n. 41 - maggio-agosto 2013 Rivista quadrimestrale di Feniarco Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali TULLIO VISIOLI UNA COMPLESSITÀ RISOLTA WAR REQUIEM BENJAMIN BRITTEN PER GUARDARE LONTANO INTERVISTA A CARLO PAVESE DA MARIBOR A GORIZIA CRONACHE DAI CONCORSI A COR LEGGERO ALLA SCOPERTA DEL VOCAL POP Editoriale Anno XIV n. 41 - maggio-agosto 2013 Rivista quadrimestrale di Feniarco Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Presidente: Sante Fornasier Direttore responsabile: Sandro Bergamo Comitato di redazione: Efisio Blanc, Walter Marzilli, Giorgio Morandi, Puccio Pucci, Mauro Zuccante Segretario di redazione: Pier Filippo Rendina Hanno collaborato: Rogier IJmker, Alessandro Tino, Krishna Nagaraja, Lorenzo Fattambrini, Maria Grazia Bellia, Pier Paolo Scattolin, Ettore Galvani, Marco Maiero, Mauro Marchetti, Giulia Di Censi, Rossana Paliaga, Giuseppe Calliari Redazione: via Altan 49 33078 San Vito al Tagliamento Pn tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 [email protected] In copertina: Roxorloops al Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012 Progetto grafico e impaginazione: Interattiva, Spilimbergo Pn Stampa: Tipografia Menini, Spilimbergo Pn Associato all’Uspi Unione Stampa Periodica Italiana ISSN 2035-4851 Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN Abbonamento annuale: 25 € 5 abbonamenti: 100 € c.c.p. 11139599 Feniarco - Via Altan 49 33078 San Vito al Tagliamento Pn Il discorso tenuto da Malala Yousafzai, lo scorso 12 luglio, al palazzo della Nazioni Unite, davanti al segretario generale, merita di entrare nella storia, accanto ad altri come quello di Kennedy a Berlino («io sono un berlinese») o di Martin Luther King a Washington («io ho un sogno»). Il 9 ottobre del 2012, i talebani spararono in testa a questa ragazza colpevole di proclamare, nel suo blog, il diritto di tutti, anche delle bambine, all’istruzione. Un diritto fortemente contrastato dai suoi attentatori che, dove ne hanno il potere, limitano il diritto all’istruzione a tutti e lo precludono totalmente alle donne. Curata e salvata, Malala ha potuto parlare, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, indossando lo scialle che fu di Benazir Bhutto, durante l’Assemblea della Gioventù, alla presenza del Segretario Generale. È stato un appello ai governi perché garantiscano un’istruzione gratuita e obbligatoria in tutto il mondo per ogni bambino. «Contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, perché sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. L’istruzione è la prima cosa». Ci siamo riconosciuti nelle parole di Malala Yousafzai. Ci siamo riconosciuti anzitutto come cittadini democratici, convinti da sempre che una convivenza civile si fonda sulla conoscenza, mentre dall’ignoranza nascono i razzismi, le discriminazioni, le violenze. Ma ci siamo riconosciuti anche come parte di un movimento corale che si sente, ed è, libro e penna a disposizione degli uomini di tutte le età e di tutte le culture. Un movimento inclusivo, che non respinge nessuno e che per tutti sa trovare il canto giusto. In tante situazioni difficili il coro è la via attraverso la quale può passare un segnale di pace dove c’è conflitto, di integrazione dove c’è emarginazione, di speranza dove rischia di insediarsi la disperazione. Troppo raramente raccontata dalla letteratura e dal cinema (tra i pochi esempi, il film Les choristes), questa scuola di convivenza e di tolleranza, questa palestra di formazione personale e collettiva è l’aspetto più profondo e affascinante del cantare in coro. Credo che Malala possa essere contenta di noi, se mai ha avuto occasione di conoscere il mondo corale. Da parte nostra terremo sempre presente le sue parole, perché il canto corale possa aiutare bambini e adulti a realizzare se stessi e i loro sogni. Sandro Bergamo direttore responsabile n. 41 - maggio-agosto 2013 Rivista quadrimestrale di Feniarco Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali DOSSIER Alla scoperta del vocal pop 2 UN SECOLO DI MUSICA VOCALE BREVE STORIA DEL VOCAL POP & JAZZ Rogier IJmker 6 LA MUSICA È GIOCO COME TRASCORSI DUE ORE CON CIRO CARAVANO Alessandro Tino 8 PORTRAIT 41 UN MONDO TUTTO DA SCOPRIRE SPACCATO SEMISERIO SULLA VITA QUOTIDIANA DI UN PERCUSSIONISTA VOCALE Efisio Blanc Krishna Nagaraja 11 FRAGMENTA A COR LEGGERO IDEE SPARSE RIGUARDO IL POP CORALE Lorenzo Fattambrini PER GUARDARE LONTANO INTERVISTA A CARLO PAVESE 46 L’IMPORTANZA DI CHIAMARLO TESTO Marco Maiero DOSSIER COMPOSITORE Tullio Visioli 14 LA SEMPLICITÀ È UNA COMPLESSITÀ RISOLTA INTERVISTA A TULLIO VISIOLI ATTIVITÀ DELL’ASSOCIAZIONE 48 SFORTUNATO CHI NON CANTA CRONACHE DAL FESTIVAL DI PRIMAVERA Sandro Bergamo, Mauro Marchetti e Giulia Di Censi Alvaro Vatri 20 LA PIGRIZIA DI TULLIO VISIOLI UN’ANALISI E ALCUNE PROPOSTE OPERATIVE PER UN’ESECUZIONE SCENICA CRONACA Maria Grazia Bellia 53 NOVA ET VETERA A LEZIONE DALLA GIURIA IL XII CONCORSO INTERNAZIONALE DI MARIBOR Rossana Paliaga 56 VINCE IL MODERN STYLE CORI GIOVANILI ALLA RISCOSSA Giuseppe Calliari 24 DIES IRAE DIES ILLA IL WAR REQUIEM DI BENJAMIN BRITTEN 58 QUANDO LA TECNICA INCONTRA IL CUORE 52° CONCORSO INTERNAZIONALE DI CANTO CORALE SEGHIZZI Pier Paolo Scattolin INDICE Rossana Paliaga 62 CANTO POPOLARE LES ITALIENNES À TOURS IL SUCCESSO DEL CORO FEMMINILE VOX CORDIS RACCONTATO DAL DIRETTORE LORENZO DONATI Rossana Paliaga 34 LA TRADIZIONE PIEMONTESE IN CONTINUA EVOLUZIONE NENIA DI GESÙ BAMBINO… CONFRONTO TRA DUE SECOLI Ettore Galvani RUBRICHE 64 Discografia 66 Mondocoro UN SECOLO DI MUSICA VOCALE BREVE STORIA DEL VOCAL POP & JAZZ di Rogier IJmker ARRANGIATORE E DOCENTE DI WORKSHOPS SULLA MUSICA VOCAL POP La musica vocale c’è sempre stata. Il suo sviluppo ha attraversato secoli di storia, dal Medievo (e anche prima), quando diverse pratiche polifoniche si svilupparono a partire dal canto gregoriano, passando per il Rinascimento e attraversando l’intera evoluzione della musica occidentale. Ma di sicuro altri conoscono questa storia meglio di me! È per questo che io partirò dal momento in cui ha inziato a diffondersi la musica pop & jazz. UN SEC Al giorno d’oggi, l’universo del pop & jazz è composto da gruppi e musica vocale dai “sapori” molto diversi; ma da dove viene tutto ciò? Erano gli anni attorno al 1900 quando Scott Joplin comparve sulla scena del Ragtime. Pur non trattandosi in realtà di musica vocale, è stato comunque l’inizio di tutta la musica per così dire ragged, con il suo ingrediente principale: il forte stile sincopato. Traduzione dall’inglese a cura della redazione Gli anni Venti e Trenta Andando avanti nel tempo, negli anni ’20 e ’30 troviamo alcuni gruppi molto importanti per lo sviluppo della musica vocale come la conosciamo oggi. Mi vengono in mente due gruppi in particolare. Il primo è quello delle famose Andrew Sisters: tre donne che cantavano per lo più in stile omofonico, utilizzando nella loro musica strutture armoniche semplici. La melodia era sempre affidata alla voce centrale, arricchita da una voce superiore e da una inferiore. Il secondo gruppo vocale è meno conosciuto: mi riferisco a The Ink Spots. Si trattava di un gruppo di quattro ragazzi che eseguivano armonizzazioni con la melodia affidata al tenore principale; si esibivano con accompagnamento strumentale, per lo più di chitarra, e presentavano un sacco di canzoni in stile jive. Basta fare una ricerca su YouTube per capire cosa intendo. Nelle immagini: gruppi vocal pop presenti al Festival di Torino La rinascita del barbershop: gli anni Quaranta Gli anni ’40 vengono ricordati per la rinascita del barbershop (dal 1940 a oggi). Il barbershop si distingue per un suono molto particolare che deriva da uno stile di arrangiamento a quattro voci DOSSIER 3 maschili (o quattro voci femminili; i gruppi misti sono rari). La melodia è affidata alla voce principale; il tenore canta la parte superiore e il basso le note più gravi. Sotto alla voce principale si trova il baritono, che completa l’armonia. Molti sono i brani famosi, e talvolta può anche capitare di trovare un folto gruppo barbershop che canta al termine di un concerto. Non importa se sei di un altro gruppo, l’importante è partecipare e cantare insieme! Lo stile barbershop è legato a regole molto rigide che si possono trovare su numerosi siti web di associazioni. Con l’aiuto di Google le potrete trovare facilmente. Doo-wop: gli anni Cinquanta Si tratta di uno stile di musica vocale rhythm & blues sviluppatosi nelle comunità afroamericane negli anni Quaranta, ma divenuto popolare negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Come genere musicale, il doo-wop si caratterizza per l’utilizzo di molteplici parti vocali, di sillabe nonsense, di un beat semplice, con strumentazione ridotta o assente, e con musica e testi semplici. Alcuni buoni esempi di questo stile si possono trovare in Randy & The Rainbows (Denise), The Crows (Gee) e The Jaguars (Thinking of you), dove troviamo la voce principale sostenuta dai cori. In questo periodo si formò anche un gruppo chiamato The Hi-Lo’s, più legato al repertorio vocal jazz, spesso accompagnato da una big band, ma molto apprezzabile anche per gli arrangiamenti a cappella, scritti principalmente dal talentuoso Gene Puerling. Teniamo presente questo nome, poiché fu uno dei più importanti arrangiatori di musica vocal jazz. Londra dove reclutò nuovi membri per debuttare come Swingle II. Il gruppo si è poi esibito e ha inciso con il nome di The Swingles, The New Swingle Singers e infine, semplicemente, The Swingle Singers. Dal momento della sua rifondazione londinese, il gruppo non si è mai sciolto: quando singoli membri hanno lasciato il gruppo, i rimanenti hanno indetto audizioni per la loro sostituzione. Il gruppo si caratterizza per una sonorità molto particolare, riconoscibile in pochi secondi. Mentre il gruppo francese era COLO DI L’universo del pop & jazz è composto da gruppi e musica vocale dai “sapori” molto diversi. The Swingle: gli anni Sessanta Nel 1959, a Parigi, Mimi Perrin fondò un gruppo vocale chiamato Les Double Six, la cui attività iniziale era principalmente quella di accompagnare cantanti come Charles Aznavour e Edith Piaf. Quando gli otto coristi del gruppo eseguirono il Clavicembalo ben temperato di Bach come esercizio di lettura a prima vista, vi scoprirono un certo intrinseco swing. Fu così che il loro primo album, Jazz Sébastien Bach, registrato come regalo per gli amici e i parenti, fu trasmesso da molte emittenti radiofoniche, il che portò il gruppo a registrare molti altri album e a vincere in tutto cinque Grammy Awards. Il gruppo però non durò a lungo: a causa di problemi di salute di Perrin, Les Double Six si sciolsero nel 1966. Uno degli otto componenti originari de Les Double Six fu Ward Swingle, il quale nel 1962 a Parigi diede vita a un proprio gruppo chiamato The Swingle Singers, anch’esso formato da otto voci di cui diverse provenienti da Les Double Six. Ai loro esordi, i Swingle Singers cominciarono eseguendo opere di Bach in stile vocal jazz. Nel 1973, il gruppo si sciolse e Ward Swingle si trasferì a in genere accompagnato da basso e batteria, il gruppo attuale esegue e registra esclusivamente a cappella. Fino a oggi, hanno fatto cose davvero notevoli e da due anni organizzano un proprio festival a Londra nel mese di gennaio. Opzioni “Unlimited” Nel 1971 accadde qualcos’altro nel mondo vocale: Gene Puerling – lo dicevo io, di tenere a mente questo nome! – formò un gruppo chiamato The Singers Unlimited. The Singers Unlimited si costituirono all’origine per registrare alcuni spot pubblicitari negli Stati Uniti, ma con il tempo si convinsero a entrare in studio di registrazione per incidere una serie di album. Il gruppo ne produsse in tutto quindici, di cui probabilmente il più noto è Christmas. Gli altri quattordici, incisi tra il 1971 e il 1982, sono racchiusi nel cofanetto di sette CD intitolato Magic 4 di canzoni pop come Happy together dei The Turtles, Na na hey hey kiss him goodbye degli Steam e la versione dei The Tokens del tradizionale The lion sleeps tonight. Nel 1980 nacque un gruppo anche negli Stati Uniti. Partendo da una università avventista di Huntsville, Alabama, e integrando nella loro musica influenze R&B e jazz, si presentarono con il nome di Alliance, ma poiché esisteva già dovettero cambiarlo in Take 6 nel 1987, quando ottennero il loro primo contratto. Il suono dei Take 6 è indiscutibilmente riconoscibile: i sei uomini cantano armonie jazz così incredibilmente close e con una sincronia semplicemente superba. In alcune delle loro canzoni si percepisce l’anima religiosa che pervade i membri del gruppo: brani come If you ever needed the Lord before, Get away Jordan e Mary don’t you weep sono basati sullo stile gospel. Tanto per avere un’idea di come costruiscono le loro armonie, guardate questo video su YouTube: http://urly.nl/take6. È molto divertente sia da vedere che da ascoltare! Voices. Se ne avete la possibilità, ve lo raccomando: vale il costo e vi offrirà un ampio spaccato della storia della musica vocale! Gli arrangiamenti di Puerling per The Singers Unlimited gli valsero la reputazione di essere uno dei migliori autori di musica vocale al mondo. I componenti del celebre gruppo vocal-jazz-gospel Take 6 hanno spesso fatto riferimento a Puerling e ai Singers Unlimited come innovatori nel mondo della musica a cappella, affermando di aver imparato dagli arrangiamenti di Puerling. Puerling fece uso di tecniche multitraccia all’avanguardia, appoggiandosi all’ingegnere tedesco Hans Georg BrunnerSchwer, per ricreare le sue avanzate idee armoniche che costituiscono la “firma sonora” del gruppo. Nel processo di sovraincisione, il baritono Puerling e il tenore Shelton avrebbero spesso aggiunto due parti centrali supplementari, dopo di che tutte le parti venivano “raddoppiate” e “triplicate”. La creazione di queste tracce aggiuntive ha permesso di ottenere un suono più pieno e più ricco, distintivo delle incisioni del gruppo, dando origine a una pratica di registrazione ormai comune. E cosa accade oggi? So che il salto dagli anni Ottanta a oggi è molto, molto grande, ma quello di cui voglio parlare è un po’ difficile da suddividere in decenni. Ecco perché. Sono entrato in conservatorio nel 2000 e il mio interesse per la musica vocale era in crescita. Internet era in piena espansione, e allo stesso modo servizi come Napster. Per caso mi trovai a scaricare alcune canzoni di un gruppo a me sconosciuto; più tardi scoprii che quel gruppo si chiamava The Real Group. Fu la mia prima esperienza di musica a cappella concepita in Al giorno d’oggi i paesi del Nord Europa sono protagonisti di una vera e propria “magia vocale”. Gli anni Ottanta Quando parliamo degli anni ’80, ci viene in mente un gruppo: The Nylons. Fondato nel 1978 a Toronto, in Canada, il gruppo si contraddistinse per le sonorità tipiche degli anni Ottanta, caratterizzate da suoni elettronici puliti. E vi prego di scusarmi se esprimo il mio parere, ma tutto ciò non era particolarmente innovativo, semmai un po’ noioso. Ma questo è il mio parere e il mio gusto personale! Il gruppo è conosciuto soprattutto per aver interpretato cover un modo che non avevo mai sentito prima. Non avrei mai pensato che questo gruppo sarebbe stato per me il primo di molti, molti altri gruppi e che sarebbe stato la mia fonte di ispirazione per molti anni fino a oggi. Le soluzioni armoniche e le dinamiche dei loro arrangiamenti sono davvero fantastiche! All’inizio della loro carriera si concentrarono principalmente sulla musica jazz (ed è da qui che viene il nome del gruppo). Più tardi Anders Edenroth, tenore del gruppo, iniziò a scrivere lui stesso le canzoni, seguito da altri membri del gruppo. Alcuni dei brani sono sorprendenti e spaziano soprattutto dal jazz al pop, con incursioni nella musica folk nordica. Solamente nel 2008 ebbi finalmente l’occasione di andare in DOSSIER 5 Svezia e incontrare così i componenti di questo gruppo in occasione del loro stesso festival, alla sua prima edizione. Ed è stato fantastico! Sul sito web del festival lessi che un coro di trenta elementi avrebbe partecipato a uno dei concerti. Prima ancora di conoscerli, ordinai online tutti i loro CD! Si trattava del Vocal Line dalla Danimarca: un gruppo fenomenale! Non ho mai sentito un gruppo così numeroso cantare in un modo così naturale e avvolgente, con arrangiamenti dal suono incredibilmente ampio. Questo era quello che volevo fare anch’io e seguendo il loro esempio nacque l’idea del mio coro! Probabilmente a questo punto vi sarete fatti un’idea su dove voglio arrivare con questo articolo. A mio parere, al giorno d’oggi sono i paesi del Nord Europa ad essere protagonisti di una vera e propria “magia vocale”. Mi riferisco ad altri gruppi come i Pust – che eseguono sia musica propria che interpretazioni di brani tradizionali provenienti dai paesi scandinavi in nuovi arrangiamenti ispirati al jazz, alla musica etnica e alla musica folk – e, naturalmente, i Rajaton dalla Finlandia, che eseguono tutto, dalla musica classica agli ABBA (“Rajaton” significa “senza limiti” in finlandese, a indicare l’ampiezza del loro repertorio). Ma la vera novità al giorno d’oggi è il gruppo danese Postyr Project. Essi utilizzano l’elettronica in modo tale da controllare tutti gli effetti dal vivo direttamente sul palco. Il loro tecnico del suono è lì solo per assicurare l’equilibrio tra le voci, tutto il resto di ciò che eseguono dal vivo sul palco, anche se sembra impossibile, lo fanno loro stessi! La musica vocale c’è sempre stata. Conclusioni Questo articolo non vuole di certo essere esauriente. Naturalmente ci sono molti altri gruppi importanti per la crescita della musica vocale come lo è oggi, ma la mia intenzione era quella di fornire un elenco di gruppi che avessero un ruolo particolarmente significativo per questo sviluppo. Ognuno di essi mi ha ispirato e mi ha reso quello che sono oggi, sia artisticamente che come essere umano. Spero che questo articolo possa spingervi ad andare oltre e ad approfondire la ricerca su altri gruppi e altra musica, facendo pulsare il Vocal Pop & Jazz nelle vostre vene! LA MUSICA È GIOCO COME TRASCORSI DUE ORE CON CIRO CARAVANO LA MUS di Alessandro Tino MANAGER DELL’ORCHESTRA VOCALE NUMERI PRIMI In alto: il Coro Pop Unisa a Salerno Festival A pagina 7: Ciro Caravano Entro in casa Caravano e la prima cosa che Ciro mi dice è «Alessà, la musica è gioco». La avverto come una sorta di “regola numero uno” eppure dal tono con cui la declamava non sembrava niente che potesse ricordare un insegnamento, una lezione; più che altro era una cosa del tipo: «Per me è così e mi sono sempre trovato bene! Perché non provi pure tu?». Una prospettiva che condivido in pieno e che mi mette così a mio agio da trasformare l’intervista di dieci minuti in una chiacchierata di due ore comprensiva di una discussione su Amore Psicologico del 2002 (per lui bruttissima, per me fantastica!) e qualche amichevole parentesi su come sia possibile conciliare la vita da musicista e quella sentimentale. Dopo un po’ di discussioni sull’argomento arriviamo a un accordo: si può amare da morire ma morire d’amore no e l’accordo in questione era il re maggiore. A ogni modo insisto per avere la partitura di Amore Psicologico ma niente da fare («Guarda, te le do tutte… ma quella proprio non mi piace!»). Gli chiedo il perché l’avesse messa nel repertorio e mi risponde che ogni tanto qualcosa di demenziale va fatta nella vita. Adorabile. Il repertorio dei Neri per Caso è infatti un insieme vastissimo di inediti e cover di ogni genere, impreziosito dalla collaborazione di artisti eccezionali: da Mina a Ornella Vanoni, da Lucio Dalla a Baglioni passando per Mario Biondi e per un’impensabile Mia Martini. Nell’album Donne (2010) i Neri eseguono un’arrangiamento di Almeno tu nell’universo in cui è stata inserita la traccia della sola voce dell’indimenticata Mimì. «La scelta di un brano», spiega Ciro, «è strettamente connessa al tipo di arrangiamento che vogliamo realizzare. Ogni canzone infatti è il terreno fertile per alcuni spunti di partenza che poi trasformiamo in prodotto finito». Un abito che calza a pennello sull’originale. «Per esempio: ascolto un brano pop ma magari lo immagino bossanova. Mi piace, faccio sentire l’idea di base agli altri. Ci piace… è fatta!». Quello che cerca Ciro è una musica nuova, divertente e con cui possa divertirsi lui in primis perché, appunto, «la musica è gioco». Tra un messaggio terroristico della mia ex ragazza («Per te io non esisto! Per te esiste solo il coro! Muori!») e un consiglio di Ciro («Ale, la musica è qualcosa che hai dentro di te e da cui non puoi staccarti. Se una ragazza non accetta che la DOSSIER musica sia la maggior parte della tua vita allora non ti ama». Saggezza: livello 10 su 10) passiamo quindi a discutere del mondo della coralità amatoriale italiana, mondo che Ciro, direttore e arrangiatore del Coro Pop Unisa (Università di Salerno), ben conosce e di cui ha un’ottima opinione. Freschissima la sua partecipazione a Cantagiovani, nel maggio 2013, in cui Ciro e il Coro Pop sono stati ospiti speciali nonché autori di un concerto divertentissimo e coinvolgente. Dopo il concerto ho avuto modo di ascoltare il parere entusiasta di Silvana Noschese, direttore artistico della manifestazione e grande ammiratrice di Ciro: «Caravano è innovativo e può permetterselo! Ha degli spunti ritmici che sono assolutamente fuori dalla norma». Ciro infatti viene da una famiglia di musicisti in cui spicca la figura dello zio Salvatore “Jimmy” Caravano (e padre di Gonzalò e Mimì, altri due esponenti dei Neri), storica voce degli anni ’50 e ’60 da cui il nipote afferma, con fierezza, di «aver ricevuto in eredità una grande cosa: lo Swing!». Swing appassionante che ritroviamo nell’arrangiamento per coro di un classico come I wish e che in generale è rintracciabile in tutti e sei i Neri per Caso. Gli chiedo allora un paragone tra la sua esperienza nel gruppo vocale e quella nel coro. «Rispetto al gruppo vocale cambia la visuale; nei Neri, siamo in sei e ognuno di noi è, a modo suo, un leader. Nel coro invece il direttore è il punto di riferimento e ciò che cambia non è tanto la prospettiva da cui vedo gli altri componenti, ma quella da cui gli altri componenti vedono me. È una bella responsabilità». Un parere infine sui suoi colleghi: «Ce ne sono tanti che stimo moltissimo; tuttavia in Italia siamo ancora un po’ ancorati alla dicotomia musica non leggera “seria” e musica leggera “canzonette”. Conosco molti professoroni d’accademia un po’ ingessati su queste posizioni. Per loro sembra quasi che la vera musica necessiti di una seriosità e di una austerità che facciano da garanzia di qualità. Ripeto: la musica è gioco! 7 Forse qualche direttore dovrebbe liberarsi di certe sovrastrutture sui propri metodi e poi, perché no, rinnovarsi anche nel repertorio». A questo proposito faccio un inciso. Ciro è autore di un arrangiamento inedito dal titolo Astronomia corale e la cui introduzione è tratta da un monologo di Ettore Petrolini che termina con un eloquente «Sono tutte palle che girano…», frase che è poi il leit motiv del pezzo. Una presa in giro verso molti dei brani ormai notissimi della coralità italiana (non sfuggono alla sua ironia Il bianco e dolce cigno e Vecchie letrose) e anche verso un suo collega, docente di direzione corale al Conservatorio di Salerno, il maestro Antonello Mercurio («Venere è un corpo celeste, Saturno è un grosso pianeta… Mercurio è una palla!») che, intervistato in merito, tuttavia dichiara di non essersi per niente offeso! «Io offeso?! Ma dai… è molto carina Astronomia corale, mi ha fatto divertire parecchio, anche se preferisco Albachiara». Albachiara è un altro dei brani corali che testimoniano l’eclettismo di Ciro: sul celebre motivo di Vasco si posa un arrangiamento in chiave tardo rinascimentale. Ciro prosegue parlando di Feniarco: «Feniarco si sta muovendo egregiamente, fa un’opera di diffusione e propaganda La scelta di un brano è strettamente connessa al tipo di arrangiamento che vogliamo realizzare. SICA È impressionante! È con altri che invece», e qui si toglie un sassolino dalla scarpa, «ho avuto rapporti più difficili. In generale, tramite i Neri per Caso, avrei potuto dare tanto alla coralità, ma in passato non abbiamo trovato grande apertura nei nostri confronti da parte di alcune realtà. Eppure noi la disponibilità l’abbiamo data più volte». Gli chiedo un aneddoto sull’argomento; me lo serve subito. «Ti faccio un esempio: mi ricordo di una rivista musicale italiana di un bel po’ di anni fa al cui interno vi era una rubrica in cui si discettava dei gruppi vocali italiani. Bene, dopo sedicinumerisedici decisero di fare un articolo anche sui Neri per Caso e mi chiamarono per un’intervista». Ci penso un attimo e gli chiedo: «Sedici numeri? Ma negli altri numeri… che hanno scritto?!». Ciro che, credetemi, è una persona piacevolissima, molto autoironica e con un fortissimo senso dell’umorismo, alla mia domanda sorride, fa spallucce e mi regala un eloquente e apodittico: «Boh». Entrambi stiamo ancora cercando la risposta. Magari ci facciamo il prossimo articolo. Magari insieme. Magari! 8 UN MONDO TUTTO DA SCOPRIRE SPACCATO SEMISERIO SULLA VITA QUOTIDIANA DI UN PERCUSSIONISTA VOCALE di Krishna Nagaraja PERCUSSIONISTA VOCALE Se state leggendo questo articolo e siete cantanti, direttori, aspiranti percussionisti vocali, compositori, arrangiatori ecc., questo articolo fa per voi! Scoprirete molte cose sulla percussione vocale che forse non sospettavate. Se invece siete percussionisti vocali già esperti, questo articolo fa per voi! Vi ritroverete in molte delle cose narrate e leggendole probabilmente annuirete con veemenza. E non vi sentirete più soli… La percussione vocale può essere definita come l’arte di creare suoni usando l’apparato fonatorio allo scopo di riprodurre, imitare o comunque “impersonare” uno strumento a percussione. I percussionisti indiani ben conoscono questa disciplina, poiché prima ancora di mettere le mani sulle loro Tabla (se abitano a Nord) o Mridangam (se vengono dal Sud) studiano approfonditamente i complicati ritmi della loro musica servendosi di un vero e proprio “alfabeto percussivo” in cui ogni colpo delle dita sulla pelle dello strumento corrisponde a una sillaba: tha, dha, din, tin e così via. Accostando due o più di queste sillabe si ottengono delle “parole percussive”; più parole danno origine a un periodo, più periodi a una frase, più frasi a un intero discorso. Questo “linguaggio percussivo” è noto come Konnakol. Simili tracce della percussione vocale nelle tradizioni e nei generi musicali più disparati e apparentemente lontani dall’odierna beatbox si possono trovare anche nel Lilting irlandese, nelle Puirt-a-Beul scozzesi, e persino nello Scat Singing. Per scoprire come tutto questo si inserisce all’interno della musica corale, caliamoci nei panni di un/una percussionista vocale e seguiamone i passi durante una ipotetica prova con il suo coro. Il nostro Vocal Percussionist (VP) si reca alla sala prove dove lo attende il coro e il suo direttore: il coro sta scaldando o ha già scaldato la voce. Ecco già un primo motivo per cui taluni decidono di diventare VP: puoi aver festeggiato la notte prima fino alle 3.00, o esserti preso un raffreddore epocale, e comunque presentarti alle prove del coro dopo che gli altri hanno già fatto i vocalizzi senza che nessuno ti dica niente. Mentre i cantori si siedono, il VP prende possesso del suo microfono, accende l’impianto, sistema le casse, controlla i livelli, fa il suo soundcheck in 15 secondi e si siede tranquillo. Tutto questo, ovviamente, se in sala prove ci sono effettivamente un impianto e delle casse. In tal caso generalmente non c’è però un tecnico del suono. Se arrivate in sala prove e c’è un soundman che ha già preparato impianto, casse e livelli, e vi fa lui il soundcheck in 15 secondi, molto probabilmente vi trovate in un altro paese, tipo in Germania. O state sognando. O state sognando di trovarvi in Germania. A questo punto il direttore annuncia il pezzo che sta per essere provato, e mentre tutti scartabellano freneticamente cercando partiture che non ricordano dove hanno messo, il VP sta tranquillamente seduto e osserva divertito. Ed ecco un secondo motivo che spinge taluni a diventare VP: non corri il pericolo di dimenticarti partiture, perché semplicemente non ne hai! La tua linea in genere te la sei arrangiata tu, e te la ricordi benone. Il pezzo parte: il VP comincia il suo groove, muovendosi a tempo per darsi un tono e si ispira facendo strani ghirigori – incomprensibili ai più – con la mano libera dal microfono. Dopo circa 40 secondi tuttavia il direttore ha già fermato tutto, dicendo che il volume della VP è troppo alto e chiedendo al VP (o al soundman tedesco) di abbassarlo. La percussione vocale è l’arte di usare l’apparato fonatorio allo scopo di “impersonare” uno strumento a percussione. Il VP è costretto come tante altre volte a obbedire, e sospirando abbassa i suoi livelli mentre tra sé e sé si chiede che senso ha fare quello che fa se poi alla fine nessuno lo sente. Il pezzo riparte: stavolta i livelli sono soddisfacenti (per il direttore, ovviamente; il quale sorridendo innocente e compiaciuto rivolge il pollice alzato al VP), e si arriva al ritornello, poi alla seconda strofa, e così via. Solitamente, ancora prima del secondo ritornello il direttore ha già fermato il brano ancora una volta perché «il coro non va a tempo: ascoltate il VP!». Al che il VP si chiede, sempre fra sé, come fanno a sentirlo con i livelli così bassi e senza monitors… DOSSIER Si ripete il passaggio: stesso problema. Il direttore decide allora di far provare i bassi con il VP, per stabilizzare bene il ritmo (saggia mossa). Dopo qualche aggiustamento, tutto funziona, e si aggiungono le altre voci di accompagnamento. Se il pezzo è piuttosto complicato però, la questione non è di così facile soluzione: c’è scollamento tra VP e voci intermedie, che o non sentono il loro amico microfonato, o semplicemente non lo ascoltano. Ma ecco che il direttore ha un lampo di genio: prova lo stesso passaggio senza il VP, finché il coro non sta incollato al suo gesto. Nella speranza che il suo gesto sia effettivamente a tempo… Finalmente si aggiungono il VP e il/la solista e ora sì, il pezzo decolla! Il VP si sbizzarrisce in variazioni sul suo groove, in fills (formule ritmiche di chiusura di frase) nei quali può far bella mostra del suo arsenale di fantastici suoni appena imparati, e prodursi in virtuosismi che effettua mantenendo un’aria di grande nonchalance, con l’evidente intento di accattivarsi gli sguardi di ammirazione dei suoi poveri e limitati colleghi cantori, occupati semplicemente a “cantare”. Il che è forse uno dei motivi principali che spinge taluni a diventare VP. Passati un certo numero di strofe e ritornelli (in genere più di due e meno di quattro) è molto probabile che si arrivi a una regione chiamata bridge in cui prima della parte finale della canzone si cambia improvvisamente atmosfera, solitamente alleggerendola. Il direttore ferma tutto e rivolge al VP la fatidica domanda: «Non è che qui potresti fare… non so… qualcosa?». L’eroico VP capisce che è arrivato il momento clou: si trova a dover arrangiare la propria linea in tempo reale. Qui si gioca la reputazione: nella sua mente si susseguono rapidissime le opzioni possibili. Continuo semplicemente con il groove ma più “morbido”? Ossia, a metà tempo? No, troppo scontato. Ok, allora faccio cose supervirtuosistiche di cui forse non sono capace ma che impressioneranno tutti? Forse, ma meglio non rischiare figuracce. Potrei provare a sperimentare degli effetti speciali, tipo quei suoni elettronici che ho sentito fare a quel beatboxer su YouTube… oppure… potrei… hmm… forse è meglio che… vabbè, dai, mi arrendo: «Scusa, cosa vuoi che faccia nel bridge?»