Giandomenico Curi
Il tempo del bambIno
e della stella
come cantavano gli italiani il natale
Edizioni Kurumuny
Sede legale:
Via Palermo, 13 – 73021 Calimera (Le)
Sede operativa:
Via S. Pantaleo, 12 – 73020 Martignano (Le)
Tel. e Fax 0832 801528
www.kurumuny.it – [email protected]
ISBN 978-88-95161-88-4
Illustrazione di copertina: Francesco Cuna, ispirata dalla foto di Renato Morelli
Progettazione grafica: Alessandro Sicuro
Concept: B22
Remastering ADD Corrado Productions – Supersano (Le)
Chiuso in stampa nel mese di novembre 2012
© Edizioni Kurumuny – 2012
A Eva, Danchiu, Mengji e Lenuca “Tutsa”
bambini rom senza stelle,
bruciarono vivi l’11 agosto 2007
sotto un cavalcavia alla periferia di Livorno.
&
A Raul, Fernando, Sebastian e Patrizia
bambini rom bruciati vivi a Roma
domenica 6 febbraio 2011
nella loro baracca sulla via Appia.
Nanniseddu nanniseddu
no zuchete manteddu
no zuchete corittu
in tempus de vrittu
no narat titia
dormi vida e coro
reposa a ninnia.
(Ninna-nanna di Natale sarda).
(Bambino piccolino/ non ha pannolino/ non ha giubbino/ in questo tempo freddo/ non si lamenta/ dormi
vita e cuore mio/ riposa e fai la nanna).
Indice
Capitolo primo
9
Da dove vengono i canti di Natale
1.1. Da dove vengono i canti di Natale
1.2. Perché non si canta più nemmeno a Natale?
1.3. Dove ce sta Gesù se sona e canta
1.4. Presepi e zampogne
1.5. Cosa cantano gli italiani a Natale
Capitolo secondo
31
Natale a Napoli: da sant’Alfonso alla Cantata
dei pastori
2.1. La trasformazione della scena napoletana
2.2. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori
2.3. La cantata dei pastori
Capitolo terzo
45
La Novena in Sicilia, nel basso Lazio e in Veneto
3.1. La Novena di Natale
3.2. La Novena siciliana
3.3. La Novena nel basso Lazio
3.4. Cantar Natale (la Novena in Veneto)
Capitolo quarto
70
Il ciclo delle feste e i canti di questua nel
centro-nord Italia
4.1. Di alcune usanze e significati del ciclo annuale
delle feste
4.2. Origine, struttura e forme del canto di
questua a Natale
4.3. Questua della Pasquella
Capitolo quinto
88
Feste a centro-sud e isole
5.1. Le Befanate
5.2. Canti di questua del Capodanno: bambini, gobbule
e impreviste ridistribuzioni di beni
5.3. Il canto della questua a sud:
strine, ‘nferte e altri canti di Capodanno
Capitolo sesto
118
La questua con la Stella
6.1. La tradizione della Stella e i Sacri canti
6.2. Le zone e le modalità del canto e del rito
Capitolo settimo
137
Antologia dei canti di Natale
7.1. Cosa cantano gli italiani a Natale
7.2. La scena napoletana
7.3. Le Novene
7.4. Canti di questua nel centro-nord
7.5. Canti di questua nel centro-sud
7.6. I canti della Stella
173
Bibliografia essenziale
176
Presentazione dei brani contenuti nel CD
185
Ringraziamenti
Capitolo primo
Da dove vengono i canti di Natale
Per la notte di Natale in ogni casa si pone sul focolare un Zocco o ciocco che si
tiene acceso per tre giorni… Si crede che ad ogni focolare la Madonna vada a
riscaldare il suo bambino… Dopo i tre giorni l’avanzo del ceppo portasi nella
vigna o nel campo perché siano liberi dalla tempesta…
(Da un antico lunario contadino stampato a Forlì).
Mia cara madre sta pe’ trasì Natale/ e a stà lontano cchiù me sape amaro./
Comme vurrìa allummà duje o tre biangale/ come vorria sentì nu zampugnaro.// A ‘e ninne mieje facitele ‘o presebbio/ e a tavula mettite ‘o piatto mio./
Facite quann’è ‘a sera d’‘a vigilia/ come si ‘mmiez’a vuje stesse pur’io.
(Bovio-Buongiovanni, Lacreme napulitane).
1.1. Da dove vengono i canti di Natale
Da dove vengono i nostri canti di Natale? Come sono arrivati fino a
noi i testi e soprattutto le melodie (quelle che sono arrivate)? Molte
cose sono state affidate alla tradizione orale e popolare, altri documenti hanno trovato il conforto e la protezione del testo scritto, dell’armonizzazione di maestri appassionati, e poi le antologie, i fogli
volanti, e soprattutto la pratica esecutiva, il fatto cioè che molti canti
continuano ad essere cantati e riproposti di anno in anno, per cui oggi
si continua a intonare Tu scendi dalle stelle, Fermarono i cieli, Rallegratevi pasturi, O verginella figlia di sant’Anna e così via, allo stesso modo
9
dei nostri nonni e bisnonni. è cambiato semmai il suono, l’accompagnamento, il cosiddetto arrangiamento: per esempio alle volte sparisce la zampogna, ma resiste l’organo, e altre cose del genere.
Ma da dove vengono i canti di Natale? Il Vangelo dice che i primi a
cantare il Natale furono gli angeli, discesi dal cielo in terra per annunciare e festeggiare la nascita del Redentore. Ma ben presto anche gli
uomini e le donne si sono messi a celebrare il Natale cantando. La
gente aveva voglia di cantare, anche in tempi per niente allegri. E così
canti e laudi hanno cominciato a riempire le chiese, tutti ad annunciare
la Buona Novella e la Grande Speranza della Natività. Nel cuore dell’inverno, in giro per i villaggi, nei castelli, dentro le case e le capanne,
la gente, tutti, ricchi e poveri, cantavano per allontanare le paure delle
interminabili notti invernali.
Forse all’inizio le storie di Natale si confondevano con storie più antiche e pagane. Quando non c’era ancora il Natale, in quella data del 25
dicembre i Romani festeggiavano il “sole invitto”, cioè il sole che ricominciava ogni giorno a risalire sull’orizzonte e a regalare più luce e calore alla terra. E poiché per i cristiani il Messia è il “sole di giustizia”, la
“luce vera”, era facile sovrapporre le due feste. La gente aveva voglia di
«uscire dalle tenebre per andare verso la luce vera» con canti e balli,
canzoni che ricordano la nascita di Cristo ma anche l’amore per la natura
che torna a nascere, per la vita che riprende. Poi con gli anni i canti di
Natale sono cresciuti, sono cambiati, si sono moltiplicate le tradizioni,
gli stili, i modi e i moduli. E ancora oggi, nonostante tutto, sono il modo
migliore e più bello di interpretare e trasmettere lo spirito del Natale.
