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LA RESPONSABILITÀ COME FONDAMENTO DELLA BIOETICA
L’etimologia del termine responsabilità richiama l’atteggiamento di colui che, prima di
intervenire a determinare o modificare un certo stato di cose, valuta le possibili conseguenze delle
proprie azioni: «res-pondere» significa, infatti, soppesare un’azione, un evento. Quando in bioetica
parliamo di responsabilità, non intendiamo riferirci ad un aspetto specifico, bensì al valore per
eccellenza che ha motivato la sua nascita e ne guida lo sviluppo. Attraverso il richiamo alla
responsabilità, la bioetica rischiara le scelte dell’uomo contemporaneo, in difficoltà per l’assenza di
punti fermi di riferimento.
§ 1 - «Etica dell’intenzione» ed «etica della responsabilità» in Max Weber
M. Weber (sociologo tedesco, 1864 - 1920) viene considerato il padre dell’etica della
responsabilità, avendo egli per primo proposto la distinzione tra «etica dell’intenzione» ed «etica della
responsabilità»:
Ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e
inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l’«etica dell’intenzione») oppure
secondo l’«etica della responsabilità». Non che l’etica dell’intenzione coincida con la
mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non
si vuol certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima
dell’etica dell’intenzione, la quale – in termini religiosi – suona: «Il cristiano opera da giusto e
rimette l’esito nelle mani di Dio», e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità,
secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni.1
Questa opposizione emerge dal confronto che Weber pone tra etica cattolica ed etica
calvinista. Nell’etica cattolica la bontà dell’azione si rapporta alle intenzioni dell’agente e alla
predisposizione della sua volontà: la purezza dell’intenzione non viene inficiata dalle conseguenze,
soprattutto quelle non volute e inattese. Il cattolico si sente a posto con la propria coscienza, quando
obbedisce ai comandamenti divini che valgono come assoluti. Al calvinista, invece, non basta la
intentio cattolica, perché egli ricerca la prova e conferma (Bewährung) della propria elezione (Beruf)
religiosa attraverso il lavoro professionale e la condotta di vita. Il calvinista si sente incentivato a
lavorare per la gloria di Dio nel mondo e interpreta il successo come un segnale della benevolenza
divina.2
Etica dell’intenzione per eccellenza è quella proposta dal filosofo tedesco Immanuel Kant
(1724 -1804), per il quale la validità etica di un’azione si commisura alle sole intenzioni, senza tener
conto dei risultati, che sono di per sé esterni e perciò estranei alla purezza dell’atto di volontà. Chi
ragiona, invece, sulla base dell’etica della responsabilità regola il proprio operato sulle conseguenze
prevedibili e sui risultati attesi.
Tuttavia, nel momento in cui le due etiche radicalizzano i rispettivi caratteri, evidenziano
pericoli significativi dei quali lo stesso Weber dà conto. L’«etica dell’intenzione», troppo astratta,
rischia di abbandonare il piano della realtà per inseguire i principi assoluti. L’«etica della
responsabilità» rischia di compromettere la purezza dei principi, adattandoli al piano della prassi, e in
tal modo finisce con l’accettare la regola secondo cui «il fine giustifica i mezzi». Allora, quale etica
Weber propone per l’uomo di scienza e per l’uomo politico?
Pur avendo individuato l’opposizione tra le due etiche, nella loro tipologia ideale, Weber
arriva ad affermare che, alla prova dei fatti, «l’etica dell’intenzione e quella della responsabilità si
completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la vocazione alla
politica (Beruf zur Politik)».3 Il sociologo tedesco ci fa intendere che esiste una responsabilità nella
quale il piano dei principi si confronta con quello della prassi, in un difficile equilibrio e secondo un
rigore che impegna l’uomo politico e l’uomo di scienza a non lasciarsi trascinare nel vortice del
nichilismo e del «vuoto etico» che già si preannunciava nella società europea tra fine Ottocento e primi
Novecento.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), nel documento su «Bioetica e Ambiente» (21
settembre 1995), auspica la realizzazione di un’etica pubblica di «ispirazione weberiana», allo scopo di
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conservare in modo responsabile l’equilibrio generale del pianeta e il patrimonio naturale, evitando la
dissipazione delle risorse non rinnovabili (sviluppo sostenibile).
