La storia della sicilia

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La storia della sicilia
Storia della Sicilia
La SICILIA è stata sempre un luogo dove popoli di razza, religione e lingua diversa si sono
scontrati ed incontrati, lasciando nell'isola una stratificazione di presenze quanto mai
significative. L'avvicendamento o la compresenza delle maggiori forze politiche operanti
nell'area del Mediterraneo ha movimentato la storia della Sicilia, costruendole un variegato e
singolare apporto e scambio di civiltà che ancora oggi ne connota la società ed i monumenti.
Dai primi abitatori, Sicani e Siculi, di incerta provenienza, ai Greci ed ai Fenici, fra i quali stava
costretta la popolazione Indigena degli Elimi, le coordinate della storia universale nell'isola
trovarono un insostituibile punto d'incontro.
Qui, infatti, vennero a diretto contatto le due grandi potenze che dominarono il bacino
mediterraneo e che crearono i grandi imperi talassocratici. L'espansione greca che seguì una
direttrice più settentrionale, approdò sulle coste orientali dell'isola e fondò colonie, come
Catania, Siracusa, Gela ed Agrigento, che svilupparono una propria politica ed una propria
cultura.
I tiranni di Siracusa, soprattutto al tempo di Dionigi il Vecchio, tentarono la conquista di tutta
l'isola, confrontandosi con l'altra potenza mediorientale, la Punica, che da Cartagine aveva
consolidato la sua presenza nell'isola, con gli insediamenti di Mozia, Lilibeo, Erice, Panormo e
Solunto. Gli scontri ai confini delle rispettive aree d'influenza si ebbero a Selinunte, al Sud, e ad
Himera al nord (480 a.C.)
Nella realtà la presenza greco-cartaginese perdurò sino a quando sul Mediterraneo si affacciò
Roma. Furono i Romani che sottomisero le colonie greche e che con le guerre puniche
acquisirono anche quella cartaginese. Da allora l'isola seguì le vicende della crescita della
potenza di Roma, divenendone una provincia indispensabile per la politica e per l'economia
della Repubblica e dell'Impero.
Le rivolte servili ed i saccheggi del pretore Verre, denunciati da Cicerone, furono, fra il II ed il I
sec. a.C., i momenti salienti della dominazione romana in Sicilia. Quando l'Impero declinò e
sull'Occidente europeo si abbatterono i barbari, l'isola risentì subito le ripercussioni della
trasformazione radicale che maturava in quella realtà nuova, la Romània, erede della Romanità.
Il momento barbarico della Sicilia va dal 440 al 535: da quando cioè, il capo dei Vàndali,
Genserico, occupata la provincia d'Africa e padrone di una flotta, impose la sua potenza
egemonica in tutto il Mediterraneo occidentale.
La Sicilia, pertanto, rimase sotto il dominio vandalico, sino al 476, quando divenuto Odoacre re
dell'Italia, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augustolo, il re
dei Vàndali gli cedette a certe condizioni la Sicilia, ad eccezione dell'enclave di Lilibeo. Dopo
l'esperienza odoacriana, l'isola passò in mano ai Goti, quando Teodorico il Grande, subentrò al
re degli Eruli nel regno barbarico d'Italia (495). E si può ben dire che la Sicilia barbarica visse
un momento di grande tranquillità e di certa prosperità.
Questa venne interrotta, allorquando Giustiniano, imperatore d'Oriente, tentò di ricostituire
l'integrità territoriale dell'antico "imperium romanum".
Conquistato, senza grandi difficoltà l'impero vandalico d'Africa (534), il generale di Giustiniano,
Belisario, occupò la Sicilia, che gli serviva come base per la riconquista della penisola italiana.
La campagna militare per l'occupazione di tutta l'isola fu quanto mai rapida (535), dato che
erano poche le guarnigioni gotiche e, comunque, non in grado di contrastare l'avanzata del
corpo di spedizione bizantino. Il processo di bizantinizzazione permeò di apporti orientali la vita
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isolana, consentendo però una sopravvivenza dell'elemento latino indigeno.
Cultori e letterati prosperarono in Sicilia, come i papi Agatone, Leone e Sergio, e Giorgio di
Siracusa. Una cultura che continuò a vivere anche dopo l'occupazione musulmana dell'isola e
che ebbe a rappresentanti di rilievo gli innografi San Metodio e San Giuseppe l'Innografo.
L' 827 segnò il momento dello sbarco musulmano a Mazara, che preluse alla conquista di tutta
l'isola, in pratica sempre più lontana dalla vita dell'Impero d'Oriente e ormai ritenuta terra d'esilio
e di deportazione. Nell'831 cade Palermo, nell'865 Siracusa e solo molto più tardi le ultime
roccaforti della resistenza bizantina.
