Martedì
21 gennaio 2014
ore 20.30
7
Stagione
2013-2014
Sala Verdi del
Conservatorio
Sentieri selvaggi
Carlo Boccadoro direttore
Cristina Zavalloni soprano
Ghedini - Adagio e Allegro da concerto
Gentilucci - Le clessidre di Dürer
Einaudi - The Apple Tree
Boccadoro - Box of Paints
prima esecuzione assoluta, commissione della Società del Quartetto
Berio - Folk Songs
Con il sostegno di
Il concerto è registrato da RAI Radio3
Di turno
Marco Bisceglia
Alberto Mingardi
Sponsor istituzionali
Stagione
2013-14
Con il contributo di
Con il patrocinio e il contributo di
Soggetto di rilevanza regionale
Sponsor Ciclo Beethoven
Progetto
“Verso il futuro,
dal nostro
passato”
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Media parthner
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È vietato, senza il consenso dell’artista, fare fotografie e registrazioni,
audio o video, anche con il cellulare.
Iniziato il concerto, si può entrare in sala solo alla fine di ogni composizione.
Si raccomanda di:
• disattivare le suonerie dei telefoni e ogni altro apparecchio con dispositivi acustici;
• evitare colpi di tosse e fruscii del programma;
• non lasciare la sala fino al congedo dell’artista.
Il programma è pubblicato sul nostro sito web il venerdì precedente il concerto.
Giorgio Federico Ghedini
(Cuneo 1892 - Nervi 1965)
“Adagio e allegro da concerto” (1936) per flauto,
clarinetto, corno, arpa, violino, viola, e violoncello (ca. 10’)
Il programma del concerto di Sentieri selvaggi, in apparenza molto eterogeneo, cammina in realtà sul filo di un sottile rapporto tra maestri e allievi della
musica italiana del Novecento. Il primo lavoro infatti è di un autore come Giorgio Federico Ghedini, che ha rappresentato uno dei pochi punti di riferimento
per i giovani musicisti cresciuti sotto il Fascismo e finiti allo sbando nel caotico
tracollo del regime provocato dalla guerra. Luciano Berio, ultimo autore in programma, rappresenta il campione di questa generazione, che ha imparato da
Ghedini l’esattezza espressiva nella scrittura musicale e la bellezza morale di
un metodo di lavoro scrupoloso e artigianale. Ghedini si era formato alla scuola
di musicisti colti e moderni come Alfredo Casella e Gianfrancesco Malipiero,
dimostrando una grande apertura verso le forme più spregiudicate della musica
europea e soprattutto una forte coscienza storica della tradizione italiana. «Ghedini – scriveva Berio in un testo raccolto da Stefano Parise – è l’unico musicista
italiano che ha gettato un ponte tra il barocco italiano e il nostro secolo, tant’è
che qualcuno ha parlato in proposito di “neo-barocchismo” ghediniano». L’altro
corno della personalità di Ghedini è l’altissimo senso di responsabilità verso la
tecnica musicale, che nella sua produzione si manifesta sempre come un obbligo
morale dell’artista. Da questo punto di vista la musica di Ghedini è stata influenzata in primo luogo dall’esempio dei colleghi francesi, Ravel e Debussy in testa.
Adagio e allegro da concerto è modellato in maniera evidente su un fortunato
lavoro del primo, l’Introduction et allegro per arpa, flauto, clarinetto e quartetto
d’archi. Il settimino di Ghedini però toglie dall’organico un violino al quartetto
d’archi e lo sostituisce con un corno, che dà nerbo al registro grave e conferisce
al suono un’aura più romantica. Il lavoro è dedicato a una delle prime allieve di
Ghedini, Barbara Giuranna, che lo stesso anno, nel 1936, aveva presentato alla
Biennale di Venezia un Allegro da concerto per nove strumenti. L’Adagio esprime un intenso lirismo, incarnato dalla lunga melodia del clarinetto che domina il
diafano tessuto sonoro. Il canto, indicato come “molto dolce e sognante”, diventa
più appassionato nella parte centrale, dove la scrittura s’increspa con il tremolo
della viola e il ritmo sincopato dei pizzicati di violoncello e arpa. L’Allegro invece
rappresenta un’elegante parodia di una danza popolare, piena di vivacità e di
energia. I ritmi s’intrecciano in una sorta di chiassosa e pittoresca festa paesana, con una scrittura brillante nella quale spicca la presenza concertante dell’arpa. La tensione dionisiaca nel movimento sfocia infine nel canto spiegato prima
del clarinetto e poi di violino e violoncello, che conducono all’apoteosi finale con
una grande cadenza nell’apollinea luminosità di la bemolle maggiore.