… Da questo spaccato della semiseria vita quotidiana di un VP si evincono molte delle caratteristiche di questa rara specie di musicista. Vediamone alcune. Il VP non è uno “scimmiottatore di batteria”: anche se tentasse di imitarla pedissequamente, tanto vincerebbe la batteria. Meglio invece sfruttare le specifiche “umane”, organiche della percussione vocale, per creare qualcosa di unico e diverso da una linea che potrebbe tranquillamente venir suonata da una drum machine o una batteria vera. Tali specifiche sono in primis sonore: la percussione vocale si fonde per sua natura meglio con le voci di un coro. Inoltre, avendo la percussione vocale una “soglia minima di suono” 9 molto più flessibile rispetto agli strumenti a percussione (per farli suonare, devi colpirli con una certa forza…), ha in questo senso più possibilità dinamiche rispetto a essi. Il ventaglio di comunissimi suoni umani che possono essere usati in senso ritmico è inoltre molto vasto: ad esempio, la necessità di respirare di un VP può essere usata come vantaggio se si usa il suono di un’inspirazione incorporandolo in un ritmo. Così si fa veramente di necessità virtù. Inoltre nella percussione vocale possono essere utilizzati estemporanemente tutta una serie di effetti (scratch, lip buzzing, throat bass, ecc.) che con strumenti reali richiederebbero una strumentazione sterminata. Consideriamo tutti i possibili rullanti che un VP può emettere: sono tutti prodotti dalla sua bocca, e sono intercambiabili in una frazione di secondo. Con un vero drumkit invece il rullante è solo uno anche se si può percuotere in vari modi: ma da un rullante acustico non uscirà mai un suono elettronico o La linea di percussione vocale, per essere interessante, non può riprodurre solo ciò che fa la batteria. filtrato, ad esempio, a meno che non si usino ulteriori apparecchiature. Una conseguenza immediata di questo principio è che la linea di percussione vocale, per essere interessante, non può a mio avviso riprodurre sempre e solo ciò che la batteria fa nel pezzo originale. Ogni arrangiamento traspone il brano in un altro mondo, ne esalta alcune caratteristiche e – perché no – ne inventa altre. Ha senso dunque che la percussione vocale segua questa 10 direzione e sia trattata alla stessa stregua delle altre voci corali. La percussione vocale può aiutare significativamente a cambiare dinamiche, atmosfera, panorama sonoro e dunque significato a un brano o a una sua parte. Chi la scrive o improvvisa, che sia il percussionista vocale, il direttore, l’arrangiatore, può utilizzarla in tal senso come uno strumento potente. Se si sceglie di utilizzare la percussione vocale in un brano corale, dunque, credo sia opportuno farne un uso integrante e non accessorio. Anche perché altrimenti il gioco non vale la candela: partendo dal presupposto che la percussione vocale per esprimersi al meglio dovrebbe essere amplificata, sarebbe bene che lo fosse anche il coro, onde evitare il sovrapporsi di due immagini sonore piuttosto distanti tra loro (quella analogica e tridimensionale del coro contro quella processata elettronicamente del VP: il suono reale del coro contro quello proveniente dagli amplificatori della percussione vocale). Si rende necessario allora un trattamento del coro diverso da quello acustico tradizionale; senza contare che bisogna inoltre investire tempo e risorse per munirsi dell’attrezzatura necessaria. Se ci si prende la briga di andare in questa direzione, tanto vale andarci fino in fondo e sfruttare la percussione vocale come uno strumento speciale. Un’altra caratteristica del VP è il suo essere in fondo un arrangiatore “in tempo reale”: deve costantemente tenere le orecchie aperte per poter inserire i suoi suoni in una fascia di frequenze che non sia già occupata dalle voci del coro, da cui altrimenti rischierebbero di venire inghiottiti. Deve quindi sapere come fare il suono che vuole, quando farlo, e perché (quale effetto suscita nel brano, in termini di dinamica, spinta ecc.). Deve costruire la sua linea in modo che impreziosisca l’arrangiamento, e non ne sia semplicemente una traccia metronomica. È interessante peraltro notare come il timing non sia esclusiva responsabilità del VP, specie in arrangiamenti complessi e pop-contrappuntistici. Non è necessariamente colpa del VP se il tempo non è stabile: il saper tenere il tempo dovrebbe essere prerogativa di tutti i cantori, come prerogativa di ogni buon coro pop il saper tenere il pezzo insieme anche senza il percussionista vocale. Infine, il VP deve essere anche un po’ tecnico del suono: sapere come equalizzarsi in assenza di personale al mixer è questione di pura sopravvivenza. Il ruolo del VP dunque richiede pratica e preparazione: se si limita a fare un ritmo qualunque e andare a tempo assomiglia a un cantore che abbia l’estensione di un’ottava e canti in una sola tonalità… Ciò detto, è naturale che esistano tante declinazioni della percussione vocale quanti sono i VP. Ed è ciò che rende quest’arte così speciale: in un coro c’è in genere un solo percussionista vocale e questa unicità ha un’impronta irripetibile che è opportuno evidenziare in tutti i suoi aspetti. Soprattutto è opportuno considerarla come strettamente collegata a tutti gli altri elementi di un brano corale: in una vera sinergia tutto e tutti, dal direttore, ai cantori, all’arrangiamento, al VP, al tecnico del suono, all’apparecchiatura, concorrono in maniera indispensabile alla resa della musica che viene eseguita. Quello della percussione vocale è un mondo tutto da scoprire, in costante evoluzione, suscita immancabilmente la curiosità La percussione vocale si fonde meglio per sua natura con le voci di un coro. di molti e lo stupore di tutti. È forse l’ingrediente più nuovo nella musica corale, e usarlo non più come semplice “fenomeno” ma come risorsa musicale può fare la differenza. Chiunque cominci a praticarla, presto o tardi sperimenta la bellissima sensazione di produrre l’elemento più ancestrale in musica – il ritmo – con l’elemento più terreno dell’essere umano – il proprio corpo. E questo, a ben vedere, è il motivo più vero per cui taluni decidono di diventare VP. DOSSIER 11 A COR LEGGERO IDEE SPARSE RIGUARDO IL POP CORALE di Lorenzo Fattambrini DIRETTORE DELL’IMT VOCAL PROJECT «È tutta musica leggera (ma la dobbiamo imparare)…» I. Fossati, Una notte in Italia Nel mondo anglosassone è molto diffusa la pratica delle voice band modellate sull’esperienza dei barbershop quartets, formazioni corali abituate a rileggere senza troppe remore stilistiche qualsiasi genere musicale dall’antico fino al pop contemporaneo, da Beyoncé a Lady Gaga, passando dal jazz e dagli evergreen portati al successo da gruppi quali Four Freshmen, Mills Brothers, The Platters, Beach Boys e altri. In Italia l’interesse per questa forma particolare di musica corale è abbastanza giovane ma non privo di esempi illustri, dal pionierismo a tratti surreale del Quartetto Cetra negli anni ’50-’70, fino ai più recenti Neri per Caso o Clusters, dove l’uso della voce è divenuto anche pretesto per ricreare raffinati effetti groove tipici della strumentazione ritmica della cosiddetta “musica leggera”, dando origine a un particolare stile corale denominato vocal-pop. Innanzitutto un problema terminologico: invece che di vocal-pop preferirei parlare di pop corale, meglio ancora di popular music corale. Il centro di questo intervento rimane senza dubbio l’uso del coro come strumento per realizzare popular music, sia essa in forma originale o nelle varie riletture o arrangiamenti di canzoni di tipo pop. Quali possono essere le caratteristiche per un coro che esegue una rilettura di una canzone sanremese rispetto a uno che canta repertorio tradizionale o di tipo polifonico in senso stretto, da Palestrina in poi? Esistono realmente delle ragioni tali da impedire la coesistenza in un programma concertistico corale di brani di Monteverdi accanto a canzoni dei New Trolls, di mottetti di Bach accanto ad arrangiamenti in stile afroamericano del Messiah di Händel, di ballate tradizionali accanto alle songs dei Coldplay? Le differenze ci sono, certo. E dovrebbero essere più di carattere tecnico che culturali. Anche in questo ambito il resto del mondo ha molto da insegnarci (vedi le incursioni da uno stile all’altro di King’s Singers, Swingle Singers e simili). La vocalità del pop corale, per essere credibile, deve adottare modalità timbriche il più possibile naturali, con colori non troppo scuri o impostati, laddove le estensioni spesso risultano abbastanza compresse e centrate sul medium della voce. Spesso i suoni nel cantare pop risultano un po’ schiacciati, nasalizzati: tenuto conto di ciò non vanno dimenticate le richieste legate a una tecnica vocale che possa garantire sostegno nel rispetto dello strumento vocale! Questo comporta alcune difficoltà relativamente all’omogeneità timbrica di una sezione, peraltro risolvibili con una costante attenzione durante le vocalizzazioni e con un ascolto attivo all’interno della sezione stessa. Rimangono certamente requisiti necessari l’intonazione, il senso del ritmo, lo swing, una corretta pronuncia, un fraseggio compreso e comune, l’intenzione interpretativa. Vi è poi da considerare, in certi casi, l’uso di adeguati sistemi di amplificazione e di microfoni (individuali, panoramici, dinamici, a condensatore, omnidirezionali, bidirezionali, ecc…). Il mondo dei microfoni è davvero molto vasto, essendoci costruttori di ogni tipo, modello, categoria, tipo di ripresa e prezzo. Fondamentalmente esistono due tipologie di microfoni: dinamici e a condensatore. Quelli dinamici, più adatti per la ripresa di voci singole e a una situazione live, generalmente hanno buone caratteristiche di solidità, funzionalità e basso La vocalità del pop corale deve adottare modalità timbriche il più possibile naturali. prezzo. La loro mancanza principale riguarda la scarsa sensibilità che li rende poco adatti a percepire suoni lievi e a basso volume; di conseguenza possono essere ideali per situazioni nelle quali ogni singola voce sia dotata di microfono. I microfoni a condensatore invece hanno una capacità di ripresa molto chiara e precisa, fedele nel catturare la maggior parte delle caratteristiche di un suono. Sono i microfoni utilizzati normalmente negli studi di registrazione; il loro punto debole sta nel fatto che abbisognano di alimentazione elettrica, cosa che comunemente viene fornita da una scheda audio molto buona o da un mixer; inoltre sono generalmente microfoni molto costosi e un po’ fragili. Se l’ambiente acustico lo permette a mio parere un assetto senza microfoni sarebbe preferibile. Il più delle volte però per 12 il genere pop corale diventa necessaria una amplificazione della voce, anche se minima. Quando addirittura l’uso del microfono non diventi strumentale per alcune effettistiche timbriche realizzabili con efficacia solo con questo strumento, volendo gestire ad esempio le linee del basso e ritmica. Inoltre il pop corale può anche essere accompagnato da strumenti: in questo caso va tenuto conto dei problemi legati ai volumi e al feedback delle voci sul palco. Ma con il microfono allora, come si canta? Tralasciando le situazioni di ripresa panoramica, dove di fatto il coro utilizzerà lo stesso assetto acustico come se non fosse microfonato, prendiamo in considerazione la circostanza nella quale a ogni voce (o a ogni due, meno efficace) sia assegnato un microfono. I microfoni a condensatore, come già abbiamo detto, sono molto sensibili e dovrebbero essere comunque utilizzati da persone esperte e in un ambiente insonorizzato, proprio per evitare altre interferenze sonore con la voce del cantante: quindi non si prestano agilmente all’uso in situazioni live. I microfoni per cantare dal vivo più frequentemente usati sono quindi quelli di tipo dinamico che essendo stati costruiti per percepire solo i suoni molto vicini al microfono risultano di conseguenza meno sensibili dei condensatori. Se così non fosse nel microfono, oltre alla voce del cantante, entrerebbe anche il suono degli strumenti sul palco, del pubblico in sala ecc. ecc. Alcuni accorgimenti sono necessari. In linea di massima quando si canta con una bassa intensità il microfono va tenuto accostato alle labbra. Cantando una nota grave a un basso volume o medio è efficace avvicinare ancora di più il microfono alla bocca, fin quasi toccarlo: questo permetterà di ottenere dei bassi più corposi e timbricamente corretti. Man mano che il volume aumenta ci si deve allontanare lievemente e proporzionalmente dal microfono. La distanza massima della bocca dal microfono infine non dovrebbe superare un palmo, a seconda del tipo di voce e di microfono. Per cui se ci si allontana troppo dal microfono la voce non si sentirà. Non solo, anche se non ci si allontana così tanto da non sentirsi, potrebbe essere sempre troppo rispetto alla corretta distanza di esercizio. In questo caso si potrà anche percepire qualche suono della nostra voce, ma sicuramente non tutti. E dopo tutta la fatica fatta durante le prove e il training formativo per ottenere una voce timbricamente ottimale il tutto si vanifica facendo arrivare al microfono solo alcune delle frequenze che compongono la nostra voce, con effetti disastrosi. Altra cosa importantissima, come la distanza, è l’angolazione con la quale si utilizza il microfono. Il microfono, e la capsula ivi contenuta, deve essere tenuto dritto davanti alla bocca, in modo che la parte tondeggiante del microfono (se è tondeggiante ovviamente) dovrà stare proprio di fronte alle labbra. Se si inclina il microfono, il suono prodotto dalla nostra voce, non andando più a impattare sul fronte della membrana della capsula microfonica, risulterà molto diverso da quello desiderato. Microfono o no, per quando riguarda il tipo di vocalità utilizzata nel contesto del pop corale, e non solo, va premesso che il timbro e lo stile sono le caratteristiche intrinseche più importanti in qualsiasi tipo di canto dal momento che ne definiscono una precisa ambientazione culturale, sociale e musicale. Caratteristiche che sarebbe bene salvaguardare il più possibile, per non snaturare i repertori proposti: una voce più rotonda e larga nel grave, come nel Altra cosa importantissima, come la distanza, è l’angolazione con la quale si utilizza il microfono. jazz ad esempio, piuttosto che suoni rauchi e poco vibrati tipici del rock, o voci quasi prive di impostazione per il genere più specificatamente popular… Non sono un sostenitore della filologia a oltranza ma ritengo che una simile attenzione andrebbe adottata davvero per tutti i generi musicali, ponendoci in atteggiamento il più possibile rispettoso dei vari stili al fine di risaltarne i migliori contenuti estetici e culturali. Quante volte ci capita di sentire artisti o cori che proponendo generi diversi da quello maggiormente frequentato tendono a forzarne l’interpretazione rischiando spesso di impoverirne la sostanza! Certamente c’è lo spazio DOSSIER per la sperimentazione e la personalizzazione ma è opportuno muoversi con gusto poiché, citando Duke Ellington, «non esiste musica bella o brutta: esiste musica suonata (cantata) bene o male!…». Talvolta ascoltare una versione di Imagine di John Lennon come se fosse La Montanara fa un po’ tenerezza… qualche volta invece è proprio insopportabile! Spesso il problema deriva anche da una scelta poco attenta dell’arrangiamento o rilettura corale del brano di carattere popular: un capitolo a parte andrebbe affrontato riguardo alle partiture utilizzabili. L’adattamento corale di un brano pop infatti non è cosa da trascurare: bisogna essere consapevoli che il prodotto finale potrebbe risultare diverso, nuovo rispetto all’originale. I brani possono essere arrangiati mettendo bene in evidenza la melodia principale mentre il resto del coro si limita a gestire l’accompagnamento armonico-ritmico; oppure si possono avere delle vere e proprie riletture, quasi una nuova composizione, basate sui temi originari delle canzoni. In questo caso va decisamente esteso il concetto di polifonia anche al settore “moderno”: non sono infatti infrequenti riletture corali suggestive, realizzate con scritture degne di valore contrappuntistico e polifonico appunto, in linea con un buon artigianato della composizione polifonica. Nella musica pop – anche se non sempre – risulta inoltre forte la componente ritmica che nella trasposizione corale a cappella potrebbe diventare un ulteriore pretesto caratterizzante per l’arrangiamento o potrebbe essere sostenuta da un capace percussionista vocale: non va trascurata questa risorsa, dal momento che una buona linea ritmica, associata a una valida gestione della linea del basso vocale, potrebbe risolvere le sorti di brani apparentemente privi di verve o personalità! Inoltre una intelligente gestione scenica con opportune coreografie, non invadenti o distraenti ma efficaci sul piano interpretativo, porterà di certo un valore aggiunto alla performance musicale. Ci si può chiedere anche, avendo valanghe di musica corale classica e popolare, di tradizione e d’autore italiana apprezzabilissima, perché mai si debbano emulare i repertori stranieri anziché valorizzare le perle nostrane. Il repertorio “popular” italiano merita certamente di essere riletto anche in modalità corale. Non mancano esempi degni di nota (basta ascoltare qualcosa del repertorio già citato di Neri per Caso e Cluster). I giovani cantori possono essere “catturati” più facilmente proponendo ciò che è più vicino al loro gusto (peraltro influenzato dal mercato), ma la conoscenza dei vari stili vocali dovrebbe essere funzionale anche a quella che è una nostra identità storica di tutto rispetto, a partire dal canto monodico gregoriano, per passare alla musica rinascimentale, 13 madrigalistica, operistica, liederistica fino ai nostri giorni. In generale, mettendo a confronto le difficoltà ritmicomelodiche di brani pop contemporanei con le esigenze di controllo dello swing e con il fraseggio della canzone d’autore, vi può essere quindi un’intenzione “a rovescio”: partendo dal repertorio attuale, rivisitato in maniera mai scontata, con arrangiamenti scelti che mettano a dura prova le capacità musicali e vocali dei giovani coristi, è possibile recuperare alcune prassi del contrappunto storico (dall’imitazione, al canone e via fino a strutture più complesse…) nella speranza che vi possa essere un graduale appassionarsi al repertorio antico, che personalmente ritengo irrinunciabile. Il mezzo (melodie e ritmi accattivanti, coinvolgimento della mimica e del movimento corporeo, esterofilia forse un po’ ostentata…) potrà essere discutibile ma è solo uno dei tanti Se l’ambiente acustico lo permette un assetto senza microfoni sarebbe preferibile. tentativi che devono essere messi in atto per una visione più completa e realistica possibile della musica, in particolare quella corale. Il canto pop corale oggi è certamente una delle frontiere della musica per coro, soprattutto per creare interesse nelle nuove generazioni che avrebbero così la possibilità di avvicinarsi alla polifonia attraverso linguaggi più fruibili da parte loro. Brani orecchiabili? Commerciali? Perché no! Pop sì, ma di un certo livello. Canzoni allegre o malinconiche, ritmate o melodiche, non importa: purché possano riuscire a veicolare l’intero progetto formativo, catturando l’attenzione dei giovani (ma non solo giovani anagraficamente) coristi, come corsari a bordo di una meravigliosa nave, motivandoli quindi a considerare nuovi mezzi tecnico-analitici, per una maggior comprensione della scelta dei materiali musicali prima e per una più consapevole esecuzione e interpretazione poi. Il tutto in un’ottica certamente non esclusiva per genere (non solo popular music per intenderci), ma utilizzando quando possibile tutte le occasioni per approfondimenti nel campo della polifonia anche storica, grazie ad arrangiamenti che non rinuncino a utilizzare espedienti contrappuntistici utili ad affrontare la più completa esperienza di pratica corale. LA SEMPLICITÀ È UNA COMPLESSITÀ RISOLTA INTERVISTA A TULLIO VISIOLI a cura di Alvaro Vatri L’home page del tuo sito reca, sotto il tuo nome, le seguenti “qualifiche”: compositore, flautista “dolce”, cantante e didatta. Sono in ordine “gerarchico” nella definizione della tua personalità di musicista? È una bella domanda e cercherò di rispondere. Per molto tempo si è trattato di “qualifiche” comunicanti e parallele, che esprimono i miei principali interessi in campo musicale (e in pratica il mio lavoro): le immagino sempre come disposte in una mappa di territori attivi e in costante trasformazione. Quando, qualche anno fa, abbiamo progettato il sito, pensavo di mettere liberamente a disposizione di chi fosse interessato alcuni materiali e di condividere le mie composizioni musicali e qualche riflessione pedagogica. Per questo, ho scelto un ordine che indicasse immediatamente quanto di concretamente utile si potesse trarre da queste pagine elettroniche. Roma è stato anzitutto per formare una famiglia, ma al tempo stesso ebbi l’occasione di lavorare come tenore nel Coro polifonico della Rai di Roma, diretto allora da Giovanni Acciai. Di questo periodo trascorso in Rai conservo un piacevole ricordo, ma anche il dispiacere di aver assistito – poco dopo e in prima persona – allo smantellamento e alla chiusura ingiustificata di queste importanti e vitali istituzioni musicali. Fu la prima di tante occasioni alla quale s’intrecciarono e seguirono tante utili possibilità di esperienza e di crescita personale che, altrove, ben difficilmente si sarebbero presentate. TULLIO Partiamo da una curiosità biografica. Sei nato a Cremona, vivi a Roma: è stata una scelta o un caso? Personalmente, non credo al caso, penso piuttosto che nella vita di ciascuno ci sia un’orchestrazione di fondo, una “partitura” di possibilità. Quando da Parma sono venuto a Il tuo percorso formativo è molto articolato: diploma in didattica della musica, studio del flauto dolce, canto, pianoforte, armonia jazz, musica elettronica, musicoterapia. Perché, come compositore, hai scelto di dedicarti alla musica per l’infanzia? Il mio prevalente impegno nella musica per l’infanzia ha le sue premesse. A Parma prendevo lezioni di composizione da Giorgio Branchi e questo maestro incoraggiava tutti gli allievi a comporre da subito, senza esitazione. Un giorno, correggendo alcuni esercizi di contrappunto, mi chiese: «Ma non mi porti niente di tuo?». Ricordo che gli risposi: «Sì, ho scritto qualcosa, ma si COMPOSITORE tratta di canzoncine per i bambini della scuola elementare!». Al che mi rispose: «Ottimo, la prossima volta ci lavoriamo insieme, sai, scrivere per bambini è una delle cose più difficili che io conosca!». All’inizio, la mia motivazione è stata dettata (siamo negli anni ’80 e già insegnavo nella scuola elementare) dalla scarsità di composizioni musicali dedicate ai bambini. Si trovavano poche cose e molto, se non si voleva cedere alle suggestioni commerciali, derivava dal repertorio dei canti scout, dal canto popolare e dall’eccellente lavoro di Roberto Goitre. In seguito, qui a Roma ho sviluppato meglio la mia motivazione e ho messo a fuoco i miei intenti, grazie a un ambiente ricco di possibilità, di educatori appassionati alle novità e all’incoraggiamento di personalità come quella di Bruna Liguori Valenti, che tutti conoscono come direttrice di coro, ma è anche un’infaticabile promotrice di nuovi repertori per il settore delle voci bianche. Per ciò che riguarda gli altri percorsi di studio (jazz, musica elettronica…) ho approfittato della competenza degli ottimi insegnanti che animano a Roma la Scuola Popolare di Musica di Testaccio, dove insegno dal ’90 flauto dolce e coro di bambini. La musicoterapia ha preso avvio su invito della dottoressa Annamaria Palmieri, psicologa e responsabile dell’Asl di Centocelle, che, dopo aver ascoltato un mio intervento su arte e disabilità, mi chiese se desideravo formare nel quartiere un coro integrato, che ancora oggi seguo regolarmente e dal quale ho avuto positive conferme sulle applicazioni terapeutiche della musica. Scrivere per l’infanzia è facile o difficile? Quanto si riesce a intercettare l’interesse, la curiosità dei bambini e quanto invece si sovrappone l’immagine o l’idea che abbiamo dell’infanzia da adulti? Scrivere per l’infanzia è difficile e impegnativo. Anche se il risultato, il prodotto finale è all’apparenza semplice, a questo proposito amerei citare una celebre massima dello scultore rumeno Costantin Brâncuşi: «La semplicità è una complessità risolta». Comporre per bambini è un po’ come imparare a muoversi su un’imbarcazione a vela, dove troviamo tutto quello che ci può servire, a condizione di armonizzare e gestire le nostre azioni (che devono diventare necessariamente più “piccole”) in un costante e attento rapporto con quelle degli altri membri dell’equipaggio. Interessare i bambini? Come tutti forse sanno, si tratta del pubblico più esigente e critico in assoluto. Nel mio caso, ho sempre continuato – e per scelta – a lavorare nella scuola (da quella dell’infanzia alla primaria) così posso verificare direttamente le reazioni alle mie proposte compositive e rispondere in tempo reale alle possibili necessità della programmazione scolastica. Lavorare a contatto con i bambini è il migliore antidoto al rischio di fabbricarsi un’idea dell’infanzia falsata e distante e mantiene una relazione viva con un ambiente in rapidissima trasformazione, mai come in 15 quest’epoca. In particolare, ho avuto la fortuna di lavorare per quindici anni, in una scuola dell’infanzia, con Maria Letizia Volpicelli, straordinaria attrice, burattinaia, pedagogista e protagonista di spettacoli per numerose stagioni al teatro per bambini più popolare di Roma: il Teatro Verde. È stata un’occasione unica per capire cosa sia la vera passione per l’educativo. Inoltre, con Maria Grazia Bellia mi occupo del Coro di bambini presso la Scuola Popolare di Musica di Testaccio, dove la sperimentazione e l’interazione creativa non possono di certo mancare. Il test più affidabile per verificare l’apprezzamento di una composizione da parte dei bambini? Quando ovviamente mi viene chiesto di ricantarla e quando, come direbbero gli etnomusicologi, si “oralizza” naturalmente, cioè i bambini la cantano spontaneamente (tutta o in parte) durante le loro attività, i loro giochi o a casa davanti ai genitori. Il repertorio per bambini negli ultimi anni si è molto rinnovato e arricchito. Un’esigenza espressa da molti operatori è quella prestare attenzione ai testi dei brani che molto spesso sono poco interessanti e avulsi dall’interesse e dall’esperienza degli attuali bambini. La tua opinione e come scegli i testi dei tuoi brani. Come ho espresso in altre occasioni, negli ultimi anni, grazie a molte iniziative formative e editoriali (come quelle promosse da Feniarco), abbiamo assistito a una renaissance compositiva per il settore voci bianche che sta andando a colmare un vuoto enorme, documentato dall’assenza nelle antologie dei libri scolastici di educazione musicale di autori contemporanei che non siano musica degli anni ’60, cantautori o gruppi di musica pop-rock. I testi delle canzoni? Fino a non molto tempo fa eravamo fermi a idee molto obsolete di ciò che Comporre per bambini è un po’ come imparare a muoversi su un’imbarcazione a vela. potesse piacere ai bambini, persi tra Vispe Terese e Macchine del capo. Fortunatamente, a partire dal ’60 con Gianni Rodari, abbiamo un’ottima letteratura per l’infanzia dalla quale attingere testi da mettere in musica e valenti e riconosciuti poeti. Per ciò che mi riguarda, in qualche caso scrivo io stesso i testi, ma abitualmente ho i miei autori, come Franca Renzini, Ambretta Vernata, Antonella Abbatiello, la bolognese Sabrina Giarratana e il “gettonatissimo” Rodari. Qualche volta, in seguito alle mie necessità didattiche, ho commissionato testi con precise indicazioni di contenuto, d’immagini ed emozioni. Di recente, ho aperto una collaborazione con Elio Pecora, del quale ho messo in musica diverse poesie inedite per bambini. Alcune di queste 16 composizioni le ho eseguite accompagnandomi al pianoforte il 4 marzo di quest’anno, in un simposio di studi dal titolo Quando la musica incontra la poesia qui all’Università La Sapienza, confrontandomi con musicisti e poeti ciprioti e greci. L’iniziativa ha avuto molto successo e, da parte mia, la scelta di introdurre canzoni per bambini in una rassegna di questo genere, l’ho vissuta come un positivo segnale di attenzione verso un mondo musicale (il repertorio per bambini) in sorprendente crescita e valorizzabile nelle sue potenzialità artistiche. Tullio Visioli________ Didatta, compositore, flautista dolce e cantante, insegna flauto dolce e coro di bambini presso la Scuola popolare di musica di Testaccio (Roma), educazione al suono e alla musica alla Libera Università Maria SS. Assunta di Roma, esperienza del canto per la Scuola di Artiterapie diretta da Vezio Ruggeri, arteterapia musicale alla S.I.P.E.A. e al corso di counseling della Fondazione Fatebenefratelli. La sua attività compositiva è diretta alla coralità (voci bianche, cori giovanili e di adulti), al flauto dolce, allo strumentario didattico, a orchestre e gruppi musicali, mentre quella di formatore è indirizzata alla vocalità e al flauto dolce. Svolge stages – con cori di adulti e gruppi di ricerca – sull’espressione vocale, per rendere concreto il legame tra psiche, emozioni e musica, facilitare lo studio e lo sviluppo delle proprie potenzialità e della “voce personale”. Collabora con MimesisLab, laboratorio di pedagogia dell’espressione dell’Università di Roma 3, coordinato da Gilberto Scaramuzzo, e il master “Educazione e terapia della voce in età evolutiva” presso l’Università di Roma Tor Vergata. Come John Cage è un grande appassionato di funghi e studioso di culture orientali. Nel comporre brani per l’infanzia quanto badi alla didattica, quanto alla pedagogia e quanto alla poesia? La risposta ideale a questa domanda sarebbe di preoccuparsi che la musica che si compone e prende forma sia un po’ come un’alimentazione completa e naturale, che comprenda tutte le sue proprietà. Quando nella musica l’aspetto didattico prevale, fa assomigliare il risultato a una medicina amara. Sono convinto che tutto ciò sia in declino e, com’è avvenuto per la letteratura e l’illustrazione per l’infanzia, si tratta solo di intraprendere un serio e appassionato cammino di ricerca. Il mio intento è di avvicinarmi il più possibile all’ideale greco della paideia. Il termine deriva dal verbo greco paideuo che significa “nutrire” e il suo risultato ideale è un oggetto o, in senso più esteso una pratica, nella quale poesia, pedagogia e didattica convivono armoniosamente. Tra le mie composizioni, se dovessi indicarne una nella quale ho toccato questo equilibrio ideale, citerei senz’altro Sotto la luna o Amico Vero: laddove il testo poetico collabora in perfetta simbiosi con l’interpretazione e il carattere del testo musicale. “Ispirazione” e “committenza”: quanto agiscono questi due fattori nella tua attività di compositore? La committenza è una sfida che spesso mi coinvolge e mi motiva a fare; l’ispirazione è un allinearsi improvviso di pianeti, una specie di energia consapevole che ti attraversa e ti spinge a comporre come se tutto scaturisse per incanto. La prima richiede applicazione e solido artigianato e la seconda è il fiore che ogni tanto sboccia da una pratica costante e assidua. Potrà sembrare contraddittorio, ma spesso trovo molta più ispirazione attraverso la committenza che nella libera attività. Una delle recenti committenze, che mi ha molto coinvolto, è stata espressa da un coro di adulti, le voci maschili de Le penne nere di Aosta, per il quale ho scritto Confini (testo e musica) occupandomi del delicato tema dell’appartenenza. E anche per le scuole o per gruppi di istituti comprensivi ho ricevuto commissioni su temi ispirati alla convivenza, al rispetto, alla nostra Costituzione o ad esempio, da parte del coro Le cinque note di Vedelago (Treviso), diretto da Chiara Cattapan, mi è stato richiesto un brano musicale a due voci e pianoforte ispirato alla tragedia della Shoah, sul quale si sta ora montando un video interpretato dai bambini e prodotto con criteri assolutamente professionali. Sul piano più strettamente musicale, quali sono gli elementi del tuo linguaggio musicale, hai cercato (o sei alla ricerca) un tuo stile personale “riconoscibile” e che t’identifichi oppure… Posso identificare alcuni tratti del mio stile: interesse per l’invenzione armonica, prevalenza di suggestioni e interferenze modali, attrazione per il ritmo e il rapporto col movimento e la danza, melodie cantabili che utilizzano raramente ampi intervalli, cura dei dettagli, umorismo e gusto della citazione divertente… Credo di avere uno stile personale o un’identità, ma come conseguenza del mio bagaglio di ascolti e di esperienze, perché sono convinto che, come le inflessioni del nostro discorrere quotidiano o le nostre frasi ricorrenti, anche nella musica questi tratti distintivi affiorino naturalmente e non abbiano necessità di forzature. Allo stesso modo, nella musica che scriviamo (ed è inevitabile) affiorano anche tutte le nostre passioni: siamo una generazione che ha studiato in conservatorio, COMPOSITORE 17 Sì, come accade un po’ a tutti i compositori ci sono brani ai quali sono affezionato e che non hanno incontrato il riscontro che avrei desiderato come Il vento, Erano in sette, Quattro gatti, C’è un treno che corre. Per esperienza so anche che, prima che una proposta musicale si affermi, in un mondo artigianale (vivaddio) e lontano dall’universo mediatico dei Ti lascio una canzone come quello della coralità, dove vige la diffusione “porta a porta”, ci vuole tempo e qualche buona occasione di scambio. Le stroncature arrivano per tutti e, se non ne avessi ricevute, credo che dovrei preoccuparmi! Le stroncature servono a riflettere sul proprio operato o, al contrario, a rafforzare la nostra determinazione. Un grande maestro di canto del secolo XVIII, Francesco Mancini, così consigliava: «Imparate soprattutto dalle critiche: ci aiutano a migliorare e non costano niente!». ma è cresciuta ascoltando i Beatles e (nel mio caso) anche il jazz di Miles Davis, il rock progressivo e tanta musica cosiddetta “antica”. Ad esempio, in Goccia dopo goccia, alcune successioni di accordi richiamano le sonorità tipiche dei Genesis e Cantare ci fa bene utilizza i voicing ricchi di tensioni armoniche della bossa nova ibridata col jazz. La tua musica è eseguita moltissimo: quali sono i brani di cui hai riscontro che hanno maggiore successo e perché, secondo la tua opinione e secondo la critica? Credo che i brani di maggiore successo siano Sotto la luna, Filastrocca dell’altro ieri, Goccia dopo goccia, Il verme, Cantare ci fa bene, La casetta degli gnomi, Cielo di città, Voce bella, I mari della luna e, tra le altre cose, una mia armonizzazione e rielaborazione (SATB) di Puer Natus. Si tratta di brani diffusi attraverso Giro Giro Canto o altre pubblicazioni, molto graditi dai bambini per l’aspetto musicale, per la richiesta di un impegno più interpretativo che tecnico e l’impiego di testi suggestivi e non privi di un umorismo che approda, nel caso di Cantare ci fa bene, anche al nonsense, tanto amato dal pubblico infantile. La critica, oltre a diversi riconoscimenti, mi riporta soprattutto le impressioni positive dei bambini o i consensi del pubblico. Tra le cose che mi sono state dette a proposito de Il verme, una delle cose più divertenti è di Giorgio Monari, direttore di coro e musicologo: «In quel brano c’è tutta la storia della musica!». Anche se non c’è niente come l’entusiasmo dei bambini di tre anni della scuola dell’infanzia che alla fine di ogni incontro mi chiedono di cantare “Sciom bom bom”, cioè le sillabe ritmiche iniziali di Dinosauri. È la buona sensazione di aver centrato un obiettivo: quello di far compiere esperienze musicali formative e al tempo stesso gioiose. Molto spesso la tua musica viene “arricchita” dagli insegnanti e dai direttori con strumenti, percussioni, effetti vari: come giudichi queste operazioni e quali sono secondo te i limiti in cui dovrebbero essere contenute? In genere indico sempre in partitura o nelle premesse di una raccolta (come nel caso dei 10 Indovinelli) le possibilità interpretative e di “espansione” e, quando non ci sono, è chiaro che la partitura andrebbe rispettata. Però, si tratta anche di musica che ha una larga e nobile utilizzazione in campo didattico e allora sono sempre bene disposto ad accogliere le ragioni e le motivazioni di questi arricchimenti, Negli ultimi anni abbiamo assistito a una renaissance compositiva per il settore voci bianche. Ci sono dei brani a cui tieni che però sono “incompresi” dagli operatori e dal pubblico? Come reagisci alle critiche e alle “stroncature” (se mai ne hai ricevute)? anzi li accolgo con curiosità e interesse. L’importante è che non si perda il senso musicale e che si mantenga un rispetto sostanziale verso la musica che scrivo, lo stesso che io ho per gli esecutori. La pedagogia musicale offre tante vie d’approccio alla musica e