§ 2 - La responsabilità come risposta ai crimini dei medici nazisti
Mi limito a ricordare alcuni tra i numerosi crimini perpetrati dal nazismo. Anzitutto il
programma di eutanasia rivolto ai bambini con handicap e malati di mente che, a partire dalla fine del
1938, furono posti nella condizione di ricevere la «morte per grazia» (Gnadentod). Il regime nazista
mise a punto una procedura di falsificazione, «come se» quei bambini fossero destinati a ricevere le
cure mediche dovute. La coscienza dei medici veniva costretta a sottostare all’inganno, ma a sua volta
si prestava ad essere parte attiva dell’inganno.
La struttura medica serviva a distribuire la responsabilità individuale sul maggior numero
possibile di persone: in nessun punto della lunga sequenza […] c’era un senso di responsabilità
personale, o addirittura di coinvolgimento, nell’assassinio di un essere umano. Ogni
partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più di una piccola rotella in una grande
macchina medica che aveva la sanzione ufficiale dello Stato.4
Dall’eutanasia dei bimbi si passò nell’ottobre del 1939 a quella degli adulti (Aktion T4) attraverso la
teorizzazione della «vita indegna di vita»: l’approdo finale fu lo sterminio di massa nei campi di
concentramento, che divennero anche centri per la ricerca bio-medica. Gli studi e gli esperimenti sulla
selezione eugenetica di Josef Mengele, che agiva in collaborazione con l’Istituto di Biologia ereditaria e
di igiene razziale di Francoforte, erano volti a giustificare in modo scientifico le aberrazioni razziali
dell’ideologia nazista. Mengele considerava atto di irresponsabilità non sfruttare, a beneficio della
ricerca scientifica, il materiale umano disponibile nel campo di Auschwitz.
Il Codice di Norimberga (1946) nasce dalla consapevolezza circa la necessità di introdurre
valori etici nell’ambito della sperimentazione bio-medica. L’art. 1 enuncia gli elementi costitutivi del
principio del consenso informato: qualunque persona coinvolta in una sperimentazione clinica deve
disporre della «capacità legale di dare il consenso», deve esercitare il «libero potere di scelta», deve
poter conoscere in modo dettagliato «la natura, la durata e lo scopo dell’esperimento, il metodo ed i
mezzi attraverso i quali tale esperimento deve essere condotto, tutti gli inconvenienti ed i pericoli che
ragionevolmente devono essere attesi, nonché gli effetti sulla propria salute o sulla propria persona che
possono eventualmente derivare da una sua partecipazione all’esperimento».
Due libertà-responsabilità sono poste a confronto: la persona che partecipa alla
sperimentazione deve essere valorizzata nella sua capacità di scelta libera e consapevole; lo scienziatosperimentatore deve rendersi responsabile in toto della vita e della salute della persona che ha accettato
di prendere parte alla sperimentazione: si tratta di una responsabilità che non può essere delegata ad
altri.
Queste raccomandazioni vengono valorizzate nella Dichiarazione di Helsinki (World
Medical Association Declaration of Helsinki), adottata nel giugno 1964 e ancora emendata nell’ottobre
2000). Si tratta di un codice di autoregolamentazione, redatto dall’Associazione Medica Mondiale, nel
quale si afferma esplicitamente che la «responsabilità verso il soggetto umano (della sperimentazione)
deve sempre spettare ad una persona qualificata dal punto di vista medico e non può mai ricadere sul
soggetto stesso dell’esperimento, anche se questi ha dato il consenso». I principi etici di base
riguardanti la ricerca e la sperimentazione clinica su soggetti umani - rispetto per la persona,
beneficienza, giustizia - hanno trovato una loro organica sistemazione nel Belmont Report: Ethical
Principles and Guidelines for the Protection of Human Subjects of Research (18 aprile 1979). Per le
nazioni europee funge da guida il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione su Diritti umani e
biomedicina - Sulla Ricerca Biomedica (Consiglio d’Europa, 18 luglio 2001).
