo, oppure trovi la
collaborazione di un paroliere.
Anche ammettendo la possibilità
che le parole iniziali di una poesia
possano contenere (la) sufficiente
forza per produrre l’inciso migliore
della migliore delle melodie, non è
detto che il resto dei versi
contenga la stessa spinta.
Succede – e lo si nota subito
leggendo o ascoltando un canto
nato dai presupposti su cui stiamo
ragionando – che il compositore
sia costretto a inseguire le parole
a scapito di un respiro musicale logico ed efficace. Una sillaba in più, una parola che starebbe
meglio dopo (di) un’altra, rendono il percorso compositivo irto di difficoltà tali da portare spesso
a produzioni prive di ispirazione.
Ciò si verifica perché il testo di una poesia esistente non permette molte libertà: mica si può
cambiarlo. A meno che non si intenda percorrere la strada della musica contemporanea, in cui i
riferimenti della pulsazione ritmica e dello slancio melodico-armonico vengono elaborati in modo
diverso, un canto che può rappresentare un’emozione condivisa, che possa essere cantato
insieme (e mi pare che ce ne sia sempre l’esigenza) deve necessariamente toccare le corde
giuste dell’anima.
Un nuovo canto deve scaturire da un’unica spinta creatrice. In altre parole è ciò che succede in
molte canzoni della musica d’autore. E di queste ce ne sono tante e di indiscutibile bellezza.
Evito di soffermarmi ancora in approfonditi dettagli tecnici. Ringrazio per l’ospitalità concessami
in questa rivista e concludo questa riflessione con la speranza che essa possa produrre un
confronto di idee e con la presunzione di poter provocare una scintilla di interesse verso questo
lato ingiustamente trascurato della coralità odierna.
Perché sono così pochi
i compositori che hanno
qualcosa di nuovo da raccontare?
SFORTUNATO
CHI NON CANTA
CRONACHE DAL FESTIVAL DI PRIMAVERA DI…
…Sandro Bergamo
C’è una scuola media, in Italia, dove il canto
corale non è un’opzione, ma un elemento
integrante del percorso formativo. È a Firenze.
Fa parte del Liceo internazionale V. Hugo, una
scuola francese in Italia, sorta per i figli dei
cittadini oltremontani residenti in Toscana, ma
allargatasi ora anche a italiani interessati al
percorso formativo offerto dalla scuola. Il
risultato non è solo un buon livello musicale
esibito da un coro costituito da tutti gli allievi
della scuola, senza selezione alcuna, ma un
entusiasmo che attribuiresti solo a chi sta
realizzando un’aspirazione a lungo coltivata.
La prima riflessione che viene spontanea
frequentando il Festival di Primavera a
Montecatini è infatti questa: che se gli educatori,
e gli adulti in genere, non si sottraggono al loro
dovere di proporre modelli, i ragazzi seguono, si
appassionano, si entusiasmano.
Tutti noi ci formiamo su quello che i percorsi di
vita ci mettono davanti. Qualche volta è il caso a
farci scoprire quello che poi diventa la passione
di una vita. Ma nel quotidiano bombardamento di
mediocrità, quando non di bruttura, non si può
affidare al caso l’incontro con la musica e col
canto. I processi educativi sono costruzione di
percorsi che non siano la semplice riproduzione
dell’esistente, ma sappiano proporre modelli e
valori. Il coro stesso rappresenta una di queste
opportunità e il Festival di Primavera esalta
questa visione. Ai giovani coristi non si ha paura
di proporre un gioco impegnativo, ma non per
questo meno divertente.
Nonostante la crisi economica di questi ultimi
anni, per la prima volta si registra un calo
fisiologico di presenze, ma non di entusiasmo.
Metti dei docenti di qualità, dei programmi
originali, e gli atelier si sviluppano con facilità,
giorno dopo giorno. I ragazzi affrontano repertori
da tutto il mondo, etnici e non, con Edoardo
Materassi e con Basilio Astulez: un canto che si
fa danza, tornando alle origini, quando la musica
e il movimento non erano separati ma
rappresentavano due elementi strettamente
collegati. Ma con altrettanto entusiasmo altri
ragazzi affrontano la musica di Benjamin Britten,
opportunità che il festival offre in occasione dei
cent’anni dalla nascita del compositore inglese: la
collana di Friday Afternoons, anche se composta
da Britten per cori scolastici, è certamente meno
immediata, sia per le difficoltà tecniche che per
l’umorismo più sottile, (inglese, diremmo) che la
pervade, ma Stefania Piccardi sa condurre i suoi
cantori con mano sicura a conquistare anche
questo obbiettivo.
Prezioso l’incontro tra i cori scolastici e i giovani,
SFORTU
CHI NON
ASSOCIAZIONE
49
diversi per età e formazione musicale, del Coro Giovanile
Italiano. Ormai calati dal giorno prima in un’atmosfera
totalmente corale, i ragazzi non hanno nulla di quelle orde
inquiete che mordono il freno quando le costringi alle
famigerate “lezioni concerto”, ma prestano un’attenzione che
vorresti trovare anche nel pubblico “adulto”: tanto più che si
tratta di un concerto molto impegnativo per l’ascoltatore, sia
nella parte antica che in quella moderna, secondo la formula
della doppia direzione adottata in questo ultimo biennio. Si
crea un meccanismo virtuoso. Per i ragazzi delle scuole medie
il CGI diventa subito un mito, un modello da imitare e, forse,
anche un sogno da coltivare: poterne, un giorno, far parte.
I giovani della “nazionale” sentono questa responsabilità e
danno il meglio di sé non solo nel concerto, ma anche negli
altri momenti. Ed è un trionfo il concerto finale, quando, a
coppie, i coristi del Coro Giovanile “adottano” uno dei sette
cori partecipanti e lo presentano al pubblico. Ne nasce molto
più di un concerto: una vera e propria festa musicale, con
qualche sorpresa, che semina entusiasmo e lascia in tutti la
voglia di tornare.
Il Festival di Primavera si conferma come lo specchio di una
realtà vivace e piena di promesse per la coralità italiana.
A confermarlo è il docente basco Basilio Astulez: «Da noi
– spiega – ci sono punte di eccellenza, ma non c’è una realtà
di cori scolastici così vasta e diffusa, né un festival come
questo. Torno a casa con rimpianto, ma anche con un po’ di
invidia».
conto dell’enorme mole di lavoro che giorno dopo giorno, ma
anche ora dopo ora, la macchina organizzativa –
sapientemente pilotata dai ragazzi di Feniarco, che guidano
con mano esperta – vive a Montecatini. Tutto organizzato nei
minimi dettagli, tutto preventivamente pensato e risolto.
Anche le ore trascorse a lavorare sono diverse… da docente,
quelle che si hanno a disposizione per portare a termine il
lavoro, sembrano sempre poche. Ma se il lavoro lo guardiamo
dalla parte del cantore ci si rende conto dello sforzo ma
anche della tenacia nel sostenere sei ore al giorno di canto (e
quando escono hanno ancora voglia di cantare!).
Ovviamente quello di Montecatini non rappresenta l’unico
traguardo del percorso formativo dei ragazzi di un coro di
liceo; ognuno di loro ha impegni concertistici e scolastici
propri, che rappresentano momenti di verifica assolutamente
indispensabili, ma sicuramente mette un segno indelebile nel
loro entusiasmo, conferma la loro passione e si sentono
davvero numerosi, non più soli. Non devono giustificare nulla
davanti ai loro compagni di scuola, scettici e inconsapevoli
dei risultati che un coro può dare, dall’aspetto musicale a
quello goliardico e divertente dello stare insieme (a
Montecatini arrivano centinaia di ragazzi con la stessa
comune passione; se solo potessero gridare insieme,
farebbero arrivare il loro suono nelle orecchie di tutti quelli
che ancora non hanno minimamente immaginato e capito
cosa voglia dire per loro questo prezioso impegno!). Conosco
le fatiche di chi, settimanalmente, deve spiegare e cercare di
…Mauro Marchetti
L’invidia di cui parla Basilio Astulez è
probabilmente anche la mia, quella di non aver
avuto, da ragazzo, le opportunità che oggi
hanno i nostri ragazzi, quelle opportunità
settimanali di ritrovarsi in uno spazio scolastico
e riunirsi per fare musica insieme attraverso il
canto corale. Il Festival di Primavera è
un’occasione unica, anche per il suo essere
evento unico in campo internazionale, per i ragazzi delle
scuole medie, superiori e dal prossimo anno anche
elementari. Condividere insieme un percorso, che inizia nelle
aule dei loro istituti, anche con mezzi di fortuna, grazie alla
caparbietà e agli innumerevoli sforzi che deve compiere il loro
direttore, e terminare nelle braccia dei docenti dei vari atelier.
Io che sono stato docente per due anni dell’atelier di musica
rinascimentale, ho potuto vivere e respirare le due facce del
ruolo di direttore di coro, viverla davanti ai quasi cento
ragazzi di quattro licei e poi, dopo i due anni, mi sono
portato dietro i “miei” ragazzi e mi sono messo accanto a
loro per dare una mano e seguire le loro espressioni vive nel
leggere e interpretare le linee guida e i consigli nel lavoro con
il docente. Il lavoro appassionato e coinvolgente del docente
dell’atelier rimane in ogni caso leggermente distante dalle
emozioni che si possono respirare se si è direttori dei cori che
arrivano a destinazione carichi e pronti per la full immersion
che attende i ragazzi. E quindi si riesce davvero a rendersi
far capire come può essere bello ed entusiasmante far parte
del coro del proprio liceo. Feniarco ha creduto in questo
sogno, nel sogno di tutti quei ragazzi che hanno nei loro
sguardi complici la certezza di sentirsi vivi, di respirare quel
canto che li porterà nel loro mondo, che vive, sì per due ore
settimanali, ma che rimarrà presente nell’animo per sempre.
Feniarco, con il forte e vivo contributo dell’Associazione
Regionale Cori della Toscana, della passione del suo
instancabile direttore artistico Lorenzo Donati, ha saputo
mescolare e adattare tutti gli elementi necessari, la passione,
la volontà, la forza del canto, e tutto ciò che rende unico il
coro, e si sono messi a disposizione delle migliaia di ragazzi
che anno dopo anno si sono visti nelle sale e nelle strade
della cittadina toscana, sempre disponibile ad accoglierli nel
modo migliore.
Le centinaia di ragazzi, provenienti da tutta Italia, sono state
distribuite, secondo le richieste e i suggerimenti che i loro
direttori hanno fornito all’organizzazione, nei vari luoghi e
I processi educativi sono
costruzione di percorsi che
sappiano proporre modelli e valori.
UNATO
N CANTA
50
sale di alberghi e strutture attrezzate, dove ad attenderli
c’erano i docenti predestinati al lavoro del proprio atelier.
Ogni docente ha in media ottanta ragazzi e dopo i primi
minuti di reciproca conoscenza si parte! Ogni atelier, con temi
che andavano da Händel al Vocal Pop, aveva docenti esperti e
indirizzati in quel genere proprio per le loro conoscenze ed
esperienze professionali. Le tre ore delle mattine, seguite da
quelle del pomeriggio, riuscivano a dare un senso a tutto il
progetto del singolo atelier che, passo dopo passo, arrivava
alla meta, all’obiettivo finale. Costruire una nitida fotografia
dell’idea originaria, generata da Feniarco e dalla sua
Commissione Artistica, con la scelta oculata di individuare il
docente adatto a quel ruolo e a quello stile.
I docenti Lorenzo Fattambrini, Cinzia Zanon, Maud HamonLoisance, Luigi Azzolini e Giorgio Ubaldi hanno sapientemente
guidato con mano esperta i loro ragazzi
nelle tante ore avute a disposizione e
nel concertone finale, vero tour de
force, una “notte di cori” arrivata
l’ultima sera nella sala del Palazzo dei
Congressi di Montecatini. La “macchia”
enorme dei colori delle divise dei
cantori ha dato esempio di grande
compostezza, di ordine e capacità
matura di saper ascoltare in silenzio e
con attenzione ben oltre le tre ore di musica! Probabilmente
da rivedere la formula del concerto finale che, dopo le
esecuzioni di un brano per ogni coro d’istituto, seppur
velocizzate intelligentemente da tutti i ragazzi Feniarco, e
dopo le esecuzioni dei tre brani di ogni singolo atelier, arriva
a coprire circa tre ore, e anche più, di musica corale. Una
proposta è stata già fatta, quella di dividere in due serate, in
due momenti ben distinti le due esecuzioni, e questo
agevolerebbe il tutto, rendendo anche più piacevole l’ascolto.
Si darebbe modo, ai singoli cori, anche di poter eseguire più
di un brano e dare quindi un risalto maggiore al loro lavoro.