Armando Gentilucci
(Lecce 1939 - Milano 1989)
“Le clessidre di Dürer” (1985) per clarinetto, violino, violoncello e pianoforte (ca. 11’)
Prima esecuzione: Bilbao, 1 novembre 1986
Pur non essendo un allievo diretto di Ghedini, anche Armando Gentilucci è stato
influenzato dall’esempio di rigore morale e perfezionismo tecnico dell’intransigente maestro. Gentilucci ha studiato infatti al Conservatorio di Milano negli
anni in cui Ghedini ha diretto l’istituto, dal 1951 al 1962. La parabola artistica
di Gentilucci, scomparso prematuramente a soli 50 anni, ha toccato diverse fasi,
da un modernismo di stampo bartókiano alla stagione dell’impegno politico e
oltre, compreso un severo esame di coscienza sui pericoli e i paradossi di una
retorica della neo-avanguardia. Le clessidre di Dürer è un lavoro di musica da
camera che appartiene all’ultimo periodo della produzione di Gentilucci, segnato dal fantasma della grande opera Moby Dick, terminata prima di morire ma
mai rappresentata. Il titolo prende spunto dalla famosa incisione di Dürer Melanconia I, dove al di sopra della figura femminile campeggia una clessidra,
tradizionale simbolo dello scorrere del tempo. Molti lavori di Gentilucci ruotano
infatti attorno al concetto di tempo, che emerge in definitiva come uno dei temi
principali della sua produzione. In uno scritto degli ultimi anni, Gentilucci citava una frase di una lettera di Melville a Sophia Amelia Hawthorne: «La vita è
come un lungo stretto di Dardanelli, con le rive ricoperte di quei fiori luminosi
che noi piantiamo per coglierli; però le rive sono troppo alte così andiamo alla
deriva sperando in un approdo e siamo spinti invece in mare aperto». Il sentimento della deriva del tempo si manifesta anche nelle Clessidre di Dürer, con
analoga sofferenza emotiva e un pari senso di stoica rassegnazione. Gentilucci
affida l’espressione di questo flusso di coscienza soprattutto alla trama sonora
del quartetto, che intreccia un intenso dialogo timbrico fino a toccare le regioni
più estreme dei vari strumenti. Il desiderio di definire con chiarezza la forma si
rivela nella necessità di articolare la scrittura attorno ad alcuni elementi strutturali, come la sovrapposizione degli intervalli di settima maggiore e di quinta.
Tuttavia alla fine il lavoro si sfarina in una impercettibile nebbia sonora provocata dal pedale di risonanza del pianoforte, rischiarata a tratti dalla flebile epifania
di minuscole figure, come gocce di luce nel tenue grigiore del nulla.
Ludovico Einaudi
(Torino 1955)
“The Apple Tree” (1995) per flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte (ca. 10’)
Prima esecuzione: Glasgow, 11 maggio 1997
Troppo lontano nel tempo per avere un rapporto diretto con Ghedini, Ludovico
Einaudi è stato invece allievo di Berio, che lo ha anche avuto come assistente per
l’allestimento dell’opera La vera storia al Teatro alla Scala nel 1982. A partire
dagli anni Novanta, Einaudi ha sviluppato un linguaggio sempre più influenzato
dalle molteplici suggestioni della popular music, che s’innestavano sul corpo di
una scrittura di matrice classica. The Apple Tree rappresenta un esempio molto
eloquente delle concezioni estetiche di Einaudi. Nella prima fase della sua nuova produzione, l’autore ha esplorato soprattutto il regno del pianoforte, sul quale poteva esercitare un controllo diretto del suono. Man mano però il perimetro
delle sue ricerche tendeva ad allargarsi anche in altre direzioni, come chiarisce
lo stesso Einaudi a proposito della genesi di The Apple Tree: «M’interessava di
offrire una composizione scritta in un linguaggio d’oggi a un ensemble classico,
che avesse forse la curiosità di uscire dal repertorio solito e desiderasse qualche
cambiamento. Il lavoro è concepito in un movimento unico e si sviluppa come
una canzone, con strofe e ritornelli».