10
Ma da dove vengono i canti di Natale? I primi canti di Natale erano canti
di chiesa, oppure inni liturgici, sempre rigorosamente in latino. Poi pian
piano negli anni al latino subentra la lingua volgare, o direttamente il dialetto. La tradizione popolare, che non ha troppa dimestichezza con il latino, se ne impadronisce a modo suo, trasformando testi e musiche di
generazione in generazione. Tutto avviene molto lentamente e nel più
grande anonimato. I primi canti di Natale, di cui si ha memoria, risalgono
al Medioevo, ma è a cavallo tra Seicento e Settecento che cominciano ad
apparire i brani di cui si ha una qualche certezza storica. è certo, per
esempio, che la maggior parte delle canzoni natalizie utilizzassero arie
di canzoni molto antiche. Per esempio quelle del Settecento riprendevano
moduli e melodie precedenti, del Cinquecento, del Seicento. Solo un piccolo gruppo aveva ed ha una melodia tutta sua. Perché una volta l’originalità di un brano musicale non era importante. La musica era fatta per
essere cantata dalla gente, insieme a un testo. I testi viaggiavano sui fogli
volanti, la musica sul passaparola, attraverso i musicisti e i cantanti di
strada e le mille risorse della diffusione orale. E quando serviva, bastava
poco a trasformare la melodia di una canzone d’amore in un canto di Natale. Si cambiavano le parole, e la rima serviva ad aiutare la memoria.
è così che funziona la musica popolare, non si pone troppi problemi
di pertinenza o di diritti d’autore. E il Natale con il suo rituale è soprattutto un fatto popolare. Proprio a cominciare dai canti, che raccontano le storie della nascita di Gesù in modo molto semplice, diretto,
pittoresco, ingenuo. Esprimono un sentimento religioso, laico e popolare, mai una liturgia ortodossa.
11
E questo succede almeno a partire dal Cinquecento, quando finisce
il teatro religioso sotto i colpi della critica luterana, che accusa la
Chiesa cattolica di abbindolare i suoi fedeli più semplici attraverso
feste, riti, pratiche superstiziose e teatrali, cioè pagane. La risposta
della Chiesa è una riforma, poi sancita dal Concilio di Trento, che stabilisce una netta separazione tra il sacro e il profano. E di profano ce
n’era molto (il corpo, la comicità, la libera parola, la fantasia, l’irruzione
del quotidiano e dell’istinto). D’ora in poi la liturgia ufficiale sarà riservata al clero, e le forme devozionali al popolo, ai laici. Questo non
significa però che gli ecclesiastici non prendessero in considerazione
dei momenti di espressione profana, riciclati in chiave morale e didattica, e magari in chiave anti-protestante, come succederà per esempio
con i Canti della stella.
Sono le cosiddette “laudi a travestimento spirituale”, che hanno lo
scopo dichiarato di divulgare anche fra il popolo la giusta dottrina
della Chiesa. Che significa, per quanto riguarda il canto, una serie di
testi a carattere religioso e morale adattati e ricantati sulla melodia di
famose canzoni profane, in modo che la gente possa impararle con
maggiore facilità.
E proprio i canti di Natale hanno un grande successo. Perché hanno
un’immediatezza e una dolcezza diverse, avvicinano la gente al mistero dell’Incarnazione, rendendo così uomini e donne un po’ più
buoni almeno a Natale. Questo succede soprattutto con s. Alfonso de’
Liguori, che trasforma le “laudi a travestimento spirituale” nelle sue
famose canzoncine spirituali. E sempre dal santo napoletano arrivano,
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subito dopo, anche le prime grandi pastorali (un misto di musica cantata e strumentale), che viaggiano, attraverso le novene, dalle canne
degli organi delle chiese a quelle delle zampogne di strada. Ma tutti i
canti di Natale, quale che sia la loro origine e la loro bellezza, hanno
questo strano potere di invitare la gente al raccoglimento e insieme
alla gioia. Hanno un che di infantile e di struggente insieme. Qualcosa
che fa tremare la voce e il cuore. E soprattutto, attraverso questi canti,
sembra ogni volta farsi strada, a Natale, la dolcezza del mistero e della
speranza, di una salvezza (in tutti i sensi) ancora possibile.
1.2. Perché non si canta più nemmeno a Natale?
«Vive ancora in Italia, – scriveva Paolo Toschi in La poesia popolare
religiosa in Italia, Loschi editore, Firenze 1935 – cresciuta sullo stesso
terreno della religione cristiana, una ricca messe di leggende, di preghiere, di canti, di tradizioni religiose, nata per opera spontanea del
popolo». E Maria Adelaide Spreafico, parlando delle canzoncine devote
raccolte in Brianza, e che lei definisce “canzonetta de ben” o “storî”,
aggiunge: «Di tutta la produzione popolare, la canzone religiosa è
senza dubbio una delle più interessanti e delle più caratteristiche perché in essa sfocia tutta la poesia dei sentimenti di fede, di morale e di
superstizione che costituiscono il ricco patrimonio spirituale delle nostre umili popolazioni». Le umili popolazioni della brava Spreafico non
ci sono più. Ci sono altri umili, più o meno poveri e disperati. Ma non
cantano. Gli umili di allora sono diventati masse di persone, indiffe13
renziate e globalizzate, sparse tra la città e la campagna (quella che
una volta era la campagna). Tutta gente figlia, chi più e chi meno, dei
mass media, del cellulare e del miracolo berlusconiano, che a volte
sembrano anche felici, ma che, con ogni probabilità, hanno dimenticato per sempre i suoni e le parole che hanno fatto la loro identità e il
loro passato.
E tra questi suoni e queste parole ci sono anche i canti di Natale, che
si stanno allontanando sempre più dal nostro orizzonte religioso, o
comunque antropologico o di costume. E allora ecco qualche altra domanda: che fine hanno fatto i canti di Natale, con il loro immaginario
popolare e devoto che da sempre si portano dietro? Perché tende a
sparire dalle nostre feste anche quell’“odore di Gerusalemme” di cui
parlava Fabrizio De André? E, più in generale, perché questa disarticolazione precisa e metodica di un’esperienza di popolo, di cui parlava
già Pasolini negli anni Cinquanta? E perché la stessa Chiesa tende a
prendere le distanze da una tradizione che, certo, non è la liturgia ufficiale, ma comunque rappresenta il senso autentico di un’esperienza
di fede popolare?
Intanto va subito fatta una premessa, piccola ma importante. E cioè
che la tradizione dei canti popolari sacri (soprattutto quelli di Natale)
è ancora abbastanza radicata nel nostro paese. Solo che non si sa, non
si dice. C’è una sorta di distrazione (o di rimozione), dovuta probabilmente all’ignoranza (ma non solo), per cui del canto popolare religioso
si sa poco, ha difficoltà ad essere messo in scena, forse perché dura un
pregiudizio legato probabilmente, da una parte, a una pratica chiusa
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e devozionale, e dall’altra a un folclorismo troppo facile, e comunque
vecchio e ormai inutile.