L'organizzazione dell'emirato fece centro su Palermo, che divenne la nuova capitale dell'isola
soppiantando la vecchia Siracusa e venne ristrutturata in funzione anche di emporio
commerciale. Le ripercussioni delle lotte interne, che dilaniavano il Maghreb, si ripercossero in
Sicilia avviando un lento e mai più arrestato processo di destabilizzazione, che consentì, a metà
del sec. XI, ai Normanni del Mezzogiorno d'Italia, di avere ragione della forte presenza
musulmana nell'isola.
Il ritorno della Sicilia all'Occidente si ebbe con i Normanni, con quegli avventurieri che calati
nell'Italia meridionale bizantina, si erano a poco a poco impadroniti della Puglia, della Basilicata,
della Campania e della Calabria e che, con Roberto il Guiscardo tentarono di conquistare lo
stesso impero orientale.
Nella fase della grande espansione normanna, per la Sicilia si concepì una precrociata che
avrebbe scacciato gli infedeli musulmani dal centro del Mediterraneo. L'impresa condotta dal
più giovane dei fratelli Altavilla, Ruggero, con l'appoggio del capo carismatico Roberto il
Guiscardo, durò trent'anni (1061-1091). Con fasi alterne e con l'appoggio di Ibn Tymnah, alla
fine i Normanni entrarono a Palermo (1071), che rimase capitale della contea.
Còmpito dei nuovi conquistatori fu quello di creare le strutture del nuovo Stato: amministrative,
finanziarie, feudali, religiose, approfittando, anzi sfruttando le competenze delle varie etnie
presenti nell'isola al momento della conquista.
L'età normanna in Sicilia significò un irripetibile momento magico, per le conquiste e per le
creazioni artistiche e letterarie.
Politica e cultura convissero per il costante impegno mecenatico dei sovrani normanni, che con
Ruggero II (1101-1154) avevano ottenuto anche l'incoronazione regia. Se nel campo delle arti
per l'epoca ruggeriana, primeggiano monumenti eccelsi, quali la Cappella Palatina Maredolce,
le Cube, le Cattedrali di Palermo e di Cefalù, i successori di Ruggero II, Guglielmo I (1154 1166) e Guglielmo II (1166-1189) non furono da meno: la Zisa e la Cattedrale di Monreale, con
il Chiostro benedettino, furono gli apporti più importanti. Nello stesso tempo, i grandi funzionari
del nuovo Stato, come l'Ammiraglio Giorgio d'Antiochia e il primo ministro Maione da Bari,
seguirono l'esempio dei loro sovrani e fondarono a proprie spese quei gioielli che sono le
chiese di Santa Maria dell'Ammiraglio, detta la Martorana, e San Cataldo.
Il declino del regno normanno aprì le porte alle aspirazioni imperiali degli Svevi. Il matrimonio di
Costanza D'Altavilla con Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico I Barbarossa, consentì la
discesa in Sicilia di Enrico, la sua incoronazione a Palermo e lo sterminio degli ultimi epigoni
della dinastia normanna siciliana.
Ma il marito di Costanza non poté godersi a lungo il possesso del regno meridionale, essendo
morto nel 1197, in una campagna contro i ribelli isolani.
L'età sveva trovò il suo grande esponente in Federico II (1196-1250), nato da Costanza ed
Enrico. Il nuovo re di Sicilia, che nel 1220 venne eletto imperatore, fece dell'isola la base della
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sua politica imperiale.
Alla sua morte (1250), il regno meridionale passò al figlio Corrado IV e, nel 1254, a Manfredi.
L'età sveva ebbe sviluppi impensabili sul piano della giurisprudenza, della letteratura in latino,
delle scienze sperimentali e della poesia in volgare.
Alla sua morte, esecrata dal papato e dai suoi avversari europei, la corona venne data a Carlo
d'Angiò, fratello di Luigi IX il Santo, re di Francia. E col pretendente francese si confrontarono
prima Manfredi, che venne eliminato nella battaglia di Benevento (1266) e poi il piccolo
Corradino, sconfitto a Tagliacozzo e fatto decapitare dall'Angioino (1268). Ma la dominazione
angioina nel regno di Sicilia, che avrebbe dovuto spianare a Carlo I la via per la conquista
dell'Impero d'Oriente, fu mal sopportata dai Siciliani, che non seppero adattarsi all'arroganza dei
nuovi signori.
La rivoluzione del Vespro, scoppiata a Palermo il 31 marzo 1282, determinò ben presto lo
sterminio dei francesi e la cacciata degli Angioini dall'isola. Al proprio sovrano i Siciliani scelsero
Pietro III d'Aragona, che aveva sposato Costanza figlia di Manfredi.