Come risulta evidente, Einaudi aveva deciso di rifiutare una certa modernità,
nella quale peraltro egli stesso era cresciuto, come se avesse bisogno di recuperare una verginità dell’ascolto dopo l’abbuffata di complessità degli anni Settanta. I punti di riferimento adesso sono i linguaggi provenienti dal mondo anglosassone, i maestri del minimalismo americano e le colonne sonore di Michael
Nyman. The Apple Tree è un lavoro composto attraverso la combinazione di una
serie di elementi di base, come un segmento diatonico della scala di sol minore
e un frammento cromatico discendente, ripetuti attraverso varie sovrapposizioni e variazioni ritmiche, all’interno di un fraseggio rigorosamente articolato
in maniera simmetrica (2 + 2 battute). L’approccio di Einaudi tuttavia mitiga
gli aspetti più ruvidi e freddi di queste tendenze, manifestando viceversa una
naturale inclinazione verso l’espressione lirica che addolcisce le linee melodiche
e ammorbidisce i contorni delle armonie.
Carlo Boccadoro
(Macerata 1963)
“Box of Paints” per flauto e ensemble (ca. 13’)
I – II – III – IV. Allegro molto
Prima esecuzione assoluta, commissione della Società del Quartetto
Carlo Boccadoro è nato l’anno successivo a quello in cui Ghedini aveva chiuso
la sua lunga carriera di didatta. Anch’egli tuttavia rappresenta uno dei frutti,
come Einaudi e Berio, del Conservatorio di Milano, che il Maestro aveva in larga misura influenzato prima come insegnante di composizione e poi come Direttore. Il lontano influsso di Ghedini si avverte soprattutto in una visione molto
pragmatica dell’atto creativo, che deve corrispondere sempre a un rapporto
diretto e consapevole del far musica. La maggior parte dei lavori di Boccadoro
nasce da una relazione con gli esecutori, in primo luogo con i musicisti dell’ensemble Sentieri selvaggi, da lui stesso fondato insieme a Filippo Del Corno e
Angelo Miotto nel 1997. Box of Paints, scatola di colori, è una sorta di concerto
da camera ritagliato sulle qualità della flautista dell’ensemble, Paola Fre, che
suona nei primi due movimenti il flauto in sol, nel terzo il flauto in do e nell’ultimo l’ottavino. Il lavoro ricalca a grandi linee l’articolazione classica del concerto,
con una parte iniziale più elaborata, formata dai primi due movimenti, un tempo
lento di carattere lirico al centro e un finale di scrittura molto ritmica e nervosa. Il rapporto tra il solista e gli altri musicisti è segnato da alcuni momenti di
libertà assoluta, specie nel primo e nel terzo movimento, in cui gli strumenti si
muovono in maniera indipendente dal direttore. La scrittura delicata e trasparente, in contrasto con l’abituale stile sanguigno di Boccadoro, acuisce il senso
di un’improvvisazione, nella quale il flauto gioca di volta in volta con l’uno o
l’altro strumento. All’inizio, per esempio, sono le percussioni a intrecciare una
sorta di dialogo con il solista, mentre gli altri strumenti si limitano a imprimere
qualche leggero segno armonico sullo sfondo. Nel secondo invece si sviluppa
tra il flauto e il clarinetto un rapporto più strutturato, che si allarga verso la
fine anche al pianoforte. L’adagio rappresenta il cuore espressivo del lavoro.
Qui il carattere aleatorio prende il sopravvento, sempre però all’interno di uno
sfondo armonico omogeneo. Il registro più acuto del flauto in do fa volteggiare
il solista con grande leggerezza, sospinto da un costante moto perpetuo dei due
strumenti ad arco e dall’alito di una impercettibile brezza armonica proveniente da clarinetto, pianoforte e vibrafono. L’estremo lirismo dell’adagio forma un
netto contrasto con la pungente scrittura dell’ultimo tempo, Allegro molto. Il
rapporto tra solista e ensemble è sottoposto all’ordine cogente del ritmo, in una
sorta di danza fantasiosa e animata. Il suono squillante dell’ottavino spicca sullo
sfondo di figure ritmiche elettrizzanti e terse, svanendo alla fine nel silenzio con
un’ultima volatina di note.