alla pratica corale, tante metodologie che spesso si presentano con caratteri di esclusività. Sappiamo che molti operatori nelle nostre scuole provengono non solo dal mondo accademico: come orientarsi? L’esclusività è quasi sempre un fatto commerciale e dietro un «il nostro è il metodo dei metodi» si nasconde facilmente un’operazione di marketing. Le scuole “esclusive” sono in genere più attente all’applicazione ortodossa del metodo da parte degli operatori che alla relazione con i bambini. Da parte mia preferisco le operazioni di scambio e di arricchimento tra scuole di pensiero e diffido delle pretese di chi dichiara di possedere “soltanto lui” il meglio. Per ciò che 18 COMPOSIZIONI CORALI DI TULLIO VISIOLI Su testi di Gianni Rodari, per la scuola elementare Il gioco dei se (v. e pf.) Pesci! Pesci! (v. e pf.) Domande (2 v. e pf.) La galleria (v. e pf.) Stelle senza nome (v. e pf.) Il treno dei bambini (1 o 2 voci e pf.) Per il secondo ciclo scuola elementare e scuola media I tre dottori di Salamanca (2 v. e pf) I mari della luna (3 v. e pf.) Stracci! Stracci! (2 v., 2 fl.d.s., pf. e perc.) I mari della luna (versione per 3 v., fl., vl., cl., pf.) Quanti pesci ci sono nel mare (v. e pf.) Per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo scuola elementare La casetta degli gnomi (11 canti per voce, pf. e piccoli strumenti) Domani è festa (v. e pf.) Goccia dopo goccia (v. e pf.) Bolli, bolli pentolino (2 v. e pf.) Pecorella (v. e pf.) Aiutiamo Babbo Natale! (v. e pf.) Case colorate (v. e pf.) Dinosauri (v. e pf.) La strada che suona (v. e pf.) Filastrocca del mare (v. e pf.), su testo di S. Giarratana Per la scuola elementare Voce bella (v. e pf.) Venite ad ascoltare (v. e pf.) Girotondo (v. e pf.), su testo di E. Pecora Sotto la luna (v. e pf.), su testo di A. Vernata Filastrocca dell’altro ieri (v. e pf.), su testo di F. Renzini Il verme (v. e pf.), su testo di F. Renzini Canta Canta (v. e pf.), su testo di F. Renzini Quadretto (v. e pf.) C’è un professore (v. e pf.), su testo di F. Renzini Erano in sette (v. e pf.), su testo di F. Renzini Il misterioso maramà (v. e pf.) La gallina che… (v. e pf.) Il dentro e il fuori (v. e pf.), su testo di N. Raffone Marcetta (v. e pf.) Cometa Rock (v. e pf.) Nell’alto più alto (v. e pf.) Nina nanéta (ninna nanna popolare valdostana, per v., fl.d.s. e pf.) Per il secondo ciclo scuola elementare e scuola media Poesie bambine (10 canti per o 2 voci e pf.), su testi di E. Pecora Canzone per gli uomini da salvare (v. e pf.), su testo di E. Pecora C’è una barca che va per il mare (10 indovinelli popolari per v. b. e pf.) Acqua (v. e pf.), su testo di G. D’Annunzio Una voce (v. e pf.) S’io potessi (2 v. e pf.), per i 150 anni dell’unità d’Italia Cantare ci fa bene (v. e pf.), su testo di F. Renzini Il vento (v. e pf.), su testo di F. Renzini A stan blan (2 v. e pf.) La pigrizia (2 v. e pf.) Quattro gatti (2 v. e pf.), su testo di A. Abbatiello I tre giovani d’Antraime (1 + 1 v. e pf.) L’amico vero (2 v., fl. dolci, percussioni, pf. a 4 mani), su testo di A. Vernata L’amico vero (versione ridotta) (2 v. e pf.) Gesù Bambino (2 v. e pf.) Coro a colori (2 v., perc., pf.), su testo di F. Renzini Ninna nanna ninna mamma (v. e pf.), su testo di A. Abbatiello Marina Cocò (v. e pf.), su testo di A. Abbatiello Eco e Narciso (v. e pf.) Il giorno della notte (2 v. e pf.) Una voce (v. e pf.) Strasèr (Stracciarolo) (v., fl.d.b. e pf.) Brani corali a 2 voci Gatti al sole (SSA), su testo di F. Renzini Il Gatto gioca (SS), su testo di F. Renzini Tu scendi dalle stelle (armonizz. SA/TB) Tu scendi dalle stelle (versione in fa magg. a 2/3 voci) Brani corali a 3 voci pari C’è un treno che corre, su testo di F. Renzini L’infinito, su testo di G. Leopardi Brani corali a 4 voci maschili (ATBrB) Confini La ballata dei tesori Brani corali a 4 voci miste (SATB) Armonizzazioni Ai preat Bella ciao Fischia il vento La bella Gigogin Camicia rossa Addio mia bella addio O Venezia che sei la più bella Gli scariolanti Tu scendi dalle stelle La ballata dell’eroe (F. De André) Astro del ciel (F. Gruber) Mottetti Hodie Christus natus est Puer Natus in Bethleem Gloria in cielo Et venerunt festinantes (Luca 2, 16-19; 2,14) “Madrigali” Tempo Lontano, su versi di G. D’Annunzio Aurea Aura d’arie Zuppa d’ovoli, su testo di P. Artusi La galleria, su testo di G. Rodari Da sempre, su testo di E. Pecora Pubblicazioni a carattere musicale C’è una barca che va per il mare, Lapis, Roma, 1999 La casetta degli gnomi, Anicia, Roma, 2002 Cantare ci fa bene, (con G. Sellari e M. G. Bellia), Universitalia, Roma, 2011 Pubblicazioni a carattere pedagogico VariAzioni, elementi per la didattica musicale, Anicia, Roma, 2004 Il baule dei suoni, Multidea, Roma, 2011 COMPOSITORE 19 riguarda la formazione, il conservatorio non ha sempre portato la dovuta attenzione alla pedagogia, occupandosi prevalentemente delle “tecniche” e perdendo talvolta di vista il senso profondo dell’agire musicale. Ciò era inevitabile perché il conservatorio nasce storicamente come una scuola di formazione professionale. Ultimamente siamo in crisi e allo stesso tempo in piena fase di recupero. La crisi ha aperto percorsi di formazione alternativi, come quello della scuola presso la quale insegno qui a Roma, dove puoi praticare e comprendere anche discipline come il canto polifonico di tradizione orale con Giovanna Marini. Si tratta quindi di percorsi d’eccellenza che entrano per forza di cose in competizione col mondo accademico. Questo ci porterà a rivedere i nostri criteri di valutazione e giudizio. Siamo in piena e necessaria trasformazione. La tua musica è apprezzata anche all’estero: quali sono le maggiori soddisfazioni che hai avuto in questo senso? La soddisfazione di sapere che si eseguono le composizioni che scrivo per organici adulti, le mie proposte polifoniche. E questo è avvenuto in Europa, in particolare in Francia, Spagna e Germania, negli Stati Uniti e nell’America del Sud. Ogni tanto qualcuno mi scrive e mi chiede informazioni o m’invia una registrazione. Non mancano anche le esecuzioni delle mie composizioni per bambini, ma c’è il limite della lingua italiana, tanto da farmi seriamente pensare a tradurre i brani più richiesti. Come dicevamo all’inizio la tua attività in ambito musicale è poliedrica: brevemente quali sono i progetti, al di fuori di quelli compositivi, a cui ti stai dedicando? Sto pensando a un testo di studio che condensi le mie riflessioni pedagogiche, i miei studi sulla vocalità infantile e che li organizzi in un modello riconoscibile. In seguito a questo vorrei organizzare insieme ai miei collaboratori un progetto di formazione itinerante a diffusione nazionale. Penso comunque anche a una scuola o a un centro didattico nel quale realizzare a tutto tondo il mio modo di vedere la musica nel mondo dei bambini e poter formare anche giovani insegnanti alla maniera delle botteghe d’arte rinascimentali, ma senza trascurare nulla dei mezzi del nostro tempo. Penso che nella vita di ciascuno ci sia un’orchestrazione di fondo. Sempre nella home page del tuo sito si legge, a chiusura del tuo profilo: «Come John Cage sono un grande appassionato di funghi e studioso di culture orientali…». E con la musica di Cage hai tratti in comune? Certamente, l’umorismo, il gusto del nonsense, l’attrazione per il silenzio e i “paesaggi sonori” (soundscape) e – anche se non riguarda la musica – una spiccata simpatia per il genere umano e una grande prontezza di spirito, come quando, rispondendo a un giornalista che criticando negativamente la sua musica gli disse che anche lui avrebbe potuto scrivere musica simile, replicò: «Ho detto niente che le faccia pensare che la ritenga stupido?». E sapeva anche vedere “avanti” quando nel ’59, anticipando l’idea di globalizzazione affermava: «Il mondo, ormai, è un unico mondo». 20 LA PIGRIZIA DI TULLIO VISIOLI UN’ANALISI E ALCUNE PROPOSTE OPERATIVE PER UN’ESECUZIONE SCENICA di Maria Grazia Bellia DIRETTRICE DI CORO E DIDATTA La Pigrizia è una delle più diffuse filastrocche della tradizione popolare italiana. La troviamo contenuta in una raccolta di poesie per bambini di Ettori Berni (Ettori Berni [a cura di], Poesie per Bambini, canti, versi d’occasione, filastrocche, dialoghi, indovinelli, scelti e riordinati da Maria Bersani, ed. G.B. Paravia, Torino 1939) in una versione leggermente diversa da quella messa in musica da Tullio Visioli, che qui riportiamo, che dichiara di averla appresa in famiglia. La Pigrizia La Pigrizia andò al mercato ed un cavolo comprò; mezzogiorno era suonato quando a casa ritornò. Mise l’acqua, accese il fuoco, si sedette, riposò, ed intanto a poco a poco anche il sole tramontò. Così, persa ormai la lena, sola, al buio, ella restò, ed a letto senza cena la Pigrizia se ne andò. prima e la seconda sezione (bb. 24-29). La terza sezione è caratterizzata da un intensificazione agogica (più veloce, alla ‘Ridolini’). L’idea musicale che abbiamo contraddistinto con a si presenta alla seguenti battute: - (bb. 7-10): ben scandito, sulle parole “La pigrizia andò al mercato e un cavolo comprò mezzogiorno era suonato quando a casa ritornò”. - (bb. 30-33): ben scandito, sulle parole “Così, persa ormai la lena, sola al buio, ella restò, ed a letto senza cena la Pigrizia se ne andò”. - (bb. 43-46): più veloce, alla ‘Ridolini’, sulle parole “Così, persa ormai la lena, sola al buio, ella restò, ed a letto senza cena la Pigrizia se ne andò”. Visioli caratterizza da subito la composizione utilizzando una stretta alternanza di terze maggiori (re-fa#) e minori (re-fa naturale). In questa sezione le due voci corrono all’unisono. All’idea musicale b sono riservati i segmenti della partitura di seguito citati: - (bb. 11-14): più cantabile, sulle parole “mise l’acqua accese il fuoco tchsssch!, si sedette, riposò tchsssch”. - (bb. 34-37): più cantabile, sulle parole “ed a letto senza Personaggi, situazioni, anche singole parole, possono suscitare le associazioni più diverse nei giovani coristi. Il brano, per coro di voci bianche a due voci con accompagnamento di pianoforte, ha una forma tripartita (AA’A). All’interno di ogni sezione la struttura è contraddistinta da quattro segmenti musicali (a, b, a’, c) chiaramente riconoscibili, dove il terzo (a’) è derivato dal primo (a). È dunque possibile enucleare tre idee musicali (a, b, c) ben distinte. La sezione A (bb. 7-23) copre le prime due strofe della filastrocca. Nella sezione A’ (bb. 30-42) è musicata solo la terza strofa: in questo caso sono tralasciate le ultime quattro battute che corrispondono al segmento c. Nella terza sezione (bb. 43-60) è ripetuto il testo della terza strofa utilizzando la medesima costruzione musicale della prima sezione (a, b, a’, c). Questa singolare struttura determina una ricercata asimmetria fra testo poetico e testo musicale volta a superare l’eccessiva prevedibilità della forma strofica. Il brano si apre con una breve introduzione strumentale di sei battute, riproposta come interludio fra la cena ahhhh! la Pigrizia se ne andò ahhhhh!”. - (bb. 47-50): più cantabile, sulle parole “ed a letto senza cena oohhhh! la Pigrizia se ne andò oohhhhh!”. Il tema presenta le azioni che la Pigrizia, tornata dal mercato, compie a casa: l’intenzione è quella di cucinare il cavolo. A tal fine, mette l’acqua in una pentola e accende il fuoco. La fatica è tale da costringere la Pigrizia a sedersi e riposare fino ad addormentarsi senza aver cenato. Le azioni della Pigrizia – metter l’acqua, sedersi e riposare e andare a letto senza cena – vengono rispettivamente sottolineate da suoni onomatopeici che i cori sono invitati a produrre per sottolineare le azioni (bb. 12 e 14 “tchssssch”; bb. 35 e 37 “ahhhh”; bb. 48 e 50 “oohhhh”). COMPOSITORE L’idea musicale a ritorna modificata (a’) alle battute di seguito indicate: - (bb. 15-19): suoni ben tenuti… allargando poco a poco, sulla parola “riposò”. - (bb. 38-42): allargando poco a poco, sulle parole “se ne andò”. - (bb. 51-55): allargando poco a poco, nuovamente sulle parole “se ne andò”. Qui le due voci dialogano facendo echeggiare la stanchezza della Pigrizia nel momento del suo riposo. In questo caso l’alternanza di fa# e fa naturale, già udita alle bb. 7-10, si fa talmente serrata da determinare una sovrapposizione dei due suoni. Le voci producono un continuum sonoro che sembra non avere soluzione di continuità fra le due parti, con un effetto di staticità che rende palpabile la stanchezza della Pigrizia. Infine, l’idea musicale c si sviluppa nei seguenti momenti: (bb. 20-23): espressivo, allargando, sulle parole “ed intanto a poco a poco anche il sole tramontò”. (bb. 56-60): espressivo, allargando, sulle parole “ed a letto senza cena la Pigrizia se ne andò”. La Pigrizia è un brano che in apparenza potrebbe sembrare costruito sulla tonalità di re maggiore. La partitura tuttavia non presenta mai la sensibile (do#), e anche per tale motivo appare più pertinente una definizione modale del brano, costruito su una scala misolidia trasportata sul re. Le prime quattro battute dell’introduzione strumentale sono basate su una pura alternanza di maggiore e minore (la definizione tonale è ancora ambigua). A b. 5 appare un accordo di settima di seconda specie sul sesto grado di re maggiore, e nella battuta successiva un accordo di settima sul sesto grado abbassato che risolve sulla dominante di re con la quarta e la sesta (minore) non risolte; quest’ultima armonia a sua volta cadenza sull’accordo di re maggiore di b. 7, nel momento in 21 cui entrano le voci. Immediatamente dopo (bb. 8-9), appare una cadenza modale misolidia (do naturale VII - re I). Da sottolineare anche l’armonia che appare sul terzo e quarto tempo della b. 10, un accordo di nona di quarta specie usato sul secondo grado abbassato della scala di re (mi b) che dovrebbe normalmente risolvere sul primo grado, ma che a sorpresa modula, diventando il quarto grado di si b. Si tratta di un si b lidio (quindi con il mi naturale), mantenuto fino a b. 14, dove riappare la cadenza VII-I che riconduce al re misolidio d’impianto. A b. 19 c’è ancora un accordo sul secondo grado abbassato (mi b) che, questa volta, risolve naturalmente sulla tonica. Il carattere modale del brano è ribadito dall’impiego di accordi per quarte sovrapposte nelle bb. 20-23. Il brano rappresenta bene la poetica di Visioli. Nelle sue composizioni per coro di bambini è sintetizzato un pensiero musicale intriso di curiosità, ironia e ricerca. Nulla è lasciato al caso e le idee si intrecciano tra loro in un discorso musicale fluido e avvincente e per l’ascoltatore e per l’esecutore. Visioli ha il coraggio e la forza di scrivere non per i bambini ma con i bambini. Ogni sua composizione è un acquerello in cui ciascuno può specchiarsi e far vibrare con la voce il proprio mondo reale e fantastico. La Pigrizia, dalla partitura alla scena Accanto a un’analisi di tipo tradizionale mi sembra utile proporre qui una lettura della partitura che la esamina in funzione della sua messa in scena. Nel caso preso in esame il brano non è destinato a un’esecuzione di tipo teatrale. Per analisi scenica intendo quindi lo studio che direttore e coristi affrontano interrogando la partitura al fine di costruire un’esecuzione teatrale del brano che vada anche oltre le esplicite intenzioni dell’autore. Si tratta di esplorare le potenzialità drammaturgiche di testo e musica per approdare dunque a una convincente rielaborazione scenica. Come avviene questo processo? L’idea è quella di interrogare Visioli ha il coraggio e la forza di scrivere non per i bambini ma con i bambini. il testo letterario in una prospettiva per l’appunto teatrale. La tematica e le situazioni presentate dalla poesia messa in musica vengono sviscerate nel corso di incontri preliminari volti a individuare le situazioni che più stimolano la fantasia dei coristi da un punto di vista narrativo. Si procede per evocazioni: personaggi, situazioni, anche singole parole, possono suscitare le associazioni più diverse nei giovani coristi. Compito del direttore è quello di accogliere le proposte e mettere nelle condizioni i coristi di incorporarle in varie 22 forme – testuali, musicali, mimiche – nell’interpretazione del brano. A questo punto interviene l’analisi della partitura; lo scopo è quello di verificare quali degli spunti proposti già intrinseci alla partitura e cosa invece va aggiunto all’atto dell’esecuzione. Le aggiunte possono manifestarsi come amplificazione di alcuni episodi musicali oppure come vere e proprie interpolazioni. Ma perché mettere in atto un intervento di questo genere sulla partitura, intervento che potrebbe a prima vista apparire arbitrario e gratuito? L’idea di fondo è quella che i coristi sono in grado di giungere a un apprendimento significativo del brano e a un’esecuzione vocale realmente espressiva di esso se la motivazione al fare implica anche un forte coinvolgimento emotivo. La sollecitazione di una efficace risposta emozionale nei coristi riposa sulla possibilità di attivare la loro attitudine al fantastico. Questo è il motivo dell’importanza di una lettura del testo che non si limiti ai contenuti esplicitamente espressi, ma cerchi di mettere questi ultimi in rapporto col mondo immaginativo dei coristi. In questo modo essi saranno in grado di comprendere le soluzioni compositive messe in campo dall’autore per esprimere determinati contenuti del testo. Si vuole così offrire in primo luogo ai coristi un’opportunità di lavoro che li coinvolga attivamente. L’esperienza ci conforta nel sostenere che un coro che utilizza la voce muovendosi all’interno di uno spazio scenico migliora le capacità di ascolto, di relazione, di attenzione e concentrazione. L’emissione vocale risulta più rilassata e il livello di partecipazione del gruppo corale è sostenuto da una forte motivazione al fare che coinvolge non solo la voce ma il corpo nella sua globalità. La proposta di utilizzare la partitura corale per andare in scena ridefinisce anche i ruoli di ciascuno all’interno della relazione. Il direttore non è solo colui che istruisce e i coristi non sono solo coloro che apprendono; tra di loro si attiva un nuovo processo basato sulla cooperazione che coinvolge tutti, ciascuno con le proprie conoscenze e competenze, in un lavoro progettuale attorno alla partitura, che diventa al tempo stesso copione e canovaccio. Il repertorio di Visioli si presta particolarmente a essere utilizzato per operazioni di messa in scena corale, e per la scelta dei testi e per il tipo di scrittura utilizzata. Non mancano infatti nelle sue composizioni momenti in cui il coro e il direttore possono “agire”. La lunga collaborazione con Visioli nella conduzione del coro di bambini della Scuola Popolare di Musica di Testaccio di Roma ha permesso di verificare insieme al compositore l’efficacia del processo qui presentato. L’analisi scenica de La Pigrizia che di seguito presento è una sintesi delle proposte avanzate dai bambini in diversi contesti scolastici ed extrascolastici durante le attività di coro scenico che nel tempo ho condotto. Come primo passo per avviare il processo di drammatizzazione introduco i coristi a una lettura del testo per approfondirne gli aspetti narrativi e, successivamente, sollecito una comparazione delle osservazioni rilevate con le soluzioni musicali elaborate dal compositore. Chi sono i personaggi? Dove si muovono? Come si muovono? Dove si svolge la vicenda? Cosa dice la Pigrizia? Come lo dice? Al mercato la Pigrizia interagisce con qualcuno? Sono sufficienti alcune di queste domande per attivare una discussione di gruppo. Si prende nota delle risposte, delle idee, delle soluzioni avanzate. Ciascuna proposta sarà oggetto di studio e ricerca da parte del gruppo: dei coristi tra loro e tra questi e il direttore. Lo studio del testo narrativo in funzione teatrale mette in evidenza l’opportunità di definire in maniera efficace da un punto di vista scenico i luoghi che fanno da sfondo alle azioni della Pigrizia: il mercato e la cucina. Dalla comparazione fra la prospettiva scenica del testo agita dai bambini e le soluzioni adottate nella partitura dal compositore si evince infatti come la musica contenga momenti funzionali Nelle composizioni di Visioli per coro di bambini è sintetizzato un pensiero musicale intriso di curiosità, ironia e ricerca. a costruire il personaggio della Pigrizia, mentre non sono presenti sezioni o spunti musicali che esplicitamente evochino i luoghi. Parallelamente al lavoro musicale di analisi e comparazione si attiva fra i coristi il reperimento di oggetti e costumi che possono essere utili per andare in scena. La proposta dei coristi di caratterizzare efficacemente il personaggio della Pigrizia implica un lavoro di costruzione dello stesso personaggio. Una possibile soluzione è quella di mettere in scena la Pigrizia come personaggio muto, affidandone la definizione drammatica alle sole azioni mimiche. In partitura tuttavia troviamo indicazioni che, pur non essendo esplicitamente assegnate a una voce solista, possono costituire un primo materiale utile alla costruzione di una parte vocale che possa accompagnare le azioni della Pigrizia. Ci riferiamo alle onomatopee presenti alle battute 12, 14, 48 e 50 che, estrapolate dal loro contesto dell’esecuzione corale, si prestano a essere elaborate per essere affidate a una voce solista che impersonerà il protagonista della filastrocca. Le elaborazioni più “riuscite” sono state quelle che hanno lasciato libero il personaggio di improvvisare, con la voce parlata, commenti alle azioni cantate dal coro. In questo caso la partitura si è arricchita dunque di una linea di parlato che accompagna liberamente il canto. La Pigrizia va in scena e improvvisa declamando la sua indolenza, la lentezza COMPOSITORE delle proprie azioni, la noia che prova, ecc. con l’obbligo di eseguire, nei tempi previsti dalla partitura, le onomatopee. Un lavoro attento sulla postura e sull’andatura del personaggio facilita l’improvvisazione vocale, supportata da riflessioni collettive sulle caratteristiche proprie dell’essere pigro. In adesione alle indicazioni della partitura, dalla b. 43 in poi la Pigrizia potrebbe amplificare la sua lentezza attraverso il parlato e con movimenti del corpo, creando un forte contrasto con l’esecuzione del canto che, per indicazione del compositore, dovrà essere più veloce, alla ‘Ridolini’. Infine, in tutti i segmenti a’ (bb. 15-19, “riposò”; bb. 38-42, “se ne andò”; bb. 51-55, “se ne andò”) il coro potrebbe unirsi alla lentezza della Pigrizia accompagnando il canto con movimenti sostenuti del corpo che esplora i diversi livelli dello spazio. I coristi hanno talvolta avanzato la proposta di realizzare una scena di mercato come introduzione del brano; ciò offre lo spunto per realizzare un’improvvisazione vocale e strumentale. Un ipotetico lavoro di ricerca è quello che potrebbe dar luogo a una visita individuale o di gruppo a uno dei mercati diffusi sul territorio allo scopo di “catturare” suoni, rumori, atteggiamenti dei venditori, ecc. Si può prendere nota su un taccuino o per mezzo di registrazioni. I coristi acquisiscono così un ampio vocabolario durante l’esperienza diretta o attraverso altri mezzi predisposti dal direttore anche grazie alla collaborazione delle famiglie (video, interviste, film, ecc.). Laddove fossero a disposizione mezzi tecnologici adeguati, il repertorio dei richiami dei venditori può essere elaborato al computer utilizzando semplici programmi di editing. In questo caso si lavorerà a costruire una “colonna sonora”, realizzata assemblando le voci e i suoni del mercato, da utilizzare come introduzione al brano. Il lavoro di ricerca può coinvolgere gli insegnanti dell’area letteraria che potrebbero prendere spunto del tema per approfondimenti storici e di costume. 23 Uno spazio all’interno della scena dovrebbe essere ben riconoscibile come la cucina, il luogo in cui la Pigrizia svolge le sue lente azioni. Le bb. 11-14 offrono la possibilità di inserire un momento strumentale (libero o strutturato) realizzato utilizzando gli utensili della cucina (mestoli, pentole, tazzine, cucchiaini, sveglie, ecc.). Abbiamo a disposizione quattro battute? sono sufficienti? Il coro e il direttore possono decidere di ampliare la sezione inserendo uno o più ritornelli. Il brano strumentale può accompagnare la linea del canto e può alternarsi a esso. Mi piace ricordare la proposta di una delle mie coriste più riservate di aggiungere nella composizione i dodici rintocchi di campana scanditi della chiesa del mercato. L’idea, accolta con grande entusiasmo dal gruppo, dopo una serie di tentativi, si concretizzò eseguendo i rintocchi sulle sei battute di introduzione strumentale (due colpi di campana per ciascuna battuta). Le proposte di messa in scena realizzate in classe coi i bambini non si sono limitate a quelle qui sinteticamente descritte. Lo scopo di questa analisi non è dunque quella di fornire un copione a chi intende proporre una versione scenica de La Pigrizia di Tullio Visioli ma offrire alcuni stimoli operativi, fra i tanti in grado di incoraggiare direttori e gruppi corali ad affrontare una lettura scenica del testo. Un’impostazione di questo tipo offre la possibilità di affrontare col coro, parallelamente a un attento e consapevole lavoro sulla vocalità (respirazione, emissione, risonanza, intonazione) una ricerca personale e di gruppo che possa favorire la consapevolezza dell’espressione corporea, tale da Il repertorio di Visioli si presta particolarmente a essere utilizzato per operazioni di messa in scena corale. facilitare l’azione narrativa attraverso l’uso del corpo in movimento. Il clima di ricerca e collaborazione connaturato al processo favorisce un’azione sinergica del gruppo che migliora la qualità e l’espressività del suono corale in autonomia dalle indicazioni del direttore: l’autonomia che il direttore lascia ai coristi contribuisce a sviluppare quell’intelligenza di gruppo che nel caso del coro si manifesta in una coesione vocale e in una partecipazione globale del corpo che canta. Per tentativi ed errori, grazie alla distribuzione dei ruoli condivisa dal coro, si va in scena. La lezione diventa quindi un laboratorio scenico in cui ciascuno “nei panni di” interpreta il proprio personaggio nel dialogo vocale con gli altri; un ambiente di apprendimento in cui ciascuno coopera alla costruzione della scena sonora. Infine, l’uso di costumi e oggetti di travestimento risulta di fondamentale importanza per attivare il gioco simbolico. 24 DIES IRAE DIES ILLA IL WAR REQUIEM DI BENJAMIN BRITTEN di Pier Paolo Scattolin DOCENTE DI MUSICA CORALE E DIREZIONE DI CORO AL CONSERVATORIO DI BOLOGNA E DIRETTORE DEL CORO EURIDICE Il War Requiem (op. 66) fu composto da Britten per la cerimonia di riconsacrazione (30 maggio 1962) della restaurata Cattedrale di San Michele a Coventry che era stata distrutta durante un bombardamento della Lutwaffe: undici ore ininterrotte di distruzione e terrore, dalle sette di sera alle sei di mattina del 14-15 novembre 1940 ridussero la cittadina di Coventry a un cumulo di macerie; il nome in codice dell’operazione era quello di una pièce popolarissima di Beethoven, “Sonata al chiaro di luna”, il cui romantico nome contrasta in maniera truculenta con il risultato dell’azione bellica: opposte atmosfere costituiscono anche la trama di quest’opera di Britten. La scelta del compositore di inframezzare il testo latino della messa di Requiem e dell’Officio della sepoltura con alcune poesie intensamente liriche del poeta-soldato Wilfred Owen, morto al fronte il 4 novembre 1918 a venticinque anni (una settimana prima della firma dell’armistizio), proietta la composizione del War Requiem al di fuori dell’occasione per cui fu scritta. Il pacifismo di Britten trova la sua più precisa estrinsecazione in queste poesie fondamentali della letteratura inglese sulla Grande Guerra, dove il senso della pietà verso i caduti e del dolore cocente e mai pacificato rappresentano la più aspra denuncia dell’assurda inutilità di ogni attività bellica: il famoso Anthem for Doomed Youth (Inno per la gioventù condannata), o The Parable of the Old Man and the Young (La parabola del vecchio e il giovane, sconcertante sovvertimento dell’epilogo del sacrificio di Isacco), o ancora lo straordinario e incompleto Strange Meeting (Strano incontro, in cui è descritto un allucinato e commovente incontro con un soldato nemico) sono liriche che ben rappresentano al riguardo il pensiero anche del compositore. Il dualismo dei testi in cui la rappresentazione apocalittica e catartica di quello religioso si compenetra perfettamente nella pietas è risolto da Britten con una dialettica affascinante che conduce per mano l’ascoltatore in un percorso verso una rappacificazione impossibile ma realizzata attraverso una visione onirica.1 Anche la dislocazione spazializzata dell’organico vocale, corale e strumentale doveva dare un segnale di un messaggio non monolitico, ma frammentato come lo erano le fonti sonore. L’alternanza tra il testo latino e quello delle poesie inglesi2 assume un valore dialettico creando una fortissima tensione espressiva a tal punto che qualche critico musicale ha perfino intravvisto la volontà di Britten di assumere un atteggiamento fortemente ironico se non DIES IRA DIES ILL La cattedrale di Coventry NOVA ET VETERA sardonico nei confronti di chi detiene il potere e decide le sorti degli uomini. Al pubblico degli ascoltatori fu offerta non una semplice pièce musicale d’occasione, ma un momento di profonda riflessione, un lungo sermone vischiosamente architettato durante tutto il tragitto della composizione in cui il rito religioso è piegato a una denuncia che non avrà soddisfazione, a una speranza che trova corrispondenza solo nella pietà, all’amara constatazione di un’umanità che non cambia.3 Un Requiem che ha una componente “teatrale” non solo per la magniloquenza del linguaggio musicale ma anche per una visione di una realtà simbolica e nascosta quale per esempio l’incontro irreale dei due soldati che analizzano freddamente ma lucidamente in che cosa consista la guerra, con l’alito della morte sempre incombente ma con cui si può sedere a fianco convivialmente (Out there nel Dies Irae). La strumentazione si caratterizza con tre diversi assetti: il soprano e il coro misto con grande orchestra4, il tenore e il baritono con orchestra da camera5, il coro di voci bianche con organo. Nella prima esecuzione per le parti delle voci soliste maschili furono chiamati due cantanti, Peter Pears e Dietrich Fischer Dieskau, che appunto simboleggiassero la riconciliazione fra le nazioni belligeranti Inghilterra e Germania.6 A confermare quest’ideale aspirazione, nel film col quale Derek Jarman ha realizzato un immaginario accompagnamento al War Requiem, c’è una scena in cui due soldati si incontrano intorno a un pianoforte rimasto miracolosamente intatto dopo un bombardamento: la guerra è un ineliminabile frutto di un potere di un’umanità che non riesce a coltivare la speranza della fede ma che ne mostra un disperato bisogno. AE LA 1. Requiem Aeternam Questa prima sezione della composizione è divisa in tre parti: 1. L’Introito della Messa da Requiem è distribuito e alternato fra il coro che canta “Requiem aeternam dona eis Domine” e il coro di bambini che cantano “Te decet hymnus”. Il suo esordio comporta una prima fase lentamente solenne ma dall’incedere un po’ strascinato e singhiozzante a causa dell’acciaccatura di tutta l’orchestra misurata da una semicroma inserita nella figurazione ritmica della quintina che si contrappunta con greve suono di timpani, tuba, piatto sospeso e pianoforte; la costruzione gradualmente prende forma con frasi sempre più lunghe che si raddensano sostenute da un’orchestrazione magniloquente: si intravvede qui tutta la ricchezza del linguaggio e la monumentalità della composizione di Britten. 25 Tutto questo fa da cornice alla ieratica staticità del coro che intona una sorta di trenodia con due note che melodicante e armonicamente formano il sigillo espressivo della composizione: il tritono. Conclusosi quest’avvio con un diminuendo, segue la sezione affidata solamente alla voce dei bambini e dell’organo (Te decet hymnus) il cui suono crea, contrastante, un’immagine di lontananza, come parlassero dei fantasmi in una dimensione di allucinazione onirica. Il metro della battuta si fa maggiormente vario per rendere più agile la scansione del testo rispetto al metro latino (dimetri trocaici acatalettici) e a cancellare parzialmente l’idea della misura del tempo creandone sostanzialmente una sospensione. Ritorna poi il testo del Requiem aeternam con coro e orchestra che chiude questa prima parte. Il tritono fa#-do, nel quale sono associati il coro e le campane, domina questa fase introduttiva della composizione: il tritono è l’enblema simbolico del War Requiem per la sua vacuità tonale in un rapporto espressivo con il testo che il compositore vuole forgiare musicalmente per dare spazio all’idea della inutilità della guerra e dell’irrimediabilità dell’errore umano; ma proprio questa sua inafferrabilità e instabilità tonale lo rende paradossalmente efficace a rappresentare il riposo eterno guadagnato dal soldato caduto in guerra. 26 della forma compositiva impressa da Britten alla prima sezione del War Requiem è il segnale premonitore del significato che il testo poetico di Owen sovrapposto al testo latino avrà nell’arco di tutta la composizione. 2. Successivamente il tenore dà voce all’Anthem for Doomed Youth (Inno per la gioventù condannata), un canto di struggenti immagini e strazianti sentimenti sulla bara di un giovane caduto. Quali campane a morto per costoro che muoiono come bestie? Solo la furia orrenda dei cannoni, solo il rapido balbettio crepitante dei fucili possono biascicare in fretta le preghiere. Per essi non orazioni o campane irridenti, non voci di cordoglio. Solo i cori, i folli cori striduli di granate gementi e un richiamo di trombe da terre di dolore. Quali candele per l’ultimo saluto? Non in mano ai ragazzi, cui negli occhi brillerà il santo lume fioco degli addii, loro sudario sarà il pallore in fronte alle ragazze, sarà un fiore la tenerezza di cuori silenziosi; ogni lento crepuscolo sarà un calare di tende alle finestre.7 Gli elementi tematici e ritmici di questa seconda parte sono tratti sia dal Requiem aeternam dona eis Domine sia dal successivo e conclusivo Kyrie; musicalmente esprimono quella cucitura musicale che rende esplicita l’intenzione di Britten di collegare il testo inglese e con quello latino per dimensionare globalmente il Requiem come un grande sermone musicale di condanna dell’ideologia bellica. Si affacciano qui elementi sonori (campane, squilli di trombe) e accompagnamenti orchestrali onomatopeici di alcune parole simbolo o di spari o lamenti: spesso il compositore farà ricorso a un realismo sonoro che fa da contrappunto al suo pensiero filosofico sulla guerra che trova spazio oltre che negli interventi del testo di Owen specialmente nel trattamento sonoro del coro dei bambini. 