Diritti umani e ordine mondiale - Medio Oriente

Seminario di studio
"Dopo le guerre, il dialogo - Posizioni e prospettive per la Caritas nell’area
mediorientale: Terra Santa, Iraq, Iran, Afghanistan"
Roma, sede Caritas Italiana (V.le F. Baldelli, 41) 24-25 novembre 2003
Quadro politico-istituzionale
"Diritti umani e ordine mondiale – Medio Oriente: quale futuro?"
Marco Mascia
Professore alla Cattedra Europea Jean Monnet "Sistema politico dell’Unione Europea"
e Vice Direttore del Centro Diritti Umani dell’Università di Padova
Grazie alla presidenza della Caritas Italiana, a don Vittorio Nozza, per quest’invito molto
gradito, che ci consentirà di riflettere insieme su questa situazione internazionale, che
dall’undici settembre, dall’attacco alle torri gemelle e poi dai conflitti che sono scoppiati, si
presenta in maniera sempre più complessa, diventando sempre più difficile trovare delle
soluzioni. Purtroppo ci troviamo in un momento in cui, anche tra noi dell’osservatorio
padovano sui diritti umani, talvolta, prevale il pessimismo.
Veramente si sta creando una situazione molto difficile, con dei risvolti non chiari. Siamo
tutti, ogni giorno che passa, sempre più insicuri.
Ecco, partendo da queste riflessioni personali, cercherò ora di delineare un po’ qual è la
situazione internazionale, con riferimento sia al diritto internazionale, sia alle istituzioni
internazionali. In altre parole, cerchiamo di mettere dei paletti, poi vedremo nello specifico
due situazioni, quella irachena e quella mediorientale, per concludere con l’indicazione di
alcuni percorsi operativi possibili.
La mia convinzione è che la soluzione del conflitto israelo-palestinese, la pace e la stabilità
in medio oriente e la lotta al terrorismo transnazionale, siano questioni che possono
essere risolte positivamente solo se affrontate tutte in un medesimo contesto negoziale
multilaterale, all’interno di una strategia per la costruzione di un nuovo ordine
internazionale democratico.
Cercherò, nei limiti del possibile, di mostrare l’esistenza, oggi, di due diverse, antitetiche,
contrastanti, vis ioni di ordine internazionale.
Dalla nascita delle Nazioni Unite nel sistema delle relazioni internazionali si sono affermati
principi, enunciate norme giuridiche e create istituzioni, che oggi rendono possibile
raggiungere l’obiettivo della pace e della sicurezza internazionale senza ulteriore
spargimento di sangue. Nella carta delle Nazioni Unite vengono, per la prima volta,
enunciati principi quali quello della cooperazione internazionale, del rispetto dei diritti
umani, dell’autodeterminazione dei popoli, del divieto dell’uso della forza per la soluzione
delle controversie internazionali. L’unica eccezione al divieto della guerra, che la carta
proscrive quale flagello dell’umanità, è l’art. 51 del capitolo 7°, la quale stabilisce che gli
stati hanno il diritto naturale di autotutela individuale e collettiva, a seguito di
attacco armato.
Quindi, si tratta del diritto naturale di autotutela individuale e collettiva successiva ad un
attacco armato, mai preventiva, e temporanea, perché l’art. 51 continua “…f intantoché il
consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la
sicurezza internazionale”. Questa è l’unica previsione contenuta nella carta delle Nazioni
Unite, l’unica eccezione al divieto della guerra.
Con la dichiarazione universale dei diritti umani e le successive convenzioni giuridiche
internazionali sui diritti umani, questi principi, che troviamo enunciati nella Carta delle
Nazioni Unite, sono ribaditi ed ulteriormente delucidati. In particolare, vorrei ricordare
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l’art.20, del “Patto internazionale sui Diritti civili e politici”, che stabilisce, cito
testualmente, “…qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla
legge”. Anche l’articolo uno dei due patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti
economici sociali e culturali del 1966, entrato in vigore nel ‘76, l’identico articolo uno,
dicevo, stabilisce che il diritto all’autodeterminazione appartiene a tutti i popoli, non solo a
quelli sotto dominio coloniale, i quali decidono liberamente del loro statuto politico e
perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.