Significativo è stato anche assistere all’incontro, che
sembrava quasi spontaneo, dei ragazzi dei vari cori arrivati
sul sagrato della Chiesa di Santa Maria Assunta per la loro
prima conoscenza, il loro primo approccio di condivisione, al
loro primo “coro” di insieme, e alla sobria presentazione
ufficiale di tutta la manifestazione, docenti e direttori
compresi, con tanto di ballo e trenino finale. Ma efficace e
coinvolgente lo è stato altrettanto il momento del concerto
della scuola australiana di Sidney, arrivata con orchestra,
gruppo strumentale di fiati e coro. Vedere stringersi insieme
come se fossero un unico esecutore che partiva dal palco e si
legava alla platea è stata una cosa molto suggestiva e
coinvolgente per tutti i ragazzi.
La cronaca dei tre giorni del Festival di Primavera è racchiusa
sicuramente nei cuori dei ragazzi, più che nelle parole di un
direttore che ancora si entusiasma e che insieme a loro
dedica parte della sua vita a trasmettere i sani valori del
cantare in coro. Questo i ragazzi lo hanno compreso bene,
Sorprendente, entusiasmante, costruttiva
e memorabile l’esperienza del festival di
Montecatini Terme.
dopo i normalissimi momenti iniziali di scetticismo, quello che
ancora avvolge molti dei loro compagni, quelli che ancora
oggi pensano che cantare in coro sia “da sfigati”… Questa
esperienza di Montecatini è servita a fortificare ancora di più
la loro consapevolezza che tutto sommato la “sfiga”, o meglio
ancora il loro rammarico, sta nel fatto che loro stessi, quelli
che cantano, non riescono invece a poter trasmettere, ai veri
sfigati che non cantano, la loro passione e la loro gioia.
Dopo undici anni di Festival, riservato alle sole scuole medie
e superiori, ora si sente il bisogno di partire ancora da più in
basso, come età s’intende(!), e dedicare uno spazio anche alle
scuole primarie. Sarà dura ma si confida nelle capacità di
tutta la macchina organizzatrice e, ne sono convinto, saremo
qui tra qualche anno a commentare un arco scolastico che
ASSOCIAZIONE
arriverà fino ai cori universitari o addirittura dei conservatori
e istituti musicali. Sarebbe davvero una grande conquista,
che permetterà anche una forte sinergia tra le istituzioni e
tutta la coralità rappresentata dalle associazioni regionali e
da Feniarco. Il festival non ha mai avuto problemi di numeri,
lo testimoniano le presenze dei ragazzi.
La cartolina del Festival di Primavera andrebbe spedita a chi
ancora fa fatica a immaginare “un coro in ogni scuola”, come
recitava lo slogan di qualche anno fa, una cartolina che
racchiuda e che disegni i giorni intensi e ricchi di note
cantate, di fiati corti per le paure, di emozioni forti, di
condivisione, di gusto musicale, di strette di mano e abbracci
finali, di lacrime asciugate e foto taggate, di sguardi lontani e
rubriche da aggiornare.
…e Giulia Di Censi (alunna dell’Istituto Kant di Roma)
Sorprendente, entusiasmante, costruttiva e memorabile
l’esperienza del festival di Montecatini Terme a cui diciassette
coriste del progetto Kantiamo insieme del nostro istituto
hanno partecipato dal 17 al 20 aprile. Al monito di “la scuola
si incontra cantando” la manifestazione, giunta alla sua
undicesima edizione, promossa e organizzata da Feniarco, si
propone ogni anno di dare l’opportunità alle realtà corali di
scuole medie e istituti superiori di tutta Italia di condividere e
consolidare la loro dedizione al canto corale nella pittoresca
cittadella toscana. Nelle prime tre giornate, intense e
coinvolgenti, nel corso di tre ore di lezione mattutine e tre ore
di lezione pomeridiane, le coriste kantiane hanno seguito
l’atelier diretto dalla docente francese Maud Hamon-Loisance
e intitolato Games of sound, plays on words, dedicato alle
combinazioni di suoni e voci, il più originale e alternativo,
occasione stimolante per perfezionare le capacità e la tecnica
canora delle nostre cantanti. Gli altri gruppi di coristi liceali
provenienti da tutta Italia sono stati inseriti in altri quattro
diversi atelier dedicati a differenti generi musicali. Ogni atelier
nel corso delle tre giornate ha preparato tre diversi brani
cantati poi nella serata finale a conclusione delle singole
esibizioni di ogni coro. Sebbene sia stato indubbiamente alto
il livello tecnico-artistico di ogni gruppo della manifestazione,
51
il coro kantiano con la sua genuinità, passione e costante
impegno ha saputo dimostrare di essere degno del festival: il
brano Sister Act si è rivelato un vero e proprio cavallo di
battaglia ed è stato meraviglioso ricevere l’applauso di quegli
studenti che condivide la medesima emozione del canto
corale. Ma oltre all’incontro con i cori studenteschi italiani, il
festival ha permesso contatti a livello internazionale: la
seconda sera infatti si è esibita per tutti i partecipanti al
festival una band, con anche una componente corale,
proveniente da Sidney, città nella lontana Australia con la
quale a fine spettacolo si è cantata la nota canzone Funiculì
funiculà, tipicamente nostrana, per darle un nostro caloroso
saluto italiano. Con il debutto a Montecatini è stato raggiunto
un grande traguardo, le ragazze del progetto Kantiamo
insieme hanno avuto modo di veder realizzati quegli obiettivi
che da tempo si auspicavano di esaudire. Passo dopo passo,
lezione dopo lezione, esibizione dopo esibizione, il nostro
coro migliora, si raffina, perfeziona e cresce. Nonostante sia
stato fondamentale il talento e la dedizione di ciascuna,
immensa è la gratitudine per il loro maestro, Mauro Marchetti,
paziente ed esperto, che ha saputo insegnare la meravigliosa
arte del canto alle sue coriste speranzose di averlo reso
soddisfatto del suo prezioso e importante lavoro che con
fatica e simpatia ha condiviso con le sue allieve. Ovviamente
grande sostegno e punto di riferimento per le ragazze è stato
il professor Giannetti, il vigile e responsabile accompagnatore
senza il cui sostegno le ragazze non avrebbero raggiunto lo
stesso magnifico successo e senza la cui collaborazione non
sarebbe mai stato possibile vivere l’esperienza di Montecatini
per cui è stato fondamentale anche il contributo della
professoressa Forconi che non ha potuto partecipare in prima
persona alla manifestazione, ma di cui è stata una
perseverante promotrice e organizzatrice. Il coro kantiano
certamente si augura di poter ripetere la meravigliosa
avventura anche nell’anno avvenire e nei successivi, con il
desiderio di aver sempre maggiore spazio e sostegno da
parte della scolaresca kantiana forse poco consapevole del
grande potenziale artistico e canoro che il suo coro sta
dimostrando di possedere.
CD
CD
CHORALITER
Bando di partecipazione
Feniarco intende selezionare registrazioni
dotate dei requisiti necessari per essere allegate alla rivista nell’anno 2014.
Al presente bando potranno partecipare tutti
i cori italiani. Le registrazioni, inedite o edite in
tiratura limitata, dovranno essere state realizzate, alla data di scadenza del bando, da non più di
5 anni e dovranno rispondere ai seguenti criteri:
> avere carattere unitario, presentandosi come
un progetto focalizzato su un tema omogeneo
e artisticamente significativo, tale da poter
essere oggetto di un dossier della rivista;
> essere di qualità sul piano dell’esecuzione, della registrazione e del repertorio proposto;
> avere una durata non inferiore ai 50
minuti.
Le registrazioni andranno inviate a
Feniarco entro il 31 maggio 2014 unitamente a un curriculum del coro e del direttore e una dichiarazione di autenticità dell’esecuzione.
Una commissione d’ascolto costituita dal direttore della rivista e da due componenti della commissione artistica nazionale valuterà le registrazioni pervenute, formulando una graduatoria in
base ai predetti criteri.
La redazione si riserva la possibilità di utilizzare anche parzialmente le registrazioni pervenute,
pubblicando un CD antologico.
I costi di realizzazione del master sono a carico
dei cori. Feniarco provvederà alla duplicazione,
alla stampa dell’eventuale booklet e alla diffusione. Il coro interprete del CD selezionato fornirà
inoltre una liberatoria che autorizzi Feniarco alla pubblicazione e diffusione, rinunciando ai diritti che saranno esercitati da Feniarco in quanto editore.
Per le registrazioni eventualmente già edite,
dovrà essere allegata una liberatoria da parte
dell’editore, che autorizzi alla duplicazione e diffusione.
Al coro interprete del CD pubblicato saranno riservate 50 copie omaggio della rivista e ulteriori 100
copie del CD.
CRONACA
53
A LEZIONE DALLA GIURIA
Il XII Concorso Internazionale di Maribor
di Rossana Paliaga
È il più giovane tra i concorsi della rete internazionale del
Grand Prix ed è arrivato quest’anno alla dodicesima edizione,
raggiunta alternandosi con cadenza biennale al concorso
nazionale. La sua voglia di dialogare con il mondo corale si
riflette nell’approccio del giovane e dinamico direttore
artistico Matija Varl, che insieme ai membri del comitato
organizzativo del Fondo nazionale sloveno per le attività
culturali si impegna in maniera equivalente per garantire ai
cori partecipanti condizioni ottimali per una buona resa e per
trasformare il concorso in un’occasione di incontro tra i
rappresentanti di istituzioni e concorsi corali da tutto il mondo
che partecipano sempre numerosi e vengono accolti da
un’atmosfera particolarmente cordiale.
Se per i singoli ospiti e appassionati il viaggio nella verde
Slovenia può essere un’esperienza facilmente affrontabile, per
un coro gli spostamenti, soprattutto di questi tempi e magari
da paesi lontani, possono creare difficoltà non superabili che,
unite ad altri imprevisti, hanno imposto ad alcuni gruppi
selezionati per il concorso la dura scelta di rinunciare. Dopo
tre defezioni, il concorso ha potuto infine mettere in campo
sei gruppi, ma ha trovato anche il modo di integrare il
programma con un gradito arricchimento, ovvero
coinvolgendo alcuni membri della giuria nella conduzione di
laboratori su argomenti che rientrano nelle loro competenze
specifiche. Il presidente di giuria, lo storico basso dei King’s
Singers Stephen Connolly, ha così trattato l’argomento della
comunicazione sul palcoscenico, Shiu-wai Tong ha curato
un’esotica introduzione alla musica corale cinese,
Laurent Gendre ha invece proposto un esempio base
di gestione delle prove di un coro.
La cornice degli eventi competitivi è stata all’insegna
della cultura popolare, con la quale gli organizzatori
hanno dato il benvenuto a partecipanti e pubblico nel
concerto di apertura, presentando tre diversi aspetti
del folclore sloveno da tre regioni del paese, a partire
dal canto coreografato dei bambini di S̆entjernej,
professionali nel loro programma curato nei minimi dettagli.
L’angolo etnografico con i suoni autentici provenienti dalla
fine dell’Ottocento è stato proposto dai Murnovi godci,
gruppo che utilizza strumenti antichi tra i quali una
fisarmonica datata 1890, mentre ha concluso la carrellata
introduttiva la tradizione familiare con il trio Volk Folk, nel
quale cantano e suonano i membri di una famiglia di Ilirska
Bistrica. Danze e tradizioni di Slovenia hanno coerentemente
caratterizzato anche la cerimonia finale delle premiazioni con
le esibizioni giocose del gruppo folcloristico accademico
S̆tudent di Maribor.
La musica popolare è un prezioso bene di scambio e di
conoscenza reciproca che il concorso di Maribor ha utilizzato
aggiungendo un’ulteriore nota caratterizzante e di importanza
divulgativa, spesso costruttivamente inserita nei regolamenti
delle competizioni, ovvero la valorizzazione del patrimonio
corale colto della nazione ospitante attraverso i brani
d’obbligo. Il regolamento del concorso di Maribor prevedeva
infatti l’esecuzione di un brano dell’icona rinascimentale
slovena, Jacobus Gallus, e di un brano contemporaneo
dell’affermata Mojca Prus che ha firmato i tre arrangiamenti
da canti popolari sloveni (in linea con il fil rouge tematico del
La cornice degli eventi competitivi
è stata all’insegna della cultura
popolare.
concorso) interpretati dai cori in competizione.
Il concorso di Maribor sembra portare fortuna ai cori svedesi
che anche negli anni passati hanno ottenuto ottimi risultati e
che quest’anno hanno nuovamente portato la propria
bandiera sul gradino più alto del podio. Il vincitore del Grand
Prix è stato infatti il coro da camera del ginnasio musicale di
Stoccolma, che ha inoltre conquistato il premio per la migliore
interpretazione di un brano di Gallus. La direttrice Helene
Stureborg ha trovato il modo di ottenere da un coro grande e
giovane attenzione e disciplina, ma rinunciando a
temperamento e coinvolgimento nelle interpretazioni.