Luciano Berio
(Imperia 1925 - Roma 2003)
“Folk Songs” (1964) per voce e 7 strumenti (ca. 24’)
Black is the colour (USA) - I wonder as I wander (USA) - Loosin yelav
(Armenia) - Rossignolet du bois (Francia) - A la femminisca (Sicilia) - La
donna ideale (Italia) - Ballo (Italia) - Mottetu de tristura (Sardegna) Malurous qu’o un fenno (Auvergne, Francia) - Lo fiolaire (Auvergne) Azerbaijan love song
Prima esecuzione: Oakland, California, 1964
Luciano Berio ha scritto, a proposito di Folk Songs: «Ho sempre provato un
senso di profondo disagio ascoltando canzoni popolari (cioè espressioni popolari
spontanee) accompagnate dal pianoforte. È per questo e, soprattutto, per rendere omaggio all’intelligenza vocale di Cathy Berberian che nel 1964 ho scritto
Folk Songs per voce e sette esecutori e, successivamente, per voce e orchestra
da camera (1973)». All’epoca della prima esecuzione di Folk Songs, il matrimonio con Cathy Berberian era sul punto di terminare, ma questo non ha messo in
discussione il rispetto e la stima reciproca tra i due artisti. Berio aveva già scritto due di queste canzoni, La donna ideale e Ballo, nel 1947, mentre studiava con
Ghedini al Conservatorio, dove avrebbe conosciuto in seguito la futura moglie.
L’attrazione per il mondo sonoro della musica “popolare”, che Bartók avrebbe
definito forse contadina, risale agli inizi della parabola artistica di Berio, ma si
è definita in maniera più chiara anche grazie al rapporto creativo con Cathy
Berberian, che gli aveva trasmesso dell’attrazione per gli elementi fonetici del
linguaggio.
Il ciclo di Berio ha un carattere diverso, rispetto all’antica e diffusa prassi della
trascrizione di canti popolari, che in genere tende a ricondurre le peculiari caratteristiche di una cultura musicale all’interno di uno stile più familiare. L’epoca dei Folk Songs era anche quella delle prime ricerche sul patrimonio musicale
del Mezzogiorno e di altre culture subordinate di studiosi come Alan Lomax,
Diego Carpitella, Roberto Leydi, che avevano portato alla luce un mondo sonoro sconvolgente e irriducibile a categorie antropologiche tradizionali. Berio
ha tentato a sua volta d’interpretare in maniera creativa una serie di fenomeni
musicali, che dimostravano la moltiplicità delle strutture linguistiche. Il lavoro
di Berio su questi object trouvé è una vera e propria ri-composizione, che lascia
emergere le tracce della storia depositate su queste espressioni della cultura
popolare.
Oreste Bossini
Luciano Berio
Folk Songs
1. Black is the color…
Nero è il colore…
Black is the color
of my true love’s hair
his lips are rosy something fair
the sweetest smile
and the kindest hands;
I love the grass where-on the stands.
Nero è il colore
dei capelli del mio amore
le labbra ha di un bel rosa,
il più dolce dei sorrisi
e le mani più gentili;
amo l’erba su cui poggia i piedi.
I love my love and well he knows
I love the grass where-on he goes
if he no more on earth will be
‘t will surely be the end of me.
Amo il mio amore, e ben lo sa
amo l’erba su cui cammina
se non dovesse esser più a questo mondo
per me certo sarebbe la fine.
Black is the colour…
Nero è il colore…
2. I wonder as I wander…
Mi meraviglio mentre vago…
I wonder as I wander out under
the sky
how Jesus our Savior did come
for to die
for poor ordn’ry people like you
and like I
I wonder as I wander out under
the sky.
Mi meraviglio mentre vago là fuori
sotto il cielo
come abbia potuto Gesù, il Salvatore,
venir qua a morire
per povera gente comune come te e me.
Mi meraviglio mentre vago là fuori
sotto il cielo.
When Mary birthed Jesus ‘t was
in a cow stall
with wise men and farmers and
shepherds and all,
but high from the Heavens a star’s
light did fall,
the promise of ages it then did recall.
Quando Maria mise al mondo Gesù
era in una stalla,
con re magi e contadini e pastori
e così via,
ma dall’alto dei Cieli cadeva la luce
di una stella,
ricordando le profezie antiche di secoli.
Se Gesù avesse voluto una cosa
qualunque,
a star in the sky or a bird on the wing, una stella in cielo o un uccello in volo,
If Jesus had wanted of any wee thing,
or all of God’s angels in Heav’n
for to sing,
he surely could have had it ‘cause
he was the king.
o tutti gli angeli di Dio in Paradiso
a cantare,
l’avrebbe avuta di certo, poiché
era il re.