Questo diritto internazionale dei diritti umani apre una fase completamente nuova,
rivoluzionaria, per le relazioni internazionali. Ai sensi di questo diritto internazionale dei
diritti umani, tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti, come recita
l’art.1 della dichiarazione universale dei diritti umani. Anche nel sistema della politica
internazionale, in virtù del riconoscimento giuridico dei diritti fondamentali delle persone e
delle comunità umane, la sovranità non appartiene più agli Stati ma alle singole persone
umane e ai popoli, che, parafrasando l’articolo uno della nostra costituzione, la esercitano
nelle forme e nei limiti del diritto internazionale dei diritti umani. In altre parole, le norme
internazionali sui diritti umani ci ricordano che lo Stato e il sistema degli Stati sono entità
derivate e devono pertanto agire in spirito di servizio, “nell’adempimento” parafrasando
ancora la nostra costituzione, “dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale”, sul piano interno e su quello internazionale.
Lo Stato, inoltre, non è più l’unico ed esclusivo attore della politica internazionale. Con la
“Carta delle nazioni unite”, che all’articolo 71 riconosce il ruolo di utilità internazionale
delle Ong e il diritto internazionale dei diritti umani, che attribuisce piena soggettività
giuridica internazionale alla persona umana e ai popoli, in quanto soggetti distinti dagli
Stati di appartenenza e, ovviamente, alle formazione sociali transnazionali, inizia una
nuova era di soggettualità plurima per il sistema internazionale e, quindi, di sviluppo di
forme nuove di democrazia internazionale. La Dichiarazione sul diritto di responsabilità
degli individui, dei gruppi e degli organi della società, adottate dall’assemblea generale
delle nazioni unite nel 1999, con lo scopo di promuovere e proteggere le libertà
fondamentali dei diritti umani universalmente riconosciute, all’art. 1 stabilisce che “tutti
hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la
protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello
nazionale e internazionale”.
È ancora stabilito che tutti gli esseri umani sono titolari del diritto alla pace, ovvero del
diritto ad un ordine sociale internazionale, nel quale i diritti alle libertà enunciati nella
dichiarazione universale dei diritti umani, possono essere pienamente realizzati, così recita
l’art. 28 della dichiarazione. C’è in questo articolo la legittimazione ad agire, dalla città
all’Onu, per la costruzione di un nuovo ordine internazionale più giusto, equo, solidale e
democratico.
Anche i due principi, della responsabilità penale individuale e della universalità della
giurisdizione penale internazionale, sono due principi che sono stati, oggi, positivizzati,
con la creazione prima dei due tribunali ad hoc, dell’ex Iugoslavia e del Rwanda, poi con lo
statuto della Corte penale internazionale permanente. Questi due principi rappresentano
un punto di non ritorno, nell’affermazione di uno stato di diritto internazionale, come ha
più volte sottolineato anche il segretario generale delle nazioni unite Kofi Annan.
Oltre al diritto internazionale dei diritti umani, che contiene, lo ricordo, lo sottolineo,
norme giuridicamente vincolanti per gli Stati, il cui mancato rispetto costituisce violazione
grave dell’ordinamento giuridico internazionale, in quanto le norme sui diritti umani sono
norme di rango costituzionale anche per il diritto internazionale, bene, oltre al diritto
internazionale dei diritti umani, dal 1945 prende avvio un processo di sviluppo
dell’organizzazione internazionale, sia governativa sia non governativa. Oggi, nel sistema
della politica internazionale, agiscono ed interagiscono una pluralità di attori, sia statali sia
non statali, sia a scopi di profitto sia a fini di promozione umana, ma è con la nascita
dell’Onu, col suo sistema di agenzie specializzate, nonché di organizzazioni regionali
continentali, come il Consiglio d’Europa, l’Ue, l’Organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione in Europa, l’Organizzazione degli Stati Americani, l’Organizzazione per l’unità
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africana, oggi Unione Africana, l’Asean e altri ancora, che il sistema internazionale si
attrezza per perseguire con mezzi pacifici grandi obiettivi, come quelli del mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale, della promozione dei diritti umani, dei principi
democratici dello sviluppo umano, della sicurezza umana…
Insomma, quello che voglio sottolineare, è che oggi, diversamente da ieri, i governanti
hanno a disposizione strumenti per rispondere, rispettando la legalità internazionale, alle
grandi sfide generate, al positivo e al negativo, dai processi di interdipendenza mondiale e
di globalizzazione dell’economia. Certo, le Nazioni Unite devono essere riformate, ovvero
potenziate, democratizzate, devono essere messe nella condizione di poter agire
efficacemente sul terreno della pace e della sicurezza internazionale, così come su quello
della promozione dello sviluppo umano.