Perché, dicono, il Natale è cambiato, profondamente, soprattutto a
partire dal dopoguerra, dagli anni del boom economico. Fino ad allora
era veramente la festa più importante dell’anno, la festa (o le feste)
per eccellenza. Poi è arrivata la modernità, come dicevano gli anziani
di allora, «è arrivata la radio e la televisione, ci hanno rubato i canti e
le canzoni». E anche tutto il resto, Novene e zampogne, pastorelle e
chiare stelle. Anche il prete in chiesa preferisce il CD di White Christmas, invece di quelle belle pastorali di una volta, quando la gente
cantava. Perché il canto e la musica erano i primi segnali dell’Avvento,
i primi annunci dell’avvicinarsi dell’inverno e del Natale. La musica
popolare che dava il senso vero dello spirito religioso e povero della
Natività, quella che arrivava da zampogne e ciaramelle, ma anche,
sempre per strada, da altri strumenti tradizionali come organetti,
mandolini, fisarmoniche. A Roma li trovavi un po’ ovunque, agli angoli
delle strade, vicino alle immagini della Madonna (“madonnelle”) e ai
presepi, naturalmente a piazza Navona. Ma anche fuori Roma, per le
strade che portano ai Castelli, cominciavano a farsi vedere i “pasquellari”, che, secondo la tradizione, intonavano canti di questua in onore
del Bambinello, sul ritmo di un saltarello benaugurante che passava
di porta in porta, di casale in casale. Ma i primi a farsi vivi erano gli
zampognari, come ricorda Costantino Manes nel suo diario romano
del 1893: «Questi zampognari scendevano dalle loro montagne
d’Abruzzo per suonare davanti alle Madonnelle romane… Percorre15
vano, numerosi, le vie e dando fiato al clarino e alla zampogna facevano udire ariette villerecce e le patetiche note delle loro nenie Pastorali… All’arrivo dei pifferai, al musicale tremolio delle ciaramelle, la
gioia si spandeva nelle case di tutta Roma…».
Altri tempi, che hanno ben poco a che fare con quelli che stiamo vivendo. E allora una prima risposta alle nostre domande sta proprio qui.
Quella era una musica (non solo quella di Natale) che nasceva dal popolo ed era destinata al popolo. Funzionava all’interno di un preciso
contesto culturale e religioso. Non funziona invece per un consumo di
massa indiscriminato. Oggi c’è una secolarizzazione che contagia tutto
e tutti. A cominciare dai cattolici praticanti e dallo stesso ceto ecclesiastico. Oggi anche per gli eventi in Vaticano si chiamano le rockstar invece degli zampognari. Eppure le zampogne dei pastori sono come un
organo portatile che ha dato solennità e bellezza a tante celebrazioni
religiose. La gente diceva che il suono della zampogna era la voce di
Dio (mentre quella dell’organetto o del tamburo era la voce del diavolo)
e Roberto De Simone in un suo racconto scrive che le quattro canne
della zampogna rappresentano le quattro età dell’uomo. Benedetto XVI
vuole tutelare la tradizione alta, a cominciare dal gregoriano e dal latino. Ma a Betlemme c’era sì il sublime canto degli angeli, ma anche
quello molto più umano dei pastori. E nel repertorio dei canti natalizi
ci sono, per esempio, le canzoncine spirituali di sant’Alfonso, che non
solo è l’autore di Tu scendi dalle stelle (la prima vera canzone popolare
italiana, il cui successo valicò i confini del Regno di Napoli per raggiungere l’intera nazione), ma sant’Alfonso è un vero apostolo della fede,
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colui che, con la dottrina e il sentimentalismo delle sue “canzoncine
spirituali”, ha tentato di rendere più pii lazzari e cafoni.
1.3. Dove ce sta Gesù se sona e canta
Ma al di là della connotazione polemica, quello che ci interessa è l’Italia che stava (e in parte ancora sta) dietro a questi canti, l’Italia contadina, ma anche piccolo-borghese, che si ritrovava a Natale, a cantare
insieme. Una voglia di canto che contagia tutti, forse perché per i credenti (ma non solo) il canto di Natale non è più soltanto d’attesa, ma è
anche di gioia per “l’avvenuta profezia”. E si può finalmente esultare
alla «capanna santa: Dove ce sta Gesù se sona e canta» (come dice un
canto marchigiano, Natu natu Nazarè). C’è qualcosa di commovente in
questo umile attaccamento popolare al fatto di Betlemme. In un’altra
canzoncina, sant’Alfonso ci racconta come i pastori, «pigliata confidenza, se miettettero a sonare, e a cantà co’ l’angeli e co’ Maria», e come
ci sia quasi una sovrapposizione tra l’annuncio della buona novella del
Messia e i canti della Novena di preparazione al Natale.
E se uno si mette ad ascoltarla, questa musica, scopre cose sorprendenti anche laddove non lo avrebbe mai immaginato. Anche in una Befanata (canto di questua un po’ scanzonato che si esegue la notte
dell’Epifania), raccolta dal modesto e metodico Giannini sui monti
della Lucchesia, ci si imbatte in alcune strofe che fanno pensare, e non
solo i credenti. Come quando il cantante del gruppo della questua annuncia che
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Quel bambin che per no’ nacque/ da Maria vergine e madre/ figlio uguale al Divin
Padre/ che incarnarsi si compiacque// fu dal Padre a noi mandato/ per divin decreto
eterno:/ per salvarci dall’inferno/ ed aprirci ‘l ciel serrato.
Che è quasi un piccolo trattato teologico. E subito dopo, raccontando
il viaggio dei Re Magi (perché di questo trattano le questue della Befana), basta una strofa di ottonari per darci esattamente il senso di
un’incertezza e di una paura che passano attraverso l’oscurarsi della
stella cometa nel momento dell’arrivo alla reggia del terribile Erode:
Quella intanto è guida e luce/ nell’orror di stagioni cruda./ Giùnti essendo a’ re di
Giuda/ il bell’astro più non luce.
La musica è allegra, da questua, ma questo nulla toglie alla concentrazione e all’intensità che riesce man mano ad accumulare.
Abbiamo parlato poco sopra di musica di popolo, e questo è un altro
elemento costante che emerge da questi canti natalizi. C’è come l’idea,
continuamente, di un grande paesaggio in movimento, affollato di persone, di vita, di facce, di storie, di fede. Ma è una fede di tutti giorni che
leggi nella serenità e nella contentezza della gente per strada. Sarà
anche il riferimento alla inevitabile presenza del presepio, ma le storie
di Natale, i fatti della Natività (spesso ampliate dalle notizie prese dai
Vangeli apocrifi) hanno sempre questo contesto brulicante e allegro
di persone, animali, strade, case, voci, canti, suoni e musiche. «Nei
giorni che precedono il Natale, suonatori ambulanti d’organetti, di chitarre, di cornamuse e di acciarini scacciapensieri fanno la Novena innanzi alle porte delle botteghe per poi riscuotere un tenue compenso»
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(G.B. Marzano, Usi e costumi in Laureano di Borrello e nei paesi del suo
Mandamento).