3. Come un breve commiato il coro chiude il Kyrie accompagnato solamente da due rintocchi di due campane accordate sul tritono. La dimensione innodicamente omoritmica di lenta processione e strumentalmente scarnificata contribuisce a proiettare l’ascoltatore verso un suono smaterializzato, come fosse il commento del coro della tragedia greca atto a dare rilievo alle precedenti immagini del più ampio Anthem cantato dal tenore; questo atteggiamento 2. Dies irae Il Dies irae con le sue nove sezioni è la parte più lunga del War Requiem e può essere considerato come il momento “filosoficamente” centrale nell’opera. Quattro sono le poesie di Owen che si mescolano con il testo della sequenza e si collegano intimamente col suo senso apocalittico. 1. Nella prima sezione un breve squillo di fanfara nel tempo di 4/4 introduce il Dies irae: questa immagine musicale annuncia teatralmente il giorno del giudizio e si svilupperà funzionando da interpunzione ai versi della sequenza. Quando il coro, che è sempre accompagnato dagli archi e dai “legni”, intona con scale ascendenti e discendenti il testo liturgico, il metro si sposta a un ritmo “asimmetrico” di 7/4; Britten usa questo ritmo per evitare che i tetrametri trocaici del testo latino siano suonati in maniera litanicamente ripetitiva: si crea quella sensazione che il critico musicale Palmer definì una “marcia azzoppata” dal costante cambiamento dell’accento musicale. Ne nasce una sconvolgente atmosfera di ancestrale paura e sconvolgente incertezza. 2. Nella seconda sezione gli “ottoni”, che nel testo latino e nella musica che lo sottende, diffondono il loro evocativo e suggestivo suono (“tuba mirum spargens sonum”) fra i sepolcri per sospingere tutti i morti davanti al trono del Giudice: successivamente quando il baritono intona “Bugles sang owen saddening the evening air” il loro suono si annichilisce e con un andamento nostalgicamente lento si riduce all’espressione di un unico corno che diffonde il suo suono malinconico nell’aria della sera quando i giovani soldati si riposano sulla riva del fiume aspettando l’oscura incertezza NOVA ET VETERA del domani. I “legni” si sostituiscono agli “ottoni” e con il risultato di ottenere un impallidito ricordo della smagliantezza timbrica della fanfara per esprimere le voci dimesse dei soldati e del sonno crepuscolare. Le trombe hanno suonato, rattristando l’aria della sera, hanno risposto le trombe, con suono doloroso. Sulla riva del fiume si udivano voci di ragazzi. Il sonno li copriva lasciando triste il crepuscolo. Sugli uomini pesava l’ombra del domani. Voci del vecchio sconforto tacevano, piegate dall’ombra del domani, dormivano. 27 Gli occhi ci lacrimavano ma non mancava il coraggio. Ci ha coperto di sputi di proiettili e ha vomitato Shrapnel. Ci siamo uniti in coro al suo alto canto, fischiettando quando ci ha mietuti con la falce. Oh, la morte non ci è stata mai nemica! Ne abbiamo riso, ce la siamo fatta alleata, la vecchia amica. Non si paga un soldato perché combatta il suo potere. Ridevamo, sapendo che sarebbero venuti uomini migliori e più nobili guerre, quando si è orgogliosi di combattere la morte per la vita, non degli uomini per una bandiera. 5. Nella quinta sezione il coro si divide e i versi del Recordare Jesu pie sono eseguiti dalla sezione femminile con atteggiamento orante che si convoglia in un graduale e fiammeggiante crescendo nella sezione maschile del Confutatis maledictis. 3. Nella terza sezione l’aria del soprano (Liber scriptus proferetur) ha un andamento maestoso in cui il ritmo di Marcia lenta – allusivo all’inciso ritmico del Requiem aeternam – sottolinea la regalità del “Dio Giudice” a cui il coro (Quid sum miser e Salva me), che si alterna col soprano, rivolge l’accorata richiesta di salvezza sottolineata da due episodi musicali contrappuntati da una linea melodicamente più distesa. 4. Il contrasto quasi sarcastico si crea con la successiva quarta sezione. Nel testo intonato dal baritono e dal tenore si eleva vibrante la denuncia per l’assurdità della vita spezzata in combattimento: nella poesia (“Out there, we’ve walked quite friendly up to Death”) si raccoglie preponderante il riso amaro e sardonico dell’immagine della morte che va a braccetto con i soldati e della speranza che uomini migliori si contrapporranno a quel tipo di guerra che non difende la vita, ma soltanto l’interesse delle bandiere simbolo del potere. Da buoni amici siamo andati là, verso la morte, ci siamo seduti a tavola con lei, fredda e cortese, scusandola per averci versato la gavetta sulle mani; abbiamo annusato lo stesso odore verde del suo alito. 6. Nella sesta sezione il baritono, contrappuntato da frammentari interventi dell’arpa con voce perentoria intona un’ironica e repulsiva declamazione della poesia Be slowly lifted up, è espressivamente congiunto con il corale Confutatis maledictis: predomina un’atmosfera di dogmatica invettiva in cui si chiede la vendetta di Dio verso i peccatori maledetti rappresentati nella poesia dal cannone puntato contro il cielo. Squilli di tromba e timpano (con un ritmo ostinato di quintina) fanno da sfondo onomatopeicamente drammatico all’invettiva del sonetto di Owen la cui violenza ricorda quelle del poeta greco Ipponatte. Lèvati adagio, lungo braccio nero, grande cannone puntato contro il Cielo per bestemmia; colpisci l’arroganza che ha bisogno della tua punizione, 28 distruggila prima che le sue colpe si aggravino; ma quando il tuo incantesimo sarà esaurito, Dio ti maledica e ti strappi dall’anima nostra! 7. Il clima apocalittico riappare nella settima sezione con la ripresa del Dies irae in cui il coro marciando a tempo di guerra è chiamato a sottolineare la forza di questa maledizione che fa riapparire il Dio del vecchio testamento chiamato a esorcizzare la forza del cannone simbolo della forza irrazionale della guerra. 8. Nell’ottava sezione il soprano e il coro che cantano in un clima di lamentoso rimpianto Lacrimosa dies illa e si alternano con il tenore che canta il testo poetico Move him into the Sun (Spostatelo al sole), in cui il sole, che seppure faticosamente ogni giorno desta dal sonno gli uomini, appare impotente nel ridare ancora vita al corpo del soldato morto. Il coro e il soprano si ergono nella levità della trascendenza quasi danzando sulle note e sul ritmo in 7/4 del Lacrimosa: una lenta ed eterea danza che a contatto con la poesia di Owen ha quasi una funzione sublimante e retoricamente preparatoria alla conclusione. Spostatelo al sole con tocco lieve un tempo lo destava nella sua patria, mormorando di campi inseminati lo ha sempre risvegliato, anche in Francia, fino a questo mattino e a questa neve. Se qualcosa ora potesse ridestarlo il caro vecchio sole lo saprebbe. Pensa a come desta le sementi a come un tempo risvegliò l’argilla di una fredda stella. Le membra ottenute a caro prezzo, i fianchi vigorosi ancora caldi è dunque così duro rianimarli? Forse per questo è cresciuta l’argilla? Forse per questo è cresciuta l’argilla? Perché il fatuo sole ha faticato a disperdere coi raggi il sonno della terra? 9. Nella nona breve sezione il coro contrappuntato dalle campane chiude questa lunga parte del Requiem con la preghiera “Pie Iesu Domine, Dona eis Requiem, Amen”: come nel Requiem aeternam le voci sembrano smaterializzarsi in un’orazione catartica che trascende nell’aldilà. 3. Offertorium L’offertorio si divide in tre momenti: 1. Inizia il coro dei bambini che cantano “Domine Jesu Christe”. Successivamente il coro misto intona il corale Sed signifer sanctus Michael seguito dal magniloquente fugato Quam olim Abrahae che introduce la parabola del vecchio e del giovane col tragico finale concepito da Owen. La forza del ritmo che alterna battute di 6/8 e 9/8 e nella emiola sillabica nella battuta del 9/8 offre un impatto che dà a tutto il fugato un’espressione quasi trascendentale e premonitore dell’intervento dell’angelo. NOVA ET VETERA 2. Il momento centrale è costituito dall’inserimento dei due solisti che intonano la poesia di Owen. Come sempre quando sono i solisti a cantare, l’accompagnamento si sposta dall’orchestra principale all’orchestra da camera, ma in quest’occasione la tecnica strumentale è tipicamente di origine teatrale per adeguarsi alla drammaticità del testo poetico. La poesia è una versione della conosciuta storia di Abramo e Isacco in cui Abramo sacrifica suo figlio malgrado le offerte fatte da un angelo mandato dal cielo per salvare il figlio. Il rovesciamento tragico del finale della storia si realizza nell’ultimo verso della poesia esprime in maniera sarcastica tutta l’amarezza del poeta verso i responsabili della morte dei propri figli in guerra. 29 I gesti di Abramo che accompagnano la preparazione del figlio al sacrificio fino al gesto di brandire il coltello sono accompagnati da drammatiche movenze ritmiche. Poi i due solisti perdono il proprio ruolo drammatico e si uniscono nella descrizione dell’angelo che dal cielo invoca Abramo di risparmiare quel sacrificio umano: ne nasce musicalmente una delle pagine più espressivamente intense del Requiem. Allora Abramo si alzò, spaccò la legna e se ne andò prendendo con sé il fuoco e un coltello. E mentre erano insieme, Isacco, il primogenito, parlò e disse: Padre mio, ecco che tutto è pronto, il fuoco e il ferro, ma dov’è l’agnello da immolare? Allora Abramo con cinghie e corregge legò il giovane e fece parapetti e scavò fossi e brandì il coltello per uccidere il figlio. Quand’ecco, un angelo lo chiamò dal cielo dicendo: Non calare la mano sul ragazzo. Non fargli nulla. Ecco un ariete impigliato con le corna in un cespuglio; offri l’Ariete dell’Orgoglio in vece sua. Ma il vecchio non lo fece, e uccise il figlio e metà dei figli d’Europa, a uno a uno. Commovente è il dialogo fra il baritono che impersona Abramo (la cui intonazione deriva dal tema del fugato precedente) e il tenore che dà voce a Isacco. Mentre il figlio, vittima inconsapevole, si rivolge al padre per chiedere dove sia l’agnello sacrificale, il tremolo degli archi e gli accordi dell’arpa creano un’atmosfera di incombente tragedia. Poi il baritono assume il ruolo di narratore e intona “Then Abram bound the youth with belts and straps (Allora Abramo con cinghie e corregge legò il giovane) […] but the old man would not so, but slew his son (ma il vecchio non vorrebbe, ma uccide suo figlio)”, mentre l’accompagnamento orchestrale utilizza un pesante martellato. Il testo latino dialetticamente si alterna nel finale con il canto dei solisti. Britten riesce ad adattare musicalmente in maniera perfetta i due testi entrambi riferiti al sacrificio: mentre i solisti ripetono l’ultimo verso “…and half the seed of Europe, one by one (e [uccise] metà dei figli d’Europa a uno a uno)”, il coro dei bambini, distante e apparentemente avulso dall’immediatezza espressiva dei soli, asceticamente offre vittime e preghiere in lode del Signore dicendo: “Hostias et preces (…accettali in favore di quelle anime che oggi noi 30 ricordiamo: fa’, o Signore, che passino dalla morte alla vita che un tempo promettesti ad Abramo e alla sua discendenza)”. Sembra davvero di assistere a una pièce teatrale in cui il coro sigilla la chiusura della parte centrale dell’Offertorium. 3. Una ripresa del fugato del coro Quam olim Abrahae chiude questa sezione con un diminuendo fino all’estinzione con un simbolico sprofondamento del suono nelle sezioni più basse dell’orchestra. I temi musicali di questa sezione sono presi in prestito da una precedente opera per voce sola di Britten (il Cantico II Abramo e Isacco, op. 51 del 1952), che, diversamente dal War Requiem, si richiama all’originale versione biblica della parabola. 4. Sanctus Nonostante l’assenza dei temi che caratterizzano l’opposizione del compositore alla guerra cioè il cardine poetico-musicale del War Requiem, Britten filtra il Sanctus Benedictus, tradizionalmente inseriti nella messa per i defunti come un religioso messaggio di serenità e di speranza, con la mestizia della presenza costantemente immanente del testo di Owen che è intonato dal baritono alla chiusura di questa quarta sezione (“After the blast of lightning from the East”). Dopo il balenare del lampo da oriente, la squillante fanfara delle nuvole, il Trono del Carro, dopo il rullo e il silenzio dei tamburi del Tempo, quando a lungo gli ottoni d’occidente avranno suonato la ritirata, la vita rianimerà questi corpi? Davvero egli sconfiggerà la morte, asciugherà tutte le lacrime? Di giovinezza ancora colmerà le vene vuote della vita e laverà con acqua eterna la vecchiaia? Quando interrogo la canuta Vecchiaia, questa non dice: «Pende il mio capo, pesante per la neve». E quando ascolto la terra, questa dice: «Il mio cuore ardente ha uno spasimo, e soffre. È la morte». Alle mie antiche cicatrici non sarà resa gloria, non sarà prosciugato il mare delle mie lacrime di titano. 2. Successivamente il coro con recitazione intonata (“Pleni sunt caeli et terra Gloria tua”) e l’orchestra si avviluppano in un crescendo della “dinamica” e delle entrate graduali delle sezioni vocali/strumentali: oltre a sottendere “retoricamente” il testo (“pleni”), essi caratterizzano la materializzazione sonora di voci di morti in un vortice in cui gli eventi descritti della fine del mondo nella poesia di Owen sembrano precipitare verso una prevista catastrofe. 3. Segue con l’Hosanna una fase musicale in cui la rappresentazione del giudizio universale grazie alla sequenza responsoriale della fanfara ha un effetto icastico e onomatopeico. Il coro sovrappone in forma imitativa il testo dell’Hosanna (SAT) a quello del Sanctus, che è affidato alla sezione dei bassi, assume la funzione di “tenor”; questo artificio è indice di un esplicito riferimento alla tecnica contrappuntistica della musica medievale e rinascimentale cui Britten è particolarmenta legato. Un particolare che rivela la grande cura dei particolari nel rapporto testo-musica è la triplicazione delle parti all’interno della medesima sezione vocale sulla sillaba accentata “-san-” dell’esclamazione “Hosanna”. Dunque fin dall’inizio il Sanctus si muove come un commento della visione apocalittica del testo poetico. Le fasi della sezione sono sei. 1. Uno scampanìo allusivo di una sveglia per un’adunata di carattere militaresco si trasforma in un sincronico ritmo percussivo che rievoca la marcia e si contrappunta con le parole intonate dal soprano (“Sanctus, Dominus Deus Sabaoth”). 4. Poi il soprano intona il Benedictus non appena il coro e l’orchestra si sono estinti sfumando come in una sequenza filmica; qui il responsorio fra soprano e coro sembra allentare il clima da fine del mondo: le quinte parallele del coro ispirano il carattere processionale dell’accoglienza fatta a Cristo nella sua entrata a Gerusalemme come l’aspirazione ad accedere a una quiete e alla riconciliazione fra i belligeranti; qui il tritono abbandona il suo carattere simbolico di oppressione e smarrimento. NOVA ET VETERA 5. Il brano prosegue con la ripetizione dell’Hosanna in cui il compositore apporta alcuni cambiamenti fra i quali la chiusura secca e non sfumata, perentoriamente trionfante in un’intensa sonorità. 6. Infine il baritono intona come un recitativo “After the blast of lightning from the East (Dopo il balenare del lampo da oriente)”: la poesia collocata nella posizione finale del brano assume come un ruolo di coronamento del carattere profetico del Sanctus; gli ultimi tre versi sussurrati dal baritono sembrano aggiungere una chiosa che rende ombroso il testo del Sanctus-giubileo obnubilandone parzialmente il carattere gioioso. 31 Il coro, condotto responsorialmente assieme all’intonazione del tenore, implora la pace eterna; si crea così un quieto e sussurrato accostamento tra Cristo come Agnello sacrificale e i soldati che danno la propria vita: è per loro che si richiede un meritato riposo eterno. Il tritono risalta qui in maniera più evidente che nelle altre parti del War Requiem. La struttura musicale subisce una semplificazione che assume i toni di morbido alleggerimento del tessuto polifonico volto a sottolineare l’arrendevolezza della volontà di Cristo identificato nell’Agnello, come quello dei soldati di fronte al proprio destino. Gli archi accompagnano raddoppiando il coro che ha una linea melodica dal carattere di ostinato e costituita con una successione in cui si ripetono dieci suoni, cinque discendenti nella scala di si minore e cinque ascendenti nella scala di do maggiore inseriti dall’inizio alla fine del brano in battute di cinque sedicesimi che alternano accenti distribuiti ogni 3+2 e 2+3 semicrome. Il tritono campeggia nel rapporto fra le prime due note iniziali delle due scale, rispettivamente fa# e do naturale. 5. Agnus Dei In questa che è la quinta sezione, la più breve del Requiem e l’ultima della missa pro defunctis, Britten costruisce un’atmosfera di pacata rassegnazione: nella prima delle tre strofe del testo poetico affidato alla voce del tenore (“One ever hangs where shelled roads part”) i soldati morti sono paragonati al sacrificio di Cristo. Nella seconda (“Near Golgatha strolls many a priest”) la desolazione del calvario è rimarcata dalla raffigurazione di sacerdoti che passeggiano orgogliosi di avere rinnegato Cristo e dalla dispersione dei discepoli. Infine nella terza strofa (“The scribes on all the people shove”) agli scribi che attestano la loro fedeltà allo Stato sono contrapposti coloro che muoiono per la patria e non portano odio. Un crocifisso c’è sempre agli incroci colpiti dalle bombe. In questa guerra anch’Egli ha perso un arto, ma i Suoi discepoli stanno nascosti e ora sono i soldati a soffrire con Lui. Nella zona del Golgota girano molti preti, sui loro volti l’orgoglio perché nella carne recano il marchio di Satana la Bestia che ha rinnegato il dolce Cristo. Gli scribi incitano la folla e proclamano a gran voce fedeltà allo stato, ma chi ama di un amore più grande non odia, ma rinuncia alla sua vita. Questi accostamenti fra segmenti di tonalità così diverse simboleggiano congiungendo il sacrificio di Cristo a quello dei soldati innocenti perché consapevolmente “costretti” a morire per il bene comune. Ma l’accostamento degli elementi musicali provoca la presenza di tritoni che, rendendo il contesto indefinito tonalmente, corrispondono all’idea di Britten di un’assenza di riscatto per l’uomo quando si fa coinvolgere da forze ineluttabili e non constrastabili come la guerra e la morte: ai soldati si può solo implorare il riposo eterno contenuto nell’Agnus Dei che come un responsorio corale si inserisce nella recitazione del testo poetico di Owen. In chiusura Britten aggiunge le parole “Dona nobis pacem” ed è l’unica volta che uno dei solisti cui è affidata la recitazione delle poesie di Owen canta il testo liturgico latino. 32 Alla conclusione del brano delle undici note che costituiscono la melodia le prime cinque sono costruite sulla scala di fa# e le successive cinque in do minore; l’undicesima scende da sol a fa# come l’accordo su cui chiude il coro. 6. Libera me È la sezione conclusiva in cui il modo di collegare il testo latino e le poesie di Owen diventa in maniera fortemente teatrale una metafora emblematica del pensiero di Britten e del suo sviluppo musicale: l’abbandono della speranza, la fraternità fra i soldati come spiraglio di una luce che riscatti l’umanità, l’impotenza della natura davanti alla morte, il sarcastico rapporto di amicizia dei soldati con la morte e la perdita d’identità dei sopravvissuti sono un corridoio d’idee che trovano qui l’ultimo e definitivo approccio.8 Il testo latino Libera me è tratto dalla liturgia della sepoltura (In exequiis - Absolutio super tumulum), diversamente da altre parti del Requiem (oltre alla sequenza Dies Irae gli altri testi latini provengono dall’ufficio dei morti) e si riferisce alla liberazione dalla morte eterna: il suo carattere è ancora più minaccioso che il Dies Irae perché è incentrato sulla paura delle conseguenze della condanna definitiva. Questo brano si divide in tre fasi. 1. Nella prima la preghiera del coro Libera me musicato con carattere greve e lugubre comincia con un movimento lento e stentato che gradualmente accelera diventando progressivamente più sonoro e insistentemente marcato. Il soprano intona in maniera lacerante i versi del Tremens factus dialogando con il coro (“dum discussio veneris”) mantenendo un ritmo binario, mentre contemporaneamente l’orchestra assume un macabro ritmo ternario che sfocia nella successive ripetizione del Libera me. Al termine di quest’episodio l’orchestra e coro (Dies Irae e Coget omnes) riprendono la scala discendente (ma in 2/2 anziché il 7/4) di segmenti tematici simili a quelli della seconda sezione (Dies irae) del War Requiem. L’intervento corale si esprime con terribili interezioni di panico: c’è un apice apocalittico che collassa alla fine dell’episodio quando l’orchestra e le voci si affievoliscono rapidamente; l’atmosfera ricorda quella del Dies Irae del Requiem verdiano. Il silenzio oscura questa visione apocalittica e prepara il concetto emblematico del Requiem; le parole pronunciate dai due soldati sono un flebile segnale di pietas: essi nel riconoscersi si chiamando “amici”. Questo che è l’unico atto di conciliazione presente nel Requiem riconduce alla ragione dell’esistenza di questa composizione scritta per una cerimonia inaugurativa che è stata lo spunto per questo percorso musicale in bilico fra la liturgia religiosa e il realistico orrore della guerra e condanna senza appello per l’umanità. 2. Il tenore (“It seems that out of battle I escaped”) accompagnato dall’orchestra da camera canta la più famosa poesia di Owen, Strange Meeting (Strano incontro). Tenore: Mi sembrava di essere sfuggito alla battaglia per un’oscura, profonda galleria scavata da tempo in rocce di granito segnate da guerre di titani. Ma anche lì corpi oppressi gemevano nel sonno, troppo presi in pensieri, o morti, per essere riscossi. Poi quando li toccai uno balzò in piedi, mi fissò con occhi immobili e accettò la mia pietà levando le mani miserande come a benedire. Non tuonavano i cannoni né gemevano lungo le condotte. «Ignoto amico», dissi, «qui non c’è motivo di pianto». Immerso in un’atmosfera oniricamente irreale egli riferisce di un incontro con un soldato tedesco. I suoni tenuti dell’orchestra fanno da sfondo a questo recitativo “lento e tranquillo” in cui i brevi interventi di strumenti a fiato fanno da interpunzione. Baritono: «Non c’è ragione» fece lui «se non per gli anni buttati, perché non c’è speranza. Quale che sia la tua speranza, lo è stata anche la mia vita; folle ho rincorso la più folle bellezza del mondo. Forse la mia allegria ha indotto molti al riso e del mio pianto qualcosa è rimasto che adesso deve morire. La verità taciuta, intendo, la pietà della guerra, la pietà che la guerra ha distillato. Ora la gente si contenterà di quanto abbiamo rovinato, ma se è scontenta, il sangue che ribolle sarà sparso. Rapido come è rapida la tigre, nessuno uscirà dai ranghi NOVA ET VETERA 33 Note anche se le nazioni rinunciano al progresso. Non marceremo con un mondo in ritirata verso vane cittadelle senza mura. Quando poi molto sangue avrà bloccato le ruote di quei carri io salirò a lavarle con l’acqua pura delle fonti, anche delle fonti quasi prosciugate per la guerra, delle fonti più pure mai esistite. Io sono il nemico che tu hai ucciso, amico mio. In questo buio ti ho riconosciuto perché anche ieri mi squadravi così accigliato, mentre mi colpivi e mi uccidevi. Mi sono difeso, ma le mani erano fredde e riluttanti». Successivamente il baritono pronuncia nel più assoluto silenzio la struggente dichiarazione: “I am the enemy you killed, my friend. I knew you in this dark; for so you frowned. Yesterday through me as you jabbed and killed. I parried; but my hands were loath and cold”. 3. L’ultima sezione vede uniti coro di bambini, coro, solisti, e le due orchestre. Mentre i due solisti con l’accorata richiesta “Let us sleep now (Lasciateci dormire)” segnano la fine dell’onirico dialogo dei due soldati, il coro dei bambini con suono diafano e a distanza cantano “In paradisum deducant te Angeli”. È il congedo, un mesto accompagnamento del loro ultimo viaggio cui le voci bianche, simbolo di un’innocenza primordiale opposta all’insensatezza bellica, fungono da processionale conclusivo. Il coro a cappella inframezzato dal simbolico tritono delle campane finisce estinguendosi nel nulla nella stessa maniera della prima sezione (Kyrie eleison) con le parole “Requiescant in pace. Amen”. Questa mesta, greve e contemporaneamente vaporosa chiusura allontana in parte la sacralità e la trascendenza della messa da Requiem tradizionalmente intesa come accompagnamento liturgico del defunto, ma realizza l’immanenza dello stupore umano di fronte al mistero non risolto della morte e alla sua sarcastica irrazionalità quando a provocarla sia l’uomo stesso attraverso l’esplosione del potere divenuto espressione dell’egoismo nazionale. 1. Il concetto è ben sintetizzato da Stefano Catucci in Il War Requiem di Britten, Una preghiera di fratellanza contro l’orrore della Guerra: «Difficile trovare un’altra partitura che esprima con altrettanta forza una posizione di pacifismo così coerente e radicale. La dimensione religiosa del testo liturgico, inframmezzata com’è dalle parole di Owen, non promette salvezza, ma scava per contrasto il solco di una solitudine nella quale c’è solo spazio per la disperazione o, al limite, per una preghiera che non confida in alcun premio ultraterreno, ma solo nella possibilità di un sentimento fraterno fra soldati che si riconoscano reciprocamente come uomini, cioè come fratelli». 2. L’uso del doppio testo è una prassi compositiva medievale che Britten riprende anche in una delle prime composizioni per coro, l’Anthem A hymn to the Virgen (1930, rev. 1934). 3. «Io parlo di guerra, e della pietà della guerra. La poesia è nella pietà. Un poeta può solo allertare», queste sono le parole di Owen scritte sul frontespizio della partitura del War Requiem. 4. Grande orchestra: 3 flauti (fl.III anche ottavino), 3 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (cl.III anche cl. in Eb cl. basso), 2 fagotti, controfagotto, 6 corni, 4 trombe in do, 3 tromboni, tuba, pianoforte, organo o armonium, timpani, percussioni (4 esecutori), archi. 5. Orchestra da camera: flauto (anche ottavino), oboe (anche corno inglese), clarinetto (in sib e la), fagotto, corno, timpani e percussioni, arpa, due violini, viola, violoncello, contrabbasso. 6. Nell’esecuzione di Coventry gli intepreti furono il soprano Heather Harper, il tenore grande amico di Britten Peter Pears, il baritono Dietrich Fischer-Dieskau, il Covent Chorus, la City of Birmingham Symphony Orchestra, il Melos Ensemble, and The Boys of Holy Trinity, Leamington and Holy Trinity, Stratford. Il coro, il soprano e la grande orchestra furono diretti da Meredith Davies, il tenore, il baritono e l’orchestra da camera dal compositore. La prima esecuzione londinese fu diretta da Britten nel 1963 alla Kingsway Hall con solisti Galina Vishnevskaya (cui era stato impedito di partecipare all’esecuzione inaugurale a Coventry dal ministro della cultura sovietico), Peter Pears e Dietrich Fischer-Dieskau e la London Symphony. La prima esecuzione italiana si ebbe nel 1963, a Perugia, nella Chiesa di San Filippo Neri e fu Britten a dirigere l’orchestra ridotta, le voci bianche con l’organo, il tenore (Peter Pears) e il baritono. Britten dirigeva la parte del Requiem che musica i versi di Owen, cioè quel che di estraneo al Requiem latino aveva aggiunto nella partitura, come a sottolineare quale fosse davvero il suo pensiero poetico-musicale; David Willcocks diresse la parte del Requiem liturgico. 7. Traduzione a cura di Sergio Rufini, WILFRED OWEN, Poesie di guerra, Einaudi, Torino, 1985. 8. A confermare l’idea che la pièce di Britten abbia una configurazione e uno sviluppo in senso teatrale, in un articolo di Pietro Lanzara (Corriere della sera, 14 maggio 2011) il direttore d’orchestra Semyon Bychkov fa un illuminante collegamento con il concetto teatrale di Wagner: «…Nell’ultimo dei sei movimenti, il Libera Me, tutte le forze musicali e vocali si uniscono. Questa possente architettura si regge su un’idea wagneriana, quasi fisica, del tempo e dello spazio; basta pensare al Parsifal…». 34 LA TRADIZIONE PIEMONTESE IN CONTINUA EVOLUZIONE NENIA DI GESÙ BAMBINO… CONFRONTO TRA DUE SECOLI di Ettore Galvani ETNOMUSICOLOGO, DIRETTORE DELL’ASSOCIAZIONE CORALE CARIGNANESE «La letteratura popolare italiana non è fino a oggi nota che in piccola parte. A raccogliere le narrazioni del nostro popolo non si è pensato fin qui che da pochissimi, e anche questi pochi non hanno dato in luce che poco o nulla; più assai si è fatto pei Canti popolari, ma vaste lacune per più provincie importanti impediscono tuttora lo studio generale e complessivo di questo ricco e vario prodotto dell’animo italiano. Intanto la nostra grande opera nazionale unifica, uguaglia e innalza il pensiero dei nostri volghi, ogni giorno meno divisi, spingendolo in una via di tramutamento, per la quale dovrà avvenire che tanto si distacchi da taluni prodotti del suo passato da obbliarli affatto. È d’uopo adunque affrettarsi a colmare le lacune in un campo di ricerche di ormai troppo nota importanza, perché sia qui necessario dimostrarla».1 Domenico Comparetti, Alessandro D’Ancona Nell’aprile di quest’anno, durante una cena, un amico si avvicinò e mi regalò un libro incentrato sulle tradizioni popolari di Poirino, un paese alle porte di Torino, al quale il padre aveva collaborato in gioventù. Tra le mani mi trovai un bel volume, praticamente intonso, rilegato in brossura, 24 x 17 cm, illustrato in bianco e nero, di 773 pagine. Viva ën sër chér (viva sul carro), così il titolo del volume finito di stampare nell’ottobre del 1981 a cura del periodico Cioche ’d Poirin (Campane di Poirino) a opera di Silvano de Pizzol. Lo misi sul solito scaffale dei libri da sfogliare prima di dargli una posizione in libreria e lì rimase per un paio di mesi. Una sera che riuscii a ritagliarmi un paio d’ore di tranquillità lo sfogliai e rimasi piacevolmente sorpreso per la scoperta fatta. All’interno dei suoi quattordici capitoli, a parte l’introduzione, la mia attenzione venne catturata dal sezione di pagina 591: La Tradizione Orale. Feci scivolare velocemente le pagine e mi ritrovai davanti a una articolata e meticolosa ricerca etnofonica che si estendeva per 151 pagine e che andava a scandagliare tutto il territorio poirinese e le sue frazioni con testi dei canti, relative varianti e traduzioni in italiano, trascrizioni melodiche, riferimenti dell’informatore, luogo di ritrovamento e in alcuni casi brevi introduzioni esplicative. Da La Martina a Giaco Tross – pronunciato “Giacu Truss” – Giacomo Torsolo, da La bevanda sonnifera a La scelta felice: 104 testi e 48 melodie accuratamente riportate… ma la mia attenzione si posò su testo e melodia di una versione di Gesù Bambin l’è nato. Questa antica lauda piemontese è sicuramente uno dei canti rituali più eseguiti dai cori della nostra penisola ed è uno tra quelli che annoverano il più alto numero di elaborazioni musicali e corali nella più ampia accezione del termine. Secondo gli studi del Leydi2, in relazione alle versioni di Oreste Pizio e Rosa Barbero, informatori diretti del Sinigaglia, «[…] diverse sono le canzoni che hanno come incipt “Gesù Bambino è nato”. Con questo incipit abbiamo una lauda di fattura colta che ha avuto grande diffusione anche attraverso varie stampe popolari. Per restare in ambito piemontese questa lauda era stampata (con il titolo Per la Natività del Bambino Gesù) in appendice alla rappresentazione sacra popolare Il pastore Gelindo, ossia La Natività di Gesù Cristo che un tempo era recitata in molti paesi del Piemonte anche nelle stalle nel periodo invernale e messa in scena dai marionettisti. Nell’uso popolare orale il testo della lauda è stato ritrovato, ma, ovviamente, con drastici tagli e modificazioni semplificanti […]». La ballata del Pastore Gelindo, pur avendo tradizioni antiche e radicate sul territorio piemontese, non può essere associata in alcun modo alla lauda in esame in quanto già proposta nei Fogli Volanti3 dell’epoca in lingua italiana. Tale documento dunque in relazione agli indirizzi etnomusicali moderni ci dà conferma di quanto precedentemente esposto in quanto l’evoluzione di un canto tende, col tempo e con l’ampiezza L’evoluzione di un canto tende alla lingua più moderna e non viceversa. dell’area di diffusione, alla lingua più moderna e non viceversa. A ulteriore conferma di ciò troviamo nelle raccolte di Amerigo Vigliermo del 19744 e del 19865, e della quale riportiamo la melodia, una ballata rituale che ripropone l’impianto narrativo del Gelindo con alcune modificazioni dovute all’oralità e, interessante, all’eliminazione della parola “Satàn”, che la tradizione popolare non gradisce in un contesto quale la CANTO POPOLARE 35 nascita del Cristo, e la sua modificazione con la prosecuzione dell’azione di Maria nell’atto di sospirare: momento di estasi materna per la visione del figlio e segno premonitore per ciò che dovrà sopportare. A’s sent na vos ant l’aira, a’s sent a vnì ciantan. L’è San Giüsep, so pàire, lo pia ’nt i so brass. S’a i cianta la cansun: “Larin, larin lareta” S’a i tucia la barbeta: “Basemi se vi pias”. Gesù bambin l’è nato in tanta povertà senza pesse né fasse e né fuoco da riscaldar Maria lo ammira, setà chila sospira (seduta ella sospira) perché l’è nato al mondo chi vuoi tutti salvar. Ognun faccia l’ebrezza a che è nato il Redentor (Creator) il fior d’ogni bellezza al è tutto pien d’amor. Vigliermo 1974 La trascrizione musicale originale del 1927 è estesa per tutte le due strofe e riporta anche la traduzione in lingua francese con metrica giusta sulla scansione ritmico-melodica. È presente un accompagnamento di pianoforte in sol maggiore con un’estensione della parte cantata racchiusa in un’ottava giusta, dal re sotto il primo rigo a quello sul quarto. Lo schema della melodia