54
Il risultato in tutte le sezioni del concorso è stato un suono
compatto, equilibrato, ma espressivamente distante, che
tuttavia non ha distolto la giuria dalla considerazione positiva
meritata da un buon lavoro d’insieme.
Il secondo miglior classificato è stato il Coro del conservatorio
di Ljubljana diretto da Ambroz̆ C̆opi, complesso altrettanto
giovane e soprattutto carico di una grande energia, riversata
sul palco fin dal concerto di apertura con un’esibizione
scanzonata di arrangiamenti pop che gli ha fatto
conquistare il premio del pubblico. La giuria ha
premiato le interpretazioni curate, l’approccio
gioioso, il suono fresco, la vivacità agogica,
espresse in un programma molto vario che ha
privilegiato il repertorio nazionale dando spazio
anche alle giovanissime generazioni come il
compositore Matej Kastelic, che è oltretutto uno
dei coristi. Il pregio del coro è stato al tempo
stesso anche il difetto che non lo ha portato alla vittoria: lo
slancio ha superato spesso la riflessione, con qualche
sbavatura negli attacchi e diverse iniziative personali (vocali e
di postura) di coristi particolarmente esuberanti.
Un meritato terzo posto ha premiato il coro misto Resonans
con tutti dalla Polonia, vincitore anche di un premio speciale
per il programma e la performance al concerto di apertura,
dedicato interamente alla letteratura corale polacca del
Novecento con arrangiamenti di brani popolari, e del premio
per la migliore interpretazione del brano d’obbligo, grazie ai
passaggi molto armoniosi tra i contrasti ritmici e dinamici del
brano di Mojca Prus Sürka je tisa, che attinge alla tradizione
slovena maggiormente esposta all’influsso musicale della
vicina Ungheria. Il coro diretto da Waldemar Galazka si è
distinto per equilibrio vocale e morbidezza del suono, inoltre
per un’intensa partecipazione dei coristi.
Werner Glögger e il suo Kammerchor Alumni Heidelberg dalla
Germania, che un piccolo scarto ha portato al quarto posto
nella graduatoria finale, hanno dimostrato in concorso un
approccio “artigianale”, lavorando su tutto il programma con
il cesello di interpretazioni controllate, ponderate, pulite, a
volte fino allo schematismo.
Ex aequo si è piazzato al quarto posto il Tartu Ülikooli, coro
universitario femminile estone dal suono limpido, ma al quale
la direttrice Triin Koch non è riuscita ad aggiungere anche le
necessarie doti espressive. Il programma, caratterizzato
dall’attenzione al ricco patrimonio nazionale, ha dedicato
particolare attenzione all’amatissimo Veljo Tormis.
Il coro è stato considerato il miglior gruppo a voci pari nel suo
confronto con l’altro organico a voci pari, il gruppo maschile
Männerstimmen Basel. Quest’ultimo è ritornato in Svizzera
soltanto con il diploma di partecipazione, ma ha lasciato un
segno nell’edizione del concorso per originalità e simpatia,
espresse fin dall’immagine, dato che i giovani coristi hanno
deciso di adottare un abbigliamento retrò, con pantaloni al
ginocchio e bretellati, che si ispira alla moda della prima metà
del secolo scorso. Il coro diretto da Oliver Rudin è composto
da ex coristi del coro di voci bianche Knabenkantorei di
Basilea, capaci di cantare con il cuore, ma spesso con qualche
imprecisione e curiosi utilizzi del falsetto nelle voci superiori,
fattori che non li hanno premiati nelle graduatorie, ma hanno
contribuito a renderli i beniamini del pubblico.
La giuria si è dichiarata completamente unanime nelle
valutazioni e particolarmente attenta alle scelte di
programma, spesso determinanti nel risultato finale.
Da grande comunicatore, il presidente di giuria si è rivolto
Un’occasione di incontro tra
i rappresentanti di istituzioni e
concorsi corali da tutto il mondo.
direttamente ai cori e ai loro direttori, sottolineando come il
concorso sia soprattutto una festa della coralità e invitandoli
a non dimenticare mai che con il canto si intende in primo
luogo trasmettere un messaggio, perché si sale sul palco con
lo scopo di comunicare ed emozionare. È stato questo
l’argomento del suo laboratorio, concentrato sui repertori che
maggiormente risentono dell’incapacità di molti coristi e
direttori di trovare il modo di conciliare la precisione con la
vivacità di un’interpretazione convincente, ovvero letteratura
rinascimentale e il sempe più diffuso vocal-pop.
Sulla base della grande esperienza di un gruppo che fa
scuola in questo campo, ovvero i King’s Singers, Connolly ha
trovato il modo, con consigli semplici ma di efficacia
immediata, di dimostrare come trasformare il suono e
l’impressione data da un’esecuzione. Si tratta
fondamentalmente di prendere coscienza dell’interazione tra
suoni, gesti, mimica, ma anche dell’importanza delle parole,
CRONACA
che sono fatte per raccontare in musica, non per accompagnare il suono.
Per Connolly cantare è come «parlare guardando negli occhi» perché non
canto «per divertirmi, ma per emozionare chi ascolta». Ovviamente
l’espressione personale è subordinata all’intento del gruppo, che deve
trasformarsi in un organismo unico, dove ogni singolo corista vive
l’interpretazione allo stesso modo degli altri.
«Molte volte in sala siedono parenti e amici che sono venuti ad ascoltarti
perché li hai invitati; magari non sono assolutamente appassionati di
canto corale e in cuor loro preferirebbero trascorrere la serata altrove, ma
la nostra sfida deve essere conquistare proprio il pubblico che non si
aspettava di entusiasmarsi. Dobbiamo portare nel canto il calore e i colori
che utilizziamo quando raccontiamo qualcosa, far vivere la musica», ha
ricordato giustamente il simpatico mentore, il cui insegnamento si riferisce
soprattutto al lavoro dei gruppi vocali, che hanno più possibilità
(e necessità) di utilizzare anche il linguaggio del corpo. Sempre a
proposito della capacità di stare sul palcoscenico, Connolly ha fornito ai
partecipanti alcuni suggerimenti basilari ma che troppo spesso vengono
trascurati, ad esempio sull’errore comune di spostare involontariamente
l’attenzione dall’attacco alla
veemenza del respiro che lo
precede oppure di intonare
l’accordo “per verifica” prima
di iniziare («è come invitare
qualcuno a casa e accoglierlo
mentre stiamo ancora
spolverando!»), come anche di
cantare in autonomia senza
considerare l’indispensabile atteggiamento di ascolto nei confronti degli
altri coristi, mentre dovremmo tutti aspirare alla simbiosi con il nostro
vicino («devi essere la persona accanto a te»).
Il pubblico del concorso di Maribor è andato in un certo senso a scuola di
coro. A questo ha contribuito, oltre ai laboratori, anche l’impostazione
generale del concorso, che ha evidenziato, se ancora ce ne fosse bisogno,
l’atteggiamento di grande rispetto e considerazione per la cultura corale.
Gli organizzatori hanno voluto infatti fornire un’occasione di arricchimento
anche con le accurate presentazioni dei programmi dei singoli cori durante
la competizione, per fornire una “guida all’ascolto” al corista e a chi al
concorso partecipa semplicemente da appassionato spettatore, con il
desiderio di conoscere nuovi panorami musicali.
55
La musica popolare è un prezioso
bene di scambio
e di conoscenza reciproca.
56
VINCE IL MODERN STYLE
CORI GIOVANILI ALLA RISCOSSA
di Giuseppe Calliari
Sono due i fattori sorprendenti dell’edizione 2013 del
Concorso corale di Vittorio Veneto, il più accreditato tra i
nazionali. Cade ogni pregiudizio nei confronti dei generi e si
fanno strada le formazioni giovanili. Fino a non molto tempo
fa sarebbe stato impensabile un premio Efrem Casagrande a
una coreografia canora che porta dritto al musical o al varietà
televisivo. Così come restava improbabile imbattersi in
formazioni corali giovanili. La storia dei concorsi la si poteva
descrivere come la progressiva conquista di
spazio della polifonia, in un paesaggio corale
che tra le voci bianche e i gruppi maturi
mostrava un vuoto un po’ dappertutto. Ebbene,
la recentissima edizione di Vittorio Veneto parla
chiaro e nuovo: su venti cori concorrenti
rappresentano le nuove generazioni non solo le
cinque formazioni iscritte alla categoria
specifica, ma anche numerose altre, e la
capacità performativa dei gruppi giovanili cresce nei repertori
aperti ai linguaggi meno classici. Entriamo nel vivo.
Per la giuria presieduta da Paolo Bon – con lui Manolo Da
Rold, Sandro Filippi, Franca Floris, Mauro Marchetti e il
segretario Giorgio Mazzuccato – non è stato facilissimo
scegliere nel concerto finale tra le prove esecutive della
sezione femminile del Coro Eos di Roma, diretto da Fabrizio
Barchi, di Janua Vox Accademia Vocale di Genova, diretta da
Roberta Paraninfo, di IMT Vocal Project di Thiene, diretto da
Lorenzo Fattambrini. A maggioranza, in votazione segreta, ha
espresso la preferenza per quest’ultimo ensemble, la cui
versatile performance era stata sottolineata dal più fragoroso
applauso del pubblico accorso al Teatro Da Ponte. Nel più
puro divertissement le ragazze, il giovane tenore e il maestro,
la cui voce baritonale mima impeccabilmente il pizzicato del
contrabbasso, mettono in scena in ottima elaborazione
polivocale a cappella e in vivaci movimenti coreografici
canzoni di successo (da In cerca di te a Viva la Gaga).
Il complesso femminile romano esibisce una trasparenza
quasi strumentale, di sonorità flautate che fanno pensare alla
Glassarmonica, alle prese con il repertorio contemporaneo
(serio e leggero, da Mis̆kinis a Rodgers e Kramer) o con
quello romantico (da Verdi a Brahms). Nella timbrica
disincarnata, tenacemente perseguita dal direttore, la
nitidezza incantatoria dell’evento sonoro giunge al punto di
frenare l’evento musicale. Al contrario la plasticità dinamica
ricercata in termini quasi teatrali dal complesso genovese, alle
prese con azzardi avvincenti come Leonardo Dreams e ancora
meglio con Remembering Martha, patisce inevitabili perdite di
omogeneità tra l’agguerrita sezione femminile e la meno
formata sezione maschile. Fin qui le eccellenze, pur nei piccoli
distinguo. Ora le note di merito.
Il giovane direttore Francesco Grigolo, cui è andato il premio
speciale per qualità direttoriali, ha saputo nobilitare la
categoria più tradizionale, quella del canto alpino virile,
trasmettendo al suo Gruppo Corale di Bolzano Vicentino una
apprezzata ricerca di fraseggio. Da Gorizia è stata molto
Cade ogni pregiudizio nei confronti
dei generi e si fanno strada le
formazioni giovanili.
gradita la partecipazione del bel coro misto sloveno Lojze
Bratuz̆, diretto da Bogdan Kralj, formazione che affronta il
repertorio tradizionale nelle elaborate realizzazioni polivocali
di ottimi autori della stessa area. Nel popolare, con una bella
scelta di ninne-nanne, e poi nel giovanile con la Missa brevis
di Delibes, ha trovato attenzione il coro scolastico di voci
bianche (quest’anno la categoria specifica era esclusa)
Voceincanto di Arezzo, diretto da Gianna Ghiri: nei due diversi
approfondimenti monografici il gruppo, allargato ai
piccolissimi, ha dimostrato reattività.
Alessandro Kirschner con il PadovaVocalEnsemble si è messo
alla prova nel madrigale, uscendone con le ossa intere.
CRONACA
L’Ensemble femminile Fonte Gaia di Rovagnate (Lecco) diretta da Flora
Anna Spreafico è uscita a sua volta intera dalla prova nel sacro, da de
Victoria a Mendelssohn. Bene ha fatto il gruppo vocale giovanile
diretto da Luciano Borin, il Novo Concento di Conegliano, gruppo
femminile molto giovane impegnato con scioltezza in pagine
americane, con buon inserimento degli strumenti ad arco accanto al
pianoforte. Una segnalazione speciale, oltre al primo parimerito nella
categoria cori giovanili, ha ottenuto l’esecuzione de L’album à colorier
composto nel 1948 dal belga Jean Absil, esplorazione stilistica
attraverso un caleidoscopio di immagini e di caratteri, con non piccolo
ruolo della preziosa scrittura pianistica: interprete (in lingua originale)
il lodevole Coro dell’Istituto Musicale Opitergium di Oderzo, diretto da
Roberto Brisotto, ancora una formazione di giovanissime voci.