Penso soprattutto allo straordinario repertorio natalizio siciliano
(ma non solo), e alle mille voci di cantanti popolari che hanno dato
profondità e verità a questi canti, dalla superba Rosa Balistreri (Canti
di Sicilia) al meraviglioso Otello Profazio di Gesù Giuseppe e Maria. In
questi canti, filastrocche e ninne-nanne, è normale incontrare Gesù
Bambino, la Madonna, san Giuseppe o altri santi in momenti qualsiasi
di vita vissuta e quotidiana, appena illuminata da una luce nuova e imprevista, come quando la Madonna va al mercato ed è fermata da un
gruppo di angeli che, come fossero le vicine di casa, vogliono vedere il
Bambinello; oppure san Giuseppe che progetta case meravigliose e celesti per la sposa e il figlioletto con grande tranquillità, come fosse il
lavoro di ogni giorno. E senti in queste storie la stessa vivacità di vita
che animava i paesi di una volta all’avvicinarsi del Natale, con la gente
che ha mille cose da fare ma trova anche il tempo di seguire la liturgia,
le Novene, i canti vicino al Bambino, oppure le pastorali delle zampogne che si fanno la sera nei cortili, vicino alle lucine dei vari presepi,
che qui si chiamano “li nuveni”. Come scrive Nazareno Fabbretti nella
breve presentazione del CD di Profazio, «la fede dei primi ignoti autori
di questi canti, individui o gruppi, genera essa stessa il linguaggio poetico, che nasce filtrato attraverso la condizione umana dei poveri, e si
fa poesia e canto, quasi mai folklore fine a se stesso. I testi documentano un mondo di vita e di fede straordinario e singolarissimo, e il
canto ne esprime stupendamente il clima e le tensioni vitali. Anche
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certe impennate di linguaggio e di immagini sono la prova della immediatezza con la quale il popolo ha assimilato il destino di Cristo, di
Maria e di Giuseppe come il destino stesso di ogni comune famiglia di
poveri, feriti e insieme invincibilmente felici». Per non parlare dei rapporti di tenerezza e dolcezza che legano i tre protagonisti. Come
quando san Giuseppe si lascia andare ai suoi cattivi pensieri (ha scoperto che la Madonna è incinta), ma quando poi lei gli spiega il divino
mistero, lui si pente e c’è un finale appunto di grande amore e tenerezza:
Iddhu sentendu ‘stu duci parrari/ a la Madonna cci duna un basuni./ Iddhu sentendo
‘sti duci paroli/ a la Madonna si stringi a lui cori.
(E lui sentendo questo dolce parlare/ alla Madonna va a darle un bacione./ E lui sentendo queste dolci parole/ della Madonna si stringe al cuore).
C’è poi l’allegria grande del popolo, quella che si scatena appunto
per l’avvenuta profezia, quando arriva l’annuncio che il Dio Bambino
è nato in una stalla di Betlemme. E lì c’è come un’esplosione di gioia
che prende subito il ritmo del saltarello ciociaro. I ritmi cioè della festa
di sempre, i ritmi della tradizione, quelli che accompagnano le grandi
ricorrenze, i passaggi di stagione, la fine dei lavori che contano, la vendemmia, la mietitura, la semina, e così via. Ma qui c’è qualcosa di più,
perché l’avvenimento è ancora più straordinario. Perché, come dice
un canto di Novena siculo-calabrese,
Quandu nasci u Bambinellu tuttu u mundu fa tremari/ fa tremari Mungibeddu comu
Lucifiru ‘nfernali.
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(Quando nasce il Bambinello tutto il mondo fa tremare/ fa tremare Mongibello come
Lucifero infernale).
Per questa gente l’annuncio della nascita di Gesù è una notizia che
cambia il mondo, che fa tremare il Mongibello e l’Inferno per intero. E
per festeggiare tutto questo, per celebrare la Natività a Natale e a Capodanno, la musica non finisce mai, come il vino. Una sorta di ebbrezza
generale che ricorda per certi versi quella di san Francesco, la sua
grande letizia di fronte alla nascita del presepe. E come in ogni famiglia
si festeggia il bambino o la bambina che nasce, così la gente di questi
canti è come travolta dalla notizia che il loro Dio ha deciso di farsi
Bambino per prendere sulle sue spalle un po’ del loro dolore, della loro
solitudine, del loro sfruttamento, dei loro peccati, della loro fatica di
vivere. Per questo festeggiano. Per questo cantano:
Voglio cantare la mamma di Dio/ Maria bellezza che in cielo ci sta/ stella regina di
grande splendore/ che porta agliu munnu la felicità.
1.4. Presepi e zampogne
«Quando ero bambino, più che il Natale si aspettava con impazienza la Befana, che
portava quei doni, allora, attesi per un anno intero. Io, con ancora maggiore impazienza,
aspettavo gli zampognari; davanti alla porta li accoglievo e mimavo sempre i loro buffi
strumenti, mentre il loro suono mi penetrava il cuore. Ogni anno si ripeteva la stessa
scena e mio padre lì a domandare: –Ma dove si comprano questi strumenti? Poi l’imprevedibile cammino della vita mi ha portato lontano… Ma la storia, forse, era già scritta».
(Antonio Graziosi, zampognaro del gruppo Le Zampogne di Daltrocanto).
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Presepi e zampogne arrivano insieme, e sono (erano) il Natale. La
neve, le zampogne, il presepio, il fuoco nel camino fanno insieme parte
di quello stupore, improvviso e profondo, che ci mette nell’anima il
Natale. Basta un niente. Basta sentirli suonare, basta vederli passare,
gli zampognari a due a due, e subito ti viene addosso tutto il Natale
nella sua infinita ineffabile leggerezza. Un sobbalzo nella notte,
quando, non visti, gli zampognari cominciavano ad avvicinarsi, suonando e cantando, alle nostre case. Le nostre case già segnate dal presepe, e da tutta l’agitazione che comporta. Il presepe. Dal dieci di
dicembre cominciano i lavori. Il paesaggio uguale a quello di casa, colline, fiumi, piane, e le case contadine buttate in mezzo al sole e alla
neve. E i pastori come quelli che attraversano ogni tanto il paese, preceduti dal branco compatto di pecore e capre. Nel presepe sono più
belli, hanno facce estatiche, la fede viva e fiammante del nostro popolo
di contadini, di pellegrini, di emigranti, di poveracci. E in mezzo a tutto
la Natività, segnata da questa immagine forte di un «bambino… dint’i
panni… arravugliato» (come canta sant’Alfonso in Quanne nascette
Ninno). Un bambino-Dio sceso dalle stelle al freddo e al gelo per stare
vicino agli uomini. E accanto a lui, alla capanna, gli zampognari, con
quei poveri cappellacci e i mantelli da prima guerra mondiale, impassibili come le loro scarpe… Loro sono la voce della montagna che canta
sempre, anche quando noi non la sentiamo.
«Si immagini un paesaggio formato di pietre – scrive Giuseppe Pitré a
proposito del presepe siciliano – di rocce, di sugheri misti e attaccati con
argilla o con cartoni o coperti di muschio o dipinti con colori imitanti la
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natura. Qua e là un monte o una catena di monti, ora ripidi, ora scoscesi,
ma grati a guardarsi, sui quali si arrampicano capre e buoi guidati dai
pastori. Là una valle, ove pecorelle van piluccando qualche fil d’erba. Laggiù una grotta o una capanna, con entro dei pastori, quale a mungere pecore, quale a dimenare una caldaia di latte e quale a far fuoco sotto di
essa. In luogo solitario e ospitale è un pastore che si cava una spina conficcataglisi nell’un di piedi. Verso la valle ove finisce una collina è un ruscello con limpide acque, ovvero un fiume che ne bagna i piedi, sul quale
provvidamente è stato alzato un ponte». è un presepe molto povero,
quello siciliano, fatto di tela e colla, ma che riesce tuttavia a dare grande
consistenza ai suoi personaggi (la tela passata alla colla diventa quasi
legno, dando un aspetto vivo e armonioso ai vestiti delle figurine); e soprattutto riesce a creare una profonda umanità nei tratti del viso e nei
gesti dei personaggi più umili. Il maestro, colui che ha indicato la strada
a tutti gli altri mastri artigiani, è lo scultore Giovanni Matera. «Le sue
creature – scrive Giuseppe Cocchiara in Le immagini devote del popolo
siciliano – rifanno, quasi, un cammino ideale che è quello dell’umanità.