Ma cosa sono le Nazioni Unite? Le Nazioni Unite non sono nulla di diverso da ciò che i suoi
stati membri, in particolare quelli più forti, vogliono che siano. Se le Nazioni Unite non
hanno ancora una forza di polizia militare internazionale, è perché gli stati membri non
hanno ancora attuato gli accordi previsti dall’art. 43 della Carta, dove si legge, cito,
“saranno negoziati al più presto possibile, su iniziativa del Consiglio di sicurezza” – siamo
nel 1945 – “accordi per la messa a disposizione del Consiglio di sicurezza delle forze
armate, necessarie al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Se il
sistema universale di protezione dei diritti umani, allestito dalle Nazioni Unite, non si è
ancora dotato dei mezzi necessari per svolgere con efficacia ed imparzialità i compiti che
gli sono stati affidati, questo lo si deve al fatto che gli stati che ne fanno parte non
vogliono un tale sistema. Essi si nascondono dietro il principio della giurisdizione
domestica, ovvero del divieto di ingerenza negli affari interni di uno Stato, salvo poi
violare questo principio non per promuovere i diritti umani e la democrazia, bensì per fare
delle guerre, in aperta violazione del diritto internazionale.
È altresì evidente che il potere aggiuntivo che si deve dare alle Nazioni Unite in materia di
pace e sicurezza internazionale, semplicemente dando attuazione a quelle norme che già
ci sono nella Carta e che sono rimaste inattuate, deve essere accompagnato da un
contestuale processo di democratizzazione delle Nazioni Unite, che significa legittimazione
diretta dei suoi organi, significa partecipazione politica popolare ai suoi processi decisionali
e significa anche controllo di legittimità degli atti del Consiglio di sicurezza.
Lo stesso si deve dire per l’Unione Europea, si può e si deve dire per l’Unione Europea. C’è
sempre più bisogno di Ue, non tanto per la coltivazione dei cavoli, o dei cereali, o per le
banane, ma per esercitare un ruolo di pace nella politica internazionale. Quando avremo
una politica estera di sicurezza comune? Quando avremo una politica europea di sicurezza
e difesa comune? Dipendeva dai 15 stati membri ieri, dipende oggi dai 25 Stati membri:
quando questi Stati decideranno di rinunciare alle rispettive sovranità nazionali nella
politica estera di difesa, così come hanno fatto per la politica monetaria.
Il progetto di trattato che istituisce una costituzione per l’Europa, elaborato dalla
convenzione europea e ora al vaglio dell’ennesima conferenza intergovernativa, va
sicuramente nella strada giusta, ma non costituisce ancora il punto di arrivo del processo
di costruzione di uno stato federale nel nostro continente.