3. Loosin yelav
La luna è alta
Loosin yelav en saaretz
saree partor gadareetz
shegleeg megleeg yeresov
paervetz kedneen loosnidzov.
La luna è alta sulla collina
proprio in cima alla collina
con la sua luce rossa e rosea
rischiara splendidamente la terra.
Jan ain loosin
jan ko loosin
ja ko gaelor sheg yereseen.
Cara luna,
cara la tua luce
caro il tuo volto rotondo e roseo.
Xavarn arten tchòkatzav
oo el kedneen tchògatzav
loosni loosov halatzvadz
moot amberi metch maenadz.
Prima il buio regnava
avvolgendo la terra
il chiardiluna l’ha ricacciato
fra le nuvole nere.
Jan ain loosin…
Cara luna…
4. Rossignolet du bois
Piccolo usignolo del bosco
Rossignolet du bois,
rossignolet sauvage,
apprends-moi ton langage,
apprends-moi-z à parler,
apprends-moi la manière
comment il faut aimer.
Piccolo usignolo del bosco,
piccolo usignolo selvatico,
insegnami la tua lingua,
insegnami a parlare,
insegnami il modo
in cui si deve amare.
Comment il faut aimer
je m’en vais vous le dire,
faut chanter des aubades
deux heures après minuit,
faut lui chanter: la belle,
c’est pour vous réjouir.
Come si debba amare
adesso vi dirò:
cantando serenate
due ore dopo mezzanotte,
cantarle: o carina,
è per darvi gioia.
On m’avait dit, la belle,
que vous avez des pommes,
des pommes de renettes
qui sont dans vot’ jardin.
Permettez-mois, la belle,
que j’y mette la main.
Mi avevan detto, carina,
che avevate certe mele,
delle mele renette
che sono nel vostro giardino.
Permettete, carina,
che io le tocchi.
Non, je ne permettrai pas
que vous touchiez mes pommes,
prenez d’abord la lune
et le soleil en main,
puis vous aurez les pommes
qui sont dans mon jardin.
No, mai permetterò
che tocchiate le mie mele,
prima prendete la luna
e il sole con le mani,
poi avrete le mele
che sono nel mio giardino.
5. A la femminisca
Alla maniera delle donne
E Signuruzzu miu faciti bon tempu
ha iu l’amanti miu’ mmezzu lu mari
l’arvuli d’oru e li ntinni d’argentu
la Marunnuzza mi l’av’aiutari,
chi pozzanu arrivòri ‘nsarvamentu.
E comu arriva ‘na littra
ma fari ci ha mittiri du duci paroli
comu ti l’ha passatu mari, mari.
E caro Signore, dateci il bel tempo,
il mio innamorato è in mezzo al mare
con l’albero d’oro e le vele d’argento
la Madonnina me lo deve aiutare
a giungere a salvamento.
E se arriva una lettera,
che ci metta due paroline dolci,
come hai attraversato il mare.
6. La donna ideale
La donna ideale
L’ómo chi mojer vor piar,
de quatro cosse de’ espiar.
La primiera è com’ el è naa,
l’altra è se l’é ben accostumaa,
l’altra è como el è forma,
la quarta è de quanto el è dotaa.
Se queste cosse ghe comprendi,
a lo nome di Dio la prendi.
L’uomo che vuol prender moglie,
di quattro cose si deve assicurare.
La prima da che famiglia venga,
poi se è ben educata,
poi ancora che aspetto ha,
la quarta quanti soldi porti.
Se di queste cose ti accerti,
prendila, in nome di Dio.
7. Ballo
La la la la la la…
Amor fa disviare li più saggi
e chi più l’ama meno ha in sé misura.
Più folle è quello che più s’innamura.
La la la la la la…
Amor non cura di fare suoi dannaggi
co li suoi raggi mette tal calura
che non può raffreddare per freddura.
8. Mottetu de tristura
Canzone triste
Tristu passirillanti
comenti massimbilas.
Tristu passirillanti
e puita mi consillas
a prangi po s’amanti.
Passerotto triste
quanti ricordi.
Passerotto triste
se puoi consolami
piango per il mio amore.
Tristu passirillanti
cand’happess interrada
Tristu passirillanti
faimi custa cantada
cand’happess interrada.