Con questa scelta si aprì un lungo periodo di guerre continue col regno angioino di Napoli e,
alla fine, la guerra civile, scatenata nell'isola dalle grandi famiglie baronali, quali i Chiaramonte,
Ventimiglia, Rosso, Aragona, Peralta, ecc.
Il processo di declino del regno aragonese di Sicilia che investe i regni di Pietro II (1337-1342),
di Ludovico (1342-1355) e di Federico IV (1355-1377), trovò il suo sbocco in una riconquista
aragonese dell'isola, che venne realizzata da Martino l'Umano, per conto del figlio, anche lui di
nome Martino, al quale era stata data in moglie la regina Maria, erede del quarto Federico.
Martino il Giovane (1392-1409) ebbe a sostenere una lunga lotta contro l'indomabile
baronaggio siciliano ed, alla fine, perdette la vita in Sardegna, dove si era recato, per conto del
padre re d'Aragona, a domare un'ennesima sollevazione dei Sardi. Era rimasta in Sicilia a
tenere il potere come vicaria, Bianca di Navarra, seconda moglie del giovane Martino. E contro
di lei, alla morte di Martino il Vecchio, che era succeduto al figlio in Sicilia (1410), si era
scatenato il grande ammiraglio del regno, Bernardo Cabrera.
La nuova guerra civile, che travagliò l'isola per alcuni anni, fece scadere il regno a viceregno,
quando sul trono d'Aragona venne eletto, a Caspe, Ferdinando d'Antequera. Bianca venne
richiamata alla corte iberica ed in Sicilia fu inviato come viceré Giovanni duca di Penafiel. Per
evitare pericoli autonomistici dei Siciliani, Alfonso V il Magnanimo (1416-1450) diede inizio ad
una serie di viceré scelti da lui con oculatezza. Re Alfonso, che fu in Sicilia nel 1320, nel suo
viaggio alla conquista del regno napoletano, seppe sfruttare con spregiudicatezza le risorse
finanziarie dell'isola in favore della sua politica mediterranea e, soprattutto, di quella italiana.
Con la morte del Magnanimo si aprì l'epoca spagnola, dato che il re napoletano volle che i due
regni di Sicilia venissero divisi e che quello isolano fosse unito alla corona d'Aragona. Era
anche il momento in cui maturava la grande Spagna dei re cattolici; era l'età delle grandi
scoperte geografiche e scientifiche; era il tempo in cui, con Maometto II ed i suoi successori, la
potenza turca partiva alla conquista dell'Occidente. In questi nuovi equilibri politico-militari, la
Sicilia venne ad assumere una posizione strategica di grande rilievo, considerata come
antemurale contro l'aggressione ottomana.
In una tale ottica la storia di Sicilia del primo Cinquecento venne adeguata alla nuova funzione
di punto di forza sia contro i Turchi che contro i pirati barbareschi. Le fortificazioni che la
cinsero, torri e castelli, l'aumento delle guarnigioni e la scelta dei viceré obbedivano a questa
fondamentale istanza. Non a caso nel 1535 Carlo V desiderò visitare l'isola ed entrare
trionfalmente a Palermo.
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Nel Seicento nella Sicilia spagnola, che vide il trionfo dell'effimero in campo artistico, si aggravò
la situazione economica, dato che le carestie resero deserte le campagne e la fame dilagò per
le grandi città. Una sollevazione si ebbe a Messina (1646), ma diversa ampiezza e risonanza
ebbe quella scoppiata a Palermo l'anno successivo. La folla assalì il palazzo di città, liberò i
prigionieri della vicaria e compì altri eccessi. Se questa rivolta poté essere domata dal viceré
Los Velez, che fece impiccare il capo, Nino La Pelosa, maggior successo ebbe quella, che
immediatamente seguì, delle maestranze artigiane palermitane, capeggiata da Giuseppe
D'Alesi. Questi, dopo la cacciata del viceré, fu eletto capitano generale e tentò l'instaurazione di
un governo popolare. Fece abolire privilegi e gabelle e fece eleggere tre giurati popolani e tre
nobili. Ma Giuseppe D'Alesi venne ucciso il 22 agosto 1647, abbandonato da tutti.