Dunque, riassumendo, abbiamo oggi il diritto internazionale, in particolare il diritto
internazionale dei diritti umani, ci sono le organizzazioni internazionali ma non c’è ancora
una leadership politica europea internazionale che sappia, con coraggio, tirare le
conclusioni di questo discorso, agire coerentemente e inesorabilmente. È vero però che,
rispetto a questa visione di ordine internazionale fondata sul diritto internazionale,
sull’organizzazione internazionale multilaterale e, quindi, sulla cooperazione internazionale
e sul primato della dignità della persona rispetto alla sovranità degli stati, bene, di fronte a
questa visione di ordine internazionale, c’è chi ne propugna un’altra altrettanto chiara, ed
è quella che, da sempre, costituisce un patrimonio culturale dell’amministrazione
americana. La visione che questa amministrazione americana ha dell’ordine
internazionale, è una visione completamente diversa da quella che io vi ho presentato, è
una visione che:
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non si fonda sul diritto internazionale;
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non si fonda sul potenziamento dell’organizzazioni internazionali multilaterali;
non vuole la giustizia penale internazionale. È assolutamente contraria, anzi, posso
dire di più, boicotta, prima la creazione, oggi il funzionamento, della corte
internazionale penale permanente;
§
è una visione di ordine internazionale in cui prevale l’unilateralismo, la separazione
delle issue. Gli americani vogliono issues by issues, non vogliono affrontare la
questione mediorientale nel suo insieme, vogliono affrontare le singole questioni
all’interno del Medio Oriente;
§
è una visione all’interno della quale la società civile, le organizzazioni della società
civile non trovano spazio.
L’amministrazione americana, da sempre, boicotta le conferenze mondiali delle Nazioni
Unite, non vuole un potenziamento dello status consultivo delle organizzazione non
governative all’Ecosov, che è il consiglio economico delle Nazioni Unite.
Dire questo non è fare campagna antiamericana, si vuole solo sottolineare ciò che si legge
chiaramente nel sistema della politica internazionale.
Queste due visioni dell’ordine internazionale, così contrapposte, le abbiamo ora presenti,
chiare.
Dove sta la debolezza? La debolezza di quelli che hanno una visione democratica
dell’ordine internazionale sta nel fatto che non riescono ad esprimerla in maniera così forte
come fa l’amministrazione americana e quando dico questo, guardo soprattutto all’UE, che
è l’organizzazione internazionale che in questo particolare momento storico è l’unica che
può contrapporre una visione di ordine internazionale diversa da quella
dell’amministrazione americana.
Devo dire che mentre rispetto alla vicenda mediorientale si coglie una visione comune (Ue,
Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite) sulla vicenda Iraq, in realtà, l’Ue si è divisa al suo
interno, e ovviamente si è divisa rispetto alla posizione degli Usa.
§
§
Iraq e Medio Oriente
Iraq. La scelta unilateralista con cui l’amministrazione americana e il governo inglese
hanno deciso di attaccare unilateralmente l’Iraq è stata, dal punto di vista del diritto
internazionale, illegale, dal punto di vista politico, una scelta suicida.
Illegale perché la Carta delle nazioni unite e il diritto internazionale vietano la guerra come
strumento di risoluzione delle controversie internazionali e, come abbiamo visto, l’art.51,
vieta la guerra preventiva.
Politicamente è stata una scelta suicida per almeno quattro ragioni.
La prima è che questo intervento ha sgretolato la grande alleanza contro il terrorismo
transnazionale che si era formata all’indomani dell’undici settembre.
La seconda è davanti agli occhi di tutti: rispondere alla violenza con altra violenza, può
solo generare nuova e ancor più feroce violenza.
La terza ragione sta nel fatto che il conflitto sta rapidamente passando i confini iracheni,
afgani, med iorientali, per estendersi ai paesi della regione e a quelli europei e americani.
La quarta ragione è che non si può pensare di rispondere ad un’aggressione terroristica di
tipo transnazionale con la dottrina e i classici strumenti della guerra, concepiti e pensati in
un periodo in cui le guerre si combattevano tra stati. Oggi ci troviamo di fronte a soggetti
criminali organizzati, appunto, per via transnazionale, che pare (pare!), non dispongano di
armi di distruzione di massa ma di sistemi d’arma “popolari”, facilmente reperibili nel
mercato mondiale degli armamenti e che agiscono non secondo una logica militare ma
immolandosi, in nome di una causa che non ha nulla a che fare né con la religione, né con
le religioni, né con le lotte di liberazione dei popoli oppressi.
Questi attentati non sono altro che uno degli effetti più perversi dei processi di
interdipendenza mondiale e di globalizzazione dell’economia, processi che continuano
inesorabilmente a produrre ingiustizie economiche e sociali in ogni parte del mondo.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dopo la fine della cosiddetta “guerra guerreggiata” in
Iraq, ha adottato varie risoluzioni, due di queste rilevano ai fini della nostra analisi. Si
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tratta della risoluzione 1483 del 22 maggio 2003 e della 1511 del 16 ottobre 2003.