Accompagnano la prima tappa del cammino di Gesù. Esprimono la gioia.
Cantano il dolore, come le figure delicate della strage degli innocenti».
Naturalmente stiamo parlando del presepe dei ricchi. Perché invece
quello dei poveri utilizza i soliti più modesti pastori di creta, come in gran
parte dei presepi italiani. Presepi spesso di proporzioni meschine, magari senza lucine né trapunte di stelle, con statuine vecchie e consumate,
a volte senza un braccio o una gamba. E tuttavia, agli occhi di chi si dedica
alla costruzione del presepe con affetto e devozione, quei poveri bam23
bocci di argilla acquistano un valore unico e luminoso. Personaggi che
naturalmente sono sempre gli stessi, e che bene o male rappresentano
tutte le varie classi sociali della società: ci sono i tre Re Magi che portano
i regali al bambino, ma soprattutto c’è una quantità di personaggi più
umili che invadono letteralmente il presepe, e la cui presenza non è meno
importante dell’oro, dell’incenso e della mirra dei tre re d’Oriente.
Ed è proprio in questa sua umile popolarità, in questo suo farsi popolo, che il presepe acquista forza, suggestione e affetto a livello di immaginario di massa.
Stessa cosa con il presepe per eccellenza, cioè quello napoletano, che
però si muove in tutt’altro contesto. Qui l’immagine d’insieme è dominata
dal classico scoglio e da una prospettiva che lavora con primi piani, secondi piani e le cosiddette lontananze. I personaggi che animano le diverse scene sono più o meno gli stessi (la Natività, l’annuncio ai pastori,
l’arrivo degli “orientali”, la taverna, la capanna e così via). Poi, come abbiamo accennato, c’è un’esplosione della fantasia popolare, che moltiplica
protagonisti e situazioni, ma rimanendo sempre bene ancorata al contesto napoletano. Per cui attorno alla capanna del Bambino c’è un vero e
proprio schieramento di nuovi personaggi: la castagnara, l’arrotino, la
zingara, il poveraccio, il cieco, lo storpio, il macellaio e così via. Tutti insieme fanno il gruppo dei poveri, ai quali anche qui è contrapposto il
mondo orientale dei magi, con il loro sfarzo, luccichio d’oro e altri lussi.
E vicino al presepe non può mancare la zampogna, che rappresenta
il grande suono del Natale, lo strumento che tradizionalmente accompagna con la sua musica le feste natalizie. Perché non esiste presepe
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senza musica. Fin dall’inizio, dalla sua invenzione, il presepe ha avuto
la sua colonna sonora.
Si racconta infatti che il primo inventore del presepio, san Francesco di
Assisi, quel giorno a Greccio, dopo aver ricomposto la storia della Natività
in un presepe, si sia messo a cantare. è il suo stesso biografo a riferirlo,
Tommaso da Celano: «Francesco, rivestito dei paramenti diaconali, si mise
a cantare il santo Vangelo con la sua voce forte e dolce, limpida e sonora,
con lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile».
Ma, dicevamo, per anni è stata la zampogna lo strumento principe del
Natale. E così è tuttora vissuta nell’immaginario di molte persone. E questo prima di tutto perché la zampogna era lo strumento più importante
della vita e della cultura nelle comunità pastorali. Lo zampognaro era infatti un pastore che con la musica del suo strumento, decideva gran parte
del tempo e dell’esistenza dei suoi compaesani. «La gente di Maranola –
racconta lo zampognaro Salvatore Minghella intervistato da Sparagna –
ha sempre preferito le zampogne. Le zampogne si suonavano sempre in
ogni circostanza, le suonavano in chiesa, le suonavamo quando dovevano
accompagnare le spose… Si suonavano principalmente il sabato sera,
quando i pastori scendevamo dalla montagna, e si portavano le serenate,
la sera… E la domenica si suonava dentro le cantine e si ballavano ballarelle… Quando andavamo a mietere il grano, le zampogne stendevano le
sonate e le donne stendevano le canzoni. Queste donne avevano una voce
che si sentiva dappertutto nella montagna, loro cantavano e le zampogne
rispondevano… L’unico periodo in cui a Maranola non si suonava era durante la vigilia di Pasqua, quando si attaccavano le campane. Ma appena
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il prete “dava la gloria”, le zampogne suonavano con le campane e sentivi
per tutto il paese un suono continuo di zampogne fino all’alba…». Ma il
periodo in cui erano veramente protagonisti era durante il periodo delle
Novene, quando gli zampognari scendevano dai monti nel loro tipico abbigliamento pastorale, e, seguiti da bande di ragazzini, cominciavano a
percorrere le strade di paesi e città, spargendo intorno aria e melodie
natalizie. Andavano sempre in coppia, un vecchio e un giovane, come a
segnare una continuità, il rinnovarsi di un ciclo della vita… In realtà si va
in due perché è così che è nata la polifonia di base, quella più semplice:
grazie a un suono fisso (la zampogna) e un altro che modula (la ciaramella). La zampogna ha fatto scuola. Ancora oggi, in tante chiese in giro
per l’Italia ci sono antichi organi del Settecento e dell’Ottocento che
hanno mantenuto un registro che imita il suono delle zampogne.
A tutto questo c’è poi da aggiungere un elemento di tipo religioso, irrazionale e misterioso, ma che ancora oggi viene continuamente ricordato
tra i suonatori di zampogna: il fatto cioè che «il primo suono che è uscito è
stato quello suonato dalla zampogna perché le zampogne le suonava Dio
quando faceva il pecoraro» (Giuseppe Minghella, zampognaro di Monte
San Biagio).
Sarà per questo che nel presepio di Maranola lo zampognaro occupa
un posto di prima fila: vicino alla grotta, dalla parte della Madonna, e
con gli occhi rivolti in alto, a cercare la stella cometa… o la voce di Dio.
E ancora ci sono, sulla zampogna, tutte le citazioni che arrivano dalla
mitologia greca e latina, dalla storia della ninfa Siringa a quella delle
Nereidi, da Pan a Dafne, e le loro infinite metamorfosi e la crudeltà
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delle loro storie d’amore. E ancora quelle letterarie, a cominciare da
Gabriele D’Annunzio che, nella novella La vergine Orsola, parla a lungo
della musica delle zampogne come di una «religiosa e familiare letizia», che addirittura riporta in vita una donna gravemente malata. E
poi il Belli con i suoi sonetti in romanesco, tra cui, popolarissimo,
quello sulla Novena di Natale:
E a mè me pare che nun zii Novena/ si nun zento sonà li piferari:/ co cquel’annata de
cantasilena/ che sserve, bbenemio!, sò ttroppi cari.