ripropone come in un ostinato le prime quattro battute per tre volte intervallandole da fraseggi semplici allineati come struttura e andamento alle battute analizzate. Lo stesso schema ritmico viene utilizzato, un poco contratto, nelle frasi di risposta. Perno del tema è l’intervallo di terza sol-si, come frequentemente accade nelle nenie e nelle filastrocche, ma con una resa elegante derivata dall’impiego di semplici note di passaggio e di volta. Gesù Bambino nasce in tanta povertà senza pezze né fasce né fuoco da scaldar. Maria lo mira, Satàn lo sospira che egli è nato al mondo per tutti noi salvar. Ognun faccia allegrezza che è nato il Creator il fior d’ogni bellezza è tutto pien d’amor. Il pastore Gelindo 1842 Fatte queste premesse la nostra attenzione dunque verrà posta nel mettere in relazione e confrontare, per quanto ci sarà possibile, e in funzione delle informazioni in nostro possesso, la versione più nota della lauda, ritrovata da Leone Sinigaglia e pubblicata per la prima volta nel 1927 in Vecchie canzoni popolari del Piemonte vol. VI6, ed. Breitkopf, e quella ritrovata nel volume delle tradizioni poirinesi del 1981. Partiamo dalla lezione, come solitamente Costantino Nigra usava chiamare le varie versioni ritrovate di un dato canto, più nota del Sinigaglia: Gesù Bambin è nato, è nato in Betelem. L’è sopra un po’ di paja, l’è sopra un po’ di fien. L’è sopra un po’ fien. S’a j’è ’l bambin ch’à piura, sua mama ch’a lo adura, l’è sopra un po’ di fien. L’impianto narrativo articolato come già esposto su due strofe, ci propone un testo già contaminato dall’idioma italico che va a snaturare per alcune caratteristiche fonetiche, e non di scansione ritmica, il testo che probabilmente poteva avere tutta la sua articolazione narrativa in lingua piemontese. Gesù Bambin è nato, è nato in Betelem. L’è sopra un po’ di paja, l’è sopra un po’ di fien. L’è sopra un po’ fien. S’a j’è ’l bambin ch’à piura, sua mama ch’a lo adura, l’è sopra un po’ di fien. Analizzando il testo della prima strofa si può notare come la differenza tra il corsivo e il grassetto dei lemmi in lingua piemontese rispetto a quelli in italiano sia sbilanciata verso i secondi. Nei canti di origine popolare in “dialetto” la matrice autoctona rimane sempre fortemente presente tranne che per alcune evoluzioni linguistiche riferite solitamente agli articoli, come ad esempio ëd che facilmente lo si trova trasformato in di non foss’altro che per una facilita di pronuncia e di 36 frazionamento della scansione metrica del testo. Ma gli “italianismi” all’interno di un testo in lingua autoctona sono limitati e solitamente la commistione tra le lingue esiste nei canti recenti o in quelli che hanno avuto una larga area di diffusione, caso non calzante con quello considerato. Per ulteriore chiarezza vi sono espressioni di canti popolari in cui le due lingue sono presenti in modo equivalente e corrispondono principalmente ai canti di questua a impianto dialogico, domanda e risposta, e nel quale gli attori sono ben identificabili in quanto ognuno si rivolge al suo interlocutore sempre con la stessa lingua, non mutando mai l’alternanza e lo schema del gioco delle parti: per esempio le domande sempre in italiano e le risposte sempre in lingua piemontese. Cosa rimiri Tu, oh bel marinaio, cosa rimiri oh bel marinar? Mi ’m rimiro dl’a vostra fijëtta, che per amor la veuj sposè. (traduzione: Io ammiro/guardo la vostra figliola che per amore la voglio sposare) Leone Sinigaglia Sostanzialmente diverso il costrutto della seconda strofa, la quale rimane coerente nell’idioma piemontese senza nessun tipo di contaminazione italica. A’s sent na vos ant l’aira, a’s sent a vnì ciantan. L’è San Giüsep, so pàire, lo pia ’nt i so brass. S’a i cianta la cansun: “Larin, larin lareta” S’a i tucia la barbeta: “Basemi se vi pias”. Per un confronto più efficacie e filologico il testo di tutto il canto non è stato corretto secondo i nuovi parametri di scrittura della lingua autoctona ma è stata riportata la grafia utilizzata nella pubblicazione del Sinigaglia del 1927 (op.cit.). Questa metodologia ha più di una valenza ma soprattutto quella di evitare di fare analisi e supposizioni su di un testo non originale che potrebbe fuorviare il confronto letterario con altre forme linguistiche pedemontane. Ed è sicuramente il confronto con altre lingue minoritarie presenti in Piemonte il passo successivo per poter ipotizzare un’area di origine, una successiva di diffusione nonché la possibile contaminazione del testo originario. Alla lettura attenta del testo della strofa presa in esame si nota come la trascrizione già all’epoca non fosse stata attenta nella differenziazione tra vocali in italiano e in piemontese. La prima strofa, se così si può dire, scorre via liscia: le “o” e le “u” nelle due lingue sono differenziate e non si possono creare equivoci di interpretazione. Nella seconda strofa la lettura potrebbe diventare un po’ più complicata: tenendo conto di alcune regole di base nella scrittura e lettura del Piemontese7 troviamo degli errori di grafia abbastanza evidenti. Le regole moderne impongono che se all’interno di uno scritto vi sono lingue differenti, quella percentualmente in minoranza andrebbe scritta con un carattere diverso, esempio corsivo, per avvisare il lettore di un cambio di lettura dei simboli alfabetici. Coerentemente con quanto affermato e dato che nella trascrizione originale non si denotano indicazioni di questo genere, la seconda strofa sarebbe dovuta essere scritta nel seguente modo (in grassetto i cambiamenti): A’s sent na vus ant l’aira, a’s sent a vnì ciantan. L’è San Giüsep, so pàire, lu pia ’nt i so brass. S’a i cianta la cansun: “Larin, larin lareta” S’a i tucia la barbeta: “Basemi se vi pias”. Con queste due variazioni si può affermare che la lettura della seconda strofa diventa omologa alla prima senza neanche la possibilità di sbagliare l’interpretazione della “u” di Giüsep dato che, secondo le interpretazioni del tempo la “u” chiusa veniva erroneamente indicata col segno grafico della dieresi. La lettura diventa scorrevole e come già detto si adegua alle caratteristiche della prima e CANTO POPOLARE allora ci si accorge che alcuni lemmi non appartengono alle varianti linguistiche riconosciute come piemontesi ma bensì sono di derivazione diretta dell’occitano8 presente nella aree montane del Piemonte occidentale: Aira (Aria): in alcune trascrizioni Aire per ingentilire e stringere il suono Ciantan (Cantando): attuale Chantand o Zhantant, più arcaico Pàire (Padre): attuale Pàire Cianta (Canta): attuale Chanta Tucia (Tocca): attuale Toucha, non più in uso I cinque lemmi elencati hanno chiara derivazione dalla lingua occitana e anche se con la corretta scrittura moderna, che si rifà al modello francofono utilizzato da Tullio Telmon9, possono dare adito a qualche dubbio la pronuncia è inequivocabile, indipendentemente da come il ricercatore dotto riproduca con i caratteri scritti il suono della parola. Tenendo conto altresì che la lingua occitana è caratterizzata da una notevole frammentazione vernacolare con una conseguente ampia differenziazione in relazione alle regioni geografiche di bacino, quindi una varianza linguistica di notevoli proporzioni, non si può con assoluta certezza capire la derivazione linguistica originale dei lemmi presenti nel testo. Rileggendo velocemente le considerazioni fatte finora, pur tenendo conto delle probabili contaminazioni e modificazioni che il canto ha subito nell’arco della sua diffusione temporale e geografica testimoniate altresì dalla consistente presenza dell’idioma nazionale nella prima strofa, si può affermare che la lezione di Sinigaglia è di sicura origine piemontese per la compresenza di lingua autoctona e occitana. Ma confrontando la versione del musicista piemontese con quella di Poirino scopriamo alcune sfumature che rendono l’ultima lezione particolarmente interessante da un punto di vista etnomusicale. 37 «Questo antico testo natalizio, era cantato un tempo come canzone di questua, poi fu usato andando alla messa di mezzanotte della vigilia di Natale. Infine passò nell’uso domestico e di tessitura. Oggi il canto ha ripreso la sua antica funzione ed è tuttora eseguito nella vigilia di Natale, accompagnato dalla zampogna. Sebbene il testo sia conosciuto in tutto il nostro territorio, molti non rammentavano che la prima strofa; quello qui trascritto è stato ricordato da due mie collaboratrici, una di Poirino, l’altra della frazione Marocchi». Il tesoro ritrovato, se così possiamo definirlo, avviene nel testo ricordato da Pierina Brossa di Poirino, tessitrice: Gesù Bambìn l’è nato, l’è nato in Betelém l’è zura ën po’ di paija, l’è zura ën po’ di fién. L’è zura ën po’ di fién sa iè ël Bambin cha piura sua Mama cha lu adura l’è zura ën po’ di fién. E l’hai sentì na vus dant’eira (1) cha emnisia giù cantand San Giùsèp sa l’è so paire lu pija en ti so bras. Sa i cianta na cansùn larìn larìn lareta sa i tuca la barbeta, baseme se vi pias. Sa iè barba Marciò e barba Gaspaire e barba Baldasaire tùti aduré l’infànt. (2) Sa fiiisa nen ëd Vost Fiöl cha a l’è venù a rangé l’affaire sariu tiiti danaire për ël pecà d’Adam. E le sue varianti ricordate da Felicita Burzio della frazione dei Marocchi, contadina, (forse con qualche sovrapposizione di strofa): (1) …amnisia giù ciantand amnisia da la Giudèa, Gloria in Eccelsis Dea (2) Vui Maria Vergìn nui vi ringrassierem sa fiiisa nen per Vost Fiòl cha a l’è amnii a rangé l’affaire sariu tiiti danaire per il pecà d’Adam. Eseguito in mib maggiore ma trascritto nella tonalità di sol la linea melodica muta completamente sia come ritmica che come impianto melodico: spariscono le quattro battute che abbiamo definito di ostinato per svilupparsi su una melodia semplice e lineare racchiusa all’interno di una sesta, il 2/4 passa al 6/8, più vicino alle ballate epico liriche piemontesi, più vicino alle pastorali natalizie. La semplice introduzione dell’autore ci introduce uno spaccato del territorio e della cultura contadina dello scorso secolo nelle campagna a ridosso di Torino, metropoli metalmeccanica dal cuore cavalleresco: Traduzione: Gesù Bambino è nato / è nato a Betlemme / e sopra un po’ di paglia / è sopra un po’ di fieno / è sopra un po’ di fieno / c’è il Bambino che piange / sua Mamma che l’adora / e sopra un po’ di fieno. // Ho sentito una voce nell’aria / che veniva giù cantando / San Giuseppe, suo padre / lo prende fra le sue braccia. / Gli canta una canzone / gli tocca la barbetta / baciatemi se vi piace. // C’è zio Melchiorre / e zio Gaspare / e zio Baldassarre / tutti adorate l’Infante. / Se non fosse per Vostro figlio che è venuto ad aggiustare la faccenda / saremmo tutti dannati / per il peccato d’Adamo. Variante: Veniva giù cantando / veniva dalla Giudea / Gloria in excelsis Deo. // Voi Maria Vergine / noi vi ringrazieremo / se non fosse per Vostro Figlio / che è venuto ad aggiustare la faccenda / saremmo tutti dannati / per il peccato d’Adamo. 38 La trascrizione originale del testo operata dall’autore con una trascrizione di suoni più che di grammatica ci permette in parte di comprendere l’essenza del recuperato canto. Innanzi tutto ritroviamo la completa stesura in lingua piemontese che a un confronto attento si scopre non così discosto ritmicamente dalla lezione del Sinigaglia. L’impianto narrativo si articola su tre strofe e non più su due, inserendo nella scena della Natività i tre Re Magi sotto le spoglie di zii adottivi: di fatto sia nel canto più famoso che in quest’ultimo gli attori chiamati per nome sono tutti al maschile, a partire da Adamo, riferimento assai singolare nella scena della Natività, e non si fa menzione del nome della Madre di Dio. In ultimo le contaminazioni di influenza occitana spariscono dall’impianto narrativo per essere completamente sostituite dalla parlata della zona a eccezione del lemma cianta che rimane incastonato nel testo come a testimone di una tradizione più antica. Concludo riprendendo parte dell’introduzione che feci al volume dei Canti Natalizi della Tradizione Popolare10 che risponde perfettamente all’analisi fatta delle due versioni del canto presentato e nello stesso tempo accomuna tutta la produzione dei canti rituali della nostro penisola: «Riprendendo la teoria formulata da alcuni dei padri della ricerca etno-musicale dei primi anni del Novecento, tra i quali Antonio Ive e Ireneo Sanesi, in cui si affermava che: “ogni uomo che si trovi colpito da eguali sensazioni e che sottostia a egual vicenda, riproduce i medesimi atti e li esprime più o meno analogamente”; tenendo conto inoltre che i canti rituali, proprio per la loro tipologia di narrazione, non rispondono alle leggi dei canti popolari tradizionali in fatto di migrazioni, contaminazioni e modificazioni dovute al tempo e ai vari dialetti con cui si vedono rimodellati i testi, possiamo dire che alcuni di questi si calano nella concezione di “migrazione” come se fossero dei veri e propri canti “epico-lirici” e di conseguenza le comunanze visibili nella narrazione diventano metro inequivocabile di paragone. Ragionando in termini correnti si può affermare perciò che un canto rituale, […] pur avendo temi e personaggi comuni a tutta l’area cosiddetta “mitteleuropea”, in alcuni casi sottostà alle regole del canto popolare tradizionale». CANTO POPOLARE 39 Note 1. D. COMPARETTI - A. D’ANCONA, Canti e racconti del popolo italiano. Introduzione alla raccolta di G. FERRARO, Canti popolari monferrini, Ermanno Loescher, 1870. 2. R. LEYDI, Canzoni popolari del Piemonte - La raccolta inedita di Leone Sinigaglia, Diakronia, Vigevano 1998. 3. Il pastore Gelindo, ossia La Natività di Gesù Cristo, Torino presso Tipografia Giovanni Binelli e Figlio, s.d., ma del 1842. 4. A. VIGLIERMO, Canti e tradizioni popolari - indagine sul Canavese, Priuli e Verlucca, Romano Canavese 1974. 5. A. VIGLIERMO, Canavese che canta, Priuli e Verlucca, Romano Canavese 1986. 6. Vecchie canzoni popolari del Piemonte. Raccolte vol. VI, ed. Breitkopf, Lipsia 1927, conosciute successivamente come 36 Vecchie canzoni popolari del Piemonte (1914-1927). 7. Glossario piemontese: C. BRERO, Gramàtica piemontèisa, Edission, A l’ansëgna dij Brandé, Editor Mario Gros, Turin 1987. Riproponiamo come già fatto in Voci & Tradizione Piemonte un compendio sulla corretta lettura della grafia della lingua piemontese ricordando che il valore della maggior parte dei segni è quello che essi hanno in italiano. Si noti tuttavia quanto segue: e senza accento, si pronuncia di regola aperta in sillaba chiusa (mercà) e chiusa in sillaba aperta (pera), ma vi sono alcune eccezioni. é simile alla e chiusa italiana, ma più aperta (caté, lassé). è simile alla e aperta italiana, ma più aperta (cafè, përchè). ë detta e semimuta, simile a quella francese di le (fërté, viëtta). eu simile al francese eu (cheuse, reuse). o simile alla u italiana (conté, mon). u simile al francese u o al tedesco ü (bur, muraja). ua dopo q (e in pochi casi isolati) vale ua di quando (quand, quel). ùa si pronuncia bisillabo üa (crùa, lesùa). j simile alla i iniziale di ieri e alla i di mai (braje, cavej); nella grafia piemontese, tuttavia, la j ha talora solo valore etimologico e nella pronuncia non si sente o si sente appena (ciò è vero specialmente dopo la i: es. fija<lat. volg. filija<lat. class. filia; si trova di solito in corrispondenza con un gl italiano). n n velare o faucale, senza corrispondente preciso in italiano, ma simile alla n di fango (lun-a, sman-a). s iniziale di parola o postconsonantica suona s sorda (sapa, batse), tra vocali o in fine di parola dopo una vocale è sempre sonora (lese, posé, pas = it. pace). ss si usa tra vocali o in fine di parola dopo una vocale per indicare la s sorda (lassé, possé, pas = it. passo). s-c si usa per indicare il suono di s come in scatola, seguito da c palatale come in cena (s-ciapé, ras-cé). V z si usa solo in posizione iniziale o postconsonantica per indicare la s sonora (zanziva, monze). v in posizione finale di parola si pronuncia simile alla u di paura (ativ, luv “lupo”) e così avviene anche nel corpo di una parola quando non corrisponda a una v italiana (gavte, luva “lupa”); negli altri casi ha il suono della v italiana (lavé, savej). Accentazione: si segna l’accento tonico sulle sdrucciole (stiribàcola), sulle tronche uscenti in vocale (parlé, pagà, cafè), sulle piane uscenti in consonante (quàder, nùmer), sul dittongo ei se la e è aperta (piemontèis, mèis), sul gruppo ua quando la u vale ü (batùa), e su gruppi di i più vocale alla fine di una parola (finìa, podrìo, ferìe). L’accento si segna anche in pochi altri casi isolati dove non occorrerebbe per regola o per indicare eccezioni (tèra, amèra dove la è di sillaba aperta dovrebbe essere chiusa mentre è aperta) e può facoltativamente segnarsi sulla e delle finali, -et, -el per indicare il grado di apertura (bochèt, lét). L’accento serve inoltre a distinguere alcune coppie di omografi (sà = verbo, sa = questa; là = avverbio, la = articolo). 8. La parlata piemontese e le sue varianti di Ettore Galvani, in Voci & Tradizione, canti della tradizione orale armonizzati o elaborati per coro a cura di Ettore Galvani e Alessandro Ruo Rui. 9. Dal 1994 è professore ordinario presso l’Università di Torino, dove insegna Dialettologia e Dialettologia italiana. Ricopre gli incarichi di direttore del Dipartimento di Scienze del linguaggio e letterature moderne e comparate (1994-2000 e 2006-) e della Scuola di dottorato in Scienze del linguaggio e della comunicazione (2006-), nonché di membro del Senato accademico (2003-). Fa parte dei comitati editoriali e scientifici di riviste nazionali e internazionali come Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano, Rivista Italiana di Dialettologia, Nouvelle Revue d’Onomastique e La France latine. Revue d’études d’oc e partecipa all’Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte occidentale (ALEPO), all’Atlante linguistico italiano (ALI) e al Centre d’etudes francoprovençales René Willien. Dall’ottobre 2007 è presidente della Società di Linguistica Italiana. 10. E. GALVANI, Canti Popolari Piemontesi, Dal Piemonte all’Europa vol. II, Son Tre Re, Canti Natalizi della Tradizione Popolare, Daniela Piazza Editore, 2004. in collaborazione con Di fronte al mare, vicino alla meravigliosa Venezia e alla suggestiva Trieste, questa settimana internazionale di canto corale, che giunge nel 2014 alla sua sedicesima edizione, ospiterà 6 atelier e 3 discovery atelier (della durata di un pomeriggio), aperti a cori, direttori, singoli cantori e amanti della musica! Ogni sera ci saranno dei concerti, introdotti da un open singing, e tutti i partecipanti sono invitati a unirsi a questa magica atmosfera e vivere la musica. Alla fine della settimana, ogni atelier si esibirà in un concerto finale. international singing week •ATELIER 1 Classical is young voci bianche e corso per direttori Docente Denis Monte (IT) •ATELIER 2 Rinascimento italiano Docente Walter Testolin (IT) •ATELIER 3 African roots: singing spirituals and gospel Docente André J. Thomas (US) •ATELIER 4 Discovering a Romantic repertoire: Mendelssohn and Schubert Lieder Docente da confermare ALPE ADRIA CANTAT 2014 Lignano Sabbiadoro •ATELIER 5 Dop, ba duba dop… get into the groove! Docente da confermare 24 »31 agosto •ATELIER 6 A taste of world sounds Docente Silvana Noschese (IT) informazioni Feniarco Via Altan, 49 - 33078 San Vito al Tagliamento (Pn) Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 - [email protected] www.interattiva.it con il sostegno di Regione Friuli Venezia Giulia Ministero per i Beni e le Attività Culturali Fondazione CRUP Iscrizioni entro il 31 maggio 2014 www .fen iar co.i t PORTRAIT 41 PER GUARDARE LONTANO INTERVISTA A CARLO PAVESE a cura di Efisio Blanc Che cosa ti ha portato a occuparti di musica corale? Sono stato costretto! Frequentavo il secondo anno di composizione in conservatorio, la segreteria mi convocò per dirmi che avrei dovuto seguire il corso di esercitazioni corali già dall’anno precedente e mi intimò di presentarmi al maestro Dario Tabbia. Entrai timidamente in aula. Non avevo mai cantato in coro, prima. Dario mi chiese: «sei tenore o basso?». Io, che non potevo nemmeno concepire di fare il tenore, risposi con voce cupa: «basso». «Ok, tenore! Siediti là». Dopo questo inizio, pensai: “quest’anno non mi passa più!”, e invece a giugno ero così felice che entrai nel coro da camera. Tre anni dopo fondavo il Coro 900 e l’anno successivo mi iscrivevo al corso di direzione corale. Devo dire che siamo in molti ad avere un debito di riconoscenza con Dario Tabbia per averci trasmesso questa passione. preparazione storica e teorica, l’analisi, la prassi, la scrittura di mottetti e madrigali, la trasferta svedese mi ha permesso di confrontarmi con gli aspetti più pratici della direzione. I cori erano formidabili e cantavano di tutto. Dovevo stare un anno. Mi sono fermato sino al 2001. Ai miei cantori amo raccontare come la domenica mattina un drappello sempre diverso di coristi del St. Jacobs Kammarkör o dello Stockholm Musikgymnasium Kammarkör (parliamo di amatori e, nel secondo caso, di liceali) si trovasse presso la chiesa di Sankt Jacob, prendesse tre o quattro composizioni sacre, anche di una certa complessità, le leggesse e cantasse splendidamente un’ora dopo a messa. Lo racconto perché questo rappresenta bene per me il senso e il valore del saper leggere la musica, una capacità che alleggerisce il lungo lavoro di assemblaggio, e racconta della gioia e della naturalezza con cui si può cantare un nuovo repertorio. Il direttore può fare e dire l’essenziale, poiché ha costruito un gruppo di persone sensibili che sa guidare nel piacere di far musica, con reciproca fiducia. La “lettura a prima vista” talvolta era richiesta anche al direttore. Mi è capitato di arrivare in prova per cantare i Requiem di Mozart e di Michael Haydn e dover invece dirigere la prova. Oppure di ricevere una telefonata, mentre ceno con amici, per tenere all’indomani una prova del Requiem di Verdi. Ricordo il dialogo: «tanto tu sei italiano, l’avrai in repertorio», e io, mentendo spudoratamente: «certo, figurati, solo che per combinazione non ho la partitura con me», e lui: «te la porto Essere al servizio della musica vuol dire permettere che nuovi germogli spuntino sul suo tronco secolare. Finita la tua formazione scolastica in Italia, hai avuto modo di continuarla all’estero. Parlaci di questa esperienza e di quanto ha inciso sulla tua formazione. I corsi estivi Feniarco degli anni ’96 e ’97 hanno aperto una finestra sul repertorio contemporaneo internazionale che i programmi accademici non contemplavano. A Marino ho conosciuto Gary Graden che mi ha invitato a Stoccolma e sono partito nel 1998, dopo il diploma, diventando suo assistente. Quest’esperienza ha inciso moltissimo sulla mia vita. Dopo anni di studio passati principalmente a curare la subito». Rapido congedo dagli amici, grande caffettiera e studio notturno! Però si impara di più in situazioni del genere che ciondolando nella routine per un mese. Consiglieresti quindi a un giovane direttore di coro di completare la sua formazione studiando anche in altri paesi? Sì. A dire il vero, consiglierei a qualunque giovane, di qualunque nazionalità, di completare qualsiasi formazione in altri paesi! Questo non significa che non ci siano ottime 42 opportunità di imparare in Italia, in parte sviluppatesi proprio negli ultimi anni. Uno dei primi incarichi che hai avuto da parte di Feniarco è stata la docenza del laboratorio corale del seminario per compositori di Aosta. Parlaci di questa esperienza. L’idea di un coro laboratorio che legge i lavori dei compositori e permette loro di confrontarsi subito con l’efficacia pratica delle loro idee mi è piaciuta moltissimo e ho svolto questo incarico con entusiasmo. Forse ci ritrovo il senso di quelle esperienze scandinave di cui ti ho detto prima: il coro e il direttore devono concentrarsi nella lettura e nell’approccio per raggiungere in poco tempo il cuore della musica, non la perfezione ma un risultato sufficiente perché la “bottega” di composizione possa ripartire da lì e andare avanti. E dopo due giorni il pezzo ritorna, è cresciuto ed è pronto a camminare sulle sue gambe. In questo modo passa un concetto molto sano: la musica è arte ma anche artigianato, saper scrivere bene per uno strumento è un valore indispensabile e coro, direttore, compositore svolgono un lavoro di bottega, costituiscono un laboratorio. Tu sei considerato un esperto di musica corale contemporanea. Perché questa predilezione e quale rapporto con la polifonia classica? Perché mi piace quello che ho appena descritto, il processo creativo, ciò che nasce oggi e che ha bisogno di attenzioni per crescere e camminare domani. Parafrasando una frase di Stravinsky, direi che essere al servizio della musica vuol dire permettere che nuovi germogli spuntino sul suo tronco secolare. Dopodiché non dimentichiamo che senza tronco secolare i germogli non ci sarebbero! La musica del passato ha superato la prova del tempo, e ne è divenuta la voce. Come accadde in tutte le epoche, la maggior parte della musica d’oggi sarà dimenticata senza rimpianti, ma siccome il tempo è un giudice migliore di ciascuno di noi, siamo chiamati a dare delle possibilità ai compositori e alla loro voce, perché è la nostra voce e parlerà di noi. Questo non vuole dire che direttori e compositori non debbano essere esigenti gli uni con gli altri. Esigenti e competenti. Come un direttore non deve accettare di realizzare qualsiasi partitura solo perché è contemporanea, così un compositore deve stimolare il coro a eseguire la sua musica con cura. Lavorando opportunamente su questo rapporto crescerà la qualità della musica e dei cori. cominciato dirigendo cori di adulti specializzati in musica contemporanea. Con il Torino Vocalensemble, che ho diretto dal 2000 al 2012, abbiamo commissionato e tenuto a battesimo molta musica italiana, sperimentato e imparato, divertendoci. Poi mi è stato proposto di fondare un coro giovanile ed è nato il Coro G che festeggia ora il suo decennale. Infine, nel 2005, i Piccoli Cantori di Torino mi hanno offerto la direzione della scuola di musica e del coro di voci bianche, al quale si è aggiunto adesso un coro giovanile. Accettando ho completato un percorso dagli adulti ai bambini che oggi mi sembra molto giusto e fortunato. Mi ha insegnato che chi ha un ruolo pedagogico non deve dimenticare di guardare lontano. Mentre insegni a un bambino di sei anni il ritmo puntato o a una classe un semplice canone, stai percorrendo una linea nella grande rete del linguaggio della musica. D’altronde mi piace immaginare che all’altro capo della prima rima di un bambino ci sia la Divina Commedia, che il filo che si dipana dalla sua prima moltiplicazione porti al bosone di Higgs. E così ogni anno scelgo fortemente di continuare a far musica con i bambini e i giovani, perché questo lavoro mi stimola, mi gratifica e mi sembra necessario. Dalla musica contemporanea al coro di voci bianche: quali le diverse competenze che devono essere messe in campo? Non saprei, sinceramente. Non vedo alcuna limitazione nel repertorio per le voci bianche né ritengo che ci sia un modo Il nostro paese e la sua federazione sono spesso citati, in ambito europeo, come esempio di realtà dinamica e innovativa. Una parte della tua attività come direttore di coro è rivolta ai bambini. Si è trattato di un approccio occasionale o è stata una tua scelta? Come capita spesso, è stato un mix di occasioni e scelte. Ho specifico di dirigere i bambini o la musica d’oggi. Certamente al direttore di voci bianche conviene avere una tecnica molto evoluta perché la musica passa essenzialmente dal gesto. Con “i grandi” si può parlare, per supplire alle proprie carenze. Coi bambini no, se ti connetti puoi raggiungere qualsiasi vetta, ma se parli troppo, se la musica non è interessante, se il gesto non funziona… li perdi: vanno per la loro strada o non funziona più nulla. Sono quindi degli ottimi maestri, molto esigenti e generosi al tempo stesso. Ci sono purtroppo degli stereotipi: i bambini carini, teneri, che cantano canzoncine allegre, che sono bravi per il semplice fatto di essere piccoli… Io detesto tutto questo, detesto i diminutivi e l’idea di una musica “da bambini”. Ho recentemente eseguito con i Piccoli Cantori due pezzi alquanto drammatici di Lorenzo Donati, Crudelmente e Ponetemente, proposti con un intenso atteggiamento scenico. PORTRAIT 43 Carlo Pavese_______ Carlo Pavese è un musicista torinese. Negli anni della formazione si è diplomato in composizione e musica corale presso il Conservatorio G. Verdi di Torino, ha studiato pianoforte e direzione d’orchestra, ha suonato reggae e rock. Alla fine degli anni ’90 ha conseguito una borsa di studio De Sono che gli ha permesso di approfondire il suo interesse per la nuova musica corale a Stoccolma, dove è stato assistente di Gary Graden per tre anni. Si è perfezionato inoltre con Eric Ericson, Tonu Kaljuste, Frieder Bernius. Carlo ha fondato e diretto numerose formazioni corali: il gruppo vocale Voiceandnoise (1994-1998) del quale è stato arrangiatore, il Coro 900 di Torino (1995-2000), l’ensemble vocale Siryn di Stoccolma (2002-2005), il Torino Vocalensemble (20002012). È direttore del Coro G, fondato nel 2003, e dal 2005 è direttore artistico dell’associazione Piccoli Cantori di Torino, dove segue il coro di voci bianche, il coro giovanile e la scuola di musica. Con i suoi cori e come direttore ospite svolge attività concertistica in Italia e in Europa ed è invitato da festival e corsi internazionali come docente di direzione, interpretazione e improvvisazione, e come direttore d’atelier corali. Ha diretto alcuni allestimenti di opere da camera presso il Piccolo Regio di Torino (tra i quali la prima esecuzione assoluta di Un dragone in gabbia di Giulio Castagnoli e la prima italiana di Man and Boy di Michael Nyman) e il Teatro Comunale di Bologna. Le sue composizioni sono eseguite in Italia e all’estero. Ha arrangiato decine di canzoni a cappella, inclusa una recente versione integrale de La buona novella di Fabrizio De Andrè. È stato Artistic Manager del Festival Europa Cantat XVIII svoltosi a Torino nell’estate 2012, ed è attualmente primo vicepresidente di European Choral Association - Europa Cantat. Il pubblico era emotivamente colpito e spiazzato, e io pensavo: “questi bambini sono venuti a cantare un concerto, a coinvolgervi musicalmente, a darvi tutto quello che hanno dentro, non a intrattenervi; non ve l’aspettavate, eh?”