Infine qualche considerazione generale. Se vince il modern style, non
significa che si è buttata dietro le spalle la grande storia musicale
europea. Senza negare che il rischio di un imperdonabile oblio è,
nella civiltà dell’immagine e del consumo, non poco reale, non si può
misconoscere la grande capacità di approfondimento e impegno che
ogni espressione musicale corale porta con sé: quella viva passione,
senza la quale l’impegno non si dà, trova oggi alimento anche in
generi prima negletti dagli ambiti concorsuali.
In questo senso Vittorio Veneto 2013 segna un importante punto di
riferimento. Se la lingua inglese la fa da padrona nei nuovi repertori,
sarà bene (lo suggeriva Giorgio Mazzuccato) trarre dall’ombra quella
buona letteratura corale che anche il nostro Novecento ha prodotto: è
in fondo responsabilità dei buoni direttori di coro farsi ricercatori e
scopritori di testi oltre che buoni forgiatori di voci.
Il limite di età del giovanile a venticinque anni pone l’una accanto
all’altra (in assenza della categoria Voci bianche) formazioni
anagraficamente e vocalmente molto eterogenee. Se, come appare
con grande soddisfazione, si sta aprendo finalmente nella realtà
italiana una primavera di cori giovanili, federazioni e concorsi avranno
come primo compito la loro crescita e diffusione, individuando livelli
differenziati di repertori e di categorie.
Il popolare tradizionale appare stantio, nonostante la buona iniezione
di idee che qualche direttore sa portare: la magra partecipazione al
concorso è segno che i buoni cori perseguono altre strade. Lo stesso
vale per i cori polifonici maturi, che oggi in più realtà nazionali sanno
intraprendere progetti di ricerca e di proposta autonoma. La totale
assenza al concorso di formazioni corali trentine (si passi la
digressione sul mondo che più mi è familiare) sembra attestare
queste linee di tendenza.
Infine, Paolo Bon pensa profondamente che vada ridefinita in
particolare una categoria concorsuale, per scongiurare la perdita
dell’orizzonte storico. Si dice dell’armonizzazione del canto popolare
che andrebbe riportata alla nozione etnomusicologica di fonti orali; è
necessario dare un segnale perché venga colto il valore di ricerca sul
patrimonio arcaico, quel lavoro che il presidente della giuria definisce,
con efficacia di immagine, archeologico: il vaglio delle stratificazioni
che poi rivivono, assunte criticamente, nella elaborazione.
57
47° CONCORSO NAZIONALE CORALE
“TROFEI CITTÀ DI VITTORIO VENETO”
Cat. A - Progetto-programma:
musiche originali d’autore
1° ex aequo
Coro Eos di Roma
Janua Vox Accademia Vocale di Genova
2° non assegnato
3° ex aequo
Ensemble femminile Fonte Gaia di
Rovagnate (Lc)
Padova Vocal Ensemble di Padova
Cat. B - Progetto-programma: Canto popolare
1° IMT Vocal Project di Thiene (Vi)
2° Coro Lojze Bratuz̆ di Gorizia
3° ex aequo
Voceincanto di Arezzo
Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi)
Cat. C - Progetto-programma riservato
a cori maschili
1° Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi)
2° Castellago Voces di Rovagnate (Lc)
3° Coro Monte Venda di Galzignano Terme (Pd)
Cat. D - Progetto-programma: cori giovanili
1° ex aequo
Coro Eos di Roma
Coro giovanile dell’Associazione dell’Istituto
Musicale Opitergium di Oderzo (Tv)
2° Voceincanto di Arezzo
3° Gruppo vocale giovanile Novo Concento di
Conegliano (Tv)
Altri premi
Premio per il progetto-programma più
interessante: Coro giovanile
dell’Associazione dell’Istituto Musicale
Opitergium di Oderzo (Tv)
Premio al direttore di coro dalle particolari doti
interpretative: Francesco Grigolo, direttore
del Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi)
Premio al miglior coro veneto iscritto all’Asac:
Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi)
Premio al miglior coro scolastico: Scuola in…
canto di Cisano Bergamasco (Bg)
19° Gran Premio Efrem Casagrande
offerto da Feniarco:
IMT Vocal Project di Thiene (Vi)
diretto da Lorenzo Fattambrini
58
QUANDO LA TECNICA INCONTRA IL CUORE
52° Concorso Internazionale di canto corale Seghizzi
di Rossana Paliaga
È successo. Imprevedibile, perché in un gruppo amatoriale si
può preparare una buona esecuzione, ma non si può
controllare fino in fondo l’emotività dei coristi sul palco.
Inatteso, perché in concorso è meglio scegliere brani meno
immediati, ma con i quali esibire, anche rischiando, le proprie
capacità, e perché cantare davanti a una giuria non permette
errori e solo il supporto di una buona tecnica può garantire
un risultato migliore, magari mettendo da parte la pericolosa
irrazionalità del coinvolgimento. Eppure l’emozione è entrata
da protagonista sul palcoscenico del 52º concorso
internazionale di canto corale C.A. Seghizzi. La realtà
competitiva è un mondo particolare, dove la tensione e le
aspettative pesano sulle esibizioni e dove al posto dello
scambio con il pubblico ci si trova a cantare davanti al tavolo
degli esperti, spesso per regola senza nemmeno il conforto
dell’applauso alla fine di ogni brano; per questo anche chi
ascolta ha grandi aspettative rispetto alla qualità
dell’esecuzione, ma non pretende di trascendere il lato
razionale dell’ascolto, che pure offre spunti di grande
interesse, crescita culturale, esperienza. La scintilla spontanea
e istintiva che infiamma la catasta accuratamente ordinata
della grande qualità non è uno dei fattori misurabili dalla
giuria, ma fa la differenza in un modo percepibile
distintamente anche dal meno esperto degli ascoltatori in
sala. L’edizione 2013 dello storico concorso
goriziano rimarrà memorabile per la magia di
questa rara combinazione, oltre che per la
quantità e straordinaria varietà di provenienze
dei cori partecipanti. I numeri del Seghizzi
sembrano non risentire della crisi lamentata da
molti altri organizzatori di concorsi internazionali
di alto livello; il concorso ha superato a gonfie
vele la boa del cinquantenario, portando
quest’anno a Gorizia ventisette cori, di cui diciotto in
concorso, abbracciando non soltanto l’Europa centrale e
occidentale, la grande tradizione dei paesi scandinavi e delle
repubbliche baltiche, l’immancabile Oriente, Stati Uniti e
America latina, ma anche paesi la cui presenza è più
inconsueta come la Bosnia Erzegovina, la Turchia e Israele.
Aggiungendo l’ulteriore pregio di aver ascoltato programmi
interessanti rispetto a quelli che sono ormai diventati
standard da competizione, si compone il quadro di un
concorso che ha regalato molte soddisfazioni.
La più grande è stata quella conquistata con impegno ed
entusiasmo dal coro Portland State Chamber Choir (dove la
definizione di “coro da camera” deve essere intesa secondo i
parametri americani), vincitore del Grand Prix Seghizzi. Il coro
diretto “amichevolmente” ma con grande efficacia da Ethan
Sperry ha convinto fin dalla prima esibizione per la capacità
di modellare il suono a seconda delle esigenze di stile,
passando dalla delicatezza di un’interpretazione emozionante
di A boy and a girl di Whitacre alla pienezza di suono e alla
gestione consapevole del vibrato in un brano di Rachmaninov.
Il suono intenso, morbido, omogeneo, unito a un approccio
emozionale, ma lucido e sensibile, è stato apprezzato in
maniera particolare in una travolgente esibizione nella
categoria negro spiritual, non ha deluso per forza ed
espressione nemmeno nel popolare e ha conquistato il primo
premio anche nella categoria con repertorio romantico,
comprensiva di premio speciale per la migliore interpretazione
di un brano verdiano nell’anno dell’anniversario (il Pater
Noster).
La competizione finale per la conquista del Grand Prix ha
evidenziato le qualità dei cori meglio classificati nelle
categorie principali (contemporaneo e romanticismo –
quest’anno sono state temporaneamente annullate le
categorie di musica rinascimentale, barocca e classica) con un
confronto di altissimo livello nel quale si è piazzato con
grande merito al secondo posto il Coro giovanile nazionale
norvegese diretto da Tone Bianca Sparre Dahl, che ha guidato
la musicalità dell’armonioso insieme di voci educate fino al
La realtà competitiva è un mondo
particolare, dove la tensione e le
aspettative pesano sulle esibizioni.
prestigioso traguardo del primo premio nella categoria con
programma contemporaneo.
È stato un terzo posto “con lode” quello ottenuto dal coro
misto lettone So-la che ha sviluppato di categoria in categoria
un percorso molto coerente e professionale, con una resa
costante, impegnandosi sempre al massimo con serietà e
concentrazione. Nella forte concorrenza i dettagli fanno la
differenza tra cori di alta qualità e probabilmente il piccolo
squilibrio tra le voci femminili e la minore incisività (numerica)
della sezione maschile ha sottratto qualche punto nelle
votazioni, ma per ottenere comunque l’ottimo piazzamento di
due secondi premi nel contemporaneo e nel popolare
(categoria unificata al jazz nelle valutazioni). Se ogni coro è il
ritratto del proprio direttore, questo vale in modo particolare
CRONACA
per questo gruppo diretto con grande musicalità e capacità
da Kaspar A damsons, il cui gesto molto personale,
esuberante ma al tempo stesso perfettamente calibrato,
autorevole ed espressivo ha stabilito con i coristi un legame
intenso, carico di energia. La varietà e l’eloquenza del gesto
che sottolinea e valorizza ogni dettaglio del fraseggio, la cura
meticolosa e sensibile nell’analisi dei brani, la raffinatezza
delle scelte di repertorio non sono passati inosservati: la
giuria ha infatti assegnato al direttore il premio speciale
Nuovi Talenti.
Ottime anche le esibizioni degli altri due cori scelti per il VI
Trofeo delle Nazioni, ovvero il coro universitario indonesiano
Brawijaya, al quale la competente e sempre elegantissima
direttrice Ira Purnamasari ha dato un’ottima consapevolezza
tecnica e una solidissima preparazione, e l’ungherese Schola
Cantorum Sophianensis diretta da Valér Jobbagy, coro dalle
ottime capacità e compatto nel suono, ma che
insiste su prolissi canoni accademici, poco favorevoli
all’espressione.
Tra i molti cori non selezionati per la fase finale,
meritano di essere citati il coro giovanile moldavo
Cantemus per la disciplina e la capacità di affrontare
con maturità e capacità programmi impegnativi, doti
per le quali il direttore Denis Ceausov è stato
insignito del premio Usci come miglior direttore,
l’entusiasmante ottetto misto sloveno Jazzva, che si
dedica specificamente al repertorio jazz e pop e lo
ha dimostrato con una performance accattivante e ben
costruita, musicalmente interessante ed eseguita
magistralmente con un equilibrio perfetto delle voci e
padronanza della scena. Merita di essere segnalata anche
l’esibizione del coro femminile Multifariam, unico
rappresentante della coralità regionale e nazionale, che la
direttrice Gianna Visintin ha iscritto esclusivamente alla
categoria con programma contemporaneo, rivelando in scena
il solido controllo di un lavoro accurato e una buona gamma
dinamica, che si sono tradotti nel primo premio Voci femminili
e nel premio speciale Feniarco.
La vocazione del Seghizzi a unire il mondo nel segno della
59
coralità offre al pubblico lo spettacolo della vivace rassegna
dedicata alle elaborazioni di canti popolari (quest’anno una
maratona di quattordici cori!), ma permette anche di cogliere
l’occasione per capire quanto la coralità possa assumere
aspetti e significati diversi rispetto alla cultura, la tradizione e
il contesto di provenienza. Tutti conoscono ad esempio
l’abitudine di cantare in coro e la grande considerazione della
quale la coralità gode nei paesi baltici, ma certamente è meno
noto il ruolo del canto corale in Israele. A questo proposito le
coriste del coro femminile Naama spiegano come il paese stia
vivendo nell’ultimo decennio una fioritura dei cori di voci
bianche con ottimi gruppi e maestri. Il problema è tuttavia
mantenere l’interesse per il canto anche in seguito, per
garantire uno sviluppo equivalente dei cori di adulti che in
questo momento rappresentano un settore piuttosto debole a
livello amatoriale. I repertori attingono alla letteratura
L’edizione 2013 dello storico
concorso goriziano rimarrà
memorabile per la magia di una rara
combinazione.
occidentale, ma comprendono anche arrangiamenti di brani
etnici. L’apporto di direttori e compositori è molto
diversificato, perché musicisti ebraici arrivano in Israele da
ogni parte del mondo, portando con sé la cultura del paese di
provenienza.