E infine l’immancabile Giovanni Pascoli, con la sua poesia che tutti abbiamo imparato a scuola, Le ciaramelle. Ricordate?
Nel cielo azzurro tutte le stelle/ paion restare come in attesa;/ ed ecco alzare le ciaramelle/ il loro dolce suono di chiesa;// suono di chiesa, suono di chiostro,/ suono di casa,
suono di culla,/ suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla.
Quel suono che accompagnava la Novena di Natale, e come un “organo dei poveri” invadeva tutto, case, strade, chiese, fino a entrarti
nell’anima.
«Comme vurrìa sentì nu zampognaro…!», canta il protagonista di una
celebre canzone (poi diventata “sceneggiata” con lo stesso titolo), Lacreme
napulitane, quando si ritrova solo ed emigrato in America la sera della vigilia di Natale. E in quel suono della zampogna, come già in Pascoli, è racchiuso non solo la festa di Natale, ma tutta una storia, una famiglia, una
comunità, una città intera, come Napoli, Palermo, Roma, Milano e così via.
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1.5. Cosa cantano gli italiani a Natale
Gli italiani cantavano molto a Natale. E in parte anche adesso. Si cantava molto a nord, a sud, soprattutto nelle isole. La Sicilia, per esempio,
ha conservato un repertorio straordinario, grazie al lavoro immane
fatto da studiosi appassionati come il Pitré, il Marino e il Favara.
Molti i rituali del periodo Natale-Epifania che ci arrivano dall’Italia settentrionale. I materiali di base e le contaminazioni sono più o meno gli
stessi in ogni parte d’Italia: da una parte i testi presi o sviluppati dai Vangeli apocrifi (avvento, nascita e infanzia di Gesù); dall’altra la lunga fila
di più laiche richieste di beni in natura, che ci arrivano invece dal repertorio delle questue, anche qui in un intreccio di storie legate alle disavventure di Giuseppe e Maria, dei pastori e dei Re Magi, attraverso un
labirinto complicato di stelle comete, cori di Cherubini, inverni bianchi e
rigidi, cammelli, doni, sabbia, stragi di innocenti e misteri non solo
d’Egitto. E insieme ai canti c’è anche tutto un repertorio di suoni, di ritmi
di accompagnamento, di pastorali. Zampogne, cornamuse, clarini, organetti, violini, qualche volta anche flauti e ghironde, che ricordano non
solo il canto e le sonate dei pastori alla capanna di Gesù Bambino, ma
anche la musica di strada, i canti della Buona Novella che, su invito degli
angeli, i pastori (ma non solo) hanno portato per le strade del mondo.
La tradizione popolare e contadina ha conservato una quantità notevole di canti legati alla tematica religiosa. C’è di tutto, inni, ballate,
poemi, canzoncine. Ci sono straordinarie e improbabili vite di santi,
romanzate dalla fantasia popolare che le ha ricamate con storie edifi-
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canti e tutta una serie di grandi (e piccoli) miracoli; e poi ci sono i canti
legati alla grande liturgia cristiana e alle sue feste principali: il Natale,
l’Epifania, la Pasqua, e così via. è un repertorio enorme, che certo non
ha la compattezza e la vastità struttarata dei “villancicos” spagnoli (le
canzoni della gente semplice di Spagna, quella dei piccoli centri, che
con il tempo hanno formato un corpus a parte, legato esclusivamente
al «misterio de la Navidad»), ma che comunque negli anni ha riempito
l’Italia di storie, melodie e ritmi sorprendenti.
Da noi il paese era meno unito, con un nord e un sud che da sempre
seguono percorsi culturali e musicali diversi, nei testi, nelle melodie,
soprattutto nell’esecuzione, nel modo cioè di usare gli strumenti e la
voce. Nel nord Italia la pratica di questi canti è (in certi casi) ancora
attuale, oppure è scomparsa solo in tempi recenti, più o meno a partire
dal dopoguerra e dagli anni del miracolo economico. Mentre la loro
origine è spesso molto antica: risale indietro nei secoli fino al Medioevo, o alle origini della Chiesa cattolica, e anche a prima del Cristianesimo, a quel rapporto speciale tra natura e divinità che ha
condizionato profondamente la cultura contadina del nord Italia, fino
a contaminare in maniera pesante il nostro cattolicesimo popolare
che, come scrive Roberto Leydi, «in sé conserva in modo spesso drammaticamente esplicito elementi pre-cristiani, pagani, extra-religiosi, e
così spesso si confonde con il magico». E tuttavia, a differenza dei canti
meridionali, le storie del nord, le storie di Gesù Bambino, Giuseppe e
Maria e quelle dei Re Magi, quasi tutte cantate nei vari dialetti locali,
cisalpino-padani, hanno spesso un rapporto forte con il resto dell’Eu29
ropa centrale (pensiamo per esempio al ciclo della stella), che a sud
non esiste. A sud influenze e contaminazioni hanno preso altre strade,
che portano verso il Mediterraneo, l’Asia Minore, il nord dell’Africa e il
sud della Spagna.
Comunque la passione, la devozione, la magia di questi canti (e dei
loro esecutori) sono le stesse, a nord come a sud: la stessa religiosità,
immediata e profonda insieme, degli italiani e delle italiane; lo stesso
rapporto antico e tenacemente uguale che lega la loro vita religiosa ai
tempi e ai ritmi della terra.
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Presentazione dei brani contenuti nel CD
01. Novena dell’Immacolata
dur. 3’ 55’’
Mauro Gioielli e Silvio Trotta con i Musicanti del Piccolo Borgo
Tratto dal CD Stella Cometa (2002)
Un brano tradizionale, molto conosciuto nell’Italia centrale, soprattutto
dagli zampognari che lo eseguivano, per le strade e nelle case, nei giorni della
Novena dell’Immacolata. Esistono diverse versioni, da quella napoletana a
quella abbruzzese. Questa di Trotta e Gioielli con i Musicanti del Piccolo Borgo
fa riferimento a versioni laziali e molisane. La voce è quella di Mauro Gioielli,
che al Natale molisano ha dedicato ricerche e CD.
02. Novena / Tu scendi dalle stelle
dur. 4’ 16’’
Zampogne del Cilento
Nel Cilento la musica popolare è musica di pastori, ed è la zampogna lo strumento più amato. Una storia che forse è nata in Lucania, forse addirittura nella
Magna Grecia. Sta di fatto che in nessun’altra parte d’Italia vi è una così alta concentrazione di suonatori e costruttori di zampogne e ciaramelle. Le Zampogne
del Cilento sono un gruppo che fa riferimento soprattutto ai maestri storici di
due famiglie cilentane, i Citera e i Cortazzo, coordinate da Tommaso Sollazzo, polistrumentista da sempre vicino alla tradizione. Il brano, che vede schierate due
zampogne (a tre e a sei palmi) e due ciaramelle (una delle quali di controcanto),
è un pezzo strumentale live, tratto dal repertorio delle Novene cilentane.