Il trattato di Utrecht (1713) assegnò la Sicilia al duca di Savoia Vittorio Amedeo II, che in quello
stesso anno raggiunse Palermo. Nel 1714 si fece votare due donativi dal parlamento, per poi
ripartire per il Piemonte, carico di beni ed accompagnato da uomini di cultura, come l'architello
Juvara. Lasciò come viceré il conte Maffei, che dovette affrontare la campagna del cardinale
Alberoni, che voleva riportare con la forza la Sicilia sotto la Spagna. La spedizione del 1718
fece ritirare i savoiardi nell'interno dell'isola. Ma il trattato dell'Aia (1720), voluto da Austriaci ed
Inglesi, portò l'isola sotto Carlo VI d'Austria, che nominò viceré il duca di Monteleone. Dopo i
Savoia, gli Austriaci continuarono ad impoverire la Sicilia, con un eccessivo fiscalismo che fece
rimpiangere gli Spagnoli. Filippo V di Spagna investì Carlo del regno delle due Sicilie. E Carlo
venne nell'isola facendosi incoronare a Palermo (30 giugno 1735). La pace di Vienna (1738) gli
riconobbe il titolo.
La Sicilia si attendeva dal nuovo sovrano la soluzione dei suoi molti problemi; in realtà, Carlo III
avvertì le istanze dei Siciliani e con una intelligente politica riformista tentò di sollevare i suoi
sudditi isolani dalle condizioni di estrema miseria in cui versavano.
L'ondata riformistica non s'interruppe col passaggio di Carlo sul trono di Spagna alla morte di
Ferdinando VI (1759) e con la cessione del regno delle due Sicilie al figlio Ferdinando, perché
in Sicilia giunse come viceré Domenico Caracciolo, un innovatore intelligente, seguace delle
teorie illuministiche francesi. Egli, infatti, attuò riforme contro i privilegi del baronaggio e
soppresse il famigerato Tribunale dell'Inquisizione (1782). Ma l'epoca del Caracciolo fu anche
quella in cui si andò aggravando il distacco della Sicilia da Napoli, con contrasti che investirono
la stessa monarchia borbonica, che non poteva a sua volta tollerare le spinte autonomistiche
siciliane.
Se, infatti, i principi della rivoluzione francese trovarono vivaci resistenze, tuttavia il
giacobinismo penetrò nell'isola attraverso la massoneria. Ne fu esempio la congiura, soffocata
nel sangue, di Francesco Paolo Di Blasi, che avrebbe dovuto rovesciare la monarchia e
proclamare la repubblica (1795).
La delusione per l'atteggiamento di re Ferdinando permase anche quando per due volte il
monarca napoletano fu costretto dagli avvenimenti a rifugiarsi in Sicilia: nel 1798, quando venne
proclamata la repubblica partenopea, e nel 1806 dinanzi al pericolo napoleonico. Ferdinando,
infatti, piuttosto che esaudire i desideri autonomistici dei Siciliani, si servì dell'isola solo per la
riconquista del Napoletano.
Tuttavia, con l'appoggio inglese ed in particolare di lord Bentink, la Sicilia ottenne una
Costituzione, esemplata sul modello inglese da Paolo Bàlsamo, che venne approvata dal
parlamento il 19 luglio 1812 e sanzionata dal re il 10 agosto. Il testo costituzionale ribadiva
l'indipendenza della Sicilia da Napoli, la distinzione dei tre poteri e definiva il parlamento
bicamerale, con una Camera dei Pari ed una dei Comuni. Ma la costituzione venne rinnegata
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da Ferdinando quando il Congresso di Vienna (1816) gli confermò la corona delle due Sicilie.
Il malcontento antiborbonico si configurò nella penetrazione della Carboneria in Sicilia,
diffondendosi nella borghesia e nel clero. I moti del '20 furono repressi con la forza militare; così
che il ripristino dell'assolutismo portò ad una intensificazione dell'azione dei carbonari. La
sollevazione capeggiata da Domenico Di Marco e le altre di Siracusa e Catania, scoppiate
durante il colera del 1837, non ebbero esito e furono soffocate dal generale Del Carretto.
Ma ormai si era creato il presupposto con le idee e con la stampa per una rivoluzione di massa.
I moti del 1848, capeggiati da Giuseppe La Masa a Palermo, dilagarono per tutta la Sicilia: Il
Parlamento Siciliano si riunì per l'ultima volta il 19 aprile 1849 e aggiornò i suoi lavori all'1
agosto. Ma poiché la resistenza dei 14.000 uomini della male armata e mal diretta Guardia
Nazionale venne travolta dalle preponderanti forze svizzero-napoletane guidate dal generale e
principe di Satriano Carlo Filangieri, anche Palermo, dopo alcuni giorni di eroica difesa popolare
cadde il 10 maggio in mano al nemico, il quale restaurò così lo statu quo ante del suo regime
repressivo di ogni libertà.
La restaurazione borbonica fu travagliata da cospirazioni che ne minavano l'attività: come
quella di Nicolò Garzilli (1850), come gli arresti di Salvatore Spinuzza e di Francesco
Bentivegna (1853), come la spedizione da Malta promossa da Giovanni Interdonato.
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