. Troppo spesso gli adulti utilizzano la categoria “da bambini” per limitarli. Erkki Pohjola diceva che i bambini hanno i limiti che gli poniamo noi adulti, e io aggiungerei che spesso i cori hanno i limiti che gli poniamo noi direttori. Allora dobbiamo ragionare bene sulle nostre scelte. Recentemente ho visto un monologo del comico americano Bill Hicks che, parlando del fenomeno delle boys-band, pulite e carine, costruite a tavolino per sembrare ai genitori un buon esempio per i figli, dice «da quando mediocrità e banalità sono un buon esempio per i bambini?». Ne ho ricavato una bella domanda per il direttore di coro di voci bianche e giovanili davanti alle sue scelte: «È mediocre e banale?». Anzi, a pensarci bene, ecco una bella domanda per qualsiasi direttore che lavora col suo coro, per il compositore che rilegge il suo pezzo dopo averlo finito, per l’organizzatore che chiude il cartellone di un festival, per la giuria di un concorso che ascolta i partecipanti, per il cantore che riflette sulla qualità della sua partecipazione alla vita del coro, per l’insegnante di musica che prepara il saggio di fine corso, per l’assessore che deve finanziare una manifestazione, per il musicista che rilascia un’intervista… «È mediocre e banale?»; e se lo è, «che cosa posso fare?». E questa domanda può porsela il più semplice dei cori come il vincitore del Gran Premio, può porsela il gruppo di vocal pop e quello madrigalistico, può porsela il professionista alla ventesima replica e l’amatore al suo primo concerto. E secondo me tutti, almeno ogni tanto, saremo costretti a porci la seconda domanda: «Che cosa posso fare?». Forse, guardare lontano? Tu sei stato direttore artistico dell’edizione torinese del Festival Europa Cantat, quanto ha inciso professionalmente questa esperienza e in quali competenze? Innanzitutto mi ha fatto riflettere sul significato che ha riunire 6000 persone in uno stesso luogo a fare musica per una settimana. Senza competizione. Questa comunità, cantando, 44 convivendo e condividendo, esprime un messaggio molto forte, che porta mille implicazioni sul senso del nostro lavoro che dovremo sviluppare nei prossimi anni. Dal mio punto di vista è stato il festival delle possibilità più che delle soluzioni, delle domande più che delle risposte. Io lo considero un punto di partenza. Per guardare lontano. E poi per me si è trattato di un’acquisizione molto intensa di competenze organizzative e gestionali, una situazione che mi ha costretto continuamente a confrontarmi coi miei limiti e imparare in fretta. Ricordi quando ti raccontavo della notte passata a studiare Verdi? Ecco, è stata una situazione da “grande caffettiera e studio notturno!”, che si è protratta però per un paio d’anni! I tuoi posti di responsabilità all’interno di ECA-Europa Cantat (prima il festival, ora la vicepresidenza) ti pongono una posizione privilegiata per confrontare la coralità italiana a quella del resto d’Europa: a che punto siamo? Feniarco, già prima del festival e ancor più dopo Europa Cantat, ha conquistato una credibilità e un apprezzamento a livello europeo che si riverberano sulla percezione generale che gli altri paesi hanno di noi e delle nostre capacità. Il nostro paese e la sua federazione sono spesso citati, in ambito europeo, come esempio di realtà dinamica e innovativa che ha saputo con il festival offrire nuovi stimoli all’intero movimento corale internazionale. L’Italia, conosciuta come paese di persone ospitali, appassionate, capaci di godere della bellezza e dei piaceri della vita, ha dimostrato che tutto questo non è un paravento dietro cui nascondere inefficienze, ma un quid che dà sapore speciale a eventi organizzati e gestiti secondo standard molto alti. Credo che nello stesso modo la nostra coralità debba proseguire un cammino intrapreso ormai da molti, dove il suono italiano, l’espressività naturale del nostro temperamento, il piacere di condividere la musica si coniugano al lavoro tecnico sullo strumento coro, alla volontà dei direttori di aggiornarsi e sintonizzarsi con i colleghi di tutto il mondo e alla capacità dei compositori di dare un nuovo volto e un nuovo suono a tutto questo senza staccare i germogli dal grande albero secolare della nostra tradizione. Chi ha un ruolo pedagogico non deve dimenticare di guardare lontano. SUL PROSSIMO NUMERO n. 42 - dicembre 2013 DOSSIER LA MUSICA NELLA LITURGIA DOSSIER COMPOSITORE ELENA CAMOLETTO NOVA ET VETERA IL REQUIEM DI VERDI IN ALLEGATO IL NUOVO CD DUM CLAMAREM INVOCAZIONI DI DOLORE E DI SPERANZA MEDIAE AETATIS SODALICIUM DIRETTO DA NINO ALBAROSA PORTRAIT MARTINA BATIČ E MOLTO ALTRO ANCORA! LA RIVISTA DEL CORISTA Anche per il 2013 rinnova il tuo abbonamento e fai abbonare anche i tuoi amici CHORALITER + ITALIACORI.IT Rivista quadrimestrale di FENIARCO abbonamento annuo: 25 euro / 5 abbonamenti: 100 euro Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Via Altan, 49 33078 S. Vito al Tagliamento (Pn) Italia Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 www.feniarco.it - [email protected] modalità di abbonamento: • sottoscrizione on-line dal sito www.feniarco.it • versamento sul c/c postale IT23T0760112500000011139599 intestato a Feniarco • bonifico bancario sul conto IT90U063406501007404232339S intestato a Feniarco 46 L’IMPORTANZA DI CHIAMARLO TESTO di Marco Maiero COMPOSITORE Tra speranze e difficoltà, tra fiammate di energia e periodi di opaca ispirazione, la coralità continua, fortunatamente, a vivere. Piace a molti cantare in coro, piace ancora ascoltare chi canta in coro. Nonostante il marcato e conformista disinteresse della maggioranza dei media che spesso inibiscono la curiosità del grande pubblico, la coralità riesce ancora oggi a brillare e ad affascinare, anche col beneficio dei notevoli progressi tecnico-vocali avvenuti nei decenni appena trascorsi. Sono state spese le migliori energie e c’è voluta la creatività di tanti per preparare il presente e il futuro del canto corale, il quale, sia esso voce dell’ispirazione popolare oppure espressione di un’élite artistica, punta, fino a prova contraria, ad allargare il consenso e a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone. Sempre più diffusamente si possono ascoltare esecuzioni di incantevole levatura artistica, ma se si fa parte di un pubblico poco numeroso durante il concerto di un coro che meriterebbe l’attenzione riservata a una rockstar, si rimane delusi. Non sempre la quantità è sinonimo di qualità, lo sappiamo bene, ma (insomma) una sala o una chiesa affollate infondono sicuramente più entusiasmo dei troppi vuoti di una platea semideserta. Certo, si può far musica anche per un essenziale appagamento personale. Talvolta una prova è più esaltante di un concerto, ma è vero anche che il calendario della sala prove privo di appuntamenti mette tristezza e fiacca gli entusiasmi. L’attività corale è un’arte e per quest’ultima la ricerca di un consenso è implicita nel suo stesso compiersi e manifestarsi. L’arte è comunicazione. Alcune arti possono avvalersi di un linguaggio universale, non hanno frontiere e sono largamente condivise senza la mediazione di una traduzione. La musica strumentale fa parte di queste, la musica vocale generalmente no. L’opera, ad esempio, si esprime, da secoli e in ogni parte del mondo, nella lingua in cui è stata composta. Anche parte della musica corale può trarre beneficio dall’universalità di alcuni testi, specialmente quelli sacri. Ma, ovviamente, le parole di un canto o canzone che dir si voglia, nella maggioranza dei casi sono importanti e devono essere perfettamente intesi e non possono ridursi a semplici suoni vuoti di significato. A mio avviso, la pratica corale, pur essendoci l’innegabile necessità di favorirne la diffusione e aumentare verso di essa l’attenzione e il consenso, non può avvalersi solo della ricerca di una vocalità perfetta, o di una migliore efficacia interpretativa, oppure accettare ogni volta le sfide insite nell’esecuzione di brani di elevata difficoltà. Cantare in coro può e deve ancora significare saper trasmettere messaggi ed emozioni anche attraverso le parole. Il canto corale deve rappresentare il presente anche con versi che vibrano di emozioni appena vissute, presenti nelle stagioni che si respira. Probabilmente il punto debole della coralità attuale, o meglio della produzione di nuovi canti per coro, sta proprio nella superficiale attenzione al testo. Ecco giustificata la parafrasi del titolo della commedia dell’arguto Wilde. “L’importanza di chiamarlo testo”, appunto. Il testo deve avere lo stesso valore della musica nello stretto binomio che, vicendevolmente, fa scaturire e progredire una composizione per coro. Le note contenute nella potenza di parole a loro volta richiamate da una melodia che sta prendendo il volo. Il testo, insomma, non può trasformarsi – e scusate il fin troppo scontato gioco di parole – in pretesto. Perché? Perché il canto corale deve anche tradursi nella sintesi dell’interpretazione, della figurazione, della rielaborazione del presente. E meglio ancora se tutto ciò avviene con un’efficacia poetica. Ah, come sarebbe bello che anche su questo fronte si potessero giocare le sfide di un percorso di rinnovamento. Dal punto di vista musicale si è fatto di tutto e di più per l’evoluzione del mondo dei cori. Abbiamo apprezzato l’apertura ai generi più disparati. È stato inventato o reinventato il vocal pop o jazz che dir si voglia. Uno spasso per le orecchie. C’è stato e c’è l’interesse diffuso per il FRAGMENTA 47 gospel. Benissimo. C’è stata la rivisitazione filologica dei repertori più o meno antichi che rivelano sublimi architetture ancora tutte da scoprire. Ma perché sono così pochi i compositori che hanno qualcosa di nuovo da raccontare? Perché così pochi pensano a un coro quando vogliono raccontare una storia, un fatto, un sentimento, un dramma o la felicità dei nostri giorni, oppure l’intimità di un sogno o l’inquietudine del mistero? Perché l’energia giovanile deve essere sempre rappresentata con la stereotipata icona del rock? Perché l’energia di un coro non può affrontare i sentieri che percorrono i nostri giorni con le parole dei nostri giorni? Eppure, in passato, è successo: le storie delle contrade, i mestieri, gli amori, le guerre, hanno colorato per secoli la musica. Oggi ancora si evoca quel passato, anche se ormai racconta un mondo che non ci appartiene più. Da quando frequento l’ambiente corale, sono venuto a conoscenza di decine e decine di bandi di concorso per la composizione di nuovi canti. Puntualmente sono stati prodotti dei lavori che, dal punto di vista musicale, sono stati frutto di una ricerca compositiva approfondita, ma in cui i testi, praticamente sempre, sono stati trascurati. Tralasciando i testi sacri che costituiscono un capitolo a sé, per comporre un canto profano il più delle volte è stato usato il testo di una poesia di qualche poeta più o meno importante. Ma le poesie raramente possono far nascere canti con la “c” maiuscola: sono poesie e tali devono restare. Possono costituire una palestra compositiva, ma non possono sostituirsi alla libertà descrittiva di quell’insieme creativo che l’atto compositivo richiede. A meno che non si punti a fare di un coro un’orchestra, è necessario che chi vuole scrivere per una formazione corale trovi un suo linguaggio personale anche nel testo, oppure trovi la collaborazione di un paroliere. Anche ammettendo la possibilità che le parole iniziali di una poesia possano contenere (la) sufficiente forza per produrre l’inciso migliore della migliore delle melodie, non è detto che il resto dei versi contenga la stessa spinta. Succede – e lo si nota subito leggendo o ascoltando un canto nato dai presupposti su cui stiamo ragionando – che il compositore sia costretto a inseguire le parole a scapito di un respiro musicale logico ed efficace. Una sillaba in più, una parola che starebbe meglio dopo (di) un’altra, rendono il percorso compositivo irto di difficoltà tali da portare spesso a produzioni prive di ispirazione. Ciò si verifica perché il testo di una poesia esistente non permette molte libertà: mica si può cambiarlo. A meno che non si intenda percorrere la strada della musica contemporanea, in cui i riferimenti della pulsazione ritmica e dello slancio melodico-armonico vengono elaborati in modo diverso, un canto che può rappresentare un’emozione condivisa, che possa essere cantato insieme (e mi pare che ce ne sia sempre l’esigenza) deve necessariamente toccare le corde giuste dell’anima. Un nuovo canto deve scaturire da un’unica spinta creatrice. In altre parole è ciò che succede in molte canzoni della musica d’autore. E di queste ce ne sono tante e di indiscutibile bellezza. Evito di soffermarmi ancora in approfonditi dettagli tecnici. Ringrazio per l’ospitalità concessami in questa rivista e concludo questa riflessione con la speranza che essa possa produrre un confronto di idee e con la presunzione di poter provocare una scintilla di interesse verso questo lato ingiustamente trascurato della coralità odierna. Perché sono così pochi i compositori che hanno qualcosa di nuovo da raccontare? SFORTUNATO CHI NON CANTA CRONACHE DAL FESTIVAL DI PRIMAVERA DI… …Sandro Bergamo C’è una scuola media, in Italia, dove il canto corale non è un’opzione, ma un elemento integrante del percorso formativo. È a Firenze. Fa parte del Liceo internazionale V. Hugo, una scuola francese in Italia, sorta per i figli dei cittadini oltremontani residenti in Toscana, ma allargatasi ora anche a italiani interessati al percorso formativo offerto dalla scuola. Il risultato non è solo un buon livello musicale esibito da un coro costituito da tutti gli allievi della scuola, senza selezione alcuna, ma un entusiasmo che attribuiresti solo a chi sta realizzando un’aspirazione a lungo coltivata. La prima riflessione che viene spontanea frequentando il Festival di Primavera a Montecatini è infatti questa: che se gli educatori, e gli adulti in genere, non si sottraggono al loro dovere di proporre modelli, i ragazzi seguono, si appassionano, si entusiasmano. Tutti noi ci formiamo su quello che i percorsi di vita ci mettono davanti. Qualche volta è il caso a farci scoprire quello che poi diventa la passione di una vita. Ma nel quotidiano bombardamento di mediocrità, quando non di bruttura, non si può affidare al caso l’incontro con la musica e col canto. I processi educativi sono costruzione di percorsi che non siano la semplice riproduzione dell’esistente, ma sappiano proporre modelli e valori. Il coro stesso rappresenta una di queste opportunità e il Festival di Primavera esalta questa visione. Ai giovani coristi non si ha paura di proporre un gioco impegnativo, ma non per questo meno divertente. Nonostante la crisi economica di questi ultimi anni, per la prima volta si registra un calo fisiologico di presenze, ma non di entusiasmo. Metti dei docenti di qualità, dei programmi originali, e gli atelier si sviluppano con facilità, giorno dopo giorno. I ragazzi affrontano repertori da tutto il mondo, etnici e non, con Edoardo Materassi e con Basilio Astulez: un canto che si fa danza, tornando alle origini, quando la musica e il movimento non erano separati ma rappresentavano due elementi strettamente collegati. Ma con altrettanto entusiasmo altri ragazzi affrontano la musica di Benjamin Britten, opportunità che il festival offre in occasione dei cent’anni dalla nascita del compositore inglese: la collana di Friday Afternoons, anche se composta da Britten per cori scolastici, è certamente meno immediata, sia per le difficoltà tecniche che per l’umorismo più sottile, (inglese, diremmo) che la pervade, ma Stefania Piccardi sa condurre i suoi cantori con mano sicura a conquistare anche questo obbiettivo. Prezioso l’incontro tra i cori scolastici e i giovani, SFORTU CHI NON ASSOCIAZIONE 49 diversi per età e formazione musicale, del Coro Giovanile Italiano. Ormai calati dal giorno prima in un’atmosfera totalmente corale, i ragazzi non hanno nulla di quelle orde inquiete che mordono il freno quando le costringi alle famigerate “lezioni concerto”, ma prestano un’attenzione che vorresti trovare anche nel pubblico “adulto”: tanto più che si tratta di un concerto molto impegnativo per l’ascoltatore, sia nella parte antica che in quella moderna, secondo la formula della doppia direzione adottata in questo ultimo biennio. Si crea un meccanismo virtuoso. Per i ragazzi delle scuole medie il CGI diventa subito un mito, un modello da imitare e, forse, anche un sogno da coltivare: poterne, un giorno, far parte. I giovani della “nazionale” sentono questa responsabilità e danno il meglio di sé non solo nel concerto, ma anche negli altri momenti. Ed è un trionfo il concerto finale, quando, a coppie, i coristi del Coro Giovanile “adottano” uno dei sette cori partecipanti e lo presentano al pubblico. Ne nasce molto più di un concerto: una vera e propria festa musicale, con qualche sorpresa, che semina entusiasmo e lascia in tutti la voglia di tornare. Il Festival di Primavera si conferma come lo specchio di una realtà vivace e piena di promesse per la coralità italiana. A confermarlo è il docente basco Basilio Astulez: «Da noi – spiega – ci sono punte di eccellenza, ma non c’è una realtà di cori scolastici così vasta e diffusa, né un festival come questo. Torno a casa con rimpianto, ma anche con un po’ di invidia». conto dell’enorme mole di lavoro che giorno dopo giorno, ma anche ora dopo ora, la macchina organizzativa – sapientemente pilotata dai ragazzi di Feniarco, che guidano con mano esperta – vive a Montecatini. Tutto organizzato nei minimi dettagli, tutto preventivamente pensato e risolto. Anche le ore trascorse a lavorare sono diverse… da docente, quelle che si hanno a disposizione per portare a termine il lavoro, sembrano sempre poche. Ma se il lavoro lo guardiamo dalla parte del cantore ci si rende conto dello sforzo ma anche della tenacia nel sostenere sei ore al giorno di canto (e quando escono hanno ancora voglia di cantare!). Ovviamente quello di Montecatini non rappresenta l’unico traguardo del percorso formativo dei ragazzi di un coro di liceo; ognuno di loro ha impegni concertistici e scolastici propri, che rappresentano momenti di verifica assolutamente indispensabili, ma sicuramente mette un segno indelebile nel loro entusiasmo, conferma la loro passione e si sentono davvero numerosi, non più soli. Non devono giustificare nulla davanti ai loro compagni di scuola, scettici e inconsapevoli dei risultati che un coro può dare, dall’aspetto musicale a quello goliardico e divertente dello stare insieme (a Montecatini arrivano centinaia di ragazzi con la stessa comune passione; se solo potessero gridare insieme, farebbero arrivare il loro suono nelle orecchie di tutti quelli che ancora non hanno minimamente immaginato e capito cosa voglia dire per loro questo prezioso impegno!). Conosco le fatiche di chi, settimanalmente, deve spiegare e cercare di …Mauro Marchetti L’invidia di cui parla Basilio Astulez è probabilmente anche la mia, quella di non aver avuto, da ragazzo, le opportunità che oggi hanno i nostri ragazzi, quelle opportunità settimanali di ritrovarsi in uno spazio scolastico e riunirsi per fare musica insieme attraverso il canto corale. Il Festival di Primavera è un’occasione unica, anche per il suo essere evento unico in campo internazionale, per i ragazzi delle scuole medie, superiori e dal prossimo anno anche elementari. Condividere insieme un percorso, che inizia nelle aule dei loro istituti, anche con mezzi di fortuna, grazie alla caparbietà e agli innumerevoli sforzi che deve compiere il loro direttore, e terminare nelle braccia dei docenti dei vari atelier. Io che sono stato docente per due anni dell’atelier di musica rinascimentale, ho potuto vivere e respirare le due facce del ruolo di direttore di coro, viverla davanti ai quasi cento ragazzi di quattro licei e poi, dopo i due anni, mi sono portato dietro i “miei” ragazzi e mi sono messo accanto a loro per dare una mano e seguire le loro espressioni vive nel leggere e interpretare le linee guida e i consigli nel lavoro con il docente. Il lavoro appassionato e coinvolgente del docente dell’atelier rimane in ogni caso leggermente distante dalle emozioni che si possono respirare se si è direttori dei cori che arrivano a destinazione carichi e pronti per la full immersion che attende i ragazzi. E quindi si riesce davvero a rendersi far capire come può essere bello ed entusiasmante far parte del coro del proprio liceo. Feniarco ha creduto in questo sogno, nel sogno di tutti quei ragazzi che hanno nei loro sguardi complici la certezza di sentirsi vivi, di respirare quel canto che li porterà nel loro mondo, che vive, sì per due ore settimanali, ma che rimarrà presente nell’animo per sempre. Feniarco, con il forte e vivo contributo dell’Associazione Regionale Cori della Toscana, della passione del suo instancabile direttore artistico Lorenzo Donati, ha saputo mescolare e adattare tutti gli elementi necessari, la passione, la volontà, la forza del canto, e tutto ciò che rende unico il coro, e si sono messi a disposizione delle migliaia di ragazzi che anno dopo anno si sono visti nelle sale e nelle strade della cittadina toscana, sempre disponibile ad accoglierli nel modo migliore. Le centinaia di ragazzi, provenienti da tutta Italia, sono state distribuite, secondo le richieste e i suggerimenti che i loro direttori hanno fornito all’organizzazione, nei vari luoghi e I processi educativi sono costruzione di percorsi che sappiano proporre modelli e valori. UNATO N CANTA 50 sale di alberghi e strutture attrezzate, dove ad attenderli c’erano i docenti predestinati al lavoro del proprio atelier. Ogni docente ha in media ottanta ragazzi e dopo i primi minuti di reciproca conoscenza si parte! Ogni atelier, con temi che andavano da Händel al Vocal Pop, aveva docenti esperti e indirizzati in quel genere proprio per le loro conoscenze ed esperienze professionali. Le tre ore delle mattine, seguite da quelle del pomeriggio, riuscivano a dare un senso a tutto il progetto del singolo atelier che, passo dopo passo, arrivava alla meta, all’obiettivo finale. Costruire una nitida fotografia dell’idea originaria, generata da Feniarco e dalla sua Commissione Artistica, con la scelta oculata di individuare il docente adatto a quel ruolo e a quello stile. I docenti Lorenzo Fattambrini, Cinzia Zanon, Maud HamonLoisance, Luigi Azzolini e Giorgio Ubaldi hanno sapientemente guidato con mano esperta i loro ragazzi nelle tante ore avute a disposizione e nel concertone finale, vero tour de force, una “notte di cori” arrivata l’ultima sera nella sala del Palazzo dei Congressi di Montecatini. La “macchia” enorme dei colori delle divise dei cantori ha dato esempio di grande compostezza, di ordine e capacità matura di saper ascoltare in silenzio e con attenzione ben oltre le tre ore di musica! Probabilmente da rivedere la formula del concerto finale che, dopo le esecuzioni di un brano per ogni coro d’istituto, seppur velocizzate intelligentemente da tutti i ragazzi Feniarco, e dopo le esecuzioni dei tre brani di ogni singolo atelier, arriva a coprire circa tre ore, e anche più, di musica corale. Una proposta è stata già fatta, quella di dividere in due serate, in due momenti ben distinti le due esecuzioni, e questo agevolerebbe il tutto, rendendo anche più piacevole l’ascolto. Si darebbe modo, ai singoli cori, anche di poter eseguire più di un brano e dare quindi un risalto maggiore al loro lavoro. Significativo è stato anche assistere all’incontro, che sembrava quasi spontaneo, dei ragazzi dei vari cori arrivati sul sagrato della Chiesa di Santa Maria Assunta per la loro prima conoscenza, il loro primo approccio di condivisione, al loro primo “coro” di insieme, e alla sobria presentazione ufficiale di tutta la manifestazione, docenti e direttori compresi, con tanto di ballo e trenino finale. Ma efficace e coinvolgente lo è stato altrettanto il momento del concerto della scuola australiana di Sidney, arrivata con orchestra, gruppo strumentale di fiati e coro. Vedere stringersi insieme come se fossero un unico esecutore che partiva dal palco e si legava alla platea è stata una cosa molto suggestiva e coinvolgente per tutti i ragazzi. La cronaca dei tre giorni del Festival di Primavera è racchiusa sicuramente nei cuori dei ragazzi, più che nelle parole di un direttore che ancora si entusiasma e che insieme a loro dedica parte della sua vita a trasmettere i sani valori del cantare in coro. Questo i ragazzi lo hanno compreso bene, Sorprendente, entusiasmante, costruttiva e memorabile l’esperienza del festival di Montecatini Terme. dopo i normalissimi momenti iniziali di scetticismo, quello che ancora avvolge molti dei loro compagni, quelli che ancora oggi pensano che cantare in coro sia “da sfigati”… Questa esperienza di Montecatini è servita a fortificare ancora di più la loro consapevolezza che tutto sommato la “sfiga”, o meglio ancora il loro rammarico, sta nel fatto che loro stessi, quelli che cantano, non riescono invece a poter trasmettere, ai veri sfigati che non cantano, la loro passione e la loro gioia. Dopo undici anni di Festival, riservato alle sole scuole medie e superiori, ora si sente il bisogno di partire ancora da più in basso, come età s’intende(!), e dedicare uno spazio anche alle scuole primarie. Sarà dura ma si confida nelle capacità di tutta la macchina organizzatrice e, ne sono convinto, saremo qui tra qualche anno a commentare un arco scolastico che ASSOCIAZIONE arriverà fino ai cori universitari o addirittura dei conservatori e istituti musicali. Sarebbe davvero una grande conquista, che permetterà anche una forte sinergia tra le istituzioni e tutta la coralità rappresentata dalle associazioni regionali e da Feniarco. Il festival non ha mai avuto problemi di numeri, lo testimoniano le presenze dei ragazzi. La cartolina del Festival di Primavera andrebbe spedita a chi ancora fa fatica a immaginare “un coro in ogni scuola”, come recitava lo slogan di qualche anno fa, una cartolina che racchiuda e che disegni i giorni intensi e ricchi di note cantate, di fiati corti per le paure, di emozioni forti, di condivisione, di gusto musicale, di strette di mano e abbracci finali, di lacrime asciugate e foto taggate, di sguardi lontani e rubriche da aggiornare. …e Giulia Di Censi (alunna dell’Istituto Kant di Roma) Sorprendente, entusiasmante, costruttiva e memorabile l’esperienza del festival di Montecatini Terme a cui diciassette coriste del progetto Kantiamo insieme del nostro istituto hanno partecipato dal 17 al 20 aprile. Al monito di “la scuola si incontra cantando” la manifestazione, giunta alla sua undicesima edizione, promossa e organizzata da Feniarco, si propone ogni anno di dare l’opportunità alle realtà corali di scuole medie e istituti superiori di tutta Italia di condividere e consolidare la loro dedizione al canto corale nella pittoresca cittadella toscana. Nelle prime tre giornate, intense e coinvolgenti, nel corso di tre ore di lezione mattutine e tre ore di lezione pomeridiane, le coriste kantiane hanno seguito l’atelier diretto dalla docente francese Maud Hamon-Loisance e intitolato Games of sound, plays on words, dedicato alle combinazioni di suoni e voci, il più originale e alternativo, occasione stimolante per perfezionare le capacità e la tecnica canora delle nostre cantanti. Gli altri gruppi di coristi liceali provenienti da tutta Italia sono stati inseriti in altri quattro diversi atelier dedicati a differenti generi musicali. Ogni atelier nel corso delle tre giornate ha preparato tre diversi brani cantati poi nella serata finale a conclusione delle singole esibizioni di ogni coro. Sebbene sia stato indubbiamente alto il livello tecnico-artistico di ogni gruppo della manifestazione, 51 il coro kantiano con la sua genuinità, passione e costante impegno ha saputo dimostrare di essere degno del festival: il brano Sister Act si è rivelato un vero e proprio cavallo di battaglia ed è stato meraviglioso ricevere l’applauso di quegli studenti che condivide la medesima emozione del canto corale. Ma oltre all’incontro con i cori studenteschi italiani, il festival ha permesso contatti a livello internazionale: la seconda sera infatti si è esibita per tutti i partecipanti al festival una band, con anche una componente corale, proveniente da Sidney, città nella lontana Australia con la quale a fine spettacolo si è cantata la nota canzone Funiculì funiculà, tipicamente nostrana, per darle un nostro caloroso saluto italiano. Con il debutto a Montecatini è stato raggiunto un grande traguardo, le ragazze del progetto Kantiamo insieme hanno avuto modo di veder realizzati quegli obiettivi che da tempo si auspicavano di esaudire. Passo dopo passo, lezione dopo lezione, esibizione dopo esibizione, il nostro coro migliora, si raffina, perfeziona e cresce. Nonostante sia stato fondamentale il talento e la dedizione di ciascuna, immensa è la gratitudine per il loro maestro, Mauro Marchetti, paziente ed esperto, che ha saputo insegnare la meravigliosa arte del canto alle sue coriste speranzose di averlo reso soddisfatto del suo prezioso e importante lavoro che con fatica e simpatia ha condiviso con le sue allieve. Ovviamente grande sostegno e punto di riferimento per le ragazze è stato il professor Giannetti, il vigile e responsabile accompagnatore senza il cui sostegno le ragazze non avrebbero raggiunto lo stesso magnifico successo e senza la cui collaborazione non sarebbe mai stato possibile vivere l’esperienza di Montecatini per cui è stato fondamentale anche il contributo della professoressa Forconi che non ha potuto partecipare in prima persona alla manifestazione, ma di cui è stata una perseverante promotrice e organizzatrice. Il coro kantiano certamente si augura di poter ripetere la meravigliosa avventura anche nell’anno avvenire e nei successivi, con il desiderio di aver sempre maggiore spazio e sostegno da parte della scolaresca kantiana forse poco consapevole del grande potenziale artistico e canoro che il suo coro sta dimostrando di possedere. CD CD CHORALITER Bando di partecipazione Feniarco intende selezionare registrazioni dotate dei requisiti necessari per essere allegate alla rivista nell’anno 2014. Al presente bando potranno partecipare tutti i cori italiani. Le registrazioni, inedite o edite in tiratura limitata, dovranno essere state realizzate, alla data di scadenza del bando, da non più di 5 anni e dovranno rispondere ai seguenti criteri: > avere carattere unitario, presentandosi come un progetto focalizzato su un tema omogeneo e artisticamente significativo, tale da poter essere oggetto di un dossier della rivista; > essere di qualità sul piano dell’esecuzione, della registrazione e del repertorio proposto; > avere una durata non inferiore ai 50 minuti. Le registrazioni andranno inviate a Feniarco entro il 31 maggio 2014 unitamente a un curriculum del coro e del direttore e una dichiarazione di autenticità dell’esecuzione. Una commissione d’ascolto costituita dal direttore della rivista e da due componenti della commissione artistica nazionale valuterà le registrazioni pervenute, formulando una graduatoria in base ai predetti criteri. La redazione si riserva la possibilità di utilizzare anche parzialmente le registrazioni pervenute, pubblicando un CD antologico. I costi di realizzazione del master sono a carico dei cori. Feniarco provvederà alla duplicazione, alla stampa dell’eventuale booklet e alla diffusione. Il coro interprete del CD selezionato fornirà inoltre una liberatoria che autorizzi Feniarco alla pubblicazione e diffusione, rinunciando ai diritti che saranno esercitati da Feniarco in quanto editore. Per le registrazioni eventualmente già edite, dovrà essere allegata una liberatoria da parte dell’editore, che autorizzi alla duplicazione e diffusione. Al coro interprete del CD pubblicato saranno riservate 50 copie omaggio della rivista e ulteriori 100 copie del CD. CRONACA 53 A LEZIONE DALLA GIURIA Il XII Concorso Internazionale di Maribor di Rossana Paliaga È il più giovane tra i concorsi della rete internazionale del Grand Prix ed è arrivato quest’anno alla dodicesima edizione, raggiunta alternandosi con cadenza biennale al concorso nazionale. La sua voglia di dialogare con il mondo corale si riflette nell’approccio del giovane e dinamico direttore artistico Matija Varl, che insieme ai membri del comitato organizzativo del Fondo nazionale sloveno per le attività culturali si impegna in maniera equivalente per garantire ai cori partecipanti condizioni ottimali per una buona resa e per trasformare il concorso in un’occasione di incontro tra i rappresentanti di istituzioni e concorsi corali da tutto il mondo che partecipano sempre numerosi e vengono accolti da un’atmosfera particolarmente cordiale. Se per i singoli ospiti e appassionati il viaggio nella verde Slovenia può essere un’esperienza facilmente affrontabile, per un coro gli spostamenti, soprattutto di questi tempi e magari da paesi lontani, possono creare difficoltà non superabili che, unite ad altri imprevisti, hanno imposto ad alcuni gruppi selezionati per il concorso la dura scelta di rinunciare. Dopo tre defezioni, il concorso ha potuto infine mettere in campo sei gruppi, ma ha trovato anche il modo di integrare il programma con un gradito arricchimento, ovvero coinvolgendo alcuni membri della giuria nella conduzione di laboratori su argomenti che rientrano nelle loro competenze specifiche. Il presidente di giuria, lo storico basso dei King’s Singers Stephen Connolly, ha così trattato l’argomento della comunicazione sul palcoscenico, Shiu-wai Tong ha curato un’esotica introduzione alla musica corale cinese, Laurent Gendre ha invece proposto un esempio base di gestione delle prove di un coro. La cornice degli eventi competitivi è stata all’insegna della cultura popolare, con la quale gli organizzatori hanno dato il benvenuto a partecipanti e pubblico nel concerto di apertura, presentando tre diversi aspetti del folclore sloveno da tre regioni del paese, a partire dal canto coreografato dei bambini di S̆entjernej, professionali nel loro programma curato nei minimi dettagli. L’angolo etnografico con i suoni autentici provenienti dalla fine dell’Ottocento è stato proposto dai Murnovi godci, gruppo che utilizza strumenti antichi tra i quali una fisarmonica datata 1890, mentre ha concluso la carrellata introduttiva la tradizione familiare con il trio Volk Folk, nel quale cantano e suonano i membri di una famiglia di Ilirska Bistrica. Danze e tradizioni di Slovenia hanno coerentemente caratterizzato anche la cerimonia finale delle premiazioni con le esibizioni giocose del gruppo folcloristico accademico S̆tudent di Maribor. La musica popolare è un prezioso bene di scambio e di conoscenza reciproca che il concorso di Maribor ha utilizzato aggiungendo un’ulteriore nota caratterizzante e di importanza divulgativa, spesso costruttivamente inserita nei regolamenti delle competizioni, ovvero la valorizzazione del patrimonio corale colto della nazione ospitante attraverso i brani d’obbligo. Il regolamento del concorso di Maribor prevedeva infatti l’esecuzione di un brano dell’icona rinascimentale slovena, Jacobus Gallus, e di un brano contemporaneo dell’affermata Mojca Prus che ha firmato i tre arrangiamenti da canti popolari sloveni (in linea con il fil rouge tematico del La cornice degli eventi competitivi è stata all’insegna della cultura popolare. concorso) interpretati dai cori in competizione. Il concorso di Maribor sembra portare fortuna ai cori svedesi che anche negli anni passati hanno ottenuto ottimi risultati e che quest’anno hanno nuovamente portato la propria bandiera sul gradino più alto del podio. Il vincitore del Grand Prix è stato infatti il coro da camera del ginnasio musicale di Stoccolma, che ha inoltre conquistato il premio per la migliore interpretazione di un brano di Gallus. La direttrice Helene Stureborg ha trovato il modo di ottenere da un coro grande e giovane attenzione e disciplina, ma rinunciando a temperamento e coinvolgimento nelle interpretazioni. 