È invece una varietà autoctona quella presente nella realtà
musicale della Bosnia Erzegovina, ritornata sul palco del
Seghizzi dopo una lunga e tragicamente motivata assenza. La
storia dell’eptetto femminile Corona, proveniente da Sarajevo,
racconta di una coralità annullata dalla violenza della guerra,
di due mondi diversi, separati dalla scure del 1992, del
silenzio nel quale sono spariti i cori di voci bianche
60
appartenenti all’infanzia delle coriste. La direttrice Tijana Vignjević
vuole parlare soprattutto della rinascita, lenta e difficile, ma tenace,
della voglia di ricostruire i frammenti di una realtà mutilata, dove
mancano ancora cori e coristi, soprattutto giovani, e della quale il
gruppo vuole testimoniare la rinnovata voglia di cantare e far uscire
dai confini il desiderio di scambi, amicizie, collaborazioni. Le
affiatate coriste si sono messe in gioco in tutte le categorie,
superando l’ambito del proprio repertorio abituale e rischiando
qualche disomogeneità vocale, ma la loro presenza sul palco del
Seghizzi ha avuto certamente un valore superiore ai risultati
ottenuti nelle singole esibizioni.
I piccoli e i grandi traguardi di tutti i cori sono stati valorizzati
quest’anno dal Seghizzi in un’atmosfera di festa. L’ampia rosa di
vincitori di premi speciali e medaglie per fascia di merito ha
permesso infatti a tutti di ritornare a casa con un buon ricordo della
propria partecipazione. La serata delle premiazioni ha rappresentato
una bella emozione anche per Bruna Liguori Valenti, vincitrice del
premio “Una vita per la direzione corale”. Esperta di vocalità
infantile, ha ottenuto importanti riconoscimenti con i cori
dell’Aureliano di Roma e ha diretto cori di voci bianche anche in
produzioni per importanti teatri d’opera italiani, impegnandosi
inoltre in importanti iniziative per la promozione della musica
contemporanea: «Ho dedicato la vita alla direzione di cori di
bambini e femminili, ma non mi aspettavo di essere premiata. È
simile alla sorpresa data dal riscontro inaspettato ottenuto quando
sono apparsa su facebook su richiesta di un gruppo di Vittorio
Veneto e sono stata immediatamente contattata da ex allieve con le
dimostrazioni di affetto più belle, per aver insegnato loro non tanto
la musica, quanto attraverso di essa la vita. L’attività corale richiede
impegno, sacrificio, anche la voglia di stare insieme. Quando ho
iniziato a lavorare con l’Aureliano, ho fatto inserire nello statuto
dell’associazione il fine di far incontrare i bambini con l’attività
corale e strumentale. Mi sono impegnata inoltre nella diffusione del
repertorio contemporaneo, orientamento che negli anni ’70 e
nell’ambito dei cori infantili non era visto di buon occhio. Tuttavia
ho insistito, coinvolgendo
molti stimati compositori e
convincendoli a scrivere per
coro; garantendo loro
l’esecuzione e la qualità ho
potuto instaurare proficue
collaborazioni, anche
promuovendo un concorso
apposito. Oggi il repertorio
contemporaneo è il pane quotidiano dei cori, ma all’epoca mi sono
sentita un’antesignana». Al momento della premiazione, la Liguori
ha voluto lanciare anche un appello alle istituzioni, che dovrebbero
comprendere e sostenere con maggiore sensibilità il valore
educativo dell’attività corale e musicale, ribadendo infine la tenacia
delle molte persone che si occupano di coralità: «Non abbiamo
timore di affrontare difficoltà, perché cantare in coro è la cosa più
bella!».
Nella forte concorrenza i
dettagli fanno la differenza tra
cori di alta qualità.
CRONACA
61
25° GRAND PRIX SEGHIZZI
1°
2°
3°
4°
5°
Portland State Chamber Choir (Portland, usa)
Norvegian National Yourh Choir (Oslo, Norvegia)
Mixed Choir Sõla (Riga, Lettonia)
Brawijaya University Student Choir (Malang, Indonesia)
Schola Cantorum Sophianensis (Pécs, Ungheria)
52° CONCORSO INTERNAZIONALE DI CANTO CORALE SEGHIZZI
Categoria 1c - Ottocento
1° Portland State Chamber Choir
Medaglia Fascia Oro
2° Schola Cantorum Sophianensis
Medaglia Fascia Oro
3° Youth Choir Cantemus Medaglia Fascia Argento
4° Ljubljanski Madrigalisti Medaglia Fascia Argento
5° Mixed Choir Sõla
Medaglia Fascia Argento
6° Brawijaya University Student Choir
Medaglia Fascia Argento
Categoria 1d - Novecento e contemporaneo
1° Norwegian National Youth Choir
Medaglia Fascia Oro
2° Mixed Choir Sõla Medaglia Fascia Oro
3° Portland State Chamber Choir
Medaglia Fascia Oro
4° Brawijaya University Student Choir
Medaglia Fascia Oro
5° Schola Cantorum Sophianensis
Medaglia Fascia Argento
6° Chamber Choir Good Night, Brother
Medaglia Fascia Argento
Categoria 2 - Musica popolare, spiritual e gospel, musica leggera e jazz
1° Portland State Chamber Choir
Medaglia Fascia Oro Cat. 2b
2° Mixed Choir Sõla
Medaglia Fascia Oro Cat. 2a
3° Portland State Chamber Choir
Medaglia Fascia Oro Cat. 2c
4° Norwegian National Youth Choir
Medaglia Fascia Oro Cat. 2a
5° Chamber Choir Good Night, Brother
Medaglia Fascia Oro Cat. 2a
6° Portland State Chamber Choir
Medaglia Fascia Oro Cat. 2a
Categoria 3a - Musica contemporanea
1° Schola Cantorum Sophianensis (Lux Aeterna) Medaglia Fascia Oro
PREMI SPECIALI
Denis Ceausov (dir. Coro Moldavia)
Premio Usci al miglior direttore
Ethan Sperry (dir. Coro usa)
Premio Domenico Cieri
Brawijaya University Student Choir
Premio Basuino, Gloria Patri di Budi Susanto Johanes
Norwegian National Youth Choir
Premio Cecilia Seghizzi, programma categoria 1d
Portland State Chamber Choir
Premio Giuseppe Verdi, Pater Noster di Giuseppe Verdi
Kaspar Adamsons (dir. Coro Lettonia)
Premio Nuovi Talenti Coro Femminile Multifariam
1° Premio Voci Femminili
Youth Choir Cantemus Premio Voci Giovanili Jazzva
Premio Gruppi Vocali Youth Choir Kivi
Premio Gruppi Cameristici
Portland State Chamber Choir
Premio Punteggio assoluto
Coro Femminile Multifariam
Premio Feniarco
11° CONCORSO DI COMPOSIZIONE CORALE SEGHIZZI
1°
2°
3°
I pastori di Bernardino Zanetti (Musile di Piave, Ve)
Hymne di Roberto Brisotto (Ponte di Piave, Tv)
Spruzzi e sprazzi di Angelo Maria Trovato (Acireale, Ct)
62
LES ITALIENNES À TOURS
Il successo del coro femminile Vox Cordis
raccontato dal direttore Lorenzo Donati
di Rossana Paliaga
Non sono molti i cori italiani che decidono di confrontarsi con
la grande concorrenza internazionale delle “arene” più
prestigiose ed è per questo motivo ancora più gratificante
poter parlare dell’ottimo risultato ottenuto dal gruppo
femminile Vox Cordis di Arezzo nella 42a edizione del Florilège
vocal di Tours. Il coro diretto da Lorenzo Donati ha ottenuto
infatti il secondo premio (con primo non assegnato) nella
categoria a voci pari del concorso internazionale che, come
noto, fa parte del prestigioso circuito del Grand Prix. Inoltre è
stato insignito del premio del pubblico per l’esibizione nel
programma libero e del premio speciale À Cœur Joie
International, conferito a un coro non francofono per la
qualità dell’esecuzione e la pronuncia di un brano in lingua
francese.
Il Florilège è un concorso che hai avuto modo di conoscere
dal punto di vista della giuria. Quali sono le caratteristiche e
le esigenze di questa storica manifestazione sulla base della
tua esperienza personale e in relazione a questo cosa ti ha
convinto a partecipare con il gruppo femminile?
Il concorso di Tours è uno dei grandi concorsi europei, quelli
storici e prestigiosi. Avevo partecipato come corista nel 1991 e
pur cantando in un ottimo coro eravamo stati eliminati subito.
Questo perché il livello di Tours, come del resto Arezzo,
Debrecen e Tolosa, è altissimo. Mi era rimasto un po’ il dente
avvelenato per questa eliminazione, anche perché amo la
Francia e l’attenzione che da molti anni il loro governo dedica
alle attività musicali.
Poi qualche anno fa è arrivato l’invito a far parte
della giuria, un invito graditissimo e prestigioso,
che ho condiviso con direttori del calibro di
Stojan Kuret e Aarne Saluveer, entrambi vincitori
del Gran Premio Europeo. Grazie all’esperienza
in giuria ho potuto comprendere meglio quanto
a Tours sia importante la qualità vocale del coro
in rapporto all’acustica dello storico teatro
cittadino.
Per questo, solo dopo due ottimi risultati nei concorsi di
Montreux (secondo posto) e Cantonigròs (primo posto), ho
deciso di partecipare con la sezione femminile dell’Insieme
Vocale Vox Cordis. Pensavo fossimo pronti per varcare
nuovamente, dopo vent’anni, la soglia del teatro di Tours.
Anche a Tours, come ad Arezzo, non è consentito provare
l’acustica del teatro prima del concorso, quindi la prima
preoccupazione era entrare, trovare in dieci secondi la giusta
posizione e sperare che tutti i consigli che avevi dato al coro
riguardo all’acustica funzionino. Il Grand Théâtre di Tours è un
po’ come il vecchio Teatro Petrarca di Arezzo, sono ormai i
templi della musica corale e se non ti adatti subito all’acustica
puoi dire addio a ogni speranza di far bene. Tra l’altro al
Florilège Vocal ti fanno attendere nel retro del palco prima di
entrare, quindi non puoi parlare, ma solo ascoltare il coro
prima di te e nel frattempo ti passano molti pensieri per la
testa. Se si può parlare di asso nella manica forse, dopo tanti
anni e un po’ di concorsi, ho imparato a gestire meglio tutta
l’energia e la tensione che un concorso del circuito europeo
può darti. Poi, se possibile, il sorriso e la voglia di fare
musica.
Quale programma avete scelto per le diverse categorie
competitive? Scelte prudenti o la voglia di mettersi alla
prova?
Un concorso ti mette sempre alla prova anche se canti brani
semplici. In questo caso con la sezione femminile dell’Insieme
Vocale Vox Cordis abbiamo proposto opere di una certa
difficoltà, ma senza scegliere brani virtuosistici, tranne forse
una mia composizione scritta appositamente per il Vox Cordis,
Silent Stars su testo di Tagore.
Abbiamo cantato in tre categorie e poi siamo stati ammessi
alla selezione per il Gran Premio. La cosa su cui ho puntato e
Lavorare per cercare di migliorare
dovrebbe essere sempre il nostro
obiettivo.
Quando sei salito quest’anno sul palco del Grand Théâtre,
quale è stata la tua maggiore preoccupazione e quale il tuo
asso nella manica?
alla quale abbiamo dedicato più attenzione è stato cercare di
fare musica mantenendo l’equilibrio vocale necessario a
un’acustica senza alcun riverbero.
Il premio per la migliore interpretazione di un brano in lingua
francese sarà stato un motivo particolare di orgoglio…
Chi conosce i francesi sa che non sono molto teneri con gli
italiani e questo premio ce lo hanno assegnato i giurati
francesi, quindi la cosa ci riempie d’orgoglio. Abbiamo avuto
CRONACA
63
la fortuna di avere con noi una corista francese che ha
studiato ad Arezzo per un po’ di tempo e che ora,
sfortunatamente per noi, è tornata in Francia. Lei ci ha aiutato
molto per la pronuncia e quando abbiamo terminato il brano
di Lauridsen su testo in francese di Rilke il pubblico è
esploso. Un’emozione indescrivibile: siamo scesi dal palco
commossi per quella performance così ben riuscita.
Quale è stato secondo voi l’elemento che ha conquistato il
pubblico e vi ha permesso di conquistare anche il
riconoscimento “per la comunicatività”?
Il premio del pubblico quest’anno a Tours non era un premio
di consolazione, perché era l’unico che veniva assegnato nella
categoria a programma libero, cui partecipavano tutti i cori.