§ 3 - La responsabilità come «nuova saggezza» in Van Rensselaer Potter
VAN RENSSELAER POTTER (1911-2001), medico oncologo e ricercatore biochimico presso
l’Università del Wisconsin (USA), utilizza per primo il termine bioetica nell’articolo Bioethics, the
Science of Survival (1970), incorporato poi nell’opera Bioethics. Bridge to the Future (1971).5 Il
presupposto di partenza di Potter è «l’idea che non si possa presumere la sopravvivenza della specie
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umana a lunga scadenza»: nessuna legge biologica garantisce questa sopravvivenza. Particolare
motivo di preoccupazione diventa per questo medico-ricercatore la manipolazione incontrollata della
vita e delle risorse del pianeta: il destino dell’uomo è di diventare per la terra vivente ciò che è il cancro per la
vita dell’uomo? Potter sottopone ad esame critico la conoscenza scientifica:
«Mentre nel passato la scienza poteva essere vista come fonte di benessere materiale e come
organizzatrice e fonte di nuova conoscenza, adesso sono in molti a rendersi conto che la scienza
è, di fatto, fonte di notevole disordine e di una conoscenza che la società non è in alcun modo
pronta a controllare».6
Questo disordine è dovuto all’insanabile divorzio che si è consumato nel corso dell’epoca moderna tra
conoscenza scientifica e valori umani, tra scienza e saggezza. Non ci è rimasta alcuna scienza in grado
di riflettere.
Di contro ad un sapere divenuto palesemente “incontrollabile” da parte degli stessi scienziati,
Potter lancia la sua sfida per una nuova saggezza, che sia in grado di riflettere su «come usare la
conoscenza» per migliorare le condizioni umane. La conoscenza scientifico-biologica necessita di
essere compenetrata dalle più elevate riflessioni umanistiche. Questo è per Potter il senso più pregnante
della bioetica, che viene identificata con la «nuova saggezza»: «Propongo il termine bioetica per
evidenziare i due elementi di cui abbiamo disperatamente bisogno: conoscenza biologica e valori
umani». La bioetica si propone come «ponte», in quanto ripristina la comunicazione tra scienza e
discipline umanistiche, ma è anche «ponte verso il futuro», perché difende il diritto alla vita delle
generazioni che verranno.
Merito di Potter è aver dato alla sua «bioetica globale» il respiro ampio di quella «etica della
terra» (land ethic) che il grande scienziato naturalista Aldo Leopold (Iowa 1887 – Wisconsin 1948)
aveva teorizzato in riferimento alla comunità biotica universale: la natura stessa fornisce all’uomo il
modello per un’etica della partecipazione e dell’integrazione tra tutti gli esseri viventi.
§ 4 – La critica di Hans Jonas all’utopismo tecnologico
HANS JONAS (storico e critico delle religioni, filosofo bioeticista, Germania 1903 – New York
1993) pubblica il saggio Il principio responsabilità nel 1979.7 Ciò che lo accomuna a Potter è la
preoccupazione circa i possibili scenari futuri aperti negli anni Sessanta-Settanta dalla ricerca biomedica e, più in generale, dal progresso scientifico-tecnologico.
La critica di Jonas si appunta sulla tecnica, che si è imposta alla società contemporanea come
nuova «utopia». Disciolta dal legame con la sapienza, la tecnica ha trasformato i «mezzi», già creati a
vantaggio dell’uomo, in «fini» che subordinano l’uomo e a lui si impongono come nuovo destino. Un
tempo la tecnica si configurava quale mezzo a disposizione dell’uomo per affrontare i caratteri impervi e ostili
della natura; oggi, invece,.«si è trasformata in un illimitato impulso progressivo della specie, nella sua impresa
più significativa».8
Si ripropone nella nostra epoca l’antico mito di Prometeo, svincolato però da qualsiasi presenza divina:
la hybris antica si trasforma nell’arroganza di un potere sciolto da ogni vincolo o timore, essendosi
sbarazzato di quei valori che una lunga tradizione aveva protetto all’ombra del “sacro”.
La posta in gioco è molto alta, perché riguarda addirittura la possibilità di una distruzione
totale della vita dell’uomo e della natura. Di fronte a questo rischio estremo si impone un imperativo
primario e incondizionato, al quale devono ricondursi tutte le scelte dell’uomo: «Agisci in modo che le
conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla
terra». Questo imperativo è del tutto nuovo, perché mai la potenza dell’uomo era arrivata a minacciare
la sopravvivenza della vita intera sul pianeta. Da questa dimensione “globale” dell’etica scaturiscono i
caratteri della nuova «responsabilità».