Passerotto triste
quando sarò sottoterra
Passerotto triste
canta per me questa canzone
quando sarò sottoterra.
9. Malurous qu’o uno fenno
Sfortunato chi ha moglie
Malurous qu’o uno fenno,
malurous qué n’o cat!
Qué n’o cat n’en bou uno,
qué n’o uno n’en bou pas!
Tradèra ladèrida rèro…
Sfortunato chi ha moglie,
sfortunato chi non ce l’ha!
Chi non ce l’ha, ne vuole una,
chi ce l’ha non la vorrebbe!
Trallallera…
Urouzo lo fenno
qu’o l’omé qué li cau!
Urouz’ inquéro maito
o quèlo qué n’o cat!
Tradèra ladèrida rèro…
Felice la donna
che ha un uomo che le piaccia!
Felice ancor di più
quella che non ce l’ha!
Trallallera…
10. La fiolaire
La filatrice
Ton qu’èré pitchounèlo
gordavè loui moutous.
Lirou lirou lirou…
Lirou la diri tou tou la lara.
Quand’ero piccina
badavo alle pecore.
Lirù lirù lirù…
Obio ‘no counoulhèto
è n’ai près un postrou.
Lirou lirou lirou…
Avevo una conocchia
e chiamai un pastore.
Lirù lirù lirù…
Per fa lo biroudèto
mè domond’ un poutou.
Lirou lirou lirou…
Per far la guardia
mi chiese un bacio.
Lirù lirù lirù…
E ièu soui pas ingrato:
en lièt d’un nin fau dous!
Lirou lirou lirou…
E io non sono ingrata:
invece d’uno glie ne diedi due!
Lirù lirù lirù…
11. Azerbaijan Love Song
Da maesden bil de maenaes
Di dilamnanai ai naninai
Go shadaemae hey ma naemaes yar
Go shadaemae hey ma naemaes
Sen ordan chaexman boordan
Tcholoxae mae dish ma naemaes yar
Tcholoxae mae dish ma naemaes
Kaezbe li nintché dirai nintché
Lebleri gontchae derai gontchae
Kaezbe linini je deri nintché
Lebleri gontcha de le gontcha
Na plitye korshis sva doi
Ax kroo gomshoo nyaka mae shi
Ax pastoi xanaem pastoi
Jar doo shi ma nie patooshi
Go shadaemae hey ma naemaes yar
Go shadaemae hey ma naemaes
Sen ordan chaexman boordan
Tcholoxae mae dish ma naemaes yar
Tcholoxae mae dish ma naemaes
Kaezbe li nintché dirai nintché
Lebleri gontchae derai gontchae
Nie didj dom ik diridit
Boost ni dietz stayoo zaxadit
Ootch to boodit ai palam
Syora die limtchésti snova papalam.
Cathy Berberian, soprano, prima moglie di Luciano Berio, trovò questa canzone su un disco. Fatta eccezione per un passaggio in lingua russa, in cui, come
le spiegò un amico, l’amore viene paragonato ad una stufa, la canzone è in un
dialetto asiatico dell’Azerbaijan.
Cathy Berberian trascrisse sillaba per sillaba senza conoscere la lingua azera.
I versi sono quindi intraducibili.
Cristina Zavalloni soprano
Cristina Zavalloni nasce a Bologna. Di formazione jazzistica, intraprende a
diciotto anni lo studio del belcanto e della composizione presso il Conservatorio della sua città. Per molti anni si dedica anche alla pratica della danza
classica e contemporanea.
Si esibisce nei più importanti teatri, in stagioni concertistiche e festival jazz
di tutto il mondo. Collabora stabilmente con il compositore olandese Louis Andriessen che ha scritto per lei alcuni dei suoi più recenti lavori. È interprete di
prime esecuzioni di Carlo Boccadoro, Luca Mosca, Emanuele Casale e James
McMillan del quale ha interpretato la prima statunitense di Raising Sparks
alla Carnegie Hall di New York. Frequenta il repertorio barocco collaborando
con registi e coreografi quali Mario Martone e Alain Platel. Le sue più recenti
collaborazioni in ambito jazzistico includono Jason Moran e Benoit Delbecq.