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03. La santa allegrezza
dur. 3’ 31’’
I MusicaStoria
Tratto dal CD Da Napule a Bethlemme (Il Grifone, 2009)
Un canto popolare molto famoso, appartenente alla tradizione musicale del
Natale napoletano. La sua origine è sicuramente riferibile al Settecento, e, secondo alcuni, potrebbe essere vicino alle canzoncine natalizie di sant’Alfonso.
Esprime l’allegria di tutto un popolo che si ritrova nella sua tradizione, e, attraverso la tradizione, nella fede. A proporlo sono qui i MusicaStoria, un
gruppo di Vietri sul Mare, da anni schierato dalla parte della musica popolare,
sia della Campania che di tutto il sud d’Italia.
04. La notte de Natale quandu usciste
dur. 2’ 07’’
Maestro Carmelo di Otranto (Le)
Canto tradizionale pugliese, raccolto da Gianni Bosio e Clara Longhini l’11agosto del 1968 dalla voce del Maestro Carmelo, cestaio. Un canto che mischia l’argomento amoroso con quello religioso del Natale, su uno schema musicale molto
utilizzato nel canto meridionale monodico (nel doppio senso di una sola voce e
di una sola melodia di base). Una straordinaria essenzialità vocale, che esalta ancora di più una sorta di poetica della luce che sovrappone la bellezza della donna
amata allo spendore della chiesa illuminata nella notte di Natale.
05. Rosa d’argento e rosa d’amore
dur. 3’ 00’’
Nando Citarella e la Compagnia la Paranza
Tratto dal CD Cantata di Natale (Radici Records Music, 2007)
Canto tradizionale napoletano di origine ottocentesca, recuperato da Roberto
De Simone per La cantata dei pastori. Un brano molto simile a una Ninna-nanna
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di Sant’Anna, riportata da Luigi Molinaro del Chiaro in Canti popolari raccolti in
Napoli (1882). Molti versi sono identici, così come il senso, e il contesto simbolico ma leggero e godibile. Resta la devozione, ma con uno spostamento evidente
verso la favola di tradizione contadina e il teatro di figura. Cantano e suonano
Nando Citarella con la Compagnia la Paranza: un’interpretazione ritmica e luminosa che esalta proprio l’aspetto gioioso, magico e contadino del brano.
06. Quanno nascette Ninno
dur. 7’ 30’’
Mauro Gioielli e Silvio Trotta con i Musicanti del Piccolo Borgo
Tratto dal CD Stella Cometa (2002)
Una pastorale poetica e ispirata, in cui il dialetto gioca un ruolo fondamentale
sia dal punto di vista della messa in scena realistica che della suggestione nuova
che riesce a creare. L’autore è sant’Alfonso, che probabilmente la compose, dopo
aver ascoltato le zampogne del Cilento, dove era stato a fare apostolato tra cafoni
e pastori. Si comincia con la ninna-nanna, poi una prima parte più melodica, e
infine il recupero del vecchio modulo pastorale: voce, canto e ciaramella.
07. Sonata dei pastori
dur. 2’ 30’’
Zampogne del Cilento
Ancora un brano tradizionale che ci arriva dalle montagne del Cilento. Zampogna e ciaramella. Andavano sempre in coppia come in un rito: un anziano e
un giovane, a significare il perpetuarsi di una tradizione e il rinnovarsi della
vita. In realtà si va in due perché è così che è nata la polifonia di base, quella
più semplice e facile: un suono fisso (la zampogna) e un altro che modula (la
ciaramella). E perché, come dicevano i pastori cilentani, la ciaramella con la
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zampogna è come moglie e marito. Suonano, dal vivo, Francesco Citera Junior
(zampogna) e Tommmaso Sollazzo (ciaramella).
08. Nascette lu Messia
dur. 3’ 11’’
I MusicaStoria
Tratto dal CD Da Napule a Bethlemme (Il Grifone, 2009)
Canto tradizionale napoletano, raccolto nella zona di Castellamare di Stabbia. Sicuramente era, all’inizio, un canto di questua, poi riadattato alle esigenze
della Cantata dei pastori. Tuttavia almeno nell’ultima strofa ha mantenuto la
vecchia dizione del commiato e dei saluti per la Santa Notte (E mò nce resta
voce/ pe' ve cercà licenzia/ pe’ dà ‘sta bona audienza/ 'a Santa notte). Ce la ripropongono i MusicaStoria, in una versione che mette zampogna, organetto
e voce (Angelo Santucci) su una percussione fonda, da strada.
09. Celesti tesoru
dur. 3’ 36’’
Elena Ledda
Tratto dal CD Cantendi a Deus (S’Ardmusic, 2009)
Un canto natalizio sardo, raccolto nella provincia di Nuoro, tuttora usato
come ninna-nanna per addormentare i bambini, soprattutto nei giorni di Natale. Una volta si cantava anche in chiesa. Anzi in molte parrocchie era il brano
che apriva la messa di Natale di mezzanotte (missa ‘e puddu). Un brano di
grande dolcezza e bellezza, che Elena Ledda e Mauro Palmas rendono con straordinaria sensibilità e modernità, trasportandoci ben oltre la tradizione, dentro un universo senza tempo di suoni ed emozioni. Con Ledda e Palmas, sono
da ricordare anche Simonetta Soro (voce), Marcello Peghin (chitarra), Silvano
Lobina (basso) e Andrea Ruggeri (percussioni).
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10. La canzone di Razzullo
dur. 3’ 22’’
Nando Citarella e la Compagnia la Paranza
Tratto dal CD Cantata di Natale (Radici Records Music, 2007)
Un brano da La cantata dei pastori che pesca a piene mani nel repertorio
popolare napoletano, mettendo insieme due temi tipici di quella tradizione:
da una parte la retorica della Natività e dall’altra il tema della fame e della sopravvivenza quotidiana. Ecco allora che “mamma” fa rima con “famma” (fame),
“nato” con “sventurato”, “‘nfasciare” con “cantare”, e così via. Tiene insieme
tutto (storia, ritmo e canto) la voce inconfondibile e coinvolgente di Nando Citarella, con la collaborazione della Compagnia la Paranza.
11. La notti di Natali
dur. 3’ 13’’
Mauro Gioielli e Silvio Trotta con i Musicanti del Piccolo Borgo
Tratto dal CD Stella Cometa (2002)
è un canto rituale natalizio, diffuso in molte regioni del sud. Lo spartito musicale originario è molto noto, e in genere viene attribuito alla grazia e al genio
di sant’Alfonso dei Liguori. La versione proposta da Trotta e Gioielli con i Musicanti del Piccolo Borgo è quella siciliana, sicuramente la più famosa grazie
anche all’interpretazione potente e indimenticabiole di Rosa Balistreri. Qui la
voce è quella di Marika Spiezia, meno accorata e trascinante, ma non meno
autorevole e suggestiva.
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12. L’unico figlio dell’eterno padre
dur. 1’ 40’’
Un gruppo di stelari (voci miste) di Palù-Val dei Mòcheni (Trento)
Canto religioso, registrato da Renato Morelli nel giugno del 1985 a Palù
(Trento), ma diffuso in tutta l’Italia settentrionale. Un brano legato all’antico
rito della Stella, che parla del Figlio dell’Eterno Padre, nato in una capanna
per metter pace tra Dio e gli uomini. Il cerimoniale prevede che nel periodo
tra Natale e l'Epifania, un gruppo di cantori, gli stelari, visitino le case del paese
reggendo su un bastone una grande stella girevole di legno e carta colorata e
illuminata. Ad ogni tappa il gruppo esegue uno o più Canti della stella, ricevendo in cambio doni di vario genere.