La responsabilità dell’uomo si allarga alla vulnerabilità della vita globale della natura.
Fino al recente passato le leggi naturali venivano intese dall’uomo come una sfida per la
conoscenza e come minacce da tenere sotto controllo. Ma quella vita, che un tempo si presentava solida
nei suoi ritmi e nei suoi equilibri, oggi rivela tutta la sua fragilità. L’etica della responsabilità prevede
che l’uomo si faccia carico della natura, diventandone l’«amministratore fiduciario», nel contesto di una
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ritrovata «solidarietà» tra tutte le forme viventi. Scompare la frattura che separava gli «esseri naturali»
(entia naturalia) dagli uomini, considerati nel passato come gli unici «esseri morali» (entia moralia).

L’etica della responsabilità abbandona le dimensioni della prossimità
Nell’Etica Nicomachea Aristotele ha formulato il criterio della «prossimità», in base al quale la
responsabilità deve orientarsi «ai genitori, ai figli, alla moglie e in generale, agli amici e ai concittadini,
dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità». Questo criterio ha guidato
l’agire umano fino alla nostra epoca: l’uomo non ha mai avuto la percezione di una responsabilità legata
agli effetti a lunga distanza delle proprie azioni, in quanto effetti non previsti e, come tali, riferibili ad
una Volontà superiore o al caso.
La nuova responsabilità oltrepassa ogni prossimità: sia essa spaziale (la nostra tribù), sia essa
temporale (i nostri figli), sia essa di specie (la razza umana). I «non-ancora-nati» reclamano il diritto
ad una vita ricca delle stesse potenzialità di cui godono le generazioni presenti. Mai l’etica della
tradizione si era spinta così in avanti; mai aveva riconosciuto alle generazioni future, ai «non nati», la
capacità di interpellare la coscienza etica dei viventi. Preoccupato circa gli esiti della manipolazione
genetica, Jonas si pone gli interrogativi: quali potranno essere le conseguenze sui nostri discendenti?;
chi dà il diritto all’uomo di oggi di decidere per coloro che verranno?

La responsabilità come «cura»
In Jonas la cura esprime la forma di responsabilità più integrale, ma anche la più originaria, in
quanto assume a modello la cura dei genitori verso i figli piccoli, sollecitata dal sentimento profondo di
dedizione e di amore, ma anche dalla preoccupazione per la loro esistenza ancora del tutto vulnerabile.
In referimento a questo modello, la nuova responsabilità presenta il carattere della totalità, in quanto si
fa carico di ogni aspetto dell’esistenza dell’«altro»; il carattere della continuità, perché non può
concedersi «vacanze»; il carattere della non reciprocità, perché non è legata ad una promessa di
restituzione; è rivolta al futuro, perché la sua funzione è di rendere possibile una crescita libera e
autonoma. Che cosa capiterà all’«altro», se io non mi prendo cura di lui? La dimensione dell’«altro» si
estende, oltre l’uomo, all’intera biosfera seriamente minacciata.
Questi spunti hanno trovato largo seguito nel filone di pensiero bioetico che si è richiamato
all’esperienza della maternità e al ruolo della donna. Questa visione al «femminile» ha indotto a
valorizzare la vita come una «trama», come una «rete» caratterizzata da forti legami di appartenenza,
solidarietà, interdipendenza, in opposizione alla tradizionale visione al «maschile» più legata
all’intervento tecnico, alla specializzazione, all’etica contrattuale che tende a separare e a cogliere le
differenze. In medicina, la preponderante importanza finora data alla specializzazione e all’intervento
tecnico ha indotto a prediligere la terapia («cure») e quindi la malattia piuttosto che il malato. Il
cambiamento di sensibilità tende invece a valorizzare la cura («care»), che ricolloca la competenza
tecnica e terapeutica nel contesto della più originaria disposizione alla solidarietà interpersonale.
§ 5 - La responsabilità come «etica del limite»
Attraverso l’etica della responsabilità sia Potter che Jonas hanno inteso proporre un’etica del
limite, invocando «un nuovo genere di umiltà», diversa rispetto al passato, perché non più motivata
dalla limitatezza, bensì dall’eccessiva ampiezza dei mezzi disponibili.