Nel 2012 è stata ospite speciale del Premio Django Reinhardt dell’Académie du
Jazz de France, ha debuttato al Grande Auditório della Fundação Gulbenkian
di Lisbona, al Teatro Nazionale di Roma ed è stata protagonista della prima
statunitense di Anais Nin di Louis Andriessen. Nel maggio 2012 ha debuttato
alla Beijing Concert Hall e ha partecipato al progetto Strange Fruit di Fabrizio
Cassol al KVS e al Théâtre National di Bruxelles. In ottobre ha debuttato al
Konzerthaus di Vienna nell’ambito del 100° anniversario di Pierrot Lunaire di
Schönberg, con Moonsongs di Uri Caine e ha chiuso l’anno con il ritorno a Mosca alla Moscow International House con i Virtuosi Italiani, e un’esibizione a
Bangkok con Federico Mondelci e la Bangkok Symphony Orchestra.
Ha inaugurato il 2013 con una master class di canto a Cartagena (Colombia),
e a seguire il debutto nel progetto Barocco! con il gruppo Brass Bang! (Paolo
Fresu, Gianluca Petrella, Steve Bernstein, Marcus Rojas), la ripresa di Moonsongs di Uri Caine al Teatro Comunale di Modena. Tra i progetti futuri due
importanti debutti nell’ambito delle celebrazioni del centenario della nascita
di Benjamin Britten: The rape of Lucrezia a Ravenna, Reggio Emilia e al
Maggio Musicale Fiorentino e The turn of the screw al Teatro Comunale di
Bologna. Proseguirà nella tournée di presentazione del suo ultimo progetto
discografico, La donna di cristallo, assieme alla Radar Band.
Ha pubblicato per Egea Records gli album Idea (2006), Tilim - Bom (2008),
Solidago (2009), La donna di cristallo (2012).
È per la prima volta ospite della nostra Società.
Carlo Boccadoro direttore
Carlo Boccadoro ha studiato al Conservatorio “G. Verdi” di Milano dove si
è diplomato in pianoforte e strumenti a percussione. Nello stesso istituto ha
studiato composizione con diversi insegnanti, tra i quali Paolo Arata, Bruno
Cerchio, Ivan Fedele e Marco Tutino.
Dal 1990 la sua musica è presente in tutte le più importanti stagioni musicali
italiane (Teatro alla Scala, Accademia di Santa Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della RAI, Biennale di Venezia, Teatro Filarmonico di Verona, Teatro Regio di Torino, MITO/Settembre Musica, Teatro Carlo Felice di Genova,
Mittelfest, Teatro Comunale di Bologna, Ferrara Musica, Aterforum, Maggio
Musicale Fiorentino, Orchestra della Toscana, Cantiere Internazionale d’Arte
di Montepulciano, Accademia Filarmonica Romana, Teatro Massimo di Palermo e molte altre). La sua musica è stata inoltre eseguita in molti paesi tra
i quali Francia, Spagna, Germania, Olanda (Concertgebouw di Amsterdam),
Inghilterra, Scozia (Royal Academy di Glasgow), Stati Uniti (Bang on A Can
Marathon, Aspen Music Festival, Monday Evening Concerts di Los Angeles),
Giappone. Luciano Berio gli ha commissionato nel 2001 per l’Accademia di
Santa Cecilia un’opera per ragazzi, La Nave a tre piani, andata in scena nella
stagione 2005/2006 e successivamente ripresa al Teatro Regio di Torino. Per il
teatro ha inoltre composto il balletto Games (Teatro alla Scala, coreografia di
Fabrizio Monteverde) e quattro opere di teatro musicale. Nel 1998 il progetto europeo “Il suono dei parchi” coordinato da Enzo Restagno, Roman Vlad,
Gerard Grisey, George Benjamin e Louis Andriessen gli ha commissionato
il brano Über allen Gipfeln per 10 strumenti. Nel 2003 il suo brano Bad blood
per pianoforte e 5 strumenti è stato selezionato dalla RAI per partecipare alla
Tribuna internazionale dei Compositori dell’UNESCO. Nel 2009 è uscito il disco Carlo Boccadoro (RaiTrade). Nel 2011 gli sono stati commissionati diversi
brani per alcune manifestazioni e stagioni musicali: Variazioni per orchestra
per l’Orchestra Filarmonica della Scala, Point of view commissionato dalla
Wayne State University di Detroit, Ritratto di musico per la Gewandhaus Orchester di Lipsia diretta da Riccardo Chailly, Soul Brother n. 1 per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma. È tra i fondatori del progetto culturale Sentieri selvaggi.