Con la 1483 il consiglio di sicurezza, dopo aver riaffermato al primo punto la sovranità e
l’integrità territoriale dell’Iraq, riconosce agli Usa e al Regno Unito l’autorità e la
responsabilità e gli obblighi che secondo il diritto internazionale umanitario spettano alle
potenze occupanti. Questa è una risoluzione importante all’indomani della fine della
“guerra guerreggiata”, perché, primo, non da una legittimazione giuridica all’aggressione,
perché di questo si tratta ai sensi del diritto internazionale, compiuta dall’amministrazione
americana nei confronti dell’Iraq, secondo, apre una nuova fase, se volete: riconosce agli
USA e al Regno Unito, il ruolo di potenze occupanti, ai sensi del diritto internazionale
umanitario. Il diritto internazionale umanitario è cosa completamente diversa dal diritto
internazionale dei diritti umani, di cui ho parlato all’inizio, hanno due ratio diverse,
antitetiche.
Il diritto internazionale dei diritti umani si fonda sulla dignità umana e vieta, proscrive, la
guerra, il diritto internazionale umanitario invece è il diritto di guerra, sono le convenzioni
di Ginevra, cioè quel diritto che serve ad umanizzare la guerra, è quel diritto che serve a
proteggere i feriti, le popolazioni civili, etc. durante un conflitto armato. Questa
risoluzione, la 1483, chiede al segretario generale di nominare un rappresentante speciale
per l’Iraq, con il compito di coordinare le attività dell’Onu all’interno di un cosiddetto post
conflict process. In particolare, un rappresentante che, in coordinamento con l’autorità,
(l’autorità rappresenta le forze occupanti, nei sensi della risoluzione 1511 si parla di
coalizione) e in coordinamento con le altre organizzazioni internazionali, abbia il compito
di promuovere l’assistenza umanitaria, la ricostruzione delle infrastrutture, la ricostruzione
economica, le condizioni per uno sviluppo sostenibile, la protezione dei diritti umani e così
via. Le Nazioni Unite, dopo l’attentato del 19 agosto 2003, dove persero la vita, tra gli
altri, il rappresentante speciale Sergio Vieira de Mello e Nadia Iunes, sono state costrette a
ridurre al minimo la missione di assistenza.
La risoluzione 1511, approvata all’unanimità dopo mesi di negoziati, avrebbe dovuto aprire
effettivamente una fase nuova in Iraq. L’obiettivo della risoluzione era di dare
all’amministrazione americana una via d’uscita, e alle Nazioni Unite, attraverso la
creazione di una forza multinazionale, sotto comando unificato e con mandato, ma non
autorizzato, dell’Onu, quel ruolo vitale che Francia, Germania e Russia chiedevano fin
dall’inizio. Questa forza multinazionale, sotto comando unificato e con mandato dell’Onu,
ma non autorizzata dall’Onu, non è ancora stata creata e probabilmente non sarà creata,
anche perché questa risoluzione, la 1511, tiene distinte le forze occupanti, e quindi la
presenza militare sul terreno anglo americana, dalla forza multinazionale, sotto comando
unificato. Non solo, ma assegna agli Usa il compito previsto dall’ultimo paragrafo della
risoluzione: il compito di fare rapporto al consiglio di sicurezza sul funzionamento della
forza multinazionale. Allora questo ci dice che quella forza, se mai sarà creata, sarà sotto
comando unificato degli Usa, allora il rischio che gli osservatori vedono per l’Iraq è che si
ripeta la stessa situazione della Somalia, dove ci eravamo trovati con una presenza
militare fortissima di forze americane, i Rangers, e la presenza di una forza di peace
keeping delle Nazioni Unite.
Un altro punto importante della 1511 riguarda la definizione di un programma, di un
calendario per l’elaborazione di una nuova costituzione, e l’indizione di elezioni
democratiche. E qui le entità coinvolte sono il Consiglio di governo, l’Autorità-Coalizione e,
qualora le circostanze lo permettano, il rappresentante speciale del segretario generale.