54 Il risultato in tutte le sezioni del concorso è stato un suono compatto, equilibrato, ma espressivamente distante, che tuttavia non ha distolto la giuria dalla considerazione positiva meritata da un buon lavoro d’insieme. Il secondo miglior classificato è stato il Coro del conservatorio di Ljubljana diretto da Ambroz̆ C̆opi, complesso altrettanto giovane e soprattutto carico di una grande energia, riversata sul palco fin dal concerto di apertura con un’esibizione scanzonata di arrangiamenti pop che gli ha fatto conquistare il premio del pubblico. La giuria ha premiato le interpretazioni curate, l’approccio gioioso, il suono fresco, la vivacità agogica, espresse in un programma molto vario che ha privilegiato il repertorio nazionale dando spazio anche alle giovanissime generazioni come il compositore Matej Kastelic, che è oltretutto uno dei coristi. Il pregio del coro è stato al tempo stesso anche il difetto che non lo ha portato alla vittoria: lo slancio ha superato spesso la riflessione, con qualche sbavatura negli attacchi e diverse iniziative personali (vocali e di postura) di coristi particolarmente esuberanti. Un meritato terzo posto ha premiato il coro misto Resonans con tutti dalla Polonia, vincitore anche di un premio speciale per il programma e la performance al concerto di apertura, dedicato interamente alla letteratura corale polacca del Novecento con arrangiamenti di brani popolari, e del premio per la migliore interpretazione del brano d’obbligo, grazie ai passaggi molto armoniosi tra i contrasti ritmici e dinamici del brano di Mojca Prus Sürka je tisa, che attinge alla tradizione slovena maggiormente esposta all’influsso musicale della vicina Ungheria. Il coro diretto da Waldemar Galazka si è distinto per equilibrio vocale e morbidezza del suono, inoltre per un’intensa partecipazione dei coristi. Werner Glögger e il suo Kammerchor Alumni Heidelberg dalla Germania, che un piccolo scarto ha portato al quarto posto nella graduatoria finale, hanno dimostrato in concorso un approccio “artigianale”, lavorando su tutto il programma con il cesello di interpretazioni controllate, ponderate, pulite, a volte fino allo schematismo. Ex aequo si è piazzato al quarto posto il Tartu Ülikooli, coro universitario femminile estone dal suono limpido, ma al quale la direttrice Triin Koch non è riuscita ad aggiungere anche le necessarie doti espressive. Il programma, caratterizzato dall’attenzione al ricco patrimonio nazionale, ha dedicato particolare attenzione all’amatissimo Veljo Tormis. Il coro è stato considerato il miglior gruppo a voci pari nel suo confronto con l’altro organico a voci pari, il gruppo maschile Männerstimmen Basel. Quest’ultimo è ritornato in Svizzera soltanto con il diploma di partecipazione, ma ha lasciato un segno nell’edizione del concorso per originalità e simpatia, espresse fin dall’immagine, dato che i giovani coristi hanno deciso di adottare un abbigliamento retrò, con pantaloni al ginocchio e bretellati, che si ispira alla moda della prima metà del secolo scorso. Il coro diretto da Oliver Rudin è composto da ex coristi del coro di voci bianche Knabenkantorei di Basilea, capaci di cantare con il cuore, ma spesso con qualche imprecisione e curiosi utilizzi del falsetto nelle voci superiori, fattori che non li hanno premiati nelle graduatorie, ma hanno contribuito a renderli i beniamini del pubblico. La giuria si è dichiarata completamente unanime nelle valutazioni e particolarmente attenta alle scelte di programma, spesso determinanti nel risultato finale. Da grande comunicatore, il presidente di giuria si è rivolto Un’occasione di incontro tra i rappresentanti di istituzioni e concorsi corali da tutto il mondo. direttamente ai cori e ai loro direttori, sottolineando come il concorso sia soprattutto una festa della coralità e invitandoli a non dimenticare mai che con il canto si intende in primo luogo trasmettere un messaggio, perché si sale sul palco con lo scopo di comunicare ed emozionare. È stato questo l’argomento del suo laboratorio, concentrato sui repertori che maggiormente risentono dell’incapacità di molti coristi e direttori di trovare il modo di conciliare la precisione con la vivacità di un’interpretazione convincente, ovvero letteratura rinascimentale e il sempe più diffuso vocal-pop. Sulla base della grande esperienza di un gruppo che fa scuola in questo campo, ovvero i King’s Singers, Connolly ha trovato il modo, con consigli semplici ma di efficacia immediata, di dimostrare come trasformare il suono e l’impressione data da un’esecuzione. Si tratta fondamentalmente di prendere coscienza dell’interazione tra suoni, gesti, mimica, ma anche dell’importanza delle parole, CRONACA che sono fatte per raccontare in musica, non per accompagnare il suono. Per Connolly cantare è come «parlare guardando negli occhi» perché non canto «per divertirmi, ma per emozionare chi ascolta». Ovviamente l’espressione personale è subordinata all’intento del gruppo, che deve trasformarsi in un organismo unico, dove ogni singolo corista vive l’interpretazione allo stesso modo degli altri. «Molte volte in sala siedono parenti e amici che sono venuti ad ascoltarti perché li hai invitati; magari non sono assolutamente appassionati di canto corale e in cuor loro preferirebbero trascorrere la serata altrove, ma la nostra sfida deve essere conquistare proprio il pubblico che non si aspettava di entusiasmarsi. Dobbiamo portare nel canto il calore e i colori che utilizziamo quando raccontiamo qualcosa, far vivere la musica», ha ricordato giustamente il simpatico mentore, il cui insegnamento si riferisce soprattutto al lavoro dei gruppi vocali, che hanno più possibilità (e necessità) di utilizzare anche il linguaggio del corpo. Sempre a proposito della capacità di stare sul palcoscenico, Connolly ha fornito ai partecipanti alcuni suggerimenti basilari ma che troppo spesso vengono trascurati, ad esempio sull’errore comune di spostare involontariamente l’attenzione dall’attacco alla veemenza del respiro che lo precede oppure di intonare l’accordo “per verifica” prima di iniziare («è come invitare qualcuno a casa e accoglierlo mentre stiamo ancora spolverando!»), come anche di cantare in autonomia senza considerare l’indispensabile atteggiamento di ascolto nei confronti degli altri coristi, mentre dovremmo tutti aspirare alla simbiosi con il nostro vicino («devi essere la persona accanto a te»). Il pubblico del concorso di Maribor è andato in un certo senso a scuola di coro. A questo ha contribuito, oltre ai laboratori, anche l’impostazione generale del concorso, che ha evidenziato, se ancora ce ne fosse bisogno, l’atteggiamento di grande rispetto e considerazione per la cultura corale. Gli organizzatori hanno voluto infatti fornire un’occasione di arricchimento anche con le accurate presentazioni dei programmi dei singoli cori durante la competizione, per fornire una “guida all’ascolto” al corista e a chi al concorso partecipa semplicemente da appassionato spettatore, con il desiderio di conoscere nuovi panorami musicali. 55 La musica popolare è un prezioso bene di scambio e di conoscenza reciproca. 56 VINCE IL MODERN STYLE CORI GIOVANILI ALLA RISCOSSA di Giuseppe Calliari Sono due i fattori sorprendenti dell’edizione 2013 del Concorso corale di Vittorio Veneto, il più accreditato tra i nazionali. Cade ogni pregiudizio nei confronti dei generi e si fanno strada le formazioni giovanili. Fino a non molto tempo fa sarebbe stato impensabile un premio Efrem Casagrande a una coreografia canora che porta dritto al musical o al varietà televisivo. Così come restava improbabile imbattersi in formazioni corali giovanili. La storia dei concorsi la si poteva descrivere come la progressiva conquista di spazio della polifonia, in un paesaggio corale che tra le voci bianche e i gruppi maturi mostrava un vuoto un po’ dappertutto. Ebbene, la recentissima edizione di Vittorio Veneto parla chiaro e nuovo: su venti cori concorrenti rappresentano le nuove generazioni non solo le cinque formazioni iscritte alla categoria specifica, ma anche numerose altre, e la capacità performativa dei gruppi giovanili cresce nei repertori aperti ai linguaggi meno classici. Entriamo nel vivo. Per la giuria presieduta da Paolo Bon – con lui Manolo Da Rold, Sandro Filippi, Franca Floris, Mauro Marchetti e il segretario Giorgio Mazzuccato – non è stato facilissimo scegliere nel concerto finale tra le prove esecutive della sezione femminile del Coro Eos di Roma, diretto da Fabrizio Barchi, di Janua Vox Accademia Vocale di Genova, diretta da Roberta Paraninfo, di IMT Vocal Project di Thiene, diretto da Lorenzo Fattambrini. A maggioranza, in votazione segreta, ha espresso la preferenza per quest’ultimo ensemble, la cui versatile performance era stata sottolineata dal più fragoroso applauso del pubblico accorso al Teatro Da Ponte. Nel più puro divertissement le ragazze, il giovane tenore e il maestro, la cui voce baritonale mima impeccabilmente il pizzicato del contrabbasso, mettono in scena in ottima elaborazione polivocale a cappella e in vivaci movimenti coreografici canzoni di successo (da In cerca di te a Viva la Gaga). Il complesso femminile romano esibisce una trasparenza quasi strumentale, di sonorità flautate che fanno pensare alla Glassarmonica, alle prese con il repertorio contemporaneo (serio e leggero, da Mis̆kinis a Rodgers e Kramer) o con quello romantico (da Verdi a Brahms). Nella timbrica disincarnata, tenacemente perseguita dal direttore, la nitidezza incantatoria dell’evento sonoro giunge al punto di frenare l’evento musicale. Al contrario la plasticità dinamica ricercata in termini quasi teatrali dal complesso genovese, alle prese con azzardi avvincenti come Leonardo Dreams e ancora meglio con Remembering Martha, patisce inevitabili perdite di omogeneità tra l’agguerrita sezione femminile e la meno formata sezione maschile. Fin qui le eccellenze, pur nei piccoli distinguo. Ora le note di merito. Il giovane direttore Francesco Grigolo, cui è andato il premio speciale per qualità direttoriali, ha saputo nobilitare la categoria più tradizionale, quella del canto alpino virile, trasmettendo al suo Gruppo Corale di Bolzano Vicentino una apprezzata ricerca di fraseggio. Da Gorizia è stata molto Cade ogni pregiudizio nei confronti dei generi e si fanno strada le formazioni giovanili. gradita la partecipazione del bel coro misto sloveno Lojze Bratuz̆, diretto da Bogdan Kralj, formazione che affronta il repertorio tradizionale nelle elaborate realizzazioni polivocali di ottimi autori della stessa area. Nel popolare, con una bella scelta di ninne-nanne, e poi nel giovanile con la Missa brevis di Delibes, ha trovato attenzione il coro scolastico di voci bianche (quest’anno la categoria specifica era esclusa) Voceincanto di Arezzo, diretto da Gianna Ghiri: nei due diversi approfondimenti monografici il gruppo, allargato ai piccolissimi, ha dimostrato reattività. Alessandro Kirschner con il PadovaVocalEnsemble si è messo alla prova nel madrigale, uscendone con le ossa intere. CRONACA L’Ensemble femminile Fonte Gaia di Rovagnate (Lecco) diretta da Flora Anna Spreafico è uscita a sua volta intera dalla prova nel sacro, da de Victoria a Mendelssohn. Bene ha fatto il gruppo vocale giovanile diretto da Luciano Borin, il Novo Concento di Conegliano, gruppo femminile molto giovane impegnato con scioltezza in pagine americane, con buon inserimento degli strumenti ad arco accanto al pianoforte. Una segnalazione speciale, oltre al primo parimerito nella categoria cori giovanili, ha ottenuto l’esecuzione de L’album à colorier composto nel 1948 dal belga Jean Absil, esplorazione stilistica attraverso un caleidoscopio di immagini e di caratteri, con non piccolo ruolo della preziosa scrittura pianistica: interprete (in lingua originale) il lodevole Coro dell’Istituto Musicale Opitergium di Oderzo, diretto da Roberto Brisotto, ancora una formazione di giovanissime voci. Infine qualche considerazione generale. Se vince il modern style, non significa che si è buttata dietro le spalle la grande storia musicale europea. Senza negare che il rischio di un imperdonabile oblio è, nella civiltà dell’immagine e del consumo, non poco reale, non si può misconoscere la grande capacità di approfondimento e impegno che ogni espressione musicale corale porta con sé: quella viva passione, senza la quale l’impegno non si dà, trova oggi alimento anche in generi prima negletti dagli ambiti concorsuali. In questo senso Vittorio Veneto 2013 segna un importante punto di riferimento. Se la lingua inglese la fa da padrona nei nuovi repertori, sarà bene (lo suggeriva Giorgio Mazzuccato) trarre dall’ombra quella buona letteratura corale che anche il nostro Novecento ha prodotto: è in fondo responsabilità dei buoni direttori di coro farsi ricercatori e scopritori di testi oltre che buoni forgiatori di voci. Il limite di età del giovanile a venticinque anni pone l’una accanto all’altra (in assenza della categoria Voci bianche) formazioni anagraficamente e vocalmente molto eterogenee. Se, come appare con grande soddisfazione, si sta aprendo finalmente nella realtà italiana una primavera di cori giovanili, federazioni e concorsi avranno come primo compito la loro crescita e diffusione, individuando livelli differenziati di repertori e di categorie. Il popolare tradizionale appare stantio, nonostante la buona iniezione di idee che qualche direttore sa portare: la magra partecipazione al concorso è segno che i buoni cori perseguono altre strade. Lo stesso vale per i cori polifonici maturi, che oggi in più realtà nazionali sanno intraprendere progetti di ricerca e di proposta autonoma. La totale assenza al concorso di formazioni corali trentine (si passi la digressione sul mondo che più mi è familiare) sembra attestare queste linee di tendenza. Infine, Paolo Bon pensa profondamente che vada ridefinita in particolare una categoria concorsuale, per scongiurare la perdita dell’orizzonte storico. Si dice dell’armonizzazione del canto popolare che andrebbe riportata alla nozione etnomusicologica di fonti orali; è necessario dare un segnale perché venga colto il valore di ricerca sul patrimonio arcaico, quel lavoro che il presidente della giuria definisce, con efficacia di immagine, archeologico: il vaglio delle stratificazioni che poi rivivono, assunte criticamente, nella elaborazione. 57 47° CONCORSO NAZIONALE CORALE “TROFEI CITTÀ DI VITTORIO VENETO” Cat. A - Progetto-programma: musiche originali d’autore 1° ex aequo Coro Eos di Roma Janua Vox Accademia Vocale di Genova 2° non assegnato 3° ex aequo Ensemble femminile Fonte Gaia di Rovagnate (Lc) Padova Vocal Ensemble di Padova Cat. B - Progetto-programma: Canto popolare 1° IMT Vocal Project di Thiene (Vi) 2° Coro Lojze Bratuz̆ di Gorizia 3° ex aequo Voceincanto di Arezzo Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi) Cat. C - Progetto-programma riservato a cori maschili 1° Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi) 2° Castellago Voces di Rovagnate (Lc) 3° Coro Monte Venda di Galzignano Terme (Pd) Cat. D - Progetto-programma: cori giovanili 1° ex aequo Coro Eos di Roma Coro giovanile dell’Associazione dell’Istituto Musicale Opitergium di Oderzo (Tv) 2° Voceincanto di Arezzo 3° Gruppo vocale giovanile Novo Concento di Conegliano (Tv) Altri premi Premio per il progetto-programma più interessante: Coro giovanile dell’Associazione dell’Istituto Musicale Opitergium di Oderzo (Tv) Premio al direttore di coro dalle particolari doti interpretative: Francesco Grigolo, direttore del Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi) Premio al miglior coro veneto iscritto all’Asac: Gruppo Corale di Bolzano Vicentino (Vi) Premio al miglior coro scolastico: Scuola in… canto di Cisano Bergamasco (Bg) 19° Gran Premio Efrem Casagrande offerto da Feniarco: IMT Vocal Project di Thiene (Vi) diretto da Lorenzo Fattambrini 58 QUANDO LA TECNICA INCONTRA IL CUORE 52° Concorso Internazionale di canto corale Seghizzi di Rossana Paliaga È successo. Imprevedibile, perché in un gruppo amatoriale si può preparare una buona esecuzione, ma non si può controllare fino in fondo l’emotività dei coristi sul palco. Inatteso, perché in concorso è meglio scegliere brani meno immediati, ma con i quali esibire, anche rischiando, le proprie capacità, e perché cantare davanti a una giuria non permette errori e solo il supporto di una buona tecnica può garantire un risultato migliore, magari mettendo da parte la pericolosa irrazionalità del coinvolgimento. Eppure l’emozione è entrata da protagonista sul palcoscenico del 52º concorso internazionale di canto corale C.A. Seghizzi. La realtà competitiva è un mondo particolare, dove la tensione e le aspettative pesano sulle esibizioni e dove al posto dello scambio con il pubblico ci si trova a cantare davanti al tavolo degli esperti, spesso per regola senza nemmeno il conforto dell’applauso alla fine di ogni brano; per questo anche chi ascolta ha grandi aspettative rispetto alla qualità dell’esecuzione, ma non pretende di trascendere il lato razionale dell’ascolto, che pure offre spunti di grande interesse, crescita culturale, esperienza. La scintilla spontanea e istintiva che infiamma la catasta accuratamente ordinata della grande qualità non è uno dei fattori misurabili dalla giuria, ma fa la differenza in un modo percepibile distintamente anche dal meno esperto degli ascoltatori in sala. L’edizione 2013 dello storico concorso goriziano rimarrà memorabile per la magia di questa rara combinazione, oltre che per la quantità e straordinaria varietà di provenienze dei cori partecipanti. I numeri del Seghizzi sembrano non risentire della crisi lamentata da molti altri organizzatori di concorsi internazionali di alto livello; il concorso ha superato a gonfie vele la boa del cinquantenario, portando quest’anno a Gorizia ventisette cori, di cui diciotto in concorso, abbracciando non soltanto l’Europa centrale e occidentale, la grande tradizione dei paesi scandinavi e delle repubbliche baltiche, l’immancabile Oriente, Stati Uniti e America latina, ma anche paesi la cui presenza è più inconsueta come la Bosnia Erzegovina, la Turchia e Israele. Aggiungendo l’ulteriore pregio di aver ascoltato programmi interessanti rispetto a quelli che sono ormai diventati standard da competizione, si compone il quadro di un concorso che ha regalato molte soddisfazioni. La più grande è stata quella conquistata con impegno ed entusiasmo dal coro Portland State Chamber Choir (dove la definizione di “coro da camera” deve essere intesa secondo i parametri americani), vincitore del Grand Prix Seghizzi. Il coro diretto “amichevolmente” ma con grande efficacia da Ethan Sperry ha convinto fin dalla prima esibizione per la capacità di modellare il suono a seconda delle esigenze di stile, passando dalla delicatezza di un’interpretazione emozionante di A boy and a girl di Whitacre alla pienezza di suono e alla gestione consapevole del vibrato in un brano di Rachmaninov. Il suono intenso, morbido, omogeneo, unito a un approccio emozionale, ma lucido e sensibile, è stato apprezzato in maniera particolare in una travolgente esibizione nella categoria negro spiritual, non ha deluso per forza ed espressione nemmeno nel popolare e ha conquistato il primo premio anche nella categoria con repertorio romantico, comprensiva di premio speciale per la migliore interpretazione di un brano verdiano nell’anno dell’anniversario (il Pater Noster). La competizione finale per la conquista del Grand Prix ha evidenziato le qualità dei cori meglio classificati nelle categorie principali (contemporaneo e romanticismo – quest’anno sono state temporaneamente annullate le categorie di musica rinascimentale, barocca e classica) con un confronto di altissimo livello nel quale si è piazzato con grande merito al secondo posto il Coro giovanile nazionale norvegese diretto da Tone Bianca Sparre Dahl, che ha guidato la musicalità dell’armonioso insieme di voci educate fino al La realtà competitiva è un mondo particolare, dove la tensione e le aspettative pesano sulle esibizioni. prestigioso traguardo del primo premio nella categoria con programma contemporaneo. È stato un terzo posto “con lode” quello ottenuto dal coro misto lettone So-la che ha sviluppato di categoria in categoria un percorso molto coerente e professionale, con una resa costante, impegnandosi sempre al massimo con serietà e concentrazione. Nella forte concorrenza i dettagli fanno la differenza tra cori di alta qualità e probabilmente il piccolo squilibrio tra le voci femminili e la minore incisività (numerica) della sezione maschile ha sottratto qualche punto nelle votazioni, ma per ottenere comunque l’ottimo piazzamento di due secondi premi nel contemporaneo e nel popolare (categoria unificata al jazz nelle valutazioni). Se ogni coro è il ritratto del proprio direttore, questo vale in modo particolare CRONACA per questo gruppo diretto con grande musicalità e capacità da Kaspar A damsons, il cui gesto molto personale, esuberante ma al tempo stesso perfettamente calibrato, autorevole ed espressivo ha stabilito con i coristi un legame intenso, carico di energia. La varietà e l’eloquenza del gesto che sottolinea e valorizza ogni dettaglio del fraseggio, la cura meticolosa e sensibile nell’analisi dei brani, la raffinatezza delle scelte di repertorio non sono passati inosservati: la giuria ha infatti assegnato al direttore il premio speciale Nuovi Talenti. Ottime anche le esibizioni degli altri due cori scelti per il VI Trofeo delle Nazioni, ovvero il coro universitario indonesiano Brawijaya, al quale la competente e sempre elegantissima direttrice Ira Purnamasari ha dato un’ottima consapevolezza tecnica e una solidissima preparazione, e l’ungherese Schola Cantorum Sophianensis diretta da Valér Jobbagy, coro dalle ottime capacità e compatto nel suono, ma che insiste su prolissi canoni accademici, poco favorevoli all’espressione. Tra i molti cori non selezionati per la fase finale, meritano di essere citati il coro giovanile moldavo Cantemus per la disciplina e la capacità di affrontare con maturità e capacità programmi impegnativi, doti per le quali il direttore Denis Ceausov è stato insignito del premio Usci come miglior direttore, l’entusiasmante ottetto misto sloveno Jazzva, che si dedica specificamente al repertorio jazz e pop e lo ha dimostrato con una performance accattivante e ben costruita, musicalmente interessante ed eseguita magistralmente con un equilibrio perfetto delle voci e padronanza della scena. Merita di essere segnalata anche l’esibizione del coro femminile Multifariam, unico rappresentante della coralità regionale e nazionale, che la direttrice Gianna Visintin ha iscritto esclusivamente alla categoria con programma contemporaneo, rivelando in scena il solido controllo di un lavoro accurato e una buona gamma dinamica, che si sono tradotti nel primo premio Voci femminili e nel premio speciale Feniarco. La vocazione del Seghizzi a unire il mondo nel segno della 59 coralità offre al pubblico lo spettacolo della vivace rassegna dedicata alle elaborazioni di canti popolari (quest’anno una maratona di quattordici cori!), ma permette anche di cogliere l’occasione per capire quanto la coralità possa assumere aspetti e significati diversi rispetto alla cultura, la tradizione e il contesto di provenienza. Tutti conoscono ad esempio l’abitudine di cantare in coro e la grande considerazione della quale la coralità gode nei paesi baltici, ma certamente è meno noto il ruolo del canto corale in Israele. A questo proposito le coriste del coro femminile Naama spiegano come il paese stia vivendo nell’ultimo decennio una fioritura dei cori di voci bianche con ottimi gruppi e maestri. Il problema è tuttavia mantenere l’interesse per il canto anche in seguito, per garantire uno sviluppo equivalente dei cori di adulti che in questo momento rappresentano un settore piuttosto debole a livello amatoriale. I repertori attingono alla letteratura L’edizione 2013 dello storico concorso goriziano rimarrà memorabile per la magia di una rara combinazione. occidentale, ma comprendono anche arrangiamenti di brani etnici. L’apporto di direttori e compositori è molto diversificato, perché musicisti ebraici arrivano in Israele da ogni parte del mondo, portando con sé la cultura del paese di provenienza. È invece una varietà autoctona quella presente nella realtà musicale della Bosnia Erzegovina, ritornata sul palco del Seghizzi dopo una lunga e tragicamente motivata assenza. La storia dell’eptetto femminile Corona, proveniente da Sarajevo, racconta di una coralità annullata dalla violenza della guerra, di due mondi diversi, separati dalla scure del 1992, del silenzio nel quale sono spariti i cori di voci bianche 60 appartenenti all’infanzia delle coriste. La direttrice Tijana Vignjević vuole parlare soprattutto della rinascita, lenta e difficile, ma tenace, della voglia di ricostruire i frammenti di una realtà mutilata, dove mancano ancora cori e coristi, soprattutto giovani, e della quale il gruppo vuole testimoniare la rinnovata voglia di cantare e far uscire dai confini il desiderio di scambi, amicizie, collaborazioni. Le affiatate coriste si sono messe in gioco in tutte le categorie, superando l’ambito del proprio repertorio abituale e rischiando qualche disomogeneità vocale, ma la loro presenza sul palco del Seghizzi ha avuto certamente un valore superiore ai risultati ottenuti nelle singole esibizioni. I piccoli e i grandi traguardi di tutti i cori sono stati valorizzati quest’anno dal Seghizzi in un’atmosfera di festa. L’ampia rosa di vincitori di premi speciali e medaglie per fascia di merito ha permesso infatti a tutti di ritornare a casa con un buon ricordo della propria partecipazione. La serata delle premiazioni ha rappresentato una bella emozione anche per Bruna Liguori Valenti, vincitrice del premio “Una vita per la direzione corale”. Esperta di vocalità infantile, ha ottenuto importanti riconoscimenti con i cori dell’Aureliano di Roma e ha diretto cori di voci bianche anche in produzioni per importanti teatri d’opera italiani, impegnandosi inoltre in importanti iniziative per la promozione della musica contemporanea: «Ho dedicato la vita alla direzione di cori di bambini e femminili, ma non mi aspettavo di essere premiata. È simile alla sorpresa data dal riscontro inaspettato ottenuto quando sono apparsa su facebook su richiesta di un gruppo di Vittorio Veneto e sono stata immediatamente contattata da ex allieve con le dimostrazioni di affetto più belle, per aver insegnato loro non tanto la musica, quanto attraverso di essa la vita. L’attività corale richiede impegno, sacrificio, anche la voglia di stare insieme. Quando ho iniziato a lavorare con l’Aureliano, ho fatto inserire nello statuto dell’associazione il fine di far incontrare i bambini con l’attività corale e strumentale. Mi sono impegnata inoltre nella diffusione del repertorio contemporaneo, orientamento che negli anni ’70 e nell’ambito dei cori infantili non era visto di buon occhio. Tuttavia ho insistito, coinvolgendo molti stimati compositori e convincendoli a scrivere per coro; garantendo loro l’esecuzione e la qualità ho potuto instaurare proficue collaborazioni, anche promuovendo un concorso apposito. Oggi il repertorio contemporaneo è il pane quotidiano dei cori, ma all’epoca mi sono sentita un’antesignana». Al momento della premiazione, la Liguori ha voluto lanciare anche un appello alle istituzioni, che dovrebbero comprendere e sostenere con maggiore sensibilità il valore educativo dell’attività corale e musicale, ribadendo infine la tenacia delle molte persone che si occupano di coralità: «Non abbiamo timore di affrontare difficoltà, perché cantare in coro è la cosa più bella!». Nella forte concorrenza i dettagli fanno la differenza tra cori di alta qualità. CRONACA 61 25° GRAND PRIX SEGHIZZI 1° 2° 3° 4° 5° Portland State Chamber Choir (Portland, usa) Norvegian National Yourh Choir (Oslo, Norvegia) Mixed Choir Sõla (Riga, Lettonia) Brawijaya University Student Choir (Malang, Indonesia) Schola Cantorum Sophianensis (Pécs, Ungheria) 52° CONCORSO INTERNAZIONALE DI CANTO CORALE SEGHIZZI Categoria 1c - Ottocento 1° Portland State Chamber Choir Medaglia Fascia Oro 2° Schola Cantorum Sophianensis Medaglia Fascia Oro 3° Youth Choir Cantemus Medaglia Fascia Argento 4° Ljubljanski Madrigalisti Medaglia Fascia Argento 5° Mixed Choir Sõla Medaglia Fascia Argento 6° Brawijaya University Student Choir Medaglia Fascia Argento Categoria 1d - Novecento e contemporaneo 1° Norwegian National Youth Choir Medaglia Fascia Oro 2° Mixed Choir Sõla Medaglia Fascia Oro 3° Portland State Chamber Choir Medaglia Fascia Oro 4° Brawijaya University Student Choir Medaglia Fascia Oro 5° Schola Cantorum Sophianensis Medaglia Fascia Argento 6° Chamber Choir Good Night, Brother Medaglia Fascia Argento Categoria 2 - Musica popolare, spiritual e gospel, musica leggera e jazz 1° Portland State Chamber Choir Medaglia Fascia Oro Cat. 2b 2° Mixed Choir Sõla Medaglia Fascia Oro Cat. 2a 3° Portland State Chamber Choir Medaglia Fascia Oro Cat. 2c 4° Norwegian National Youth Choir Medaglia Fascia Oro Cat. 2a 5° Chamber Choir Good Night, Brother Medaglia Fascia Oro Cat. 2a 6° Portland State Chamber Choir Medaglia Fascia Oro Cat. 2a Categoria 3a - Musica contemporanea 1° Schola Cantorum Sophianensis (Lux Aeterna) Medaglia Fascia Oro PREMI SPECIALI Denis Ceausov (dir. Coro Moldavia) Premio Usci al miglior direttore Ethan Sperry (dir. Coro usa) Premio Domenico Cieri Brawijaya University Student Choir Premio Basuino, Gloria Patri di Budi Susanto Johanes Norwegian National Youth Choir Premio Cecilia Seghizzi, programma categoria 1d Portland State Chamber Choir Premio Giuseppe Verdi, Pater Noster di Giuseppe Verdi Kaspar Adamsons (dir. Coro Lettonia) Premio Nuovi Talenti Coro Femminile Multifariam 1° Premio Voci Femminili Youth Choir Cantemus Premio Voci Giovanili Jazzva Premio Gruppi Vocali Youth Choir Kivi Premio Gruppi Cameristici Portland State Chamber Choir Premio Punteggio assoluto Coro Femminile Multifariam Premio Feniarco 11° CONCORSO DI COMPOSIZIONE CORALE SEGHIZZI 1° 2° 3° I pastori di Bernardino Zanetti (Musile di Piave, Ve) Hymne di Roberto Brisotto (Ponte di Piave, Tv) Spruzzi e sprazzi di Angelo Maria Trovato (Acireale, Ct) 62 LES ITALIENNES À TOURS Il successo del coro femminile Vox Cordis raccontato dal direttore Lorenzo Donati di Rossana Paliaga Non sono molti i cori italiani che decidono di confrontarsi con la grande concorrenza internazionale delle “arene” più prestigiose ed è per questo motivo ancora più gratificante poter parlare dell’ottimo risultato ottenuto dal gruppo femminile Vox Cordis di Arezzo nella 42a edizione del Florilège vocal di Tours. Il coro diretto da Lorenzo Donati ha ottenuto infatti il secondo premio (con primo non assegnato) nella categoria a voci pari del concorso internazionale che, come noto, fa parte del prestigioso circuito del Grand Prix. Inoltre è stato insignito del premio del pubblico per l’esibizione nel programma libero e del premio speciale À Cœur Joie International, conferito a un coro non francofono per la qualità dell’esecuzione e la pronuncia di un brano in lingua francese. Il Florilège è un concorso che hai avuto modo di conoscere dal punto di vista della giuria. Quali sono le caratteristiche e le esigenze di questa storica manifestazione sulla base della tua esperienza personale e in relazione a questo cosa ti ha convinto a partecipare con il gruppo femminile? Il concorso di Tours è uno dei grandi concorsi europei, quelli storici e prestigiosi. Avevo partecipato come corista nel 1991 e pur cantando in un ottimo coro eravamo stati eliminati subito. Questo perché il livello di Tours, come del resto Arezzo, Debrecen e Tolosa, è altissimo. Mi era rimasto un po’ il dente avvelenato per questa eliminazione, anche perché amo la Francia e l’attenzione che da molti anni il loro governo dedica alle attività musicali. Poi qualche anno fa è arrivato l’invito a far parte della giuria, un invito graditissimo e prestigioso, che ho condiviso con direttori del calibro di Stojan Kuret e Aarne Saluveer, entrambi vincitori del Gran Premio Europeo. Grazie all’esperienza in giuria ho potuto comprendere meglio quanto a Tours sia importante la qualità vocale del coro in rapporto all’acustica dello storico teatro cittadino. Per questo, solo dopo due ottimi risultati nei concorsi di Montreux (secondo posto) e Cantonigròs (primo posto), ho deciso di partecipare con la sezione femminile dell’Insieme Vocale Vox Cordis. Pensavo fossimo pronti per varcare nuovamente, dopo vent’anni, la soglia del teatro di Tours. Anche a Tours, come ad Arezzo, non è consentito provare l’acustica del teatro prima del concorso, quindi la prima preoccupazione era entrare, trovare in dieci secondi la giusta posizione e sperare che tutti i consigli che avevi dato al coro riguardo all’acustica funzionino. Il Grand Théâtre di Tours è un po’ come il vecchio Teatro Petrarca di Arezzo, sono ormai i templi della musica corale e se non ti adatti subito all’acustica puoi dire addio a ogni speranza di far bene. Tra l’altro al Florilège Vocal ti fanno attendere nel retro del palco prima di entrare, quindi non puoi parlare, ma solo ascoltare il coro prima di te e nel frattempo ti passano molti pensieri per la testa. Se si può parlare di asso nella manica forse, dopo tanti anni e un po’ di concorsi, ho imparato a gestire meglio tutta l’energia e la tensione che un concorso del circuito europeo può darti. Poi, se possibile, il sorriso e la voglia di fare musica. Quale programma avete scelto per le diverse categorie competitive? Scelte prudenti o la voglia di mettersi alla prova? Un concorso ti mette sempre alla prova anche se canti brani semplici. In questo caso con la sezione femminile dell’Insieme Vocale Vox Cordis abbiamo proposto opere di una certa difficoltà, ma senza scegliere brani virtuosistici, tranne forse una mia composizione scritta appositamente per il Vox Cordis, Silent Stars su testo di Tagore. Abbiamo cantato in tre categorie e poi siamo stati ammessi alla selezione per il Gran Premio. La cosa su cui ho puntato e Lavorare per cercare di migliorare dovrebbe essere sempre il nostro obiettivo. Quando sei salito quest’anno sul palco del Grand Théâtre, quale è stata la tua maggiore preoccupazione e quale il tuo asso nella manica? alla quale abbiamo dedicato più attenzione è stato cercare di fare musica mantenendo l’equilibrio vocale necessario a un’acustica senza alcun riverbero. Il premio per la migliore interpretazione di un brano in lingua francese sarà stato un motivo particolare di orgoglio… Chi conosce i francesi sa che non sono molto teneri con gli italiani e questo premio ce lo hanno assegnato i giurati francesi, quindi la cosa ci riempie d’orgoglio. Abbiamo avuto CRONACA 63 la fortuna di avere con noi una corista francese che ha studiato ad Arezzo per un po’ di tempo e che ora, sfortunatamente per noi, è tornata in Francia. Lei ci ha aiutato molto per la pronuncia e quando abbiamo terminato il brano di Lauridsen su testo in francese di Rilke il pubblico è esploso. Un’emozione indescrivibile: siamo scesi dal palco commossi per quella performance così ben riuscita. Quale è stato secondo voi l’elemento che ha conquistato il pubblico e vi ha permesso di conquistare anche il riconoscimento “per la comunicatività”? Il premio del pubblico quest’anno a Tours non era un premio di consolazione, perché era l’unico che veniva assegnato nella categoria a programma libero, cui partecipavano tutti i cori. Quindi vincerlo voleva dire essere per il pubblico, pagante, il miglior coro del concorso. In genere questi premi sono appannaggio di cori filippini o latinoamericani, gruppi che fanno anche qualche brano popolare con movimenti coreografici. Ma l’edizione 2013 ci ha visto trionfare di fronte alle Filippine e a Portorico, con un programma composto di sola, grande musica: Schubert, Duruflé, Gjello, Lauridsen. Al termine della competizione le nostre coriste hanno visto scendere dalla scalinata del teatro le persone del pubblico che inserivano il loro voto nel contenitore con la bandiera italiana. Tutti uscendo dicevano: «les Italiennes…!». Il Florilège ha reso omaggio a Francis Poulenc. Come è stato celebrato nell’ambito del concorso? Avete partecipato o seguito dall’esterno questo fil rouge dell’edizione 2013? Come molti cori abbiamo partecipato all’omaggio a Poulenc eseguendo l’Ave Verum durante il Gran Premio e iscrivendoci alla categoria speciale. Il pubblico quella sera si è sorbito per ben cinque volte le Petites voix dell’autore francese, perché tutti i cori a voci pari e quelli di bambini avevano scelto lo stesso pezzo. Ho pensato che più che un omaggio fosse una vessazione, nonostante la bellezza di queste piccole miniature corali. Fortunatamente alla competizione partecipavano anche i cori misti con un programma più vario. l’obiettivo, evitare di entrare nella spirale tipica delle competizioni, dove ognuno aspetta che l’altro sbagli. Credo che il Vox Cordis sia riuscito a godersi questo concorso perché ha tentato, nonostante la tensione, di essere flessibile, di riuscire a respirare, di creare durante l’esecuzione un flusso di energia che porta l’ascoltatore oltre. La cosa positiva che lascia una manifestazione come il Florilège Vocal è lo stimolo a lavorare con grande concentrazione, sia in fase preparatoria che di esecuzione, lo slancio per cercare di mettere a punto ogni particolare, dalla pronuncia di una vocale all’acconciatura di una corista, dall’intonazione di un accordo alla disposizione sul palco. Lavorare per cercare di migliorare dovrebbe essere sempre il nostro obiettivo e a volte abbiamo bisogno di uno stimolo A volte abbiamo bisogno di uno stimolo competitivo per trovare la giusta concentrazione. L’adrenalina della competizione, la suggestione dell’ambiente, l’opportunità di conoscere coristi e direttori di diversa provenienza, di ascoltare repertori nuovi e una grande varietà di interpretazioni… Quanto fa crescere e quanto può consolidare e motivare un coro l’esperienza competitiva? Di base la competizione è un sentimento un po’ troppo animale per associarlo alla musica e all’arte. Sarebbe molto bello superare questo concetto o sentimento; tra l’altro a Tours come in molte altre competizioni è molto difficile riuscire ad ascoltare gli altri gruppi. Il mondo della musica a volte funziona come lo sport e questo dispiace, perché non sempre chi fa meno errori fa più musica. La nostra gioia è essere riusciti a fare musica in concorso. Questo era competitivo per trovare la giusta concentrazione. Poi l’importante è che resti quel modo attento di lavorare e di pensare l’arte anche quando non hai un concorso di fronte. Altrimenti fare concorsi diventa una malattia. 