È per la prima volta ospite della nostra Società.
Sentieri selvaggi
Paola Fre flauto - Mirco Ghirardini clarinetto
Dimer Maccaferri corno - Elena Gorna arpa
Andrea Dulbecco e Luca Gusella percussioni
Piercarlo Sacco violino e viola - Paolo Fumagalli viola
Aya Shimura violoncello
Andrea Rebaudengo pianoforte
Sentieri selvaggi viene fondato nel 1997 da Carlo Boccadoro, Angelo Miotto e
Filippo Del Corno, insieme ad alcuni tra i migliori musicisti italiani, per avvicinare la musica contemporanea al grande pubblico. Il debutto dell’ensemble
a Milano registra il tutto esaurito.
Fin dall’esordio i concerti di Sentieri selvaggi si caratterizzano per le informali presentazioni parlate di ogni brano. In 15 anni di attività ha avviato collaborazioni con i più importanti compositori della scena internazionale quali
Lang, Andriessen, MacMillan, Glass, Bryars, Nyman, Wolfe, Vacchi, che hanno scritto partiture per l’ensemble o gli hanno affidato prime esecuzioni italiane dei loro lavori. Il gruppo ha inoltre contribuito a promuovere una nuova
generazione di compositori italiani, a partire dai fondatori Boccadoro e Del
Corno per arrivare a Antonioni, Colasanti, Mancuso, Montalbetti e Verrando.
Dal 1998 Sentieri selvaggi è ospite regolare delle più prestigiose stagioni musicali italiane (Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Teatro alla Scala,
Biennale di Venezia), di importanti eventi culturali del nostro paese (Festival
della Letteratura di Mantova, Notte Bianca di Roma, Festival della Scienza di
Genova) e di festival internazionali (Bang On A Can Marathon di New York,
SKIF Festival di San Pietroburgo). A Milano il gruppo è partner dal 1998
di Teatridithalia che ospita i concerti nelle proprie sedi teatrali e, dal 2005,
organizza una stagione di musica contemporanea con concerti, incontri, master class, incentrata ogni anno su uno specifico nucleo tematico. Con l’intento
di diffondere la musica contemporanea in contesti inusuali Sentieri selvaggi
collabora anche con scrittori, architetti, scienziati, video-maker, attori, registi,
musicisti rock e jazz, realizzando progetti in spazi alternativi come gallerie
d’arte, piazze, strade, centri commerciali e università.
Il catalogo di produzioni editoriali e discografiche del gruppo conta oltre 10
titoli realizzati per Einaudi, RaiTrade, MN Records, Velut Luna, Sensible
Records. Dal 2003 incide in esclusiva per Cantaloupe Music, etichetta newyorkese fondata da Bang On A Can, per la quale ha realizzato 4 CD l’ultimo, Zingiber, è dedicato alla nuova creatività musicale italiana. Capitolo importante
nel lavoro di Sentieri selvaggi sono poi le produzioni di teatro musicale tra cui
Io Hitler di Filippo Del Corno, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello
di Michael Nyman, The Sound of a Voice di Philip Glass.
L’ensemble è per la prima volta ospite della nostra Società.
Prossimo concerto:
Martedì 28 gennaio 2014, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Enrico Dindo violoncello
Le Suites per violoncello solo di Bach sono entrate nel repertorio soltanto nel
Novecento, grazie alla leggendaria figura di Pablo Casals. In precedenza erano considerate un lavoro didattico e privo di un carattere artistico in grado di interessare il
pubblico. Oggi invece le Suites rappresentano un punto di riferimento obbligato per
qualunque interprete, che spesso torna più volte a misurarsi con questi capolavori nel
corso della carriera. Oggi è il turno di Enrico Dindo, uno dei migliori rappresentanti
della scuola strumentale italiana, che affronta il primo dei due concerti in cui ha distribuito l’Integrale. Nella prima serata Dindo interpreta le Suites di numero dispari,
anche per un motivo pratico. La Quinta Suite, infatti, prevede la scordatura del violoncello, ovvero l’intonazione della corda più acuta in sol invece che in la. Un passaggio
così brusco renderebbe poi difficile riportare in breve tempo l’intonazione allo stato
ordinario, quindi la soluzione più conveniente è di impaginare il programma in modo
da chiudere il concerto con la Suite in do minore.
Società del Quartetto di Milano - via Durini 24
20122 Milano - tel. 02.795.393
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