Al momento siamo in attesa. La scadenza è il 15 dicembre, per la presentazione delle time
table e del programma. È evidente che l’acuirsi del conflitto, insieme con la rigidità della
posizione americana, ha impedito la formazione della forza multinazionale e probabilmente
renderà assai difficile la realizzazione del calendario. In questo contesto, una battuta sulla
presenza di un contingente militare italiano in Iraq. È legittima, dal punto di vista del
diritto internazionale, la presenza di questo contingente oppure no?
C’è chi dice che è legittimo, perché è avvenuto sulla base di una risoluzione del
parlamento italiano e a “guerra guerreggiata” finita. In realtà, dal mio punto di vista e dal
punto di vista dei principali gius-internazionalisti, non solo italiani, la presenza di questo
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contingente italiano si colloca fuori dal diritto internazionale. Il contingente italiano non è
in Iraq all’interno di una forza di pace delle Nazioni Unite, e non è in Iraq sulla base di una
risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In queste settimane, la televisione e i grandi mezzi di comunicazione di massa, ci stanno
dicendo tantissime cose che sono false, sono false! Io voglio distinguere la scelta politica
del governo italiano di mandare un contingente militare in Iraq, dal lavoro, dallo spirito
con cui i nostri militari sono andati in quel paese, che è uno spirito completamente diverso
dalle forze militari americane. Effettivamente, e ne sono convinto, i nostri carabinieri e i
nostri soldati sono andati lì, e sono morti in Iraq, perché volevano dare un contributo alla
costruzione della pace in quel paese, ma sono andati con alle spalle un mandato che non è
delle Nazioni Unite, loro sono identificati, e lo saranno anche in futuro, come alleati delle
forze occupanti di quel paese.
La situazione, come dicevo all’inizio, è molto complessa. Si fa fatica ad individuare una
soluzione. Tuttavia, la soluzione che noi vediamo e che, lo dico subito, è a abbastanza
irrealistica, è questa: fuori tutti! Fuori tutte le forze militari dall’Iraq, e una volta che tutti
sono usciti, attraverso una nuova risoluzione del consiglio di sicurezza, l’invio di una forza
di pace delle Nazioni Unite.
Quello che voglio dire, è che dobbiamo passare da una soluzione fallimentare, tutta di
natura militare, ad una soluzione politica. Bisogna ricominciare a fare politica sulla
questione irachena, e finché ci sono lì delle forze militari che occupano il paese, non c’è
spazio per la politica. Allora bisogna fare uscire queste forze e con un mandato chiaro del
consiglio di sicurezza, inviare una forza di pace delle Nazioni Unite, di cui, secondo me,
due dovrebbero essere i contingenti più forti: un contingente non italiano, non francese
ma un contingente dell’Unione Europea e un contingente della Lega degli Stati Arabi. È
evidente che all’interno di questa forza non c’è posto per una presenza militare americana,
non perché le Nazioni Unite non vogliono le forze militari americane all’interno di peace
keeping operations, sotto comando e autorità delle nazioni unite, ma semplicemente
perché gli americani non accettano, non hanno mai accettato ed hanno più volte
dichiarato, che mai un soldato americano starà sotto comando delle Nazioni Unite.
Ovviamente la presenza di questa forza di pace delle Nazioni Unite dovrà essere
accompagnata da una grande presenza delle organizzazioni internazionali, sia governative
sia non governative, sul modello dell’esperienza dei balcani, dove effettivamente la
presenza internazionale sul terreno è stata ed è un presenza fondamentale.
Medio Oriente. In questo momento sul tavolo ci sono due progetti di pace: il primo è la
Road Map e il secondo è rappresentato dagli accordi di Ginevra.
Sono due documenti, soprattutto gli accordi di Ginevra, molto tecnici, molto articolati e
molto interessanti. Non abbiamo il tempo per entrare nel merito di questi documenti,
cercherò quindi di riassumerli brevemente, giusto per avere un’idea di come la diplomazia
internazionale sta lavorando.