«L’inizio della saggezza – afferma V. R. Potter – può invocare in noi un adeguato rispetto per
l’ampia trama della vita e una certa umiltà per la nostra limitata capacità di comprendere tutte
le ripercussioni della nostra arroganza tecnologica».9
Dal punto di vista epistemologico l’umiltà si configura per la scienza e per la tecnologia come
doveroso riconoscimento dei propri limiti, di quella «ignoranza» che costituisce l’altro volto del sapere:
«l’umiltà – afferma Jonas – è forse la sola virtù che possa neutralizzare la dilagante arroganza
tecnologica». Su questi presupposti il filosofo tedesco è giunto a formulare l’esigenza etica di quel
«principio di precauzione» che oggi è al centro di molti dibattiti:
«Finché non siano disponibili proiezioni sicure, la cautela, soprattutto in caso di irreversibilità
di alcuni tra i processi avviati, costituisce il lato migliore del coraggio e in ogni caso un
imperativo della responsabilità».10
5
Facendo eco agli intendi di Potter, Jonas auspica lo sviluppo di una «nuova scienza che tratti
l’enorme complessità delle interdipendenze», non allo scopo di accrescere il potere dell’uomo, ma allo
scopo di proteggerlo dall’eccesso del suo stesso potere.11 Il nuovo sapere «predittivo» deve proporsi di
raggiungere la portata del potere tecnologico, che è sfuggito ad ogni controllo:
«Forse dobbiamo progredire da una moderazione nell’uso del potere, cosa che è stata da
sempre consigliabile, ad una moderazione nell’acquisire potere. Poiché in ogni campo si
raggiungono livelli dove il possesso di un potere costituisce la tentazione quasi irresistibile di
farne uso, ma il suo uso può essere pericoloso, dannoso, per lo meno assolutamente
imprevedibile nelle conseguenze. […] In breve: il progresso nella tecnica è necessario già per
correggere i suoi effetti».12
Ciò che nel pensiero di Jonas ha suscitato maggiori discussioni e perplessità è l’aver accentuato
il valore euristico della paura, intesa come lo stato d’animo che induce l’uomo a scoprire il valore
essenziale da salvaguardare, ovvero la sopravvivenza dell’umanità e, con essa, dell’intera biosfera. In
realtà è dato riscontrare nei suoi scritti l’invito ad un progresso che deve realizzarsi con la cautela
necessaria, all’interno di valori-limite che né la scienza né la tecnologia sono in grado di stabilire da
sole, ma che possono scaturire unicamente da una riflessione etica e sociale. La tecnologia e la scienza,
ci vuol suggerire Jonas, debbono tornare al servizio dell’uomo.
Anche questa dimensione della responsabilità è nuova, in quanto fino al recente passato si è
pensato alla scienza come dispensatrice di “certezze” e di sicuro progresso. «Dio non gioca a dadi» amava dire ancora A. Einstein. Ma quel mondo regolare, unitario e semplice che la fisica moderna
aveva imposto come verità si è rivelato oggi una idealizzazione e frutto di semplificazione. Il nuovo
modello scientifico si trova a fare i conti con la complessità della vita in divenire e con i molteplici
fattori che ne condizionano lo sviluppo. L’uomo ha dovuto prendere atto delle profonde trasformazioni
da lui introdotte nell’ambiente, degli effetti positivi e negativi delle proprie scelte economico-produttive
sui cambiamenti climatici e sull’intera biosfera, ma anche dei limiti ristretti delle proprie analisi e della
limitata efficacia del suo intervento rispetto ai cambiamenti provocati.
Il carattere sempre «aperto» rappresenta certamente un tratto definitorio del cammino
scientifico, ma la complessità di alcuni campi di ricerca ha radicalizzato tale carattere verso forme di
indecidibilità. Quanto più il sapere si espande, tanto più se ne toccano i limiti. Il rischio è divenuto un
tratto caratterizzante del vivere umano e perciò una categoria della vita sociale. Per usare una bella
immagine del sociologo Niklas Luhmann, il primo peccato originale condannò l’uomo alla temporalità,
al sudore della fronte e ai pericoli di varia natura; il secondo peccato originale, quello “tecnologico”,
condanna l’uomo a vivere nel rischio e a convivere con l’incertezza.