13. La leggenda del lupino
dur. 5’ 40’’
I MusicaStoria
Tratto dal CD Da Napule a Bethlemme (Il Grifone, 2009)
Canto della tradizione natalizia napoletana, recuperato da Roberto De Simone, e reso famoso dall’interpretazione indimenticabile di Concetta Barra.
C’è la leggenda del lupino, presa dai Vangeli apocrifi e riferita a un episodio
drammatico della fuga in Egitto; e c’è un proverbio napoletano che recita proprio: «Je truvanno a Cristo ‘a dint’ e lupine» (Vado cercando Cristo tra i lupini).
La versione dei MusicaStoria viaggia veloce e morbida, tra ciaramelle e castagnette, tirata dalla voce sicura di Gaia Bassi.
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14. Tarantella re li pasturi
dur. 2’ 49’’
Zampogne del Cilento
Brano tradizionale del Natale cilentano, eseguito da una sola zampogna,
quella di Pietro Citera. è una tarantella per festeggiare la nascita di Gesù Bambino, e per invitare alla festa e al ballo tutti i pastori presenti. Registrato dal
vivo nel Natale del 2009.
15. Goccius de su Nascimentu
dur. 5’ 29’’
Elena Ledda
Tratto dal CD Cantendi a Deus (S’Ardmusic, 2009)
Ancora un brano preso dalla tradizione natalizia del Natale in Sardegna.
Anche qui la stessa forza espressiva, la stessa capacità di comunicazione. Nella
voce di Elena Ledda c’è, intatto e vivissimo, il senso di una passione, che diventa amore profondo per un popolo, per una tradizione, per un modo di cantare. Con Ledda, suonano e cantano Simonetta Soro (voce), Mauro Palmas
(liuto), Marcello Peghin (chitarra), Silvano Lobina (basso) e Andrea Ruggeri
(percussioni).
16. Dolce felice notte
dur. 1’ 36’’
Un gruppo di stelari (voci maschili) di Carisolo (Trento)
Voci miste. Canto religioso, registrato da Renato Morelli nel maggio del 1988
a Carisolo (Trento). La versione a stampa più antica di questo canto è contenuta nel Libro Primo delle Laudi Spirituali del 1563, dove il canto viene pubblicato con il titolo Laude della Natività di Giesù di Fra Serafino Lazzi. Il testo
racconta la nascita di Gesù Bambino nella grotta di Betlemme, un coro di an182
geli che scende dal cielo cantando Osanna e l’annuncio dell’arrivo dei Re Magi
dall’Oriente con i doni per il Messia.
17. La Strina calabrese
dur. 4’ 00’’
Nando Citarella e la Compagnia la Paranza
Tratto dal CD Cantata di Natale (Radici Records Music, 2007)
«‘U tempu de la strina è venutu/ a nume ‘e tutti quanti ve salutu» (Il tempo
della strina è venuto/ a nome di tutti quanti vi saluto). Così inizia un famoso
canto tradizionale calabrese, che si porta in giro durante le feste di Natale, ma
soprattutto nella notte di Capodanno. è un canto di questua, benaugurante,
che troviamo un po’ ovunque in Calabria (con varianti e caratteristiche diverse), e che appunto prende il nome di Strina. Esecuzione magistrale, affidata
al suono della lira calabrese, al tamburello e sopprattutto alle due voci risonanti di Nando Citarella e di Gabriella Ajello.
18. Noi siamo i tre Re
dur. 3’ 18’’
Un gruppo di stelari (voci maschili) di Fierozzo S. Felice-Val dei Mòcheni (Trento)
Canto religioso tra i più diffusi e documentati dell’arco alpino e prealpino,
raccolto da Renato Morelli nel giugno del 1985, e legato al rito della Stella.
Come gli altri brani del ciclo dell’Epifania, anche questo canto «racchiude emblematicamente lo spirito di quel mondo, la sua genuinità, la sua purezza, il
suo sentimento d’intima religiosità» (Novella Del Fabbro).
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19. La Strina salentina
dur. 9’ 06’’
Cantori di Corigliano d’Otranto
Canto salentino di questua, registrato a Corigliano d’Otranto (Lecce) da
Luigi Chiriatti nel 1977. Si eseguiva e si esegue tuttora nel periodo natalizio,
e soprattutto per Capodanno. A portarlo in giro erano musicanti ambulanti,
che giravano per i paesi, e si fermavano vicino alle case e alle masserie. Altre
volte vagavano per le campagne a benedire il grano seminato. E alla fine chiedevano due uova, un vasetto di olive, un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio. Formazione molto spartana, popolare e da strada: Luigi Costa canta
e suona il cupa-cupa; con lui il fratello Antonio Costa con organetto diatonico.
20. Bambino mio bellissimo
dur. 3’ 11’’
Ambrogio Sparagna e l’Orchestra popolare italiana
Tratto dal CD La chiara stella (FinisTerre, 2008)
Un canto di Natale attribuito a sant’Alfonso de’ Liguori, recuperato e messo
in musica da Ambrogio Sparagna, qui proposto in una commovente versione
live del 2008, affidata soprattutto alla voce di Peppe Servillo. In questa canzoncina spirituale è molto evidente, da parte di don Alfonso, la volontà di utilizzare una metrica molto semplice (quartine di ottonari) e un testo
apparentemente facile e sentimentale, ma che in realtà riesce a esprimere,
quasi fisicamente, una grande tensione di fede e d’amore a Dio.
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Ringraziamenti
Un ringraziamento vivissimo a tutti coloro che hanno reso possibile
la realizzazione di questo CD, grazie alla loro disponibilità e generosità.
Renato Morelli che ha messo a disposizione tre delle sue registrazioni relative al Ciclo della Stella dell’Epifania in Trentino: Dolce felice
notte, L’unico figlio dell’eterno padre e Noi siamo i tre Re.
Nando Citarella e la Compagnia La Paranza per i tre brani tratti da
un loro fortunato spettacolo natalizio Cantata di Natale: Rosa d'argento e rosa d’amore, La canzone di Razzullo e La Strina calabrese.
Elenda Ledda, Mauro Palmas e Michele Palmas, responsabile di S’Ardmusic, per i due meravigliosi brani provenienti dal repertorio del Natatale sardo: Celesti Tesoru e Goccius de su Nascimentu.
Tommaso Sollazzo, referente generoso per Le Zampogne del Cilento.
Loro sono i tre brani strumentali: Novena Tu scendi dalle stelle, La sonata dei pastori e Tarantella re li pasturi.
Silvio Trotta che, insieme a Mauro Gioielli e ai Musicanti del Piccolo
Borgo, ci ha messo a disposizione tre brani di un loro album dedicato
alla tradizione del Natale Stella Cometa: Quando nascette Ninno, La
Notti di Natali e La Novena dell’Immacolta.
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