La Road Map è una proposta di pace elaborata dal quartetto, composto da due
organizzazioni internazionali, Unione Europea e Onu, e due potenze, Stati Uniti e Russia. Il
piano di pace è articolato in tre fasi ed ha come fine ultimo la costruzione la costituzione
dello stato palestinese entro il 2005 e la fine del conflitto tra Israele e Palestina e tra
Israele e il mondo arabo. Si basa, dunque, sul principio “due popoli due stati”, nonché sui
principi di Madrid e sulle risoluzioni 242 del ‘67 e 338 del ’73, 1397 del 2002, risoluzioni
del consiglio di sicurezza. A questi principi e a queste risoluzioni fanno riferimento anche
gli accordi di Ginevra.
La prima fase consiste nella fine del terrore e della violenza, normalizzazione della vita dei
palestinesi e costruzione di istituzioni palestinesi. Questa prima fase avrebbe dovuto
concludersi entro il maggio 2003. Non mi soffermo su come è articolata questa fase. Si
tratta, in sostanza, di un processo di democratic institution building che si dovrebbe
avviare nella Palestina, quindi di una riforma delle istituzioni pubbliche, fondata sulla
separazione dei poteri, sull’indizione di elezioni democratiche e sulla elaborazione di una
bozza di costituzione. Dal canto suo, ovviamente, ci sono tutta una serie di impegni che
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deve prendere lo stato di Israele: affermare inequivocabilmente il suo impegno per la
costruzione di uno Stato Palestinese sovrano e indipendente, fermare gli attacchi alla
popolazione civile, ritirarsi dai territori occupati dal 27 settembre 2003 e così via.
Seconda fase, la transizione. Si prevede nel periodo giugno 2003 dicembre 2003. In
realtà, si dice nel documento, la fase due inizierà dopo le elezioni palestinesi e finirà con la
possibile, c’è sempre questo termine, la possibile creazione di uno stato palestinese
indipendente con confini provvisori. Anche qui è abbastanza articolata questa fase di
transizione, è una fase che sarà monitorata dal quartetto, il quale avrà anche il compito di
promuovere il riconoscimento internazionale dello stato palestinese e la possibile
ammissione dello stato palestinese alle Nazioni Unite. Subito dopo le elezioni democratiche
in Palestina è prevista la convocazione di una conferenza internazionale per supportare la
ricostruzione economica e la costruzione di uno stato indipendente, e questa conferenza
internazionale dovrebbe essere convocata nella seconda fase, dovrebbe anche riaprire il
dialogo tra Israele, Siria e Libano, e riprendere alcuni negoziati strategici su questioni che
riguardano l’intera regione come la sicurezza, il controllo degli armamenti, le risorse
idriche ecc.
Terza fase, 2004/2005: la fine del conflitto israeliano palestinese, e quindi la nascita
formale dello stato palestinese e la convocazione di una seconda conferenza
internazionale, con il compito di risolvere le questioni più delicate della vicenda, e quindi il
problema del rientro dei rifugiati, il problema dei confini definitivi, il problema dello status
di Gerusalemme, il problema delle colonie degli insediamenti israeliani… Ecco, tutta questa
parte del negoziato, ad alto livello conflittuale, la road map la tiene alla fine, ai margini.
Mentre l’ultima risoluzione, di cui avete sentito parlare, la 1515 del 19/11/2003, insiste
perché i negoziatori Road Map proseguano su questa strada, ma è interessante perché da
il benvenuto e incoraggia gli sforzi diplomatici del quartetto internazionale e altri e, quindi,
c’è un riferimento implicito anche agli accordi di Ginevra.
Gli accordi di Ginevra partono da un approccio completamente diverso rispetto a quello
della Road Map, anche se fanno riferimento agli stessi principi. Un approccio che qualcuno
ha definito rivoluzionario, perché hanno posto al primo punto le tre quattro questioni che
nella Road Map sono poste alla fine dei negoziati, cioè il rientro dei rifugiati, lo status
internazionale di Gerusalemme, i confini ecc. con ovviamente delle proposte. Sono degli
accordi molto interessanti, che vanno ovviamente letti.