64 DISCOGRAFIA Coro Giovanile Italiano in concerto direttori, Dario Tabbia e Lorenzo Donati Feniarco Edizioni Musicali, San Vito al Tagliamento 2013 Nuova pubblicazione per conto di Feniarco Edizioni Musicali. Un CD audio che raccoglie una selezione dai concerti del Coro Giovanile Italiano. Registrazioni live, dal 2011 al 2013. Editing e master a cura di Diego Ceruti. Nell’arco del triennio due direttori si sono alternati alla guida della compagine, Dario Tabbia nel repertorio polifonico classico e barocco, Lorenzo Donati nel repertorio moderno e contemporaneo. Un viaggio nel canto corale a cappella. Un viaggio geografico attraverso i concerti che il coro ha tenuto in diverse città italiane. Da qui, il criterio per cui la scaletta dei brani segue l’ordine dei luoghi e delle date di registrazione. In merito alla parte musicale, prevalgono pagine significative di autori italiani. Fa piacere sottolineare questa scelta. Corrono, ahimè, tempi in cui nei programmi dei cori dilagano soprattutto i repertori provenienti dal Nord Europa e dagli USA. Procediamo seguendo una successione storica. Alla scuola polifonica romana appartiene il festoso mottetto, a 5 voci, O beata et gloriosa Trinitas (1569), opera eloquente dell’autorevolezza stilistica di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Le date di edizione tradiscono che i due brani di Tomás Luis de Victoria appartengono al periodo italiano del compositore spagnolo. Ripiegato su canoni palestriniani è il mottetto, a 4 voci, Ne timeas Maria (1572). Spalancata su un orizzonte vocale più ricco e colorito è l’antifona, a 8 voci, Regina coeli laetare (1576). Spunta giusto in tempo per ricordare i 400 anni dalla morte (1613-2013) la stupenda Ave, dulcissima Maria di Carlo Gesualdo da Venosa – dalle Sacrae Cantiones, a 6 voci (1603). Uno squarcio, in opposizione ai rigidi dettami della Controriforma, attraverso il quale languidi affetti penetrano la severità del genere sacro. In piena tempesta di “pietosi affetti” ci conducono le incalzanti sincopi e la teatralità del mottetto, a 6 voci, Domine, ne in furore tuo (1620) di Claudio Monteverdi. Fu pure debitore della scuola italiana – attraverso il suo maestro Giovanni Gabrieli – il tedesco Heinrich Schütz. Lo splendore della policoralità veneziana echeggia ancora nel salmo, a 8 voci, Singet dem Herrn ein neues Lied – dagli Psalmen David, op. II (1619). Quid commisisti, o dulcissime puer, a 4 voci – dalle Cantiones Sacrae, op. IV (1625) dello stesso Schütz – chiude il cerchio, con un ritorno alla lingua latina e a uno stile più austero, sintesi degli esiti del madrigale spirituale e dell’opera, più in generale, del “divino Claudio”. È un balzo nella modernità quello che segue, nel contenuto del CD del Coro Giovanile Italiano. RUBRICHE Perdura il genere sacro, ma per una monografia che mette a confronto ben quattro Agnus Dei. Si comincia con l’Agnus Dei dalla Messa da Requiem (1922/1923) di Ildebrando Pizzetti, ponte ideale con l’antica tradizione del gregoriano e della polifonia rinascimentale. Un brano commovente per la bellezza del canto e la raffinatezza armonica. Un capolavoro. S’intuisce un’impostazione organistica – un preludio-corale, si direbbe – nell’Agnus Dei dalla Messa per doppio coro (1922/1926) di Frank Martin. La parodia di un canto gregoriano in ottava del primo coro è sostenuta fino al parossismo dal cangiante tessuto armonico del secondo coro. Un pezzo di forte impatto comunicativo, un pezzo di cui lo scarto modale del “dona nobis pacem” marca un segno indelebile. L’Agnus Dei (1980/2005) di Krzysztof Penderecki è parte del Polish Requiem, un work in progress. Una vasta opera, in cui si accumulano tematiche epiche e patriottiche. L’Agnus Dei si dipana sullo schema di un tormentato climax. Alle lamentose linee diatoniche di apertura s’intreccia via via un fitto tessuto cromatico, che culmina nel lacerante strazio di un accordo fortissimo e dissonante di 18 suoni, in coincidenza con la parola “peccata”. Tipica cifra stilistica post-espressionista del compositore polacco. Chiude la rassegna la spontanea e manierata linearità dell’Agnus Dei dalla Missa brevis Pro Pace (1985/1986) del compositore contemporaneo spagnolo Javier Busto. Con i quattro brani rimanenti, il genere sacro lascia spazio a quello profano. Il Coro dei malammogliati di Luigi Dallapiccola – dalla Prima serie dei Cori di Michelangelo Buonarroti il giovane (1933) – appartiene al cosiddetto periodo “neo-madrigalista” del musicista istriano. Con la precisazione che questa formidabile re-invenzione moderna, dal carattere cialtronesco e burlesco, non richiama l’aulico madrigale rinascimentale, ma piuttosto le popolaresche creazioni di un Orazio Vecchi. Ha conosciuto una fase neoclassica anche Bruno Bettinelli, in adesione alla tendenza – diffusa negli anni Trenta – al recupero della tradizione antica italiana. Del compositore milanese sono 65 presenti Già mi trovai di maggio e O Jesu dolce – due delle Tre espressioni Madrigalistiche (1939). Anche di questi canti – che pur sono disseminati dell’artifizio del “madrigalismo” – si dica che i modelli sono antiche forme poetico-musicali minori, la canzonetta e la lauda rinascimentale. Infine, Insenso di Lorenzo Donati, un recentissimo lavoro, su testo dello stesso compositore. Le voci del Coro Giovanile Italiano, sotto la guida competente dei due direttori, convincono ampiamente. Impresa meritoria, se si considera che le ardue problematiche di alcune delle pagine proposte sono state superate brillantemente. Insomma, il CD oltrepassa l’intento di documentare le tappe di una triennale tournée. È una lezione di bel canto corale, impartita con bravura ed entusiasmo da giovani cantori che ci lasciano ben sperare per il futuro della musica corale in Italia. Mauro Zuccante Il CD è disponibile presso la segreteria Feniarco e può essere prenotato scrivendo a [email protected] 66 MONDOCORO a cura di Giorgio Morandi «…Ascoltare non è una operazione semplice, e da sempre culture e religioni di tutto il mondo la pongono ai vertici delle capacità umane. Dalla capacità di ascoltare dipende non solo il cantare, ma tutta la complessa rete di relazioni umane. L’ascoltare non è più solo una funzione specifica dell’orecchio, non è più solo il sinonimo di “udire”, ma diventa la metafora per la capacità di entrare in relazione con il mondo in modo autentico, profondo, disinteressato e amorevole. Ascoltare è la prima condizione necessaria per amare… …Ascolto, dunque canto; cantare diviene uno strumento affascinante per crescere nella voce e nel suono, ma anche umanamente. Ascoltando mi scopro vivo, mi scopro ricco, scopro attorno a me e in me una miniera insospettata di luce e di bellezza, di ordine e di armonia…». Maria Silvia Roveri Se: Ascoltare è la prima condizione necessaria per amare… E se: Ascolto, dunque canto… Allora è naturale: Canto e amo. Spero non me ne vorrà la signora Maria Silvia Roveri per queste mie personali conclusioni ispirate da una sua interessantissima dissertazione dal titolo Ascolto, dunque canto. E spero non me ne vorranno neppure i nostri lettori ai quali in piena estate, cioè in un periodo in cui le attività corali fioriscono prevalentemente in alcune zone turistiche, auguro per la nuova stagione corale di scoprire ancor di più attorno a sé e in se stessi «una miniera insospettata di luce e di bellezza, di ordine e di armonia». Esistono opere da escludere dal repertorio corale? Certo non il direttore del mio coro e, come lui, tanti altri, ma qualcuno c’è che si pone il problema e sarebbe tentato di scegliere – o effettivamente sceglie – le opere da eseguire coi nostri cori in base o anche in base a considerazioni politiche. Carmina Burana fu composto a metà degli anni ’30 del secolo scorso, nella Germania nazista, da un compositore (Carl Orff, musicista, pedagogo e didatta tedesco importante che a Monaco di Baviera nacque il 10 luglio 1895 e morì il 29 marzo 1982) che – secondo qualcuno – se non entusiasta, di certo fu almeno un volonteroso collaboratore del regime dell’epoca, e Carmina Burana fu una delle rare opere contemporanee che se non immediatamente, comunque alla fine fu entusiasticamente approvata e promossa dal Partito, fino a farne il pilastro della propria propaganda culturale (chisseneimporta del fatto che alle masse piaccia veramente!). Qualcuno oggi esegue l’opera Carmina Burana facendola precedere da Recordare di Kurt Weill (Dessau, 2 marzo 1900 - New York, 3 aprile 1950), il musicista tedesco tra i più diffamati e vilipesi dai nazisti in quanto ebreo e socialista. RUBRICHE 67 Certo, se uno deve arrivare a chiedersi quale altro brano può accompagnare l’esecuzione di Carmina Burana per completare un concerto… non sarebbe forse meglio evitare di programmarlo? Se cominciamo a escludere opere del compositore Orff a causa della sua politica o del suo modo di destreggiarsi nella situazione politica del suo tempo (vedi nota), allora dobbiamo anche omettere le opere di una miriade di altri musicisti, tra cui Stravinskij, che ha lasciato un record di forte supporto vocale del fascismo. Se abbiamo intenzione di escludere un’opera perché il lavoro è stato abbracciato da un regime totalitario, allora dobbiamo anche rinunciare a eventuali opere di Beethoven e Bruckner, dal momento che i nazisti hanno sostenuto pure questi compositori. E noi dovremmo rinunciare al piacere di eseguire la Sinfonia di Salmi di Stravinskij? La Nona di Beethoven? Il Te Deum di Bruckner? E di questo passo dove ci fermiamo? Io sto dalla parte di chi giudica un’opera per il suo merito, indipendentemente dalla vita del suo compositore. Quante grandiose opere sacre sono state scritte da non credenti! nota: Richard Taruskin nel suo autorevole e interessante libro La musica all’inizio del XX secolo, a questo argomento della musica durante i regimi totalitari dedica un intero capitolo. In modo specifico discute Carmina Burana, giungendo alla conclusione finale che le connotazioni negative dell’opera derivano da chi e da come essa è stata ricevuta, non certo dall’intenzione del compositore. Per chi fosse interessato all’argomento segnaliamo anche il libro Compositori dell’era nazista di Michael H. Kater (Composers of the Nazi Era). (Spunto preso da una discussione a più voci in Choralnet, primavera 2013). mere quello che le parole stesse, o anche una sola voce, semplicemente non può esprimere da sola». Pura coincidenza? Forse, ma oggi pomeriggio daremo un concerto di musica sacra! La meditazione verte sull’Alleluia di Pasqua e afferma: «Cantare significa che la persona sta passando al di là dei confini del meramente razionale per cadere in una sorta di estasi. Ora il canto trova la sua forma culminante nell’Alleluia, il canto in cui l’essenza stessa di tutti i canti raggiunge la sua più pura incarnazione. L’Alleluia nel canto è semplicemente l’espressione non verbale di una gioia che non necessita di parole perché le trascende tutte. Che cosa significa cantare nel giubilo? Significa essere in grado di esprimere a parole o di verbalizzare la canzone che a voi suona nel vostro cuore. Mentre i mietitori nel campo o nella vigna sperimentano un senso sempre più esultante di gioia, essi sembrano diventare incapaci di trovare le parole per esprimere questa gioia traboccante. Essi abbandonano sillabe e parole, e il loro canto diventa un jubilus, o grido di esaltazione. Un jubilus è un grido che evidenzia il fatto che il cuore sta cercando di esprimere ciò che non gli è assolutamente possibile dire. E a chi un jubilus è più opportunamente indirizzato, se non a Colui che è ineffabile? Egli è ineffabile, perché le tue parole non possono impadronirsi di Lui. L’Alleluia è come una prima rivelazione di ciò che un giorno può e deve avvenire in noi. Tutto il nostro essere si trasforma in un’unica, immensa gioia!». Cantare è bello. Il canto dell’Alleluia Giornata mondiale della voce Stamattina c’è il sole, ed è caldo abbastanza per far nascere un sorriso. È tanto tempo che non sentivo più quest’abbraccio del mattino! Uscendo di casa verso le otto per andare a prendere il giornale ho sentito il canto di un uccellino provenire dal rigoglioso pruno del giardino, e in risposta un cinguettio corale dagli alberi vicini, accompagnato dal fruscio leggero della brezza. Forse è davvero primavera, ho pensato, cercando di non portare sfortuna pronunciando il pensiero ad alta voce. In quest’atmosfera mi è venuto da pensare a una meditazione quotidiana di papa Benedetto XVI letta, recentemente, in lingua inglese, e ho pensato: “Troppo bella per non condividerla con i lettori di Mondocoro”. La prima riga dice tutto: «Io canto perché la musica può espri- Ogni cantore sa quanto sia importante la cura della propria voce allo scopo di prolungarne il più possibile un uso in bellezza, efficienza ed efficacia. Ma il concetto è valido anche in senso più generale ed esteso, per esempio, al campo dell’insegnamento, della recitazione teatrale, di tutti coloro per i quali l’uso della voce è importante. Proteggendo la propria voce da aggressioni violente, adattando il modo di parlare o di cantare a bisogni specifici legati a un uso efficace e corretto, molti problemi della voce possono essere evitati. E allora, ben venga e diventi sempre più cosciente e partecipata l’annuale Giornata Mondiale della Voce. Questa Giornata Mondiale della Voce è nata il 16 aprile 1999 in Brasile a cura della Sociedade Brasiliera de Laringologia e Voz; 68 da allora la ricorrenza del 16 aprile come giornata della voce si è estesa in diversi paesi come l’Argentina, il Belgio, gli Stati Uniti, la Francia e la Spagna. L’obiettivo di questa giornata all’inizio era soltanto una sensibilizzazione sulla prevenzione dei problemi della voce. Infatti molte persone nell’ambito dell’esercizio della propria professione devono confrontarsi quotidianamente con delle patologie vocali. Successivamente l’obiettivo si precisò e la giornata divenne momento di incontro fra professionisti della voce aventi orizzonti molteplici e diversi. Un gruppo di attori di Toulouse da alcuni anni ha cominciato a promuovere in Francia, e in particolare a Toulouse, una importante Journée Mondiale de la Voix organizzando una giornata piena di avvenimenti. I partner dell’organizzazione, avuto riguardo per l’interesse portato dal diverso pubblico incontrato, hanno voluto puntare la loro attenzione oltre il problema specifico e primordiale della prevenzione, intendendo così, con l’aiuto di professionisti e amatori, ricercatori, insegnanti, medici, ortofonisti, responsabili di strutture culturali, perennizzare la riflessione sulla voce in generale. L’obiettivo della giornata quindi è quella di una grande comunicazione fatta da specialisti su un tema di volta in volta specifico che riguarda la voce. Molti temi sono stati trattati già nel corso degli anni scorsi: voce e prevenzione, la voce dell’adolescente, voce dei sensi, voce del senso, voce ed emozione… Partner nell’organizzazione della giornata furono la SFA - Società Francese di Acustica, la FRVD - Associazione Formazione, Ricerca, Voce e Deglutizione, l’ESAV - Scuola Superiore di Audiovisivi dell’Università di Toulouse e l’UVDI-CHU - Unità per la voce e la Deglutizione di Toulouse. In Italia l’ultima edizione della Giornata Mondiale della Voce (la quinta) è stata celebrata con un convegno su “Prevenzione e buon uso della voce nell’adulto e nel bambino” organizzato da parte della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Essa naturalmente vuole contribuire in modo sostanzioso a sensibilizzare tutta l’opinione pubblica a una voce il più possibile sana, e a un uso corretto delle corde vocali. Sono diversi gli appuntamenti messi in campo dagli esperti del Policlinico di Milano, fra cui un corso per la prevenzione e il buon uso della voce, una giornata di visite gratuite e uno spettacolo teatrale. Consigli utili per la salvaguardia della nostra voce: la parola chiave, per gli esperti, è prevenzione. Per questo essi hanno stilato un decalogo della voce sana, che anche ogni cantore dovrebbe seguire per mantenere il più possibile integre le proprie corde vocali: 1) non parlare mai troppo in fretta, e fare pause per riprendere fiato; 2) bere almeno 1,5-2 litri di acqua al giorno, per non disidratare le corde vocali; 3) non bere troppo caffè, tè o bevande contenenti caffeina: favoriscono la diuresi e la disidratazione; 4) in casa e in ufficio tenere un tasso di umidità minimo del 40%: l’aria troppo secca è dannosa per la voce; 5) non alzare la voce per richiamare l’attenzione, ma usare modi alternativi; 6) non cercare di superare il rumore ambientale, ed evitare di parlare a lungo in luoghi rumorosi; 7) sul lavoro, per farsi sentire da molte persone è meglio utilizzare un microfono, ogni volta che sia possibile; 8) non chiamare gli altri da lontano, ma avvicinarsi alle persone con cui si vuole comunicare; RUBRICHE 9) evitare di parlare durante l’esercizio fisico: non si ha abbastanza fiato per sostenere la voce senza sforzo; 10) cercare di avere sane abitudini di vita: niente fumo, alcolici con moderazione, alimentazione ricca di frutta e verdura, pasti regolari e non troppo abbondanti, numero adeguato di ore di riposo. Buon lavoro a tutti gli insegnanti, i venditori, gli attori, i cantori dei nostri cori. Requiem… per i cantori È un Requiem molto particolare quello che qui si vuole presentare, forse addirittura spiritoso. Nulla a che vedere con le preghiere e i canti proposti per i tristi eventi che colpiscono anche i nostri gruppi quando un cantore ci lascia… per il paradiso del cantore (direbbero gli alpini!). E il Requiem di cui si vuol parlare è famosissimo. Ricordatone l’autore del progetto nel giovane Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart e la realizzazione a quattro mani dello stesso Wolfangus Amadeus Mozartus e dell’allievo Franz Xaver Süssmayr, non ha bisogno – per i ventiquattro cantori di Mondocoro – né di presentazioni né di commenti né di esemplificazioni troppo impegnative. La creatività perspicace di un bravo direttore di coro, però, fa tutto… Riesce ancora ad arricchire per i cantori (e chi può escludere che ne risenta anche il pubblico?) l’ennesima edizione dell’opera. Eccone la dimostrazione scaturita spontaneamente durante le prove di un coro. Il direttore ai soprani: «Avete mai ascoltato la trasmissione radio Uomini e Camion? Io spesso, e devo dire che me li ricordate…»; «Ahia! Soprani!… La terza nota: colpita e affondata!», e dopo una pausa, supplichevole continua: «Magari a battaglia navale giochiamo dopo!»; quasi urlato: «Respirate, respirate soprani…», sorridendo e guardando divertito il gruppo: «purtroppo tra gli sponsor del Requiem non ci sono produttori di bombole a ossigeno!»; «Soprani… siamo uno strumento a fiato non a sasso!»; al Confutatis: «Soprani! C’è una sofferenza, in ogni nota, che mi perfora il rene destro e il duodeno sinistro!»; al Rex tremendae: «Soprani… con quel bemolle siamo alla frontiera! E per fortuna non vi hanno chiesto i documenti!»; al Salva me: «…sembrate in mezzo al mare con la manina che spunta dalle onde e se cantate così… soprani, vi lasciano annegare!». Lo stesso direttore ai suoi contralti: «Cantate leggere e misteriose… come da dietro un cespuglio!». Fingendo di guardare i tenori: «Bassi… se cantate così sembrate un 747 in decollo!». 69 E per tutto il coro: «Ahi, cantate come se vi avessero pestato un piede!»; al Lacrymosa: «questo pezzo è un bagno di lacrime!»; al Rex tremendae: «dopo le prime quattro battute quasi quasi me ne sbatto dell’orchestra!». Il concerto dato il 5 aprile 2013 è stato un successone (parola del vostro redattore/tenore)! CANTO & SCIENZA Cantare in coro fa bene al cuore! In questi anni Mondocoro ha proposto ripetutamente riflessioni su questo argomento, e – del resto – chi fa parte di un coro già lo sa: cantare insieme è un’esperienza positiva sia dal punto di vista psicologico, sia dal punto divista fisico. Ed è ben noto a molti come il canto sia un toccasana per la salute, sia da sempre usato in tutto il mondo come rituale di molte religioni per i suoi effetti rilassanti ed energizzanti. Ora però possiamo affermare che questa sensazione di benessere ha un fondamento scientifico. La rinomata rivista Frontiers in Neuroscience (che pubblica articoli sulle scoperte più eccezionali dell’intero spettro di ricerca di neuroscienze) recentemente ha dato notizia di un esperimento che dimostra come la musica sia molto più che una splendida arte: è un rimedio naturale persino più potente dei farmaci. Gli studi, guidati dal musicologo svedese Bjorn Vickhoft presso l’Università di Göteborg, dimostrano che il ritmo cardiaco dei coristi rallenta e si sincronizza dopo poche battute di canto, con grandi benefici per tutto l’organismo. Per i più esperti, la notizia scientifica dice: «Con il canto vengono coinvolte la variabilità del battito cardiaco (HRV) e l’aritmia respiratoria sinusale (RSA)… fattori che oltre a provocare biologicamente un effetto calmante, favoriscono le funzioni dell’apparato cardiovascolare». Per lo studio i ricercatori hanno utilizzato degli elettrodi negli orecchi dei cantori, collegati a dei cardiofrequenzimetri: immediatamente hanno osservato che appena il coro inizia a cantare, il battito cardiaco dei singoli cantori rallenta. Si tratta di una conseguenza del tipo di respirazione che quando si canta viene maggiormente controllata e rallentata. Il canto, soprattutto quello in coro, è quindi una sorta di “respirazione guidata” che 70 modifica anche la funzione cardiovascolare. È stato anche osservato che gli effetti benefici si incrementano esponenzialmente nel canto all’unisono. Ciò che ha colpito di più i ricercatori è che in pochissimo tempo le frequenze cardiache dei coristi si sincronizzano fra loro: le linee dei cardiofrequenzimetri (che all’inizio sono molto diverse) rapidamente cominciano a disegnare una sorta di ritmo comune che segue il ritmo della canzone. Secondo i ricercatori svedesi la scoperta sarà utile in alcune terapie riabilitative e come supporto per la riduzione di alcuni tipi di dolore e dell’ansia. Sostenuti dalla scienza ufficiale possiamo ben dire, quindi, che ogni nota è una pillola di… 75 mg di principio attivo di grande efficacia. È il caso di ricordare che si prende (meglio se a stomaco poco carico!) quando e quanto si vuole, con limitato e saltuario consumo di acqua? Solo per i nostri amici che ancora non fanno parte di un coro! EVENTI E DATE DA RICORDARE Assemblea generale annuale di ECA-EC (European Choral Association-Europa Cantat) Avrà luogo a Pécs (Ungheria) dal 9 al 10 novembre 2013. In questa occasione avrà luogo anche la prima conferenza consuntiva sul progetto VOICE (Vision On Innovation for Choral music in Europe), con focalizzazione sulla dimensione cooperativa. Verranno presentate e commentate le attività già svolte e quelle in corso nell’ambito del progetto e verranno ipotizzate e valutate opportunità di collaborazioni per il futuro. Giornata corale mondiale, 8 dicembre 2013 Avete cominciato a pensare cosa farete quest’anno nella Giornata mondiale dei cori? L’evento World Choral Day quest’anno avrà luogo in tutto il mondo il giorno 8 dicembre. Sarà un mezzo potentissimo per promuovere la vostra passione per la musica corale all’interno della vostra comunità, nel vostro paese, condividendola con cori di tutto il mondo. Costo della partecipazione all’evento: zero! Dettagli sulla modalità di partecipazione sono reperibili nel sito: www.ifcm.net/index.php?m=27 Festival Europa Cantat XIX 24 luglio - 2 agosto 2015 Fervono i lavori per l’organizzazione del grande festival corale europeo. La commissione musicale di ECA-EC e il comitato artistico regionale per il festival hanno deciso i temi del festival stesso. Il tema principale sarà Crossroads (crocevia) a sottolineare la valenza di Pécs città e del festival come luogo d’incontro di paesi, culture, religioni e stili musicali diversi. Sottotemi: Roots & Fruits (radici e frutti) come tradizione e innovazione che collega passato, presente e futuro, e Open Gates (porte aperte) a sottolineare l’apertura verso i paesi vicini, forme d’arte diverse, idee e musica nuove. Per informazioni: www.ecpecs2015.hu RUBRICHE PRESENTAZIONE LIBRI Rhythmic Training «Anche Rhythmic Training (Formazione ritmica) di Robert Starer è un grande libro», dice un direttore di coro americano suggerendolo a un collega. «Me lo hanno fatto conoscere gli studenti del grande liutista e insegnante Joseph Iadone», uno specialista nell’esecuzione di musica rinascimentale incredibilmente difficile e, naturalmente, un accanito sostenitore della precisione ritmica. I suoi studenti sono, naturalmente, tutti altamente qualificati. «Da allora ho usato il libro io stesso con decine di studenti di musica del corso avanzato, e l’ho trovato indispensabile. Sono convinto che per ottenere i migliori risultati, il metodo deve essere utilizzato esattamente come indicato». «Questo testo – dice un secondo direttore di coro – è una super guida per la formazione ritmica degli studenti. È conciso e sequenziale, per questo per molti anni io l’ho usato per aiutare i miei studenti a capire la suddivisione del ritmo in musica. Anche il prezzo è buono, cosa che non fa male di questi tempi, e il volume l’ho ricevuto in meno di due settimane». Didattica musicale Teaching Music Through Performance in Choir (Insegnare musica attraverso la sua esecuzione) è composto da due volumi già a disposizione, ma credo che ci sia un altro volume specificamente mirato all’insegnamento corale nelle scuole medie. Questi volumi offrono repertorio specifico e piani di lezione. Sono anche accompagnati da un CD con registrazioni di esecuzioni esemplari dei pezzi trattati nel libro. Il concetto presente dietro quest’opera è quello che per insegnare specifiche competenze di alfabetizzazione musicale attraverso la prova dei pezzi bisogna usare musica accuratamente scelta e non procedere a una semplice preparazione del coro per un’esecuzione musicale specifica. Integrare la lettura musicale a prima vista nella routine quotidiana dell’insegnamento corale in classe è ritenuto di estrema importanza. In aggiunta a molte altre grandi risorse suggeribili per lavorare al meglio in questo campo evidenziamo due opere didattiche. The University Sight Singer (Il cantore a prima vista dell’università) pubblicato da Masterworks Press (www.masterworks press.com). Questi editori hanno una vasta gamma di risorse per l’integrazione della lettura a prima vista nella prova di coro e la cosa interessante è che nel prezzo d’acquisto di una copia del libro è compreso il permesso di riproduzione del libro stesso. L’altra risorsa è Progressive Sight Singing (Lettura a prima vista progressiva) di Carol Krueger, pubblicato dalla Oxford Universi- 71 ty Press. L’approccio di questo libro all’insegnamento sia dell’intonazione sia del ritmo è dettagliato ed efficace! L’autore è un didatta esperto che tiene laboratori corali in tutti gli Stati Uniti ed è meraviglioso. Ninne nanne del mondo L’editore Carus Verlag di Stoccarda, in collaborazione con ECA-EC, ha raccolto, curato e pubblicato un’antologia di ninne nanne del mondo (Wiegenlieder aus aller Welt). L’iniziativa si concretizza nell’ambito del progetto VOICE (Vision On Innovation for Choral music in Europe) di cui il Festival Europa Cantat svoltosi a Torino nel luglio-agosto 2012 fu una delle prime e la maggiore delle iniziative. La raccolta stessa delle 51 ninne nanne iniziò proprio in questo ambito torinese. Di recente (giugno 2013) le ninne nanne sono state presentate in un bel volume con partiture e accordi per chitarra, accompagnato da CD. Il volume è riccamente illustrato da fotografie di bambini di culture diverse insieme ai loro genitori e nonni. Il volume è reperibile nei migliori negozi, online e presso la stessa casa editrice Carus Verlag (www.carus-verlag.com/Wiegenlieder_aus_aller_Welt.html). Per agevolare i possibili fruitori non parlanti la lingua tedesca è stata creata una pagina web specifica dove chiunque può godere delle partiture, dei testi, delle traduzioni del testo in lingua inglese e degli ausili sonori per la corretta pronuncia dei testi e il canto dei temi musicali. In autunno – prima dell’Assemblea di Pécs (8-10 Novembre) – il volume sarà disponibile anche in lingua inglese con il titolo Lullabies of the world. Nicola Montenz, L’armonia delle tenebre. Musica e politica nella Germania nazista (329 pp., Archinto 2013) Inscindibile dalle vicende della Germania nazista, la musica scandì l’ascesa e il crollo del regime hitleriano, assumendo un ruolo di preminenza assoluta su tutte le arti. Questo libro ne indaga l’intimo intreccio con la politica tedesca tra il 1933 e il 1945, analizzandone le tappe principali: i presupposti; l’epurazione di ebrei e oppositori politici; la costruzione del “mito” del Terzo Reich da parte dei musicologi; l’ascesa e la caduta di nuovi e vecchi astri; l’effimero tentativo di colmare il vuoto lasciato dalle epurazioni; infine, la sorprendente organizzazione musicale del sistema concentrazio- 72 nario. Accanto alle vicende dei musicisti ebrei, vittime predestinate e oggetto delle più gravi vessazioni, emerge un groviglio inestricabile di partigianerie e atti di resistenza, fedeltà cieca al regime e opportunismo, invidie e rivalità tra potenti, sullo sfondo della più spaventosa tragedia collettiva del XX secolo. UN COMPOSITORE ALLA VOLTA Battista Pradal (Oderzo, Tv) Il protagonista a cui vogliamo dedicare questo angolo di Mondocoro è italiano. Compositore non più di primo pelo (vanta infatti già un curriculum ricco di attività e di premi conseguiti in Italia e all’estero), direttore dell’orchestra e del coro In Musica Gaudium di Oderzo dove è nato nel 1964, Battista Pradal merita questa segnalazione. Dalla Lituania ci giunge fresca notizia di un’ultima sua affermazione prestigiosa. Il brano Io sentia voci per coro misto a cappella di Battista Pradal il 27 maggio 2013 ha vinto il primo premio al concorso internazionale di composizione Polifonija di S̆iauliai, in Lituania. Il concorso era organizzato dal S̆iauliai State Chamber Choir Polifonija e dalla Lithuanian Composers’ Union. Italianissima la composizione, i cui versi sono tratti dal canto XVI del Purgatorio del nostro sommo poeta Dante Alighieri. Essa è stata eseguita nella Polifonijos Concert Hall S̆iauliai dal coro Polifonija e al concerto di gala del III Festival Corale Internazionale S̆iauliai Cantat 2013. Altrettanto fresca perché ancora del 2013 è la notizia che arriva dalla California dove Battista Pradal ha conseguito il prestigioso primo premio, categoria Musica Liturgica, International sacred music competition for composers - Foundation for sacred music composers, Menlo Park, California (USA) con il brano Christus resurgens per coro e orchestra d’archi. Ma – in breve – chi è Battista Pradal? Dopo il diploma in pianoforte presso il conservatorio J. Tomadini di Udine, sotto la guida di Wanda Leskovic, ha conseguito nel 1992 il diploma in musica corale e direzione di coro con Antonio Piani e, successivamente, il diploma in composizione presso il conservatorio B. Marcello di Venezia, studiando con Daniele Zanettovich e con Riccardo Vaglini. Ha studiato direzione d’orchestra frequentando il master triennale presso l’Accademia Europea di Vicenza. Ha approfondito lo studio della direzione corale e orchestrale seguendo corsi e masterclass tenuti da Julius Kalmar, Donato Renzetti e Piergiorgio Righele. È stato membro di giuria a concorsi nazionali e internazionali di composizione e canto corale. Oltre a Stati Uniti (California) e Lituania, Francia (a Tours), Roma, Trento, Gorizia, Torino, Cortemilia (Cn), Arezzo, Fermo, Milano, Tricase (Le) e – di nuovo – Stati Uniti (Massachusetts a Boston), sono le località in cui dal 1991 a oggi Battista Pradal ha ottenuto i suoi maggiori successi da musicista valente. Futuro facilmente prevedibile: interessante e ricco sia per il compositore sia per la coralità italiana. A entrambi, Mondocoro e Choraliter porgono le più CORdiALI congratulazioni e i migliori auguri. Feniarco e Arcc presentano www.feniarco.it cori da tutta Italia incontri e nuove conoscenze turismo concerti in città e sul territorio cultura e tradizioni arte Festival organizzato da Associazione Cori della Toscana i d l a v i t s fe a r e v a m i r p o d n a t n a c a r t n o c la scuola si in 2014 e m r e T i n i t a c e Toscana Mont festival per cori scolastici 3•5 aprile scuole primarie e scuole medie con il patrocinio di Ministero per i Beni e le Attività Culturali Regione Toscana Provincia di Pistoia Comune di Montecatini Terme 9•12 aprile scuole superiori Festival associato a iscrizioni entro il 15 febbraio 2014 seguici su www.feniarco.it