Quindi vincerlo voleva dire essere per il pubblico, pagante, il
miglior coro del concorso.
In genere questi premi sono appannaggio di cori filippini o
latinoamericani, gruppi che fanno anche qualche brano
popolare con movimenti coreografici. Ma l’edizione 2013 ci ha
visto trionfare di fronte alle Filippine e a Portorico, con un
programma composto di sola, grande musica: Schubert,
Duruflé, Gjello, Lauridsen. Al termine della competizione le
nostre coriste hanno visto scendere dalla scalinata del teatro
le persone del pubblico che inserivano il loro voto nel
contenitore con la bandiera italiana. Tutti uscendo dicevano:
«les Italiennes…!».
Il Florilège ha reso omaggio a Francis Poulenc. Come è stato
celebrato nell’ambito del concorso? Avete partecipato o
seguito dall’esterno questo fil rouge dell’edizione 2013?
Come molti cori abbiamo partecipato all’omaggio a Poulenc
eseguendo l’Ave Verum durante il Gran Premio e
iscrivendoci alla categoria speciale. Il pubblico
quella sera si è sorbito per ben cinque volte le
Petites voix dell’autore francese, perché tutti i cori
a voci pari e quelli di bambini avevano scelto lo
stesso pezzo. Ho pensato che più che un omaggio
fosse una vessazione, nonostante la bellezza di
queste piccole miniature corali. Fortunatamente alla
competizione partecipavano anche i cori misti con
un programma più vario.
l’obiettivo, evitare di entrare nella spirale tipica delle
competizioni, dove ognuno aspetta che l’altro sbagli.
Credo che il Vox Cordis sia riuscito a godersi questo concorso
perché ha tentato, nonostante la tensione, di essere flessibile,
di riuscire a respirare, di creare durante l’esecuzione un flusso
di energia che porta l’ascoltatore oltre.
La cosa positiva che lascia una manifestazione come il
Florilège Vocal è lo stimolo a lavorare con grande
concentrazione, sia in fase preparatoria che di esecuzione, lo
slancio per cercare di mettere a punto ogni particolare, dalla
pronuncia di una vocale all’acconciatura di una
corista, dall’intonazione di un accordo alla disposizione sul
palco.
Lavorare per cercare di migliorare dovrebbe essere sempre il
nostro obiettivo e a volte abbiamo bisogno di uno stimolo
A volte abbiamo bisogno di uno
stimolo competitivo per trovare
la giusta concentrazione.
L’adrenalina della competizione, la suggestione dell’ambiente,
l’opportunità di conoscere coristi e direttori di diversa
provenienza, di ascoltare repertori nuovi e una grande varietà
di interpretazioni… Quanto fa crescere e quanto può
consolidare e motivare un coro l’esperienza competitiva?
Di base la competizione è un sentimento un po’ troppo
animale per associarlo alla musica e all’arte. Sarebbe molto
bello superare questo concetto o sentimento; tra l’altro a
Tours come in molte altre competizioni è molto difficile
riuscire ad ascoltare gli altri gruppi. Il mondo della musica a
volte funziona come lo sport e questo dispiace, perché non
sempre chi fa meno errori fa più musica. La nostra gioia è
essere riusciti a fare musica in concorso. Questo era
competitivo per trovare la giusta concentrazione. Poi
l’importante è che resti quel modo attento di lavorare e di
pensare l’arte anche quando non hai un concorso di
fronte. Altrimenti fare concorsi diventa una malattia.
64
DISCOGRAFIA
Coro Giovanile Italiano in concerto
direttori, Dario Tabbia e Lorenzo Donati
Feniarco Edizioni Musicali, San Vito al Tagliamento 2013
Nuova pubblicazione per conto di Feniarco Edizioni Musicali. Un CD audio che
raccoglie una selezione dai concerti del Coro Giovanile Italiano. Registrazioni live,
dal 2011 al 2013. Editing e master a cura di Diego Ceruti.
Nell’arco del triennio due direttori si sono alternati alla guida della compagine,
Dario Tabbia nel repertorio polifonico classico e barocco, Lorenzo Donati nel
repertorio moderno e contemporaneo.
Un viaggio nel canto corale a cappella. Un viaggio geografico attraverso i concerti
che il coro ha tenuto in diverse città italiane. Da qui, il criterio per cui la scaletta
dei brani segue l’ordine dei luoghi e delle date di registrazione.
In merito alla parte musicale, prevalgono pagine significative di autori italiani. Fa
piacere sottolineare questa scelta. Corrono, ahimè, tempi in cui nei programmi
dei cori dilagano soprattutto i repertori provenienti dal Nord Europa e dagli USA.
Procediamo seguendo una successione storica.
Alla scuola polifonica romana appartiene il festoso mottetto, a 5 voci, O beata et
gloriosa Trinitas (1569), opera eloquente dell’autorevolezza stilistica di Giovanni
Pierluigi da Palestrina.
Le date di edizione tradiscono che i due brani di Tomás Luis de Victoria
appartengono al periodo italiano del compositore spagnolo. Ripiegato su canoni
palestriniani è il mottetto, a 4 voci, Ne timeas Maria (1572). Spalancata su un
orizzonte vocale più ricco e colorito è l’antifona, a 8 voci, Regina coeli laetare
(1576).
Spunta giusto in tempo per ricordare i 400 anni dalla morte (1613-2013) la
stupenda Ave, dulcissima Maria di Carlo Gesualdo da Venosa – dalle Sacrae
Cantiones, a 6 voci (1603). Uno squarcio, in opposizione ai rigidi dettami della
Controriforma, attraverso il quale languidi affetti penetrano la severità del genere
sacro.
In piena tempesta di “pietosi affetti” ci conducono le incalzanti sincopi e
la teatralità del mottetto, a 6 voci, Domine, ne in furore tuo (1620) di Claudio
Monteverdi.
Fu pure debitore della scuola italiana – attraverso il suo maestro Giovanni Gabrieli
– il tedesco Heinrich Schütz. Lo splendore della policoralità veneziana echeggia
ancora nel salmo, a 8 voci, Singet dem Herrn ein neues Lied – dagli Psalmen
David, op. II (1619). Quid commisisti, o dulcissime puer, a 4 voci – dalle Cantiones
Sacrae, op. IV (1625) dello stesso Schütz – chiude il cerchio, con un ritorno alla
lingua latina e a uno stile più austero, sintesi degli esiti del madrigale spirituale e
dell’opera, più in generale, del “divino Claudio”.
È un balzo nella modernità quello che segue, nel contenuto del CD del Coro
Giovanile Italiano.
RUBRICHE
Perdura il genere sacro, ma per una monografia che mette a
confronto ben quattro Agnus Dei.
Si comincia con l’Agnus Dei dalla Messa da Requiem
(1922/1923) di Ildebrando Pizzetti, ponte ideale con l’antica
tradizione del gregoriano e della polifonia rinascimentale. Un
brano commovente per la bellezza del canto e la raffinatezza
armonica. Un capolavoro.
S’intuisce un’impostazione organistica – un preludio-corale,
si direbbe – nell’Agnus Dei dalla Messa per doppio coro
(1922/1926) di Frank Martin. La parodia di un canto gregoriano
in ottava del primo coro è sostenuta fino al parossismo dal
cangiante tessuto armonico del secondo coro. Un pezzo di
forte impatto comunicativo, un pezzo di cui lo scarto modale
del “dona nobis pacem” marca un segno indelebile.
L’Agnus Dei (1980/2005) di Krzysztof Penderecki è parte del
Polish Requiem, un work in progress. Una vasta opera, in cui
si accumulano tematiche epiche e patriottiche. L’Agnus Dei si
dipana sullo schema di un tormentato climax. Alle lamentose
linee diatoniche di apertura s’intreccia via via un fitto tessuto
cromatico, che culmina nel lacerante strazio di un accordo
fortissimo e dissonante di 18 suoni, in coincidenza con la
parola “peccata”. Tipica cifra stilistica post-espressionista del
compositore polacco.
Chiude la rassegna la spontanea e manierata linearità
dell’Agnus Dei dalla Missa brevis Pro Pace (1985/1986) del
compositore contemporaneo spagnolo Javier Busto.
Con i quattro brani rimanenti, il genere sacro lascia spazio a
quello profano.
Il Coro dei malammogliati di Luigi Dallapiccola – dalla Prima
serie dei Cori di Michelangelo Buonarroti il giovane (1933)
– appartiene al cosiddetto periodo “neo-madrigalista” del
musicista istriano. Con la precisazione che questa formidabile
re-invenzione moderna, dal carattere cialtronesco e burlesco,
non richiama l’aulico madrigale rinascimentale, ma piuttosto
le popolaresche creazioni di un Orazio Vecchi.
Ha conosciuto una fase neoclassica anche Bruno Bettinelli, in
adesione alla tendenza – diffusa negli anni Trenta – al recupero
della tradizione antica italiana. Del compositore milanese sono
65
presenti Già mi trovai di maggio e O Jesu dolce – due delle Tre
espressioni Madrigalistiche (1939). Anche di questi canti – che
pur sono disseminati dell’artifizio del “madrigalismo” – si dica
che i modelli sono antiche forme poetico-musicali minori, la
canzonetta e la lauda rinascimentale.
Infine, Insenso di Lorenzo Donati, un recentissimo lavoro, su
testo dello stesso compositore.
Le voci del Coro Giovanile Italiano, sotto la guida competente
dei due direttori, convincono ampiamente. Impresa meritoria,
se si considera che le ardue problematiche di alcune delle
pagine proposte sono state superate brillantemente.
Insomma, il CD oltrepassa l’intento di documentare le tappe
di una triennale tournée. È una lezione di bel canto corale,
impartita con bravura ed entusiasmo da giovani cantori che ci
lasciano ben sperare per il futuro della musica corale in Italia.
Mauro Zuccante
Il CD è disponibile presso la segreteria Feniarco e può essere
prenotato scrivendo a [email protected]
66
MONDOCORO
a cura di Giorgio Morandi
«…Ascoltare non è una operazione semplice, e da sempre culture e religioni di
tutto il mondo la pongono ai vertici delle capacità umane. Dalla capacità di ascoltare dipende non solo il cantare, ma tutta la complessa rete di relazioni umane.
L’ascoltare non è più solo una funzione specifica dell’orecchio, non è più solo il
sinonimo di “udire”, ma diventa la metafora per la capacità di entrare in relazione con il mondo in modo autentico, profondo, disinteressato e amorevole. Ascoltare è la prima condizione necessaria per amare…
…Ascolto, dunque canto; cantare diviene uno strumento affascinante per crescere nella voce e nel suono, ma anche umanamente. Ascoltando mi scopro vivo, mi
scopro ricco, scopro attorno a me e in me una miniera insospettata di luce e di
bellezza, di ordine e di armonia…».
Maria Silvia Roveri
Se: Ascoltare è la prima condizione necessaria per amare…
E se: Ascolto, dunque canto…
Allora è naturale: Canto e amo.
Spero non me ne vorrà la signora Maria Silvia Roveri per queste mie personali
conclusioni ispirate da una sua interessantissima dissertazione dal titolo Ascolto,
dunque canto.
E spero non me ne vorranno neppure i nostri lettori ai quali in piena estate, cioè
in un periodo in cui le attività corali fioriscono prevalentemente in alcune zone turistiche, auguro per la nuova stagione corale di scoprire ancor di più attorno a sé
e in se stessi «una miniera insospettata di luce e di bellezza, di ordine e di
armonia».
Esistono opere da escludere dal repertorio corale?
Certo non il direttore del mio coro e, come lui, tanti altri, ma qualcuno c’è che si pone il problema e sarebbe
tentato di scegliere – o effettivamente sceglie – le opere da eseguire coi nostri cori in base o anche in base a
considerazioni politiche.
Carmina Burana fu composto a metà degli anni ’30 del
secolo scorso, nella Germania nazista, da un compositore (Carl Orff, musicista, pedagogo e didatta tedesco importante che a Monaco di Baviera nacque il 10 luglio
1895 e morì il 29 marzo 1982) che – secondo qualcuno
– se non entusiasta, di certo fu almeno un volonteroso
collaboratore del regime dell’epoca, e Carmina Burana
fu una delle rare opere contemporanee che se non immediatamente, comunque
alla fine fu entusiasticamente approvata e promossa dal Partito, fino a farne il pilastro della propria propaganda culturale (chisseneimporta del fatto che alle masse piaccia veramente!).
Qualcuno oggi esegue l’opera Carmina Burana facendola precedere da Recordare
di Kurt Weill (Dessau, 2 marzo 1900 - New York, 3 aprile 1950), il musicista tedesco tra i più diffamati e vilipesi dai nazisti in quanto ebreo e socialista.
RUBRICHE
67
Certo, se uno deve arrivare a chiedersi quale altro brano può accompagnare l’esecuzione di Carmina Burana per completare un
concerto… non sarebbe forse meglio evitare di programmarlo?
Se cominciamo a escludere opere del compositore Orff a causa della sua politica o del suo modo di destreggiarsi nella situazione politica del suo tempo (vedi nota), allora dobbiamo
anche omettere le opere di una miriade di altri musicisti, tra cui
Stravinskij, che ha lasciato un record di forte supporto vocale
del fascismo. Se abbiamo intenzione di escludere un’opera perché il lavoro è stato abbracciato da un regime totalitario, allora dobbiamo anche rinunciare a eventuali opere di Beethoven
e Bruckner, dal momento che i nazisti hanno sostenuto pure
questi compositori.
E noi dovremmo rinunciare al piacere di eseguire la Sinfonia di
Salmi di Stravinskij? La Nona di Beethoven? Il Te Deum di
Bruckner? E di questo passo dove ci fermiamo?
Io sto dalla parte di chi giudica un’opera per il suo merito, indipendentemente dalla vita del suo compositore. Quante grandiose opere sacre sono state scritte da non credenti!
nota: Richard Taruskin nel suo autorevole e interessante libro
La musica all’inizio del XX secolo, a questo argomento della musica durante i regimi totalitari dedica un intero capitolo. In modo specifico discute Carmina Burana, giungendo alla conclusione finale che le connotazioni negative dell’opera derivano da
chi e da come essa è stata ricevuta, non certo dall’intenzione
del compositore. Per chi fosse interessato all’argomento segnaliamo anche il libro Compositori dell’era nazista di Michael
H. Kater (Composers of the Nazi Era).
(Spunto preso da una discussione a più voci in Choralnet, primavera 2013).
mere quello che le parole
stesse, o anche una sola
voce, semplicemente non
può esprimere da sola». Pura coincidenza? Forse, ma
oggi pomeriggio daremo un
concerto di musica sacra!
La meditazione verte sull’Alleluia di Pasqua e afferma:
«Cantare significa che la persona sta passando al di là dei confini del meramente razionale per cadere in una sorta di estasi.
Ora il canto trova la sua forma culminante nell’Alleluia, il canto in cui l’essenza stessa di tutti i canti raggiunge la sua più
pura incarnazione. L’Alleluia nel canto è semplicemente l’espressione non verbale di una gioia che non necessita di parole perché le trascende tutte. Che cosa significa cantare nel giubilo?
Significa essere in grado di esprimere a parole o di verbalizzare la canzone che a voi suona nel vostro cuore. Mentre i mietitori nel campo o nella vigna sperimentano un senso sempre più
esultante di gioia, essi sembrano diventare incapaci di trovare
le parole per esprimere questa gioia traboccante. Essi abbandonano sillabe e parole, e il loro canto diventa un jubilus, o grido di esaltazione. Un jubilus è un grido che evidenzia il fatto
che il cuore sta cercando di esprimere ciò che non gli è assolutamente possibile dire. E a chi un jubilus è più opportunamente indirizzato, se non a Colui che è ineffabile? Egli è ineffabile, perché le tue parole non possono impadronirsi di Lui.
L’Alleluia è come una prima rivelazione di ciò che un giorno può
e deve avvenire in noi. Tutto il nostro essere si trasforma in
un’unica, immensa gioia!».
Cantare è bello. Il canto dell’Alleluia
Giornata mondiale della voce
Stamattina c’è il sole, ed è caldo abbastanza per far nascere
un sorriso. È tanto tempo che non sentivo più quest’abbraccio
del mattino! Uscendo di casa verso le otto per andare a prendere il giornale ho sentito il canto di un uccellino provenire dal
rigoglioso pruno del giardino, e in risposta un cinguettio corale dagli alberi vicini, accompagnato dal fruscio leggero della
brezza. Forse è davvero primavera, ho pensato, cercando di
non portare sfortuna pronunciando il pensiero ad alta voce.
In quest’atmosfera mi è venuto da pensare a una meditazione
quotidiana di papa Benedetto XVI letta, recentemente, in lingua
inglese, e ho pensato: “Troppo bella per non condividerla con
i lettori di Mondocoro”.
La prima riga dice tutto: «Io canto perché la musica può espri-
Ogni cantore sa quanto sia importante la cura della propria voce allo scopo di prolungarne il più possibile un uso in bellezza, efficienza ed efficacia. Ma il concetto è valido anche in senso più generale ed esteso, per esempio, al campo
dell’insegnamento, della recitazione teatrale, di tutti coloro per
i quali l’uso della voce è importante. Proteggendo la propria voce da aggressioni violente, adattando il modo di parlare o di
cantare a bisogni specifici legati a un uso efficace e corretto,
molti problemi della voce possono essere evitati.
E allora, ben venga e diventi sempre più cosciente e partecipata l’annuale Giornata Mondiale della Voce.
Questa Giornata Mondiale della Voce è nata il 16 aprile 1999 in
Brasile a cura della Sociedade Brasiliera de Laringologia e Voz;
68
da allora la ricorrenza del 16 aprile come giornata della voce si è estesa in diversi paesi come l’Argentina, il Belgio, gli Stati Uniti, la Francia e la Spagna.
L’obiettivo di questa giornata all’inizio era soltanto una sensibilizzazione sulla prevenzione dei problemi della voce. Infatti molte persone nell’ambito dell’esercizio
della propria professione devono confrontarsi quotidianamente con delle patologie vocali. Successivamente l’obiettivo si precisò e la giornata divenne momento
di incontro fra professionisti della voce aventi orizzonti molteplici e diversi.
Un gruppo di attori di Toulouse da alcuni anni ha cominciato a promuovere in Francia, e in particolare a Toulouse, una importante Journée Mondiale de la Voix organizzando una giornata piena di avvenimenti. I partner dell’organizzazione, avuto riguardo per l’interesse portato dal diverso pubblico incontrato, hanno voluto
puntare la loro attenzione oltre il problema specifico e primordiale della prevenzione, intendendo così, con l’aiuto di professionisti e amatori, ricercatori, insegnanti, medici, ortofonisti, responsabili di strutture culturali, perennizzare la riflessione sulla voce in generale. L’obiettivo della giornata quindi è quella di una grande
comunicazione fatta da specialisti su un tema di volta in volta specifico che riguarda la voce. Molti temi sono stati trattati già nel corso degli anni scorsi: voce e prevenzione, la voce dell’adolescente, voce dei sensi, voce del senso, voce ed emozione… Partner nell’organizzazione della giornata furono la SFA - Società Francese
di Acustica, la FRVD - Associazione Formazione, Ricerca, Voce e Deglutizione, l’ESAV - Scuola Superiore di Audiovisivi dell’Università di Toulouse e l’UVDI-CHU - Unità per la voce e la Deglutizione di Toulouse.
In Italia l’ultima edizione della Giornata Mondiale della Voce (la quinta) è stata celebrata con un convegno su “Prevenzione e buon uso della voce nell’adulto e nel
bambino” organizzato da parte della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Essa naturalmente vuole contribuire in modo sostanzioso a sensibilizzare tutta l’opinione pubblica a una voce il più possibile sana, e
a un uso corretto delle corde vocali. Sono diversi gli appuntamenti messi in campo dagli esperti del Policlinico di Milano, fra cui un corso per la prevenzione e il
buon uso della voce, una giornata di visite gratuite e uno spettacolo teatrale.
Consigli utili per la salvaguardia della nostra voce: la parola chiave, per gli esperti, è prevenzione. Per questo essi hanno stilato un decalogo della voce sana, che
anche ogni cantore dovrebbe seguire per mantenere il più possibile integre le proprie corde vocali:
1) non parlare mai troppo in fretta, e fare pause per riprendere fiato;
2) bere almeno 1,5-2 litri di acqua al giorno, per non disidratare le corde vocali;
3) non bere troppo caffè, tè o bevande contenenti caffeina: favoriscono la diuresi e la disidratazione;
4) in casa e in ufficio tenere un tasso di umidità minimo del 40%: l’aria troppo
secca è dannosa per la voce;
5) non alzare la voce per richiamare l’attenzione, ma usare modi alternativi;
6) non cercare di superare il rumore ambientale, ed evitare di parlare a lungo in
luoghi rumorosi;
7) sul lavoro, per farsi sentire da molte persone è meglio utilizzare un microfono,
ogni volta che sia possibile;
8) non chiamare gli altri da lontano, ma avvicinarsi alle persone con cui si vuole
comunicare;
RUBRICHE
9) evitare di parlare durante l’esercizio fisico: non si ha abbastanza fiato per sostenere la voce senza sforzo;
10) cercare di avere sane abitudini di vita: niente fumo, alcolici
con moderazione, alimentazione ricca di frutta e verdura, pasti
regolari e non troppo abbondanti, numero adeguato di ore di
riposo.
Buon lavoro a tutti gli insegnanti, i venditori, gli attori, i cantori dei nostri cori.
Requiem… per i cantori
È un Requiem molto particolare quello che qui si vuole presentare, forse addirittura spiritoso. Nulla a che vedere con le preghiere e i canti proposti per i tristi eventi che colpiscono anche
i nostri gruppi quando un cantore ci lascia… per il paradiso del
cantore (direbbero gli alpini!).
E il Requiem di cui si vuol parlare è famosissimo. Ricordatone
l’autore del progetto nel giovane Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart e la realizzazione a quattro mani
dello stesso Wolfangus Amadeus Mozartus e dell’allievo Franz
Xaver Süssmayr, non ha bisogno – per i ventiquattro cantori di
Mondocoro – né di presentazioni né di commenti né di esemplificazioni troppo impegnative. La creatività perspicace di un
bravo direttore di coro, però, fa tutto… Riesce ancora ad arricchire per i cantori (e chi può escludere che ne risenta anche il
pubblico?) l’ennesima edizione dell’opera. Eccone la dimostrazione scaturita spontaneamente durante le prove di un coro.
Il direttore ai soprani: «Avete mai ascoltato la trasmissione radio Uomini e Camion? Io spesso, e devo dire che me li ricordate…»; «Ahia! Soprani!… La terza nota: colpita e affondata!», e
dopo una pausa, supplichevole continua: «Magari a battaglia
navale giochiamo dopo!»; quasi urlato: «Respirate, respirate soprani…», sorridendo e guardando divertito il gruppo: «purtroppo tra gli sponsor del Requiem non ci sono produttori di bombole a ossigeno!»; «Soprani… siamo uno strumento a fiato non
a sasso!»; al Confutatis: «Soprani! C’è una sofferenza, in ogni
nota, che mi perfora il rene destro e il duodeno sinistro!»; al
Rex tremendae: «Soprani… con quel bemolle siamo alla frontiera! E per fortuna non vi hanno chiesto i documenti!»; al Salva me: «…sembrate in mezzo al mare con la manina che spunta dalle onde e se cantate così… soprani, vi lasciano
annegare!».
Lo stesso direttore ai suoi contralti: «Cantate leggere e misteriose… come da dietro un cespuglio!».
Fingendo di guardare i tenori: «Bassi… se cantate così sembrate un 747 in decollo!».
69
E per tutto il coro: «Ahi, cantate come se vi avessero pestato
un piede!»; al Lacrymosa: «questo pezzo è un bagno di lacrime!»; al Rex tremendae: «dopo le prime quattro battute quasi
quasi me ne sbatto dell’orchestra!».
Il concerto dato il 5 aprile 2013 è stato un successone (parola
del vostro redattore/tenore)!
CANTO & SCIENZA
Cantare in coro fa bene al cuore!
In questi anni Mondocoro ha proposto ripetutamente riflessioni su questo argomento, e – del resto – chi fa parte di un coro
già lo sa: cantare insieme è un’esperienza positiva sia dal punto di vista psicologico, sia dal punto divista fisico.
Ed è ben noto a molti come il canto sia un toccasana per la salute, sia da sempre usato in tutto il mondo come rituale di molte religioni per i suoi effetti rilassanti ed energizzanti.
Ora però possiamo affermare che questa sensazione di benessere ha un fondamento scientifico. La rinomata rivista Frontiers
in Neuroscience (che pubblica articoli sulle scoperte più eccezionali dell’intero spettro di ricerca di neuroscienze) recentemente ha dato notizia
di un esperimento
che dimostra come la musica sia
molto più che una
splendida arte: è
un rimedio naturale persino più potente dei farmaci.
Gli studi, guidati
dal musicologo svedese Bjorn Vickhoft presso l’Università di
Göteborg, dimostrano che il ritmo cardiaco dei coristi rallenta e
si sincronizza dopo poche battute di canto, con grandi benefici
per tutto l’organismo. Per i più esperti, la notizia scientifica dice: «Con il canto vengono coinvolte la variabilità del battito cardiaco (HRV) e l’aritmia respiratoria sinusale (RSA)… fattori che oltre a provocare biologicamente un effetto calmante, favoriscono
le funzioni dell’apparato cardiovascolare».
Per lo studio i ricercatori hanno utilizzato degli elettrodi negli
orecchi dei cantori, collegati a dei cardiofrequenzimetri: immediatamente hanno osservato che appena il coro inizia a cantare, il battito cardiaco dei singoli cantori rallenta. Si tratta di una
conseguenza del tipo di respirazione che quando si canta viene maggiormente controllata e rallentata. Il canto, soprattutto
quello in coro, è quindi una sorta di “respirazione guidata” che
70
modifica anche la funzione cardiovascolare. È stato anche osservato che gli effetti benefici si incrementano esponenzialmente nel canto all’unisono. Ciò che ha colpito di più i ricercatori è che in pochissimo tempo le frequenze cardiache dei coristi si sincronizzano fra loro: le linee dei cardiofrequenzimetri (che all’inizio sono
molto diverse) rapidamente cominciano a disegnare una sorta di ritmo comune
che segue il ritmo della canzone. Secondo i ricercatori svedesi la scoperta sarà
utile in alcune terapie riabilitative e come supporto per la riduzione di alcuni tipi
di dolore e dell’ansia.
Sostenuti dalla scienza ufficiale possiamo ben dire, quindi, che ogni nota è una
pillola di… 75 mg di principio attivo di grande efficacia. È il caso di ricordare che
si prende (meglio se a stomaco poco carico!) quando e quanto si vuole, con limitato e saltuario consumo di acqua? Solo per i nostri amici che ancora non fanno
parte di un coro!
EVENTI E DATE DA RICORDARE
Assemblea generale annuale di ECA-EC
(European Choral Association-Europa Cantat)
Avrà luogo a Pécs (Ungheria) dal 9 al 10 novembre 2013. In questa occasione avrà
luogo anche la prima conferenza consuntiva sul progetto VOICE (Vision On Innovation for Choral music in Europe), con focalizzazione sulla dimensione cooperativa.
Verranno presentate e commentate le attività già svolte e quelle in corso nell’ambito del progetto e verranno ipotizzate e valutate opportunità di collaborazioni per
il futuro.
Giornata corale mondiale, 8 dicembre 2013
Avete cominciato a pensare cosa farete quest’anno nella Giornata mondiale dei
cori? L’evento World Choral Day quest’anno avrà luogo in tutto il mondo il giorno
8 dicembre. Sarà un mezzo potentissimo per promuovere la vostra passione per
la musica corale all’interno della vostra comunità, nel vostro paese, condividendola con cori di tutto il mondo. Costo della partecipazione all’evento: zero! Dettagli sulla modalità di partecipazione sono reperibili nel sito:
www.ifcm.net/index.php?m=27
Festival Europa Cantat XIX
24 luglio - 2 agosto 2015
Fervono i lavori per l’organizzazione del grande festival corale europeo. La commissione musicale di ECA-EC e il comitato artistico regionale per il festival hanno
deciso i temi del festival stesso. Il tema principale sarà Crossroads (crocevia) a
sottolineare la valenza di Pécs città e del festival come luogo d’incontro di paesi,
culture, religioni e stili musicali diversi. Sottotemi: Roots & Fruits (radici e frutti)
come tradizione e innovazione che collega passato, presente e futuro, e Open
Gates (porte aperte) a sottolineare l’apertura verso i paesi vicini, forme d’arte diverse, idee e musica nuove.
Per informazioni: www.ecpecs2015.hu
RUBRICHE
PRESENTAZIONE LIBRI
Rhythmic Training
«Anche Rhythmic Training (Formazione ritmica) di Robert Starer è un
grande libro», dice un direttore di
coro americano suggerendolo a un
collega. «Me lo hanno fatto conoscere gli studenti del grande liutista
e insegnante Joseph Iadone», uno
specialista nell’esecuzione di musica rinascimentale incredibilmente
difficile e, naturalmente, un accanito sostenitore della precisione ritmica. I suoi studenti sono, naturalmente, tutti altamente qualificati. «Da allora ho usato il libro io stesso
con decine di studenti di musica del corso avanzato, e l’ho trovato indispensabile. Sono convinto che per ottenere i migliori risultati, il metodo deve essere utilizzato esattamente come indicato». «Questo testo – dice un secondo direttore di coro – è una
super guida per la formazione ritmica degli studenti. È conciso
e sequenziale, per questo per molti anni io l’ho usato per aiutare i miei studenti a capire la suddivisione del ritmo in musica.
Anche il prezzo è buono, cosa che non fa male di questi tempi,
e il volume l’ho ricevuto in meno di due settimane».
Didattica musicale
Teaching Music Through Performance in Choir (Insegnare musica attraverso la sua esecuzione) è composto da due volumi
già a disposizione, ma credo che ci sia un altro volume specificamente mirato all’insegnamento corale nelle scuole medie.
Questi volumi offrono repertorio specifico e piani di lezione.
Sono anche accompagnati da un CD con registrazioni di esecuzioni esemplari dei pezzi trattati nel libro. Il concetto presente
dietro quest’opera è quello che per insegnare specifiche competenze di alfabetizzazione musicale attraverso la prova dei
pezzi bisogna usare musica accuratamente scelta e non procedere a una semplice preparazione del coro per un’esecuzione
musicale specifica.
Integrare la lettura musicale a prima vista nella routine quotidiana dell’insegnamento corale in classe è ritenuto di estrema
importanza. In aggiunta a molte altre grandi risorse suggeribili per lavorare al meglio in questo campo evidenziamo due opere didattiche.
The University Sight Singer (Il cantore a prima vista dell’università) pubblicato da Masterworks Press (www.masterworks
press.com). Questi editori hanno una vasta gamma di risorse
per l’integrazione della lettura a prima vista nella prova di coro e la cosa interessante è che nel prezzo d’acquisto di una copia del libro è compreso il permesso di riproduzione del libro
stesso.
L’altra risorsa è Progressive Sight Singing (Lettura a prima vista
progressiva) di Carol Krueger, pubblicato dalla Oxford Universi-
71
ty Press. L’approccio di questo libro all’insegnamento sia dell’intonazione sia del ritmo è dettagliato ed efficace! L’autore è un
didatta esperto che tiene laboratori corali in tutti gli Stati Uniti
ed è meraviglioso.
Ninne nanne del mondo
L’editore Carus Verlag di Stoccarda,
in collaborazione con ECA-EC, ha
raccolto, curato e pubblicato un’antologia di ninne nanne del mondo
(Wiegenlieder aus aller Welt). L’iniziativa si concretizza nell’ambito
del progetto VOICE (Vision On Innovation for Choral music in Europe)
di cui il Festival Europa Cantat svoltosi a Torino nel luglio-agosto 2012
fu una delle prime e la maggiore
delle iniziative. La raccolta stessa
delle 51 ninne nanne iniziò proprio
in questo ambito torinese. Di recente (giugno 2013) le ninne
nanne sono state presentate in un bel volume con partiture e
accordi per chitarra, accompagnato da CD. Il volume è riccamente illustrato da fotografie di bambini di culture diverse insieme
ai loro genitori e nonni. Il volume è reperibile nei migliori negozi, online e presso la stessa casa editrice Carus Verlag
(www.carus-verlag.com/Wiegenlieder_aus_aller_Welt.html).
Per agevolare i possibili fruitori non parlanti la lingua tedesca è
stata creata una pagina web specifica dove chiunque può godere delle partiture, dei testi, delle traduzioni del testo in lingua
inglese e degli ausili sonori per la corretta pronuncia dei testi e
il canto dei temi musicali. In autunno – prima dell’Assemblea di
Pécs (8-10 Novembre) – il volume sarà disponibile anche in lingua inglese con il titolo Lullabies of the world.
Nicola Montenz, L’armonia delle tenebre.
Musica e politica nella Germania nazista
(329 pp., Archinto 2013)
Inscindibile dalle vicende della Germania nazista, la musica scandì l’ascesa e il crollo del regime hitleriano,
assumendo un ruolo di preminenza
assoluta su tutte le arti. Questo libro
ne indaga l’intimo intreccio con la politica tedesca tra il 1933 e il 1945, analizzandone le tappe principali: i presupposti; l’epurazione di ebrei e
oppositori politici; la costruzione del
“mito” del Terzo Reich da parte dei
musicologi; l’ascesa e la caduta di
nuovi e vecchi astri; l’effimero tentativo di colmare il vuoto lasciato dalle epurazioni; infine, la sorprendente organizzazione musicale del sistema concentrazio-
72
nario. Accanto alle vicende dei musicisti ebrei, vittime predestinate e oggetto delle
più gravi vessazioni, emerge un groviglio inestricabile di partigianerie e atti di resistenza, fedeltà cieca al regime e opportunismo, invidie e rivalità tra potenti, sullo sfondo della più spaventosa tragedia collettiva del XX secolo.
UN COMPOSITORE ALLA VOLTA
Battista Pradal (Oderzo, Tv)
Il protagonista a cui vogliamo dedicare questo angolo di Mondocoro è italiano.
Compositore non più di primo pelo (vanta infatti già un curriculum ricco di attività e di premi conseguiti in Italia e all’estero), direttore dell’orchestra e del coro In
Musica Gaudium di Oderzo dove è nato nel 1964, Battista Pradal merita questa
segnalazione.
Dalla Lituania ci giunge fresca notizia di un’ultima sua affermazione prestigiosa.
Il brano Io sentia voci per coro misto a cappella di Battista Pradal il 27 maggio
2013 ha vinto il primo premio al concorso internazionale di composizione Polifonija di S̆iauliai, in Lituania. Il concorso era organizzato dal S̆iauliai State Chamber
Choir Polifonija e dalla Lithuanian Composers’ Union. Italianissima la composizione, i cui versi sono tratti dal canto XVI del Purgatorio del nostro sommo poeta Dante Alighieri. Essa è stata eseguita nella Polifonijos Concert Hall S̆iauliai dal coro
Polifonija e al concerto di gala del III Festival Corale Internazionale S̆iauliai Cantat
2013.
Altrettanto fresca perché ancora del 2013 è la notizia che arriva dalla California
dove Battista Pradal ha conseguito il prestigioso primo premio, categoria Musica
Liturgica, International sacred music competition for composers - Foundation for
sacred music composers, Menlo Park, California (USA) con il brano Christus resurgens per coro e orchestra d’archi.
Ma – in breve – chi è Battista Pradal? Dopo il diploma in pianoforte presso il conservatorio J. Tomadini di Udine, sotto la guida di Wanda Leskovic, ha conseguito
nel 1992 il diploma in musica corale e direzione di coro con Antonio Piani e, successivamente, il diploma in composizione presso il conservatorio B. Marcello di Venezia, studiando con Daniele Zanettovich e con Riccardo Vaglini. Ha studiato direzione d’orchestra frequentando il master triennale presso l’Accademia Europea
di Vicenza. Ha approfondito lo studio della direzione corale e orchestrale seguendo corsi e masterclass tenuti da Julius Kalmar, Donato Renzetti e Piergiorgio Righele. È stato membro di giuria a concorsi nazionali e internazionali di composizione e canto corale. Oltre a Stati Uniti (California) e Lituania, Francia (a Tours),
Roma, Trento, Gorizia, Torino, Cortemilia (Cn), Arezzo, Fermo, Milano, Tricase (Le)
e – di nuovo – Stati Uniti (Massachusetts a Boston), sono le località in cui dal 1991
a oggi Battista Pradal ha ottenuto i suoi maggiori successi da musicista valente.
Futuro facilmente prevedibile: interessante e ricco sia per il compositore sia per la
coralità italiana. A entrambi, Mondocoro e Choraliter porgono le più CORdiALI congratulazioni e i migliori auguri.
Feniarco e Arcc presentano
www.feniarco.it
cori da tutta Italia incontri e nuove conoscenze
turismo
concerti in città e sul territorio
cultura e tradizioni
arte
Festival organizzato da
Associazione
Cori della
Toscana
i
d
l
a
v
i
t
s
fe
a
r
e
v
a
m
i
r
p
o
d
n
a
t
n
a
c
a
r
t
n
o
c
la scuola si in
2014
e
m
r
e
T
i
n
i
t
a
c
e
Toscana Mont
festival per cori scolastici
3•5 aprile
scuole primarie e scuole medie
con il patrocinio di
Ministero per i Beni
e le Attività Culturali
Regione Toscana
Provincia di Pistoia
Comune di Montecatini Terme
9•12 aprile
scuole superiori
Festival associato a
iscrizioni entro il 15 febbraio 2014
seguici su
www.feniarco.it