In conclusione io direi questo: io non so come finirà il negoziato sulla Road Map o che fine
faranno i negoziati di Ginevra. L’esperienza, la storia, ci ha fino ad oggi insegnato che tutti
i tentativi di pace in Medio Oriente sono falliti.
Io mi auguro che questi non falliscano.
Vedo un limite, se volete, in entrambe questi progetti di pace. Il limite è dato dal fatto che
non è chiara quale dovrà essere la composizione e sotto quale comando dovrà andare in
Israele e in Palestina una forza di interposizione, perché prevista da questi accordi, e le
voci insistenti che girano e che arrivano al nostro osservatorio è che questa forza debba
essere una forza della Nato. Allora, io sostengo che in realtà, se ci debba essere una forza
di interposizione, come tra l’altro l’autorità palestinese sta chiedendo da sempre, questa
debba essere una forza sotto autorità e con mandato delle Nazioni Unite.
L’altro limite è che non vedo in questi accordi di pace un esito istituzionale, cioè quello che
c’è bisogno per l’area del mediterraneo, del medioriente, è un’organizzazione
internazionale molto simile all’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa.
Cioè noi dobbiamo creare lì un contenitore istituzionale dove risolvere, in maniera pacifica,
il conflitto, cioè la proposta vecchia, anche questa, se ne discute da tanti anni, di creare
un’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione del mediterraneo è una proposta
secondo me che va rilanciata, e va rilanciata dall’Unione Europea nell’ambito del
partenariato euromediterraneo, nell’ambito del processo di Barcellona. Guarda caso, in un
momento in cui noi abbiamo avuto tre presidenze mediterranee dell’Unione Europea, quasi
una dietro l’altra, Spagna, Grecia e Italia, nessuno ha posto questa questione tra le
priorità della presidenza. Tutte citano questo problema ma non lo ritroviamo tra le priorità.
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Quindi: creazione dell’organizzazione per la cooperazione e la sicurezza nel mediterraneo e
adozione della Carta Euromediterranea per la pace e la stabilità. È un documento politico
pronto, preparato nell’ambito dei negoziati di Barcellona e che è fermo.
Quale ruolo, e concludo, quale ruolo per la Caritas Italiana e Internazionale? Io vedo tre
questioni.
La prima, che già avviene in gran parte ma lo ribadisco, è che tutta l’attività di assistenza
umanitaria che la Caritas, insieme alle altre Ong, fa in Iraq come in Afghanistan e in tutti
luoghi dove si soffre, deve essere sempre più collegata alle questioni dei diritti umani, del
diritto internazionale dei diritti umani. Anche se andiamo in un paese a costruire un pozzo,
o una strada, costruendo quel pozzo dobbiamo spiegare cos’ è il diritto internazionale dei
diritti umani.
Secondo, tutta la progettualità della Caritas e del più ampio mondo della società civile
organizzata ai fini della promozione umana, deve collocarsi dentro una strategia politica,
dentro un progetto politico di nuovo ordine internazionale più equo, democratico, solidale,
giusto, e al centro di questo progetto di nuovo ordine internazionale non ci sta né
l’amministrazione americana, né la Russia, né altri paesi, ma ci stanno le Nazioni Unite,
col loro sistema di agenzie specializzate, e le organizzazioni internazionali regionali. Il
ruolo politico che queste ong devono assumere, dunque, è un ruolo politico che deve
portarle anche a presentare e a sostenere, i progetti di riforma e di democratizzazione
delle Nazioni Unite di cui facevamo cenno all’inizio.
Infine, dunque, il ruolo educativo. Questa classe politica europea e internazionale non
riusciremo a cambiarla, noi siamo convinti di questo, chissà quanti morti e quanto sangue
ancora. Dobbiamo formare una nuova classe dirigente, una nuova classe politica, con in
testa i diritti umani, lo sviluppo umano, la sicurezza umana, la pace e così via, e il ruolo
più importante nel costruire questa nuova classe politica, in un momento in cui i partiti
non fanno più formazione, ce l’hanno le ong come la Caritas e ovviamente le università e il
mondo della scuola.
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