Agli inizi degli anni Settanta, nell’ambito della biologia molecolare, la scoperta del DNA e le
ricerche sul «DNA ricombinante» incominciarono a suscitare timori nell’ambito stesso della ricerca
scientifica. Per la prima volta, di comune accordo, gli inventori della tecnologia del «DNA
ricombinante», riuniti in un convegno nel 1975 ad Asilomar (California - USA), auspicarono una
«moratoria» degli esperimenti in corso, allo scopo di consentire una più realistica valutazione dei
rischi e di adottare le necessarie misure di precauzione. «Abbiamo il diritto di sconvolgere,
irreversibilmente, la saggezza evolutiva di milioni di anni per soddisfare l’ambizione e la curiosità di un
pugno di scienziati?» - si interrogava nel 1976 Irwin Chargaff, biochimico della Columbia University le
cui ricerche costituirono le basi della scoperta della struttura del DNA. Sul finire degli anni Settanta
cominciava ad allungarsi l’ombra della clonazione umana.
Il premio Nobel David Baltimore, già docente di virologia presso il Massachusetts Institute of
Technology (MIT), osservò che gli scienziati dovevano darsi da soli un regolamento: «Penso che la
comunità scientifica, aperta com’è, e pronta all’autocritica, offra una miglior garanzia di sicurezza di
quanto possa fare un qualsiasi regolamento governativo». Ma Jonathan King, collega di Baltimore al
MIT, obiettò che lasciare agli scienziati il compito di regolare se stessi sarebbe stato come chiedere
all’industria del tabacco di determinare i pericoli del fumo.13
In questa discussione dobbiamo tenere per certo che il linguaggio della scienza è per sua
natura «descrittivo», non «prescrittivo». Ciò significa che la scienza non può imporre alla società
l’adozione delle sue scoperte, tanto meno può farlo la tecnologia. Il filosofo Eugène Dupréel propone
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una bella metafora: «La scienza è come la bussola che ci mostra dov’è il Nord, ma non ci dice che
bisogna andarci». La ricerca scientifica pone alla società interrogativi, apre nuovi orizzonti, stimola ad
andare avanti, ma non deve eludere la libera discussione critica sugli obiettivi da perseguire, che non
può né deve decidere da sola.
Antonio Rimedio
Docente di Filosofia e Storia – Preside incaricato
Diplomato in Bioetica – Univ. Studi di Camerino (MC)
[email protected]
MAX WEBER, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. di A. Giolitti, G. Einaudi, Torino, 1973 4, p. 109. L’opera
comprende la conferenza tenuta nel 1918 sul tema «La scienza come professione e vocazione» e le due conferenze tenute
alla fine del 1918 sul tema «Il lavoro intellettuale come professione e vocazione», pubblicate nel 1919.
2
MAX WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1922), trad. it. di P. Burresi, Sansoni, Firenze, 1965.
3
MAX WEBER, Il lavoro intellettuale come professione, cit., p. 119.
4
ROBERT JAY LIFTON, I medici nazisti. La psicologia del genocidio (1986), trad. it. di L. Sosio, BUR, Milano, 2002, pp. 8185.
5
V. RENSSELAER POTTER, Bioetica. La scienza della sopravvivenza (1970), trad. it. di F. Bellino, Levante Editore, Bari,
2002; Bioetica. Ponte verso il futuro (1971), trad. it. di R. Ricciardi, Sicania, Messina, 2000.
6
V. RENSSELAER POTTER, Bioetica, ponte verso il futuro (1971), cit., pp. 95-100..
7
HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), trad. it. di P. Rinaudo, G. Einaudi,
Torino, 1993.
8
Ivi, p. 13.
9
V. RENSSELAER POTTER, Bioetica. La Scienza della sopravvivenza, cit., pp. 85-87.
10
HANS JONAS, Il principio responsabilità, cit., p. 244.
11
Ivi, p. 244.
12
HANS JONAS, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità (1985), trad. it. di P. Becchi – A. Benussi, G.
Einaudi, Torino, 1997, pp. 50-51.
13
Per questi spunti cfr.: GINA KOLATA, Cloni. Da Dolly all’uomo, trad. it. di A. Serra, Raffaello Cortina